giuseppe pennisi

Il lessico delle tasse

Il lessico delle tasse

di Giuseppe Pennisi*

Le tasse e le imposte hanno un proprio lessico, anzi una propria lingua, non necessariamente per ragioni tecnico-giuridiche, ma allo scopo di “mascherare l’ideologia e farla apparire scienza”. Lo documenta Richard E. Wagner della George Mason University, fortilizio liberista non troppo distante da Washington. Il paper diffuso on line a fine febbraio si intitola “The Language of Taxes: Ideology Masquerading as Science” ed è il George Mason University Paper Np 16-1.

Il lavoro parte dalla premessa che la scienza delle finanze ed, in particolare, la teoria della tassazione marcia su due differenti binari. Uno cerca di dare una spiegazione scientifica a perché esistono tasse ed imposte e a spiegare la tipologia di tributi che questo o quel Governo di questo o quel Paese crea; su questo binario, di politica economica “positiva” perché studia la realtà effettuale delle cose, viaggiano le analisi delle differenti strutture tributarie. L’altro binario è “normativo” o “esortativo”: il suo obiettivo è quello di istruire Governi su come “estrarre tasse dalla popolazione”. “Non c’è nessuna buona ragione – scrive Richard E. Wagner – perché un economista interessato alla teoria non possa contribuire ai due filoni”. Non può farlo allo stesso tempo, perché “la posizione del «partigiano politico» è profondamente differente da quella dell’«analista economico» ed anche da quella dell’«analista politico». Le due tipologie impiegano linguaggi spesso differenti. Tuttavia, in certi casi, “due distinti ruoli e le loro formulazioni si confondono perché in certi aspetti il lessico tributario può provocare intrecci tra punti di vista ideologici ed analisi scientifiche”. Dopo avere definito queste due visioni della teoria della tassazione, il resto del saggio esamina differenze e possibili commistioni nei linguaggi delle due scuole di scienza delle finanze, ovviamente in anglo-americano, con l’obiettivo di una distinzione netta tra una visione e l’altra, soffermandosi soprattutto sull’imposta personale dei redditi e sull’imposizione sulle transazione.

C’è un problema simile anche da noi? Certamente sì. Lo documenta un paper di Barbara Annichiarico e Claudio Cesaroni, ambedue dell’Università di Roma Tor Vergata: Tax Reform and the Underground Economy- A Simulation- Based Analysis, CEIS Working Paper N0 366. Il lavoro studia varie “riforme tributarie” italiane che non hanno raggiunto i loro obiettivi perché non hanno tenuto conto dell’economia sommersa – trascurata dai tributaristi “normativi” od “esortativi” ma al centro delle riflessioni di quelli “positivi”.

* Presidente del board scientifico del Centro Studi “ImpresaLavoro”

Quando i bilanci sono destinati a diventare grigi

Quando i bilanci sono destinati a diventare grigi

Con questa nota, il Presidente del Board Scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro, Giuseppe Pennisi, inaugura una rubrica settimanale nella quale selezionerà alcuni dei principali contributi della letteratura economica internazionale.

di Giuseppe Pennisi

Da anni, gli economisti si interessanno a quella che può essere  chiamata la “greying economy” (l’economia che, a causa dell’invecchiamento, si “ingrigisce”, ossia diventa canuta) e delle implicazioni principalmente in termini di mercato del lavoro, sanità e previdenza. Esce, in questi giorni, uno studio che per la prima volta analizza le implicazioni della greying economy sui bilanci pubblici. Lo studio, organizzato dalla Banca mondiale, può essere scaricato gratuitamente da questo link:

“Greying the Budget: Ageing and Preferences Over Public Policies”
World Bank Policy Research Working Paper No. 7555

Ne sono autori Luiiz R. De Mello dell’Ocse, Simone Raphaela Schotte della Banca mondiale, Erwin Tiongson della Georgetwon University, e Herman Jorge Winkler della Banca mondiale.

Il lavoro ha un approccio differente rispetto a studi che hanno affrontato il problema negli ultimi anni e che hanno visto nella greying economy una spinta all’aumento della spesa pubblica a fini previdenziali, sanitari ed assistenziali. Esamina, invece, come le preferenze individuali cambiano durante il ciclo vitale.

Utilizzando la Life in Transition Survey II, un’indagine statistica molto dettagliata condotto dalla Banca mondiale e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo nel 2010 (con questionari ed interviste dirette a 40.000 famiglie in 34 Paesi dell’Europa e dell’Asia centrale). E conclude che gli individui anziani tendono a non supportare un aumento della spesa pubblica in istruzione ma, ovviamente, favoriscono un incremento di quella in pensioni.

