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Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Massimo Blasoni – Il Giornale

Se avendo figli, ora bambini, ci chiedessimo dove andranno in futuro a lavorare credo ben pochi di noi penserebbero alle pubbliche amministrazioni, i cui organici hanno piuttosto bisogno di dimagrire. Dovranno essere le imprese a creare occupazione: magari anche nuovi lavori. Si stima che metà dei bambini di oggi faranno in futuro un lavoro che ora nemmeno esiste. Dunque l’occupazione e la crescita del nostro Paese dipendono in parte rilevante dalla possibilità di sviluppare le imprese esistenti e di farne nascere di nuove. Non pare, però, che il governo Renzi stia concretamente lavorando con questo obiettivo.
Rispetto ai principali partner europei un imprenditore italiano sconta molti punti di svantaggio. Partiamo dall’accesso al credito, che rimane difficile. Gli ultimi dati di Bankitalia registrano ancora un calo di prestiti del 2,2% sugli ultimi 12 mesi, ma soprattutto le rilevazioni Bce di marzo quantificano nel 3,40% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,83% delle imprese tedesche o il 2,61% delle imprese francesi. Non è poco. L’energia pesa sulle nostre imprese: il Chilowattora costa a una pmi italiana 18 cents, il 50% in più che in Spagna e il 100% in più che in Francia e il costo del lavoro resta tra i più alti in Europa. Si tratta di dati statistici che diventano però molto concreti nell’esperienza ­ lo dico da imprenditore ­ di chi ogni giorno deve produrre beni o servizi, scontrandosi con i problemi che abbiamo enumerato e molti altri.
Fatevelo spiegare da un imprenditore friulano che ha alle porte l’Austria o la Slovenia con un’imposizione fiscale di 1/3 inferiore o, chessò, da un imprenditore manifatturiero pugliese del distretto calzaturiero che deve vendere all’estero prodotti in concorrenza con Paesi, pur dell’Area Euro, con un costo del lavoro che è meno della metà come il Portogallo. L’edilizia non fa eccezione: il rilascio di un permesso di costruire in Italia richiede 233 giorni, in Danimarca sono 64. In generale, lo abbiamo stimato con il Centro Studi ImpresaLavoro, l’indice di imprenditorialità cioè la facilità di fare impresa­ ci colloca dietro tutti i nostri partner europei: l’Italia è ultima, per imprese create e opportunità percepite dagli imprenditori.
Resta poi il tema delle tasse. Vanno pagate, ovviamente. Tuttavia c’è da chiedersi se questo livello di imposizione fiscale sia sostenibile e se il patto tra Stato e impresa e cittadini non sia sbilanciato. Se una famiglia o un’impresa non pagano per tempo scattano Equitalia e le ganasce fiscali. Sarà a lungo possibile sostenere una tassazione alle imprese che nell’insieme, compresi i contributi ai lavoratori, raggiunge quest’anno il 65,4%? A tanto ammonta la cosiddetta total tax rate italiana: un dato lontanissimo da quelli del Regno Unito 33,7% o tedesco 48,8 per cento. Eppure, malgrado tutto, ci sono imprenditori che si battono e imprese che crescono magari nascendo da zero: ne guido una con 1.500 dipendenti di cui 200 assunti nel 2014.
Nessuno ha la bacchetta magica tuttavia il governo Renzi, tranne gli annunci, ha fatto ben poco per sostenere il sistema delle imprese. Non si tratta certo di elargire contributi ma di garantire l’opportunità di competere: il solo Jobs Act non basta. Liberalizzare, sburocratizzare, privatizzare non possono rimanere punti di un ordine del giorno che non si realizza mai.
Le imposte che soffocano la ripresa

Le imposte che soffocano la ripresa

Corrado Sforza Fogliani, presidente Centro studi di Confedilizia – Il Giornale

Il centro studi ImpresaLavoro di Udine, presieduto da Massimo Blasoni, ha presentato i risultati di un’indagine sulla tassazione in Europa e l’indice della libertà fiscale che questa ricerca internazionale ha permesso di elaborare. Grazie al contributo di docenti universitari e ricercatori di dieci Paesi (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera), il centro studi ha esaminato il sistema tributario in Europa e la classifica che ne è risultata ha collocato al primo posto la Svizzera e agli ultimi due la Francia e l’ltalia.

La graduatoria è stata il frutto della combinazione di quattro fattori: il prelievo tributario complessivo; l’imposizione fiscale descritta dall’Itr in relazione al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la semplicità (o complessità) delle procedure burocratiche necessarie all’adempimento degli obblighi tributari;la localizzazione, la responsabilizzazione e la concorrenza dei livelli territoriali del prelievo. Il quadro finale, secondo Blasoni, «descrive un’Europa in cui il fisco appare non asfissiante nelle nuove democrazie post­comuniste e nella piccola Svizzera, mentre i maggiori Paesi (Italia e Francia in primis) derivano la loro difficoltà a crescere soprattutto da una tassazione davvero troppo elevata, conseguente alla sproporzione esistente tra settore pubblico e privato».

La ricerca è disponibile a questi indirizzi, digitando la password «indicefiscale»:

http://impresalavoro.org/indice­liberta­fiscale­2015/
http://irnpresalavoro.org/ranking­liberta-fiscale­in­europa/
http://impresalavoro.org/indice­liberta­fiscale­2015­infografiche/

Sanguisughe di Stato, pure una tassa sulle tasse

Sanguisughe di Stato, pure una tassa sulle tasse

Antonio Signorini – Il Giornale

Tasse che non accennano a diminuire. A partire dalla Local tax, che il governo si appresta a varare senza fare risparmiare un centesimo ai cittadini. Poi, tasse che servono ad alimentare una macchina burocratica che a sua volta fa sprecare tempo e denaro a chi crea ricchezza per il paese. Il centro studi ImpresaLavoro ha calcolato che essere in regola con il fisco costa carissimo ai cittadini italiani. Un’azienda media spende 7.559 euro all’anno per sbrogliare le complicazioni burocratiche del fisco. Un macchina alimentata dalle stesse tasse e che contribuisce a rendere il paese più povero.

Caso unico in Europa. Solo da noi un’azienda deve dedicare in media 269 ore di lavoro all’anno per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Lavoro dei dipendenti sottratto all’attività produttiva. Il Paese più vicino al nostro in termini di tributo al grande fratello fiscale è la Germania con 218 ore. In Francia il fisco richiede solo 137 ore all’anno. Segno che anche una burocrazia mastodontica come quella dell’Esagono, non grava necessariamente sui cittadini. Ci battono solo la Bulgaria, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, dove però il costo del lavoro è molto più basso del nostro e quindi la perdita per le imprese è ridotta.

Di inversioni di rotta in vista non ce ne sono. Il 730 precompilato è ancora da testare. E la giungla di tributi è sempre quella. Per non parlare di un alleggerimento della pressione fiscale. La Local tax è nata come semplificazione e come riduzione delle imposte locali. Ma in pochi ci credono. «Innanzitutto cerchiamo di introdurla, poi vedremo di fissarla perché sia conveniente per tutti», ha spiegato ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Tradotto, la nuova imposta locale che sostituirà Imu, Tasi e Tari non farà risparmiare nessuno. Sarà l’ennesimo cambio di nome per le tasse che gravano sul mattone. Sigla diversa, stessi salassi.

Per eventuali tagli alle imposte più odiate dagli italiani non resterà che aspettare tempi migliori, tanto che associazioni come Confedilizia si stanno battendo per l’invarianza di gettito. Cioè per evitare un ulteriore stangata (la terza ondata di aumenti di imposte sulla casa dopo quelle di Monti e di Letta). Ipotesi per nulla scontata visto che ieri, proprio Confedilizia, grande sponsor della Local tax, ha cambiato idea e ha chiesto al governo di fermarsi. «Se la Local tax si limiterà solo a rendere più facilmente pagabile lo stesso gravame impositivo, è forse meglio passare oltre», ha spiegato il presidente Corrado Sforza Fogliani. «Gli italiani, per passare da un incubo alla speranza, hanno bisogno di un alleviamento, non di una conferma sia pure indiretta dell’attuale peso di imposte sulle loro case». La prospettiva è invece quella di fare passare in un’ «unica» soluzione 26 miliardi di euro direttamente nelle casse dei Comuni italiani, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. Sono quelli di Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), dell’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), dell’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), della tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), dell’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e dell’imposta di scopo (14 milioni di euro). Cambieranno nome, ma le cifre resteranno quelle.

Sempre che non aumentino.

Bocciofile e club privati: il business del non profit

Bocciofile e club privati: il business del non profit

Enrico Lagattolla – Il Giornale

Che orrore, il denaro. Molto più nobile «la crescita culturale e civile dei propri soci». Magari annaffiata da un paio di birre. Diciamo pure inondata da 40mila birre ogni anno, con ricarichi sulla singola pinta anche del 400 per cento. Perché non profit è bene, ma profit è pure meglio. Ed è così che il circolino emiliano tutto dibattiti e umanesimo è finito nei guai con gli 007 del Fisco. Hai voglia a dire che il lucro è roba da turbo-capitalisti se hai 2mila e 500 tesserati, una media di 800 consumazioni a serata e un giro d’affari di 370mila euro. Ovviamente in nero. Non puoi. Non regge. Eppure lo fanno in molti. Centinaia, migliaia di associazioni smascherate ogni anno dall’Agenzia delle entrate. È il grande business dei furbetti del Terzo settore, un mercato sconfinato e ricchissimo fatto di regole poco chiare e di approfittatori che ci sguazzano. È qui che piovono contributi pubblici e donazioni private, è qui che si ottengono agevolazioni fiscali e appalti dedicati. Ed è qui che si affollano gli sciacalli dell’«utilità sociale» e delle tragedie.

Colossale imbroglio
È solo dal 2009, anno in cui l’Agenzia delle entrate ha dato il via al censimento degli enti non commerciali e delle onlus, chelo Stato ha cominciato a fare ordine nel mondo delle associazioni e del volontariato. Fino ad allora l’Erario era andato alla guerra con le pistole giocattolo. Morale: una colossale evasione. E la riprova si è avuta l’anno successivo. Nel 2010, incrociando i dati nella neonata anagrafe del Terzo settore con le migliaia di controlli effettuati dal Fisco, sono emersi proventi non dichiarati per oltre 230 milioni di euro. Nel 2012, ultimo dato disponibile, le imposte recuperate hanno superato i 350 milioni, con una previsione di crescita per il biennio 2013-2014. E naturalmente la truffa si è consumata con fantasia tutta italiana. Bed&breakfast spacciati per centri di assistenza socio-sanitaria, circoli di sostegno agli anziani che nascondevano case d’appuntamento, locali per scambisti che difendendo «i diritti e le libertà dei diversi orientamenti sessuali, senza discriminazione, distinzione di sesso e ceto sociale», facevano soldi alla faccia dei contribuenti onesti e delle vere organizzazioni che contribuiscono a tenere in piedi il Paese.

Gli esiti delle attività di controllo svolte ogni anno dall’Agenzia delle entrate sono il racconto tragicomico di un magma di profittatori e furbetti più o meno grandi, quando non si tratta di veri e propri banditi. Da nord a sud, senza distinzioni di latitudine. Ci sono circoli per il golf piemontesi – alcuni anche decisamente esclusivi – che hanno avuto accesso ai fondi del 5 per mille. Ci sono ristoranti travestiti da associazioni, come quelli scoperti in anni recenti a Salerno. Un bel business per evasori totali che avevano nascosto al Fisco ricavi per 800mila euro. E sempre nel Salernitano era finito sotto controllo anche il litorale, dove avevano scoperto che un rinomato circolo – ovviamente non profit – era in realtà un ristorante con servizio di attracco e rimessaggio barche. 0 nelle Marche, dove un’associazione per promuovere «lo sviluppo e la conoscenza della scienza optometrica» era di fatto un laboratorio oculistico, vendeva prodotti e se li faceva pagare. A Torino, poi, un bel gruppetto di (presunte) bocciofile promuovevano sul web serate mangerecce, mettendo online menu e coupon per cenare a prezzi scontati, mentre un anonimo club privato era in realtà una palestra per clienti selezionatissimi a cui venivano offerte anche sauna, bagno turco e vasca idromassaggio. In Lombardia, invece, il Fisco aveva deciso di dare un’occhiata a una ventina di maneggi – pardon, associazioni sportive dilettantistiche operanti nel settore dell’equitazione -, col risultato che tutte tranne una (una!) nascondevano una vera e propria attività commerciale. L’Iva evasa? Quasi un milione di euro. Persino una guaritrice emiliana si era fatta una onlus su misura. Altro che fattura. Più che magia nera, magia in nero.

Soldi senza controlli
Eccola qui, l’altra faccia del non profit. Il lato oscuro del Terzo settore, che stando all’ultimo report dell’Istat – pubblicato nel novembre dello scorso anno – dà lavoro a oltre 650mila persone, ha un giro d’affari di circa 67 miliardi di euro, un fatturato superiore a quello dell’intero settore della moda made in Italy e rappresenta da solo il 4,3% del Pil nazionale. Capito quanto vale questa torta? Una gigantesca fortuna che fa gola anche ai più spregiudicati. Quanto costino allo Stato gli enti non commerciali, invece, lo si legge in un documento ufficiale della Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo, presentato alla Commissione affari sociali della Camera dei deputati il 21 novembre del 2014: «Audizione sul disegno di legge» relativo alla riforma del Terzo settore. Un mondo «frammentario e disorganico», lo definisce la Corte. Ebbene, stimano i giudici contabili, le ricadute del settore non profit sulla finanza pubblica superano il miliardo di euro, per oltre i due terzi riconducibili al 5 per mille e alle agevolazioni Ires, e per la quota residua agli sconti Irpef, Iva e prelievo sugli immobili. Si tratta insomma di una bella sforbiciata alle imposte dirette (detassazione dei redditi) e a quelle indirette (Iva, imposta registro, bollo), di adempimenti semplificati e misure di sostegno economico. Un miliardo di euro. Un miliardo di buoni motivi per sedersi al tavolo e tentare di prendersene una fetta.

Ma a chi va quella più grossa e a chi le briciole? Si crea, è scritto ancora nel documento, una «indubbia situazione di vantaggio per gli organismi di maggiori dimensioni e più strutturati, in grado di investire in attività promozionali» così da orientare i contribuenti. Dall’altro, una «dispersione eccessiva, in favore di una pletora di beneficiari». Ma non è tutto. Perché il sistema così come è concepito determina «costi di gestione non indifferenti, un rallentamento delle procedure di erogazione e il rischio di indebolire l’istituto, trasformandolo in un inutile contributo a pioggia». E in effetti, a scorrere l’infinito elenco delle onlus che hanno avuto accesso all’ultimo 5 per mille – sono state 34.581 nel 2012, ultimo dato disponibile, e ben 3.034 quelle escluse -, le sproporzioni sono enormi. Si va dai 55 milioni di euro destinati all’Associazione italiana per la ricerca sul cancro ai 0,09 centesimi finiti nelle casse di Militello Rosmarino, comune di mille e 300 abitanti in provincia di Messina, dai 10,3milioni di Emergency ai 2 euro e 94 centesimi della «Dieta mediterranea Onlus» di Ostuni, dagli 8 milioni di Medici senza frontiere aí 12 euro scarsi del Motoclub Enduro Piemonte.

E fin qui, tutto più che comprensibile. Ma poi si scopre che i destini dei terremotati Abruzzesi e quelli dei felini randagi («Mondo gatto») muovono a medesima solidarietà i contribuenti, che per i primi hanno destinato 54mila euro e per i secondi 52mila. Che l’Accademia della Crusca (42mila euro per custodire e coltivare la lingua italiana) prende meno di un terzo di «Save the dogs and other animals», onlus animalista che porta a casa 135mila euro. O ancora, che la Fondazione italiana del notariato – la cui imprescindibile missione è quella di «formare e migliorare le qualità professionali e culturali dei notai italiani» – riceve la bellezza di 343mila euro, che la Fondazione rinnovamento dello Spirito santo – la quale «persegue in particolare lo scopo di sensibilizzare, orientare e far comprendere l’azione e le finalità dello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita» – ha ricevuto dallo Stato 164mila euro, che sono stati 134mila quelli versati all’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (il cui scopo è «portare avanti iniziative a tutto campo in difesa dei diritti degli atei e degli agnostici»), mentre l’Admo – l’Associazione donatori midollo osseo, una cosetta con cui si cura la leucemia – si è dovuta accontentare di 73mila. O infine, che Fondazione Slow Food per la biodiversità ha ricevuto 67mila euro, che 37mila sono andati alla Federazione italiana amici della bicicletta e 36mila al Naga, l’associazione di assistenza sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti. Sono troppi per curare dei nomadi? Punti divista. A Palazzolo Milanese, che non è nemmeno una città ma un quartiere del piccolo Comune di Paderno Dugnano, l’«Asilo del cane» ne ha avuti 70mila.

Popolari, quei tre punti oscuri sul gioco di mano del governo

Popolari, quei tre punti oscuri sul gioco di mano del governo

Renato Brunetta – Il Giornale

Jobs Act e investment compact : siamo tornati all’inglesorum di palazzo Chigi, definito da Guido Rossi ai tempi di D’Alema come «L’unica merchant bank in cui non si parla inglese». Oggi parliamo di Investment compact, balzato agli onori della cronaca per il pasticcio della riforma delle banche popolari. Le «questioni», di metodo e di merito, aperte sono diverse: 1) il ricorso, da parte del governo, allo strumento del decreto legge; 2) il rischio di insider trading e le altre indagini in corso 3) il merito della norma.

Il ricorso al decreto legge
La vicenda del decreto di riforma delle banche popolari rappresenta o rischia di rappresentare una delle pagine più oscure del governo Renzi. È di venerdì 16 gennaio, a chiusura dei mercati, la prima agenzia di stampa che annuncia l’imminente provvedimento. E la prima informazione ufficiale si riferisce, come affermato dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta in Parlamento, a una comunicazione che il presidente del Consiglio fa al suo partito, nel corso della riunione della direzione del Pd alle 17.30. Appare già strano che su una materia tanto sensibile un presidente del Consiglio decida di anticipare i contenuti e l’uso del decreto legge in una riunione di un club privato. Tanto più che inizialmente la riforma doveva essere prevista all’interno del disegno di legge sulla concorrenza ma, invece, improvvisamente, è diventata particolarmente urgente. Il 20 gennaio il consiglio dei ministri dà via libera al decreto che, effettivamente, contiene la norma che impone alle banche popolari con attivo superiore a 8 miliardi di euro la trasformazione in società per azioni. Il governo, quindi, ha avuto la «sfrontatezza» di imporre per decreto una rivoluzione nella governance di un sistema che, negli anni della crisi e del credit crunch , è stato l’unico a ridare fiducia e credito a famiglie e imprese. Imposizione, quella del governo, priva di presupposti di necessità e urgenza, fondamentali, pena l’incostituzionalità del provvedimento, per poter emanare un decreto legge.

Il rischio di insider trading
Un altro aspetto della vicenda sono gli effetti che la notizia della riforma ha avuto sui mercati finanziari, con rialzi a due cifre di tutte le banche coinvolte. Non può, quindi, passare in secondo piano il dubbio di azioni promosse, in maniera consapevole e attenta, a seguito, evidentemente, dell’entrata in possesso di informazioni privilegiate. Ciò che si prefigura davanti ai nostri occhi e agli occhi dei cittadini è, pertanto, l’immagine di un governo che si presta, di fatto, a varie mani: mani che prendono informazioni, mani che cambiano testi all’ultimo momento, mani che scrivono all’ultimo momento, mani invisibili, mani di fata che, in realtà, hanno un ruolo chiave nell’attività dell’esecutivo.

Il merito della norma
Come sottolineato più volte dal governo, anche Fondo monetario internazionale, Commissione europea e Banca d’Italia hanno segnalato i rischi che il mantenimento della forma cooperativa determina per le banche popolari maggiori, quali: 1) la scarsa partecipazione dei soci in assemblea; 2) gli scarsi incentivi al controllo costante sugli amministratori; 3) la difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato e, quindi, di assicurare la sussistenza dei fondi che potrebbero essere necessari per esigenze di rafforzamento patrimoniale. In particolare, in un working paper dal titolo «Reforming the Corporate Governance of Italian Banks» , il Fondo Monetario Internazionale sosteneva la necessità per le banche popolari più grandi di trasformarsi in società per azioni. Le banche popolari nascono con un raggio di azione limitato ad aree geografiche definite, ma oggi la loro struttura attuale pare, agli occhi del Fmi, inadeguata, in quanto questo tipo di istituto di credito opera a livello nazionale e internazionale, e alcune di esse sono addirittura quotate in Borsa. Secondo il paper del Fondo, la riforma delle banche popolari migliorerebbe la governance di tali istituti.

L’anomalia della soglia degli 8 miliardi di attivo
Ma attenzione, né il Fondo monetario internazionale né la Banca d’Italia individuavano una soglia oltre la quale far intervenire la riforma. Ci si limitava a riferirsi agli istituti di maggiori dimensioni o quotati in Borsa. Quanto all’idoneità della soglia dimensionale prescelta, individuata dal provvedimento normativo in 8 miliardi di euro di totale attivo, il governo giustifica la sua scelta dimensionale come «equidistante tra il gruppo delle banche popolari quotate e il gruppo delle banche popolari più piccole». Tuttavia, tale soglia non trova riscontro in alcuna normativa esistente, primaria o secondaria, nazionale o internazionale. Sarebbe ben più fondato restringere l’ambito di applicazione della norma solo alle banche popolari quotate ed elevare la soglia a 30 miliardi. Una ulteriore soluzione alternativa potrebbe essere anche quella di prevedere una soglia di 20 miliardi di euro per le banche che, a decorrere dall’anno 2014, hanno effettuato acquisizioni e/o fusioni. Inoltre, sempre per queste banche, andrebbe concesso un termine più ampio per adeguarsi alla nuova disciplina, elevando i diciotto mesi attualmente previsti dalla normativa transitoria a quattro anni. Sul tema delle popolari e sul tema delle riforme, in Europa si discutono dossier da almeno dieci anni. E il tema non è solo italiano, anzi. Non riguarda neanche tanto l’area sud dell’Europa, ma, al contrario, soprattutto l’area nord dell’Europa: quella tedesca e olandese. Il fatto che se ne discuta da almeno dieci anni fa riflettere del perché non si sia ancora deciso in maniera drastica, tranchant, nonostante gli stimoli, gli incentivi, le richieste da parte dell’Unione europea nel merito. Quindi, nulla quaestio sul tema, sul merito del tema, che cioè debolezza, autoreferenzialità, inefficienza siano elementi da trattare e da superare. Il problema è il modo. Noi chiediamo al governo di fare chiarezza in merito alle ombre dell’ insider trading che circondano le vicende che hanno portato all’emanazione del decreto legge di riforma delle banche popolari. Vanno inoltre chiariti quei passaggi che hanno indotto il governo a decidere di procedere su un tema così delicato e complesso con lo strumento del decreto legge, tra l’altro proprio in un lasso di tempo in cui la presidenza della Repubblica era vacante.

In sintesi, il Paese non solo vuole chiarezza, ma anche una buona riforma che non distrugga o porti alla svendita di una cultura economica e finanziaria che è patrimonio del paese. La chiarezza non è certamente venuta da Matteo Renzi, nella sua ultima performance a Porta a Porta , quando si è limitato a dire alcune ovvietà (chi deve pagare paghi, chi è responsabile risponda, ecc.: concetti più degni di Chance, il giardiniere dello strepitoso Peter Sellers). Caro Renzi-Chance, la moglie di Cesare non solo deve essere onesta, ma anche apparire tale.

Il vero nemico è l’esattore, non l’evasore

Il vero nemico è l’esattore, non l’evasore

Nicola Porro – Il Giornale

Di fisco si parla molto. Qualcuno può pensare anche troppo. Ma il punto di vista da cui si parte, per carità sacrosanto, è quasi sempre tecnico. Possiamo dividere in due gli approcci. Il primo è quello microeconomico, per così dire ragionieristico: l’Irap è una tassa assurda perché colpisce anche il costo del lavoro e gli interessi passivi, oppure la progressività delle imposte sulle persone è eccessiva. Un secondo approccio è più macro: la pressione fiscale deprime i consumi, l’aumento delle imposte indirette potrebbe distorcere il mercato.

È molto più difficile assistere ad un dibattito più filosofico sul tema delle imposte. Meno economico e più culturale. In una certa misura la sinistra è stata più abile in questo campo. Ha cercato di dare una giustificazione sociale all’imposizione: le tasse sono belle; grazie ai tributi si sostengono i più deboli; è necessaria una redistribuzione dei redditi. Ecco. Una delle battaglie oggi dovrebbe essere proprio la riscoperta dei fondamenti filosofici e culturali per i quali un liberale non può che essere allergico alla natura stessa dell’imposizione fiscale. La circostanza fortunata per la quale l’eccesso di tasse riduce gli incentivi a produrre e lavorare e dunque ad accrescere la ricchezza di un Paese è solo il risvolto pratico di una critica ben più profonda che dovremmo fare alle tasse in sé. Per farla breve, il fatto che le troppe tasse facciano ammalare un’economia (cosa su cui oggi a parole praticamente tutti concordano) ha il valore di una tacca sul termometro di mercurio: il vero problema è la malattia. E adesso la scopriamo.

Il più lucido in Italia a scrivere di questi argomenti è, ed è stato, Antonio Martino. Vi citiamo solo qualche passaggio di “Stato padrone” (Sperling & Kupfer): «Vi è una relazione inversa tra Fisco e libertà personale. Il fatto che la fiscalità abbia una forma monetaria non dovrebbe trarre in inganno: per poterci procurare i soldi da versare all’erario dobbiamo lavorare». Il principio è semplice: la tassazione equivale da un punto di vista logico alla sottrazione dei propri spazi di libertà. Se per sei mesi l’anno lavoro per procurarmi le risorse da fornire allo Stato sono di fatto un suo schiavo, anche se a mezzo servizio. Questa impostazione comporta molte conseguenze. In modo apodittico, ma chiaro Martino scrive: «Non mi stancherò mai di ripetere che il nostro vero nemico non è l’evasore, ma l’esattore. Se la fiscalità è eccessiva, ciò non è certo dovuto al fatto che gli altri non pagano o pagano poco, ma al livello esorbitante raggiunto dalla spesa pubblica: la causa dell’iperfiscalità è lo statalismo, non l’evasione». Le principali critiche all’eccesso di tasse non sono dunque economiche, ma filosofiche: esse minano la nostra libertà.

Italia inferno fiscale

Italia inferno fiscale

Carlo Lottieri – Il Giornale

Che l’Italia non fosse un paradiso fiscale era chiaro a tutti da tempo. Ora, una ricerca del centro studi ImpresaLavoro (un think tank di recente costituzione presieduto da Massimo Blasoni) giunge addirittura alla conclusione che il nostro Paese sarebbe la maglia nera in Europa: un autentico inferno fiscale che disincentiva a risparmiare, lavorare, investire.

Frutto dell’elaborazione di indagini appositamente condotte da studiosi (o gruppi di studiosi) di dieci Paesi, la ricerca ha esaminato il sistema tributario del Vecchio continente valutando quattro distinti parametri: la tassazione complessiva; la struttura dell’imposizione così come è descritta dall’Itr in rapporto al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la complessità amministrativa delle procedure burocratiche necessarie agli adempimenti tributari; il livello di decentramento e concorrenza tra i governi locali. Il risultato è inequivocabile e colloca al primo posto la Svizzera e, in fondo alla classifica, oltre a noi, anche i cugini francesi.

Nel «pesare» i diversi elementi che definiscono l’indice finale, un rilievo inferiore è stato attribuito alla concorrenza tra ordinamenti fiscali, dal momento che si tratta di un dato che condiziona l’imposizione (dove c’è più competizione territoriale, il prelievo tende a essere minore) e non già di un elemento che descrive l’imposizione stessa. Ma è fuori di dubbio che mettere in concorrenza le amministrazioni locali, come avviene in Svizzera, aiuta a contenere il prelievo. Lasciando da parte il caso elvetico, davvero assai peculiare e comunque esterno all’Unione, lo studio evidenzia come situazioni in qualche misura avvantaggiate siano quelle dei Paesi ex-comunisti: Lituania e Repubblica Ceca, ma perfino Bulgaria e Romania. In vari casi lì si è avuto il coraggio di operare scelte radicali che non disincentivassero le attività economiche (la flat tax , ad esempio) e favorissero una semplificazione del prelievo. Ora i risultati si vedono.

Dallo studio esce anche ridimensionato il luogo comune che tradizionalmente identificava l’Europa settentrionale con i regimi più rapaci. Le vecchie socialdemocrazie scandinave, infatti, hanno ancora un prelievo fiscale elevato, ma hanno saputo fare qualche passo nella giusta direzione. Così la Svezia di oggi è un po’ diversa da quella che obbligava registi e tennisti ad andarsene a Montecarlo e, anche se resta nel gruppo dei Paesi ad alta tassazione, per certi aspetti la sua esperienza può addirittura insegnare come si possa riformare nella giusta direzione una società altamente statizzata. Al di là di questo o quel caso specifico, nell’insieme lo studio mostra come l’Europa intera sia in una grave crisi proprio perché la quota di risorse prelevate dall’apparato pubblico ha raggiunto livelli troppo elevati. In questo senso, l’Italia è all’avanguardia di un processo che, però, sembra davvero risparmiare ben pochi.

Oltre a ciò, lo studio mostra come la crescita dell’Unione (accompagnata per giunta da un processo di espansione verso Est) abbia finito per creare nuovi meccanismi di estrazione e redistribuzione delle risorse. Il lavoro di Petar Ganev evidenzia che oggi il bilancio pubblico di un Paese come la Bulgaria si regga in parte su risorse provenienti da fuori e indirizzate lì da Bruxelles. In altri termini, alla redistribuzione interna si è progressivamente sovrapposta una redistribuzione di marca continentale.

L’esame delle economie europee sembra pure suggerire una solida correlazione tra oneri burocratici ed entità del prelievo. I Paesi a più alta tassazione sono anche quelli in cui la regolazione è particolarmente minuziosa e pervasiva, mentre – ed è comprensibile – le società più liberali tassano meno e regolano meno. Questo però induce a pensare che una larga parte del sistema burocratico (i famosi «lacci e lacciuoli» di cui parlava Guido Carli) sia impossibile da eliminare senza un ridimensionamento di imposte e spesa pubblica. In tal senso, sebbene sia interamente focalizzata sul lato delle entrate, l’indagine del centro studi di Udine aiuta a comprendere come la volontà degli europei di non riformare i propri sistemi di Welfare (costosi e pesanti, oltre che molto inefficienti) ne metta a rischio il futuro. O l’Europa lo comprende alla svelta, o continuerà a declinare.

Speculazioni, rumors e sospetti: c’è del marcio nel caso Etruria

Speculazioni, rumors e sospetti: c’è del marcio nel caso Etruria

Renato Brunetta – Il Giornale

C’è del marcio in Etruria. Vorrei fare un pezzo filosofico, ma che filosofia si può fare davanti a un furto con destrezza? Il problema è capire chi ha fornito il trapano per aprire la cassaforte. Costoro, infatti, hanno utilizzato conoscenze, dirette o indirette, informazioni chirurgiche relative al decreto sulle Popolari da trasformare in Spa, per comprare e vendere azioni. Il tutto molto, ma molto vicino a persone, ambienti, stanze di Palazzo Chigi. Insomma rischia di venire giù Roma, come accadde per lo scandalo Banca Romana.

Stavolta ci troviamo di fronte a piccole banche, una delle quali in gravissime difficoltà, al punto che nei giorni scorsi è stata commissariata da Banca d’Italia. Non prima però che il valore di ogni singola azione sia balzato in alto: +62,17% nella sola settimana di borsa tra il 19 e il 23 gennaio 2015, quella del varo del decreto del governo, per la Banca popolare dell’Etruria e del Lazio. Il cui vicepresidente è il padre del ministro Maria Elena Boschi, anch’essa azionista della banca (e il fratello ne è dipendente). Il più attivo in questo fenomeno di spostamenti azionari è stato il fondo di Davide Serra da Londra, punto di riferimento e consigliere del premier in materia di finanza. Il paragone con Banca Romana ci sta, fatta salva la diversa statura del personaggio Giolitti.

Che il tema fosse «caldo» si è capito fin da subito. Ma la gravità sta venendo fuori giorno dopo giorno. A far deflagrare la già scottante miccia è stata l’approfondita e dettagliata audizione di mercoledì scorso, in commissione Finanze della Camera, del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, nell’ambito della quale è stato messo nero su bianco il sospetto di insider trading , anche grazie a una ricostruzione puntuale, attraverso notizie di stampa e tweet (uniche informazioni disponibili al pubblico, fatto già di per sé anomalo, data la delicatezza dell’argomento) dei «movimenti» del governo e degli amici del governo dal 3 gennaio 2015 al 9 febbraio 2015, dell’andamento in borsa nonché, con particolare riferimento alla Banca Etruria, degli accadimenti non del tutto trasparenti verificatisi tra l’11 agosto 2014 e il 9 febbraio 2015. È così che la gravità di quanto stava avvenendo è balzata agli occhi della Banca d’Italia, che ha commissariato la Banca dell’Etruria; della procura di Roma, che ha subito aperto un’indagine; e della Guardia di finanza, braccio operativo di entrambi questi ultimi.

Al di là delle plusvalenze effettive o potenziali di quei geni (si fa per dire) che hanno comprato azioni delle Popolari prima del decreto per poi rivenderle a prezzi ben più alti, quel che è grave è che, a quanto pare, potrebbero essere stati i membri del governo a comunicare in anticipo ai finanziatori della loro campagna elettorale le imminenti decisioni dell’esecutivo. Così sembra, infatti, che siano andate le cose in quel di Londra, presso gli uffici del Fondo Algebris: all’annuncio da parte del governo, il 16 gennaio 2015, di voler riformare il sistema delle banche popolari, hanno fatto seguito imponenti operazioni di borsa. Tanto per avere un’idea dei numeri: le azioni di Banca Etruria sono aumentate del 62,17% in quattro giorni contro un andamento del comparto bancario dell’8,68%. Al secondo posto il Credito Valtellinese: +30,93%. Quindi tutte le altre 6 banche popolari che nei propositi del governo dovevano rientrare nell’ambito del decreto. Con un’ulteriore stranezza: il requisito dimensionale individuato (un attivo totale pari a 30 miliardi di euro) è stato ridotto a 8. E così sono rientrate Credito Valtellinese, Popolare di Bari e Banca Etruria, che interessano all’esecutivo.

La cosa più impressionante è vedere i grafici che hanno accompagnato la relazione di Giuseppe Vegas. Tre giorni di fuoco con utili da capogiro. Potenza dell’intuito: si è giustificato Davide Serra, con un susseguirsi di tweet e comunicati stampa. «Algebris Investiments ha investito fin dalla sua nascita, nel 2006, nel settore bancario e assicurativo italiano». Quindi nessun possesso di informazioni privilegiate. Se poi il valore delle azioni è lievitato è solo una coincidenza del destino. Come semplice coincidenza è il fatto che la Banca popolare dell’Etruria e del Lazio abbia nel board, con la carica di vicepresidente, Pier Luigi Boschi, il padre del ministro Maria Elena. Anch’essa azionista dell’istituto di credito caro, come notano i maligni, a Licio Gelli. Conti che in qualche modo tornano, visti i vecchi gossip sulle frequentazioni di famiglia dei nostri attuali governanti fiorentini.

Ed è sempre un caso che sia stata questa banca a registrare, tra tutte le popolari coinvolte nell’affaire , gli incrementi maggiori. Una banca talmente solida (siamo ironici) da giustificare, prima del rally di borsa, ben due preoccupate ispezioni della Banca d’Italia, seguite dal commissariamento. E da suffragare l’ipotesi di «ostacolo alla vigilanza» e il timore di «operazioni occulte» su cui sta indagando la procura di Roma, e che si aggiungono ai sospetti di insider trading. Ancora una volta, come accaduto con la merchant bank che non parlava inglese, per ricordare come Guido Rossi qualificò la presidenza di Massimo D’Alema a palazzo Chigi, si è di fronte al solito gioco. Allora, tuttavia, c’erano «capitani coraggiosi» che stavano scalando il cielo, in formato Telecom. Oggi siamo, invece, di fronte a un pugno di speculatori che entrano in borsa, acquistano tutto quello che c’è da acquistare e dopo un paio di giorni lo rivendono, portandosi a casa un malloppo fatto di plusvalenze milionarie. Non è una bella immagine per il Pd, che una volta era il partito delle mani pulite, pronto a denunciare conflitti d’interesse e ipotetici falsi di bilancio.

Questa volta, tuttavia, l’episodio è ben più grave. Ricorda da vicino un vecchio scandalo della storia d’Italia: quello della Banca romana. La grande speculazione edilizia che portò alla nascita del quartiere di Prati a Roma. Finanziata con l’emissione arbitraria di carta moneta, e la copertura politica di Palazzo Chigi. Giovanni Giolitti da un lato e Francesco Crispi dall’altro: accusati da Bernardo Tanlongo, che della ex Banca pontificia era il governatore, di aver percepito mazzette e cointeressenze nel gioco della grande speculazione fondiaria e di essere quindi i corresponsabili del successivo fallimento dell’istituto di credito. La sede della presidenza del Consiglio, che allora stava al Viminale, era divenuta un centro di affarismo con le prime riforme volute da Agostino Depretis, il grande trasformista. Riforme che avevano portato all’addomesticamento del Parlamento, i cui poteri furono depotenziati per favorire il formarsi di maggioranze occasionali continuamente addomesticate dal grande domatore.

Episodi che dovrebbero far riflettere, nel momento in cui si fanno più o meno le stesse cose, con riforme ritagliate sugli interessi terreni dell’attuale premier. Sul decreto banche popolari la sua, oggi, è una posizione lose-lose : portarlo avanti aggrava l’accusa di «connivenza» del governo con chi ha speculato. Ritirarlo vorrebbe dire per Renzi ammettere le responsabilità del suo esecutivo. Cui non possono che seguire dimissioni immediate. Altro che spread, che nel 2011 ha mandato a casa, con l’imbroglio, l’ultimo governo legittimamente votato dai cittadini. Dalle carte del processo di Trani sulla manipolazione del mercato avvenuta in quell’estate-autunno 2011 da parte delle agenzie di rating sta emergendo che il danno erariale che ne è derivato ammonta a 120 miliardi di euro. Tanto ci è costato il complotto. Non vorremmo che al conto già salato che i cittadini italiani devono pagare, si aggiungesse anche il gravissimo obbrobrio delle banche popolari. Il governo ritiri il decreto, e il premier si faccia carico in prima persona dello scotto dei suoi errori e della sua spocchia. Quando esagerano, le volpi finiscono in pellicceria, direbbe l’Amleto dei giorni nostri.

Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa

Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa

Paolo Bracalini – Il Giornale

«Una corruzione devastante per la crescita». Come ogni monito della Corte dei conti anche dall’ultimo esce un Paese allo sbando, una pubblica amministrazione preda di sciacalli, tangentari, ladri di ogni tipo. Ma chi vigila su questo disastro di pubblica amministrazione? La Corte dei conti stessa, per l’appunto. Che però, quando si tratta di giudicare il proprio operato, pur di fronte ad uno scenario descritto come devastante, si promuove a pieni voti. Basta guardare le tabelle sugli incentivi e premi pubblicati dalla magistratura contabile nella sezione «Trasparenza» per l’ultimo anno disponibile, il 2011 (e quelli più recenti?). Anche per i severissimi giudici contabili non ci si distacca da una prassi molto diffusa negli uffici pubblici italiani: la percentuale schiacciante cioè di funzionari modello che si meritano, ogni anno, un premio economico in aggiunta allo stipendio. Nel caso della Corte dei conti, su 2.477 dipendenti totali (circa 600 magistrati), le pecore nere che non hanno avuto incentivi o bonus sono stati soltanto 56, gli altri 2.421 invece hanno incassato premi fino a 1.760 euro a testa per i risultati ottenuti nel controllo di sprechi, opacità e dissesti delle finanze pubbliche, oggetto però di malagestione e corruzione come denunciato dalla stessa Corte. Se la percentuale di premiati si avvicina al 100%, non così avviene per le presenze negli uffici. A gennaio 2014 un terzo degli uffici superava il 30% di assenze, mentre negli ultimi mesi dell’anno ferie e malattie sono calate, anche se con punte del 26% all’Ufficio servizi sociali o e del 27% all’Ufficio centralino.

E come sono i conti della Corte dei conti? Nel decreto di approvazione del bilancio firmato dal presidente Raffaele Squitieri, segnala come le misure della spending review «abbiano inciso in modo evidente anche sulle risorse assegnate alla Corte dei conti». Rispetto al 2014, parliamo di un 5% in meno di fondi. Quest’anno, per il funzionamento della Corte dei conti, andranno 268.427.893 euro, 12 milioni in meno del 2014. La dieta a cui la spending review ha costretto i magistrati contabili – che non sembrano averla gradita particolarmente – non tocca però alcune voci di spesa, definite «non modulabili», cioè intoccabili. Leggiamo: «Risultano incomprimibili le spese non rimodulabili, che incidono per circa il 78% sul totale del bilancio, con una percentuale del 74% riservata alle competenze fisse ed accessorie a favore di tutto il personale. In particolare, per i capitoli relativi al trattamento economico del personale di magistratura si rileva uno stanziamento invariato rispetto a quello del precedente esercizio».

La spesa per gli stipendi e il personale, dunque, resta «incomprimibile». Il totale previsto per questa voce, nel 2015, è di 236 milioni di euro. I vertici hanno subito il taglio della retribuzione al tetto di 240mila euro fissato dal governo. Così, se fino al 30 aprile 2014 al presidente della Corte andavano 311mila euro, ora lo stipendio, al netto di contributi previdenziali e assistenziali, è solo di 227mila euro. Tra i 150mila e i 200mila sono gli altri incarichi di vertice, mentre ai dirigenti vanno dai 70mila ai 135mila. Tra le spese del segretariato generale, «missione tutela delle finanze pubbliche», si trovano 140mila euro per «erogazione dei buoni pasto al personale di magistratura», 475mila euro come «indennità di rimborso spese di trasporto al personale di magistratura per trasferimenti nel territorio nazionale», 84mila per quelle all’estero, 76mila euro per «acquisto mobili e arredi», e 26 milioni complessivi come «retribuzioni corrisposte al personale di magistratura». I quali magistrati, poi, sono spesso impegnati fuori, con incarichi esterni. Il prospetto relativo al primo semestre 2014 conta 76 dipendenti, non solo magistrati, autorizzati a svolgere una funzione in un altro ente pubblico. Comuni, regioni, ministeri, Asl. Dove vengono chiamati a svolgere funzioni apicali. Come il consigliere Luigi Caso, che al ministero del Lavoro ricopre il ruolo di Capo di Gabinetto, o il consigliere Francesco Alfonso, capo dell’Ufficio del consigliere giuridico al ministero dell’Economia; o come i vari magistrati nei consigli di revisori o organismi di controllo di enti pubblici. Cioè proprio quella pubblica amministrazione verso cui la Corte dei conti lancia i suoi ripetuti (e sacrosanti) strali.

Il “salva Italia” del fisco poliziotto

Il “salva Italia” del fisco poliziotto

Francesco Forte – Il Giornale

In Italia il Fisco dispone già di 129 banche dati. Ma non gli basta. Ora chiede a tutte le banche e agli altri intermediari finanziari, comprese assicurazioni e fondi pensione, di trasmettere entro il 28 febbraio all’Agenzia delle entrate tutti i dati del 2013 di movimentazione di conti correnti, depositi, carte di credito, portafogli di titoli, accessi a cassette di sicurezza, premi assicurativi e contributi versati. Il fisco dovrà altresì riceverei dati sugli acquisti di oro e preziosi. Entro il 29 maggio dovranno esser inviate le stesse informazioni per il 2014. Una indigestione di dati, con molti effetti negativi.

Il principale è l’incentivo che essa dà a svicolare dalle operazioni bancarie il più possibile e a pagare in contante, aumentando le evasioni fiscali. La motivazione di ciò, genuina o di comodo, sarà che non si vogliono far conoscere al fisco i propri affari personali, che in uno Stato basato sulla libertà personale, dovrebbero essere protetti dalla privacy. Se si paga l’albergo con la carta di credito, il fisco può vedere dove uno va durante le trasferte fuori sede e dall’ammontare che spende può desumere se era solo o accompagnato. Il regalo di un gioiello, anche di modico valore, indica una possibile relazione con la persona a cui si è fatto il regalo. Gli studi sull’evasione mostrano che in genere le imposte vengono pagate in modo più fedele là dove il fisco è cortese e non vessatorio. È vero che le norme della legge «Salva Italia» del governo Monti, da cui questi obblighi derivano e i decreti di attuazione del governo attuale, che li applicano in modo estensivo anziché restrittivo, prescrivono che solo un particolare gruppo di funzionari fiscali può avere accesso a queste informazioni. Ma le fughe di notizie riservate è più la regola che l’eccezione. D’altro canto se il fisco ha troppi dati, l’eccesso di informazioni accresce la difficoltà della loro utilizzazione. Se si appesantisce il loro utilizzo informatico, aumenta la possibilità di errori.

Ci sono vari effetti negativi a carico del sistema bancario e previdenziale. Aumenteranno gli esodi di capitali verso l’estero. Comunque, c’è un nuovo disincentivo a dotarsi di un conto e di una carta di credito per gli italiani sopra i 16 anni che attualmente ne sono privi. Un altro effetto negativo riguarderà l’ ammontare dei conti bancari, dato il disincentivo a servirsene e la preferenza per il contante, mentre sarebbe desiderabile che accadesse l’opposto, per accrescere gli attivi degli istituti di credito. C’è anche un disincentivo ai fondi pensione, alle assicurazioni sulla vita, alle altre forme di risparmio, che possono essere interpretati come indice di ricchezza. Va notato che una parte dei personali redditi è tassato con cedolari secche e metodi catastali e quindi non risulta al fisco. Inoltre ci sono spese a carico del patrimonio e non del reddito. Ma il fisco, sulla base di questi indici di investimento finanziario, apparentemente eccessivi rispetto al reddito dichiarato, potrebbe fare partire degli accertamenti a campione torchiano contribuenti in regola, con controlli che destano sempre timore. E per le banche queste nuove incombenze per centinaia di milioni di conti comportano un costo, di cui esse si rivarranno sui clienti. Un lavorio enorme, per schedarci in ogni atto della nostra vita privata, che ci dobbiamo anche pagare. Il bello è che si chiama «Salva Italia».