il sole 24 ore

Una sfida ancora lunga

Una sfida ancora lunga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La bandiera dell’art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Il premier Renzi l’ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti. Per gli americani la determinazione dell’ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L’articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di “marketing” volta a imporre all’estero l’immagine della “nuova Italia”.

In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l’editoriale del direttore del “Corriere della Sera” ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un’altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d’oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell’arabesco che egli sta ricamando con l’opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull’articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po’ è vero. A Roma c’è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.

Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i “conservatori” non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch’essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un’altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un’operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.

Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'”Italicum” in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c’è patto del Nazareno che tenga.

Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

Sempre più vitale rianimare la domanda interna

Sempre più vitale rianimare la domanda interna

Luca Orlando – Il Sole 24 Ore

La benzina è finita. Per anni la corsa a doppia cifra delle vendite sui mercati più remoti ha tamponato le difficoltà incontrate dalle nostre imprese sul mercato domestico e in Europa. Illudendoci forse che la travolgente crescita dei paesi emergenti e l’ampliamento della “borghesia” mondiale potessero sostenere all’infinito e in modo automatico l’economia italiana. Il racconto di questi mesi è però diverso e indica una realtà ben più complessa, fatta di squilibri macroeconomici, di monete che sbandano pericolosamente, di smottamenti politici che in più di un paese diventano guerre. La Russia è forse il caso più evidente, anche per il peso relativo non marginale sul nostro export, ma va detto che di questi tempi Mosca è in buona compagnia. Rallentano gli acquisti di Made in Italy del Nordafrica, in cui certo la crisi libica non è d’aiuto; crollano quelli di Tokyo, alle prese con un rincaro dell’imposta sui consumi e con una svalutazione dello Yen; arrancano India, Brasile e Turchia; si inceppa ad agosto anche la crescita cinese, che pure era stata solida per tutto il 2014.

Un quadro per nulla rassicurante, che ha spinto ieri l’Organizzazione mondiale del commercio a rivedere drasticamente al ribasso le stime di crescita del commercio globale, ridotte dal 4,6% al 3,1% con rischi di ulteriore abbassamento a causa dell’irregolarità della crescita globale e degli aumentati rischi di tensioni geo-politiche. Osservare il trend globale delle nostre vendite extra-Ue è desolante e il balzo del 14,9% del 2011 pare preistoria: da allora, mese dopo mese, abbiamo perso ininterrottamente terreno fino al “filotto” negativo del 2014 con sei mesi consecutivi in rosso. Un aiuto, è vero, potrebbe arrivare dall’euro, ai minimi da oltre un anno sul dollaro. Per un 10% di discesa strutturale del cambio Intesa Sanpaolo stima un impatto positivo del 2,4% sull’export e di poco più di un punto sul Pil, spinta di cui in questa fase in effetti si sente un drammatico bisogno. L’alternativa all’export è infatti la domanda interna, dove però il quadro è ancora più cupo. Ovunque si guardi gli indicatori tendono al peggio ma almeno sgombrano il campo da ogni dubbio sulle priorità: senza consumi interni e senza imprese competitive da qui in avanti potremo solo fare peggio.

Per ripartire serve un mix di riforme e incentivi

Per ripartire serve un mix di riforme e incentivi

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Un motore potente, ma anche tanta benzina. Occorrono entrambe le cose per fare una lunga, veloce corsa. La situazione di Eurolandia dimostra che ogni ricetta economica riduttiva ha poco valore: chi chiede solo benzina sbaglia come chi chiede solo di cambiare il motore. In economia l’immagine automobilistica si traduce molto rapidamente: occorre la domanda e occorrono le riforme. Il caso tedesco è esemplare: l’economia ha un ottimo motore rispetto ai concorrenti, ma sta mancando la benzina. Potrebbe correre, ma non lo fa e questo avviene – a differenza di quanto accade in una gara, perché questa non è una gara… – anche perché i “concorrenti”, come l’Italia, non vanno abbastanza veloci. La Francia può essere scelta come esempio opposto: qui la domanda e l’offerta di credito, che mancano altrove, è in crescita, l’economia potrebbe funzionare. Il motore però si è inceppato e non è facile ripararlo: coniugare la competitività con lo stato sociale non è compito facile, e le difficoltà francesi lo dimostrano.

Ricette troppo semplici, dunque, non funzionano in un’economia complessa. Le riforme strutturali senza domanda hanno poco senso, e non è un caso che Commissione Ue e Bce invochino investimenti pubblici contro il rischio di recessione, per sostenere la domanda. La risposta del Governo tedesco – di una sua parte, in realtà – al rallentamento è dunque astratta e può reggere solo perché il mercato del lavoro tedesco resiste sempre molto bene agli urti. Più adeguata sembra – nelle parole, almeno – la risposta francese, quell’«offerta che crea la domanda» invocata dal presidente François Hollande a gennaio che, al di là della retorica e della citazione colta (Jean-Baptiste Say), sottolinea la necessità delle riforme strutturali. Anche queste, però, vanno fatte bene, nella sequenza giusta e in sincronia con lo stimolo alla domanda. Il rischio, altrimenti, è quello di peggiorare le cose.

Ma per le imprese la realtà è amara

Ma per le imprese la realtà è amara

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Mario Draghi è stato chiaro. Dagli schermi della televisione francese Europe 1, il presidente della Banca centrale europea ha precisato di non vedere «rischi di deflazione, ma rischi di un’inflazione troppo bassa per un tempo troppo lungo e per l’area dell’euro nel suo complesso», aggiungendo: «Come ho detto molte volte, la nostra ripresa è modesta, debole, diseguale e fragile, ma non è recessione». Ineccepibile. Da un punto di vista tecnico non c’è deflazione e non c’è recessione in Eurolandia. La crescita dei prezzi, e le aspettative di inflazione, restano positive. La crescita rallenta, ma sembra voler restare positiva. Ci si può però affidare alle semplici definizioni formali? Un banchiere centrale può farlo, un lavoratore, un imprenditore no. Per lui conta la situazione concreta, e da questo punto di vista tutto appare molto diverso. La recessione non c’è? Se il criterio è quello, un po’ astratto, dei due trimestri consecutivi di crescita negativa, allora sicuramente Eurolandia non è in recessione. Pochi economisti però considerano quella definizione come risolutiva.

Chi guarda alla realtà delle cose sa che ci possono essere fasi di crescita che sono di per sé recessione. Per esempio perché l’occupazione non aumenta, o aumenta troppo poco. Il National Bureau of Economic Research (Nber), il più grande istituto privato di ricerche economiche, è noto perché definisce su basi empiriche l’inizio e la fine di ogni recessione. Il criterio dei due trimestri – che si deve allo statistico Julius Shiskin – non gli appartiene: il Nber guarda insieme alla crescita del Pil, dei redditi, dell’occupazione, della produzione e delle vendite all’ingrosso.

Qual è la situazione in Eurolandia? Il Pil è a crescita zero, il reddito in relazione al Pil decresce (ma aumenta, va detto, pro-capite), l’occupazione è ai minimi dal 2006, piuttosto lontana dai livelli del 2008, ma anche da quelli del 2011, la produzione industriale, molto variabile da mese a mese, non sembra puntare verso l’alto. Cosa farebbe un Nber europeo non si può saperlo. L’indicazione della data iniziale e finale di una recessione è, oltretutto, effettuata solo quando tutto è terminato. Se però, in una situazione in cui l’orizzonte si offusca, un operatore economico che pianifica le proprie future mosse parlasse, se non proprio di recessione, di “crisi”, avrebbe diversi argomenti a suo favore. Non diverso è il discorso sulla deflazione. La questione non è se la bassa inflazione sia o no un fenomeno negativo: lo è, e Draghi lo ammette da sempre. Secondo la stessa Bce, a luglio le aspettative di mercato indicavano un ritorno a un’inflazione del 2% «non prima del 2020», e da allora le cose sono peggiorate.

Cosa può fare in una simile situazione un imprenditore che guardi ai propri margini e ai propri debiti futuri, e agli sforzi che deve fare per restare competitivo e, nello stesso tempo, solvente? Non dovrebbe tener conto di un rischio di un calo più o meno generalizzato dei prezzi? Non fecero lo stesso nel 2002-03, in una situazione decisamente migliore, tutte le maggiori banche centrali? Mario Draghi, invece, non può farlo. Rischierebbe di sganciare ulteriormente le aspettative, già in tensione. Probabilmente spera anche nell’innegabile aiuto del calo dell’euro, vicino ai minimi del 2012 (nel cambio effettivo). Resta il fatto che la Bce appare già un po’ “dietro la curva”, in ritardo; e quelle parole del presidente non possono essere il preannuncio che poco altro, lentamente, in realtà verrà fatto.

Il fisco “pulisce” l’anagrafe tributaria

Il fisco “pulisce” l’anagrafe tributaria

Marco Mobili e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Il Fisco punta a “ripulire” l’Anagrafe tributaria. Meno duplicazioni e più qualità dei dati disponibili. E allo stesso tempo si studia una sorta di raggruppamento delle informazioni attraverso un progetto di «Vista unica del contribuente» utilizzabile sia dall’amministrazione e sia in futuro dagli stessi cittadini per controllare la propria posizione. Sono le indicazioni arrivate ieri dal direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, nell’audizione davanti alla commissione bicamerale di vigilanza sull’Anagrafe tributaria.
Una ricetta che suona come una risposta ai problemi sollevati alla fine della scorsa legislatura dalla precedente commissione di vigilanza, soprattutto in relazione al proliferare delle richieste di informazioni e alla difficoltà di incrociarle perché spesso disallineate. Nel documento conclusivo dell’indagine svolta i parlamentari avevano segnalato come attualmente le banche dati disponibili da tutti gli organismi dell’amministrazione sono 128. Orlandi ha citato gli obiettivi da raggiungere per evitare duplicazioni e sovrapposizioni anche nei confronti di soggetti e categorie chiamate all’invio delle comunicazioni al Fisco. Nell’audizione, il neodirettore delle Entrate ha presentato il progetto di Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) che costituirà una sorta di base comune a tutte le pubbliche amministrazioni.

Le tappe per la precompilata
Un’operazione di “ripulitura” che viaggia in parallelo con il debutto della dichiarazione precompilata per la quale arriveranno le certificazioni dei redditi dai sostituti d’imposta e i dati su alcune spese che danno diritto a detrazioni e deduzioni. E proprio in vista del 730 a domicilio Agenzia e Sogei hanno definito un calendario serrato: entro ottobre saranno pronti i tracciati telematici che banche, assicurazioni e enti previdenziali dovranno utilizzare per trasmettere alle Entrate i dati su oneri detraibili e deducibili; entro novembre saranno definiti modello 730/2015 e modello di certificazione unica 2015 con relative istruzioni; entro i primi mesi del 2015 Sogei predisporrà i software per certificazioni dei sostituti d’imposta e dichiarazioni precompilate a dipendenti e pensionati, sostituti d’imposta e intermediari (Caf e professionisti). Orlandi ha ribadito che «eventuali interventi normativi di fine anno con effetti sul 2014 rischiano di compromettere il buon esito dell’intero progetto».

Sommerso e contanti
Oltre a questo, l’obiettivo di fondo è quello di aggredire la cifra «precoccupante» dell’economia sommersa in Italia che vale tra il 16,3% e il 17,5% del Pil, ossia tra i 255 e i 275 miliardi. Una delle strade per farlo è un maggior impulso alla tracciabilità dei pagamenti. «I tempi sono maturi – ha sottolineato il direttore – per l’utilizzo della moneta elettronica. La strumentazione a disposizione per l’estensione totale dei pagamenti elettronici a tutte le transazioni commerciali è già disponibile e in fase di grande diffusione sul mercato». Tuttavia il contante nel nostro Paese rappresenta ancora l’82% del numero e il 67% del valore totale delle transazioni. Tutto ciò ha anche un costo stimato in «4 miliardi l’anno per il settore bancario – ha detto Orlandi – e in 8 miliardi di euro per il sistema Paese».

Il ruolo dei Comuni
Un’altra leva su cui puntare nel contrasto al sommerso è l’alleanza con gli enti locali. Dal febbraio del 2009 allo scorso agosto – ha segnalato il direttore – sono state trasmesse all’agenzia delle Entrate più di 66mila segnalazioni da oltre 900 Comuni. Di queste circa 12mila sono state trasfuse in atti di contestazione con 226 milioni di maggior imposta accertata. Ogni segnalazione ha mediamente consentito di accertare più di 19mila euro di maggiori imposte. E quasi la metà delle segnalazioni ha riguardato fenomeni di evasione relativi agli immobili.

Pagamenti a quota 31 miliardi

Pagamenti a quota 31 miliardi

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

L’obiettivo di pagare tutti i debiti della Pa entro il 21 settembre, il fatidico giorno di San Matteo, non è stato centrato. Lo confermano gli ultimi dati pubblicati ieri dal ministero dell’Economia, sebbene si sottolinei come l’ammontare accumulato a fine 2013 sia inferiore alle precedenti stime (50 miliardi anziché i 60 miliardi più volte citati) e nonostante si ricordi che le imprese possono cedere i loro crediti alle banche secondo le regole del decreto 66/2014.

I numeri, alla fine, dicono che su poco meno di 57 miliardi stanziati sono stati erogati 38,4 miliardi agli enti debitori e di questi solo 31,3 miliardi sono finiti nelle casse dei creditori (il 55% delle risorse effettivamente disponibili). In particolare, 17,9 miliardi sono stati pagati ad imprese e professionisti che vantavano crediti nei confronti di Regioni e Province autonome; 7,7 miliardi sono andati a fornitori di Province e Comuni e 5,7 miliardi a quelli dello Stato (ma in questo caso, per 5,2 miliardi , si parla di rimborsi fiscali e non di crediti commerciali).

Il Mef mette comunque in evidenza il forte incremento dell’erogazione (+27%) e dei pagamenti (+20%) rispetto alla precedente rilevazione del 21 luglio scorso e ridimensiona l’intero fenomeno. Limitandosi al debito “patologico”, dunque scaduto e non oggetto di contenzioso, la massa da aggredire si ridurrebbe a 50 miliardi e dunque «le risorse fin qui stanziate sembrano essere più che sufficienti». È vero, ammette il Mef, che non è stato già pagato l’intero importo stanziato ma le ragioni vanno ricercate a livello locale. Molti Comuni hanno rallentato la richiesta di risorse perché hanno smaltito la gran parte degli arretrati mentre le Regioni sono fermate dal patto di stabilità interno, hanno problemi di contabilizzazione nei bilanci o non riescono a predisporre piani di pagamento dettagliati. Tra settembre e novembre, comunque, dovrebbero essere erogati dal Tesoro agli enti debitori altri 9 miliardi.

Un’analisi completa dell’argomento pagamenti della Pa richiede però una distinzione tra spese correnti e spese in conto capitale. Mentre sulle prime il governo può procedere senza remore, nel secondo caso – relativo agli investimenti – restano grosse criticità per il rischio di sforare i vincoli dell’indebitamento netto (per il governo sarebbero incagliati solo 2-3 miliardi, per i costruttori dell’Ance le cifre sarebbero sensibilmente superiori). E non è l’unico aspetto meritevole di approfondimento. Dal mondo sanitario, altro grande universo dei creditori della Pa, giungono diverse obiezioni. Assobiomedica sottolinea che, su oltre 3 miliardi di scoperto, 1,4 miliardi «non possono essere restituiti perché i debiti delle Regioni commissariate sono esclusi dal sistema di certificazione del ministero dell’Economia».

Il punto di soddisfazione reciproca, tra governo e imprese, appare dunque ancora lontano. Continuano ad esempio le segnalazioni su ritardi di pagamento relativi ai nuovi contratti. Su questo punto però il governo rilancia, promettendo «la riduzione generalizzata a 30 giorni» grazie all’introduzione della fatturazione elettronica e alle nuove regole di contabilità per le pubbliche amministrazioni.

Cento giorni per mettere in rotta la barca Italia

Cento giorni per mettere in rotta la barca Italia

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Il peggioramento dello scenario economico e il modesto risultato dell’ultima iniezione di credito della Bce hanno suggerito a molti analisti che si stia avvicinando il momento in cui la Banca centrale europea debba ricorrere all’acquisto di titoli sovrani dell’area euro. Sarebbe un errore pensare che l’eventuale intervento della Bce sia il capolinea delle preoccupazioni italiane e che sia sufficiente galleggiare fino ad aggrapparsi a quel salvagente. Infatti, se dietro l’aspettativa dell’intervento della Bce c’è una logica economica abbastanza lineare, perché questa logica prevalga è necessario che si realizzi in Europa un equilibrio politico molto delicato a cui l’Italia dovrà dare un proprio contributo decisivo entro i prossimi cento giorni.

La logica economica è semplice: gli ultimi dati segnalano un nuovo rallentamento nell’attività delle imprese manifatturiere europee. Si spiega così la debole domanda di credito e quindi, in parte, anche lo scarso successo dell’offerta di prestiti della Bce. È poco probabile che le condizioni dell’economia cambino radicalmente entro dicembre quando la Bce offrirà nuovi prestiti a basso costo. Questo fa prevedere che la Banca debba ricorrere in ultima istanza all’acquisto di titoli sovrani con l’obiettivo di modificare la composizione del portafoglio delle banche. Sostituendo i titoli pubblici con nuova liquidità, si porterebbero le banche a utilizzare la liquidità per attività più rischiose come i prestiti alle imprese. In un’analisi pubblicata dalla Sep (Luiss), Lorenzo Bini Smaghi prevede che la domanda di fondi delle banche europee resterà modesta nel medio termine e che ciò comporti una riduzione tendenziale delle dimensioni del bilancio della banca centrale. Come abbiamo osservato venerdì scorso, l’annunciato programma di acquisto di titoli con collaterale (Abs) non servirebbe a incrementare granché il bilancio della Bce.

Il recente rifiuto di Francia e Germania di offrire una garanzia pubblica sulle componenti più rischiose degli Abs riduce sensibilmente, infatti, l’ammontare di titoli che la Bce può acquistare sul mercato aperto. In sostanza, l’unico modo di riportare il bilancio della Bce alle dimensioni del 2012 sarebbe di acquistare titoli di Stato, altrimenti l’impronta della politica monetaria resterebbe ancora restrittiva in una fase di prezzi calanti e lontani dall’obiettivo del 2%. Esistono tuttavia serie obiezioni giuridiche all’acquisto di titoli sovrani da parte della Bce. La minaccia di farle valere davanti alla Corte costituzionale è spesso evocata a Berlino anche da esponenti di governo per giustificare la contrarietà tedesca a nuove azioni della Bce. I vincoli sono in ultima istanza di natura politica: anche se la cancelliera Merkel può godere di una pausa insolitamente lunga nel ciclo elettorale tedesco, la pressione del partito anti-europeo è sempre più forte. “Alternativa per la Germania” si è ormai stabilizzata sopra l’8%, ma può pescare in un bacino del 20-25% dell’elettorato tedesco. Non a caso il “circolo di Berlino”, costituito da “neo-con” della Cdu, spinge il partito della Merkel a rincorrere “Alternativa”, la quale a sua volta si sta spingendo su posizioni ancora più radicali selezionando i nuovi parlamentari regionali tra gli esponenti della destra estrema.

È possibile che all’ultimo momento la cancelliera, come ha già fatto nel 2012, si schieri con la Bce anziché con la Bundesbank e con gli euro-scettici, riconoscendo la necessità che la Banca centrale difenda la stabilità dei prezzi contro il rischio di deflazione. Ma resteranno pur sempre da superare gli ostacoli giuridici, cioè l’obiezione che gli acquisti di titoli pubblici rappresentino un finanziamento degli Stati vietato dai Trattati. Per superare questi ostacoli, in passato la Bce ha potuto intervenire solo quando la crisi era diventata così grave da mettere in pericolo la stabilità dell’area euro nel suo complesso. Solo in tali circostanze, diventano giustificabili interventi che estendono l’interpretazione letterale del Trattato e fanno prevalere l’obbligo di difendere la stabilità della moneta, sia in osservanza dello statuto della Bce, sia per rispettare il requisito posto dalla Corte tedesca alla partecipazione della Germania all’euro e cioè che appunto l’euro fosse una moneta stabile.

Perché le obiezioni politiche e giuridiche siano superabili, in quello che rappresenta un po’ il “mezzogiorno di fuoco” della crisi europea, è necessario che l’Italia si presenti in condizioni coerenti prima dell’acuirsi della crisi. Un Paese incapace di tagliare la spesa e fare le riforme renderebbe insormontabili le obiezioni politiche e quelle giuridiche. Draghi nell’audizione di lunedì al Parlamento europeo ha osservato che in passato gli interventi della Bce sono stati sprecati dagli Stati: la spesa pubblica non è diminuita come doveva e le riforme non sono state realizzate. Uno studio della Dg Ecfin sull’impatto delle riforme osserva che lo slancio dei governi italiani per le riforme si è fermato a metà 2013, nemmeno un anno dopo il primo “salvataggio” di Draghi, e che successivamente si sono visti annunci nella direzione giusta, ma pochi fatti. Il paradosso è invece che per arrivare all’ultima spiaggia bisogna prima mettere la barca in condizioni di navigare, se l’Italia non fosse in grado di sfruttare gli interventi della Bce per ritrovare la crescita, avrebbe sprecato anche l’ultima carta. Ma prima di verificare se la Bce interverrà o meno sui titoli di Stato, dovremo comunque attendere dicembre e gli effetti della prossima tranche di prestiti a lungo termine. È il tempo a disposizione per rimettere a posto la barca. A occhio quindi non abbiamo mille giorni, ma forse poco più di cento.

La priorità trasversale chiamata burocrazia

La priorità trasversale chiamata burocrazia

Lello Naso – Il Sole 24 Ore

Risorse? Riforme? Progetti di sviluppo che non ci sono? Non c’è dubbio che l’Italia abbia un deficit di competitività che deriva dall’arretratezza del sistema nel suo complesso, dalla crisi congiunturale e dalla mancanza endemica di risorse. Ma la lezione che arriva dalla vicenda del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione è che in ogni occasione il nodo più duro da sciogliere è quello della burocrazia. Nonostante la buona volontà del premier Renzi, che ci ha messo la faccia, e del Governo, nonostante la disponibilità degli uffici, e nonostante, presumiamo, la massima volontà di tutti i creditori di incassare le somme dovute, più di un terzo delle imprese è ancora insoddisfatto. Eppure, attenzione, le risorse erano e sono tutte disponibili.

Il motivo è molto semplice. Ogni qualvolta si attiva una procedura,la complicazione è sempre in agguato. Il labirinto di norme, il cavillo, l’elenco, la procedura da attivare, la certificazione. Molto è indispensabile, non c’è dubbio. Molto, invece, è frutto di un sistema normativo ipertrofico e complicato in cui norma chiama norma, regolamento chiama regolamento, cavillo chiama cavillo. Ecco perché non si può che partire dalla riforma della burocrazia. La priorità trasversale. Ecco perché non ci si possono permettere errori. Neanche minimi.

Nuovo balzo dei fallimenti: +14% nel secondo trimestre

Nuovo balzo dei fallimenti: +14% nel secondo trimestre

Francesco Antonioli – Il Sole 24 Ore

È ancora buio. C’è una nuova impennata dei fallimenti: tra aprile e giugno più di 4mila imprese hanno aperto una procedura fallimentare, registrando un incremento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. La crescita a doppia cifra porta i default oltre quota 8mila se si considera l’intero semestre, +10,5% rispetto al livello già elevato dell’anno precedente e record assoluto dall’inizio della serie storica dal 2001. «Stiamo vivendo una fase molto delicata per il sistema delle PMI italiane – commenta Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved -: la nuova recessione sta spingendo fuori dal mercato anche imprese che avevano superato con successo la prima fase della crisi e che stanno pagando il conto al credit crunch e di una domanda da troppo tempo stagnante».

L’incremento più sostenuto si osserva tra le società di capitale, la forma giuridica in cui si concentrano i tre quarti dei casi, che superano nel primo semestre quota 6mila. Minore invece l’incremento del fenomeno tra le società di persone (+5,9%) e tra le altre forme (+1,8%). L’analisi condotta da Cerved, primo gruppo in Italia nell’analisi del rischio del credito e una delle principali agenzie di rating in Europa, mostra come i fallimenti riguardano indistintamente tutta la Penisola. «I tassi di crescita – prosegue De Bernardis – sono ovunque a doppia cifra ad eccezione del Nord Est, in cui si registra un incremento del 5,5%, il livello più basso di tutto il territorio. In crescita del 14% rispetto al primo semestre 2013 i fallimenti nel Mezzogiorno e nelle Isole, del 10,7% nel Nord Ovest e del 10,4% nel Centro».

A livello settoriale, la maglia nera spetta ai servizi che contano un aumento del 15,7%, in netta accelerazione rispetto al primo semestre del 2013. Continuano, anche se con dei ritmi più lenti, le procedure nelle costruzioni e nella manifattura: i fallimenti di imprese edili crescono nei primi sei mesi del 2014 dell’8,2% (+12,8% nel 2013), mentre per le imprese manifatturiere l’aumento è del 4,5% (+10,5% nel primo semestre dello scorso anno). Tra aprile e giugno, con i correttivi legislativi, crollano le domande di concordato in bianco: sono state 665 (-52%); ne è conseguenza una diminuzione dei concordati comprensivi di piano (-12,3% nei primi sei mesi del 2014).

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla Tasi si è scaldato intorno alla sorte delle abitazioni principali, ma le rassegne delle scelte locali dopo che sono scaduti i termini per pubblicare le aliquote mostra che anche capannoni, uffici, alberghi e centri commerciali sentiranno nei prossimi mesi gli effetti del nuovo tributo. In breve, l’arrivo della Tasi aumenta il conto per gli immobili strumentali in 4.278 Comuni, cioè il 53% del totale. A livello nazionale, il nuovo quadro delle aliquote fa crescere la pressione sul mattone delle imprese di circa il 9%, ma quando si parla di imposte locali i valori medi non dicono tutto e l’esperienza reale dei singoli contribuenti andrà incontro anche ad aumenti assai più decisi. Anche nelle tante città – come Milano o Roma – dove l’Imu aveva già raggiunto i massimi nel 2013 e quindi non sembrava lasciar spazio ad altre tasse, il carico è cresciuto ancora “grazie” all’aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille, consentita per quest’