Questi risultati sono abbastanza simili quale che sia il Paese (l’indagine riguarda sia economia di mercato avanzate sia economie ancora in via di sviluppo) e non varia utilizzando specificazioni alternative del modello statistico di elaborazione dei dati oppure anche le fonti dei dati (nei Paesi in cui sono state utilizzate più fonti). Non solo: utilizzando incroci ripetuti dei dati, la analisi confermanp i risultati principali.

Il lavoro conclude che questi esiti combaciano con un vasto corpo di letteratura secondo il quale, nelle economie in corso di invecchiamento, il conflitto intergenerazionale sull’allocazione della spesa pubblica probabilmente diventerà più intenso.

In Paesi emergenti, dove la tassazione raramente supera un terzo del Pil, ciò implica anche la ricerca di un maggior gettito fiscale. Nelle economie avanzate, dove la pressione e l’oppressione fiscale hanno raggiunto livelli insopportabili, si dovrà fare ricorso a risparmi privati.

 

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

di Giuseppe Pennisi*

Per oltre tre lustri ho scritto il capitolo sulle privatizzazioni del rapporto annuale sulla liberalizzazione della società italiana dell’Associazione Società Libera. È parso evidente sin dalla fine degli Anni Novanta che nel processo di privatizzazione molta poca attenzione è stata alle partecipate delle autonomie locali, spesso con il pretesto che si trattava di materie unicamente di competenza delle Regioni, delle Province (quando esistevano) e dei Comuni. Sono stati compiuti studi egregi sul capitalismo municipale, alcuni pubblicati sulla stessa rivista del Ministero dell’Interno “Amministrazione Civile”.

Il tema è stato posto all’attenzione dei Governi dai vari Commissari alla spending review che si sono succeduti in questi anni. Ma ancora oggi non è chiaro quale sia il numero totale (si parla di circa ottomila, che il Governo in carica avrebbe voluto ridurre a mille). Numerose sono in perdita da anni o richiedono forti sovvenzioni per operare. Altre sono costituite unicamente da organi di governo, ossia i CdA, e da manager ma non hanno personale. È chiaro che sono una delle determinanti dell’enorme debito pubblico che frena l’Italia. È un’area dove, per fare pulizia, occorre utilizzare la scure non il bisturi.

* presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Pennisi: “Stiamo dissipando il capitale umano di giovani e Mezzogiorno”

Pennisi: “Stiamo dissipando il capitale umano di giovani e Mezzogiorno”

di Giuseppe Pennisi*

I dati sull’occupazione pubblicati da ImpresaLavoro confermano, in sostanza, la sensazione che gli antibiotici e le vitamine del Jobs Act non abbiano ancora causato effetti di rilievo sull’occupazione. Resta preocccupante il calo nel comparto delle costruzioni e la marcata contrazione nell’industria rispetto ai livelli pre-crisi. L’aumento dell’occupazione nei servizi, poi, non deve ingannare; probabilmente cela la sostituzione di lavoratori dipendenti con titolari di Partive IVA. Tragica, infine, la situazione dei giovani e del Mezzogiorno. L’Italia – è questo il dato che inquieta di più – sta dissipando quel capitale umano che è stata la leva del miracolo economico.

* presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Intervista a Giuseppe Pennisi su La Discussione

Intervista a Giuseppe Pennisi su La Discussione

“In un Paese dove la Pubblica Amministrazione intermedia circa la metà del Pil, l’efficienza della macchina pubblica è cruciale. Dalla metà degli Anni Novanta l’immissione diretta di giovani a livello dirigenziale è avvenuta dopo una procedura concorsuale severa e un corso presso la Scuola Nazionale d’Amministrazione SNA” è quanto ha dichiarato Giuseppe Pennisi sul problema della formazione dei nuovi dirigenti pubblici. Ci ha concesso una piacevole intervista.
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Formazione dei nuovi dirigenti pubblici: il modello statunitense contro la lottizzazione

Formazione dei nuovi dirigenti pubblici: il modello statunitense contro la lottizzazione

di Giuseppe Pennisi*

In un Paese dove la Pubblica Amministrazione intermedia circa la metà del Pil, l’efficienza della macchina pubblica è cruciale. Dalla metà degli Anni Novanta l’immissione diretta di giovani a livello dirigenziale è avvenuta dopo una procedura concorsuale severa e un corso (inizialmente di due anni e mezzo, includendo uno stage di sei mesi in impresa) presso la Scuola Nazionale d’Amministrazione SNA.

Nella Legge di Stabilità finalmente giunta in Parlamento si delinea un programma che dovrebbe affiancare, e forse sostituire, i concorsi-corsi SNA (che viene commissariata): l’assunzione nel triennio 2016-2018 di 50 dirigenti nelle amministrazioni, di altri 50 nella carriera prefettizia nonché di 10 avvocati dello Stato e 10 procuratori. Le risorse verrebbero da una riduzione delle posizioni dirigenziali nei vari comparti che si renderanno vacanti a ragione del raggiungimento dell’età della pensione degli attuali titolari.

La proposta ha già suscitato le proteste delle rappresentanze dei dirigenti. Il ringiovanimento della dirigenza pubblica è comunque prioritario, dato che mediamente la dirigenza PA italiana è la più anziana dei Paesi OCSE. Ma olezza di particolarismo il fatto che le modalità di selezione e la distribuzione dei vincitori tra i vari comparti vengano delegate a un decreto del Presidente del Consiglio. È ancora vivo il ricordo di quando – durante i quattro mandati di Palmiro Togliatti a ministro della Giustizia – vennero immessi nella magistratura ben 4.000 avvocati, tutti iscritti o fidelizzati al PCI.

Perché non rimuovere tale olezzo, mantenere un unico programma di immissione di giovani dirigenti e utilizzare il modello statunitense dei ‘White House Fellows’, creato nel 1964 durante la Presidenza Johnson e che da allora funziona con piena soddisfazione di tutti? Mira a formare una ventina di ‘eccellenze’ e propone non un’assunzione a tempo indeterminato ma un contratto annuale rinnovabile per un massimo di due volte. Durante questo periodo i giovani lavorano in stretto contatto con il Presidente o il Vice Presidente oppure con i Segretari (Ministri). Il loro lavoro è integrato da seminari, dibattiti, incontri con responsabili politici stranieri. Il programma è rigorosamente non partisan e i ‘White House Fellows’ non vengono selezionati dall’equivalente americano della SNA ma da una commissione di nomina presidenziale in cui due terzi circa sono leader di imprese e un terzo alte figure del mondo accademico.

Nell’adattare questo modello all’Italia si promuoverebbe così una scelta ‘non partisan’ di alte professionalità che intendono servire lo Stato prima di intraprendere carriere nell’industria, nella finanza e nel commercio. Verrebbe così fugato anche il timore di rimpiazzare dirigenti di carriera con ‘nominati’ perché fidelizzati a questo o quel partito.

*Presidente del Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro

Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice

Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice

di Giuseppe Pennisi

Dopo le notizie dei compensi pagati all’ex Ministro delle Finanze greco Varoufakis per una comparsata in Rai, la grande maggioranza degli italiani si chiede perché pagare il canone Rai e se occorra mantenere in vita l’azienda. Si profila una rivolta contro il pagamento del canone nella bolletta elettrica, sempre che la misura sia fattibile dato che comporta convenzione con un centinaio di aziende, costrette ad addossarsi un compito , ed un costo, non di loro pertinenza.

Una Spa di Stato per la tv era comprensibile come monopolio tecnico sino all’inizio degli anni Cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando il digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere “servizio pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per finanziare la Rai si utilizza l’imposta di scopo ­ il canone ­ più odiata dagli italiani ma, voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa funzione di intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando le spalle, come dimostrato dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di Sanremo. La stesse liti tra dirigenti Rai non interessano più nessuno, come mostrato dal poco spazio dedicato all’ultima dalla stampa nazionale. Quindi, privatizzare ciò che resta della Rai pare cosa buona e giusta.

Ed è anche semplice, se si riprende un’idea che con Steve H. Hanke di Johns Hopkins University (grande consulente in privatizzazioni) lanciai senza grande successo alcuni anni fa. Visto il tracollodei conti e degli ascolti, ora ha forse maggiori chance. Nella situazione attuale la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili. Sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e ­ perché no?­ nell’universo mondo. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. È una prova seria per il Presidente del Consiglio.

Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni Inps sembrano essere sempre più striminzite. Si coglierebbero così due piccioni con una fava. Il secondo consiste nel renderla una vera public company. Dovrebbe esserne lieto per primo il Partito democratico, che tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company. Il precedente importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro Orientale e dell’Asia. In pratica, significa dare azioni Rai a tutti gli italiani.

Seguendo quale metodo? L’età anagrafica. Quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Bonolis, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con titoli da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo ­ ad esempio, cinque anni ­ a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riuscisse sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, la liquidazione diventerebbe obbligatoria se l’indebitamento superasse certi parametri. E il “servizio pubblico”? Nell’età della Rete delle reti ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro­informazione pullulano ­ tanto generalisti quanto specializzati.

Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare a tempi staraciani o leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo luogo, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali ­ come avviene con successo nel settore del cinema.

È un miraggio? No, è la modernizzazione, bellezza! Quella che farebbe fare un vero scatto al Pil. E i dirigenti e gli autori Rai che perderebbero lavoro? Per loro si apre una strada tramite l’Agenzia per la Cooperazione Internazionale che sta per essere creata. Potrebbero essere inviati, sino all’età della pensione, in Paesi in via di sviluppo – meglio se a partito unico ­ per aiutarli a metter su le loro televisioni di Stato.

Giuseppe Pennisi
Presidente Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro

Gli studi che bocciano la strategia  di Renzi

Gli studi che bocciano la strategia di Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

È difficile comprendere perché il Governo Renzi – o, d’altronde, qualsiasi esecutivo deputato a governare l’Italia in questi anni – non ponga il nodo dell’aumento della produttività al centro delle proprie riflessioni e della propria azione. Oppure, quanto meno, come parametro essenziale per valutare le politiche istituzionali ed economiche settoriali. I documenti Istat sono chiarissimi, in particolare il Rapporto Annuale 2015 pubblicato meno di un mese fa: la produttività (comunque la si voglia definire) non cresce dal 1999 e dall’inizio della crisi nel 2007-2008 abbiamo perso un quarto del valore aggiunto nel manifatturiero, con la probabilità di non poterci ben presto più fregiare della palma di essere la seconda potenza industriale dell’Unione europea.

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Il test “di sinistra” che boccia Renzi

Il test “di sinistra” che boccia Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

È auspicabile che la direzione del Partito Democratico, convocata per valutare i risultati elettorali alle regionali, non sia un “regolamento di conti” all’interno del Pd, ma esamini con ponderazione non solamente se la politica del Governo Renzi sia sul percorso che porta a raggiungere i risultati annunciati (soprattutto sul piano economico), ma se sia “di destra” o “di sinistra”. Tema sollevato da numerosi esponenti del Pd medesimo.

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Una via di uscita ‘alla portoghese’ se il negoziato dovesse fallire

Una via di uscita ‘alla portoghese’ se il negoziato dovesse fallire

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Data la situazione del negoziato, vale la pena chiedersi se la Grecia può uscire dall’Unione monetaria senza che si facciano troppo male sia Atene sia gli altri Stati che fanno parte dell’area dell’euro. Occorre dire che negli ultimi cinquant’anni non sono mancati casi di unioni monetarie che si sono ‘sciolte’ senza grandi crisi o anche che siano state ‘lasciate’ da uno solo degli Stati membri senza che ci siano state grandi sofferenze. A differenza di altre unioni monetarie, però, l’area dell’euro è stata costruita come passo per contribuire a trasformare l’Unione europea in una confederazione o anche federazione politica. Ciò comporta un nodo giuridico: può la Grecia, Stato membro dell’Ue che ha scelto volontariamente e liberamente di entrare nell’Eurozona, uscirne senza lasciare, simultaneamente l’Ue medesima? I giuristi paiono concordi: uscire dall’euro vuol dire uscire dell’Unione europea, con le conseguenze che si possono immaginare (imposizione di dazi doganali, fine dei fondi strutturali e dei finanziamenti della Bei e via discorrendo).

In diritto internazionale, e in diritto europeo, ostacoli puramente giuridici sono superabili se tutte le parti in causa sono d’accordo nel farlo. Il premio Nobel Paul Krugman ha scritto, correttamente, che il nodo di fondo non è tecnico-giuridico ma politico: la mancanza del minimo di fiducia reciproca tra l’attuale governo greco e i creditori.

Se ci fosse tale fiducia, non sarebbe difficile delineare una via d’uscita tecnica. Nel febbraio 2012, la crisi portoghese ha spinto alcuni economisti lusitani a lavorare su ipotesi di uscita: una fase di transizione di alcune settimane (autorizzando severi controlli sui movimenti di capitale); la stampa di una nuova unità di misura, transazione e riserva (ossia una nuova moneta) con cui sostituire l’euro; l’ingresso in quello che viene giornalisticamente chiamato lo Sme2 (l’accordo sui cambi che consente fluttuazioni del 15%). La proposta prevedeva il rimborso del debito in euro (non nella nuova moneta). Solo che i greci non possono farlo perché hanno le casse vuote. La proposta non è più d’attualità per Lisbona dato che, in seguito ad un severo programma di riassetto strutturale, il Portogallo – il cui debito pubblico in percentuale del Pil è leggermente inferiore a quello dell’Italia – è stato ‘promosso’’dalla trojka (Bce, Fmi, Commissione europea). Contiene, però, idee che possono essere utili alla Grecia. Sempre che si stabilisca il clima di fiducia essenziale per fare parte della stessa unione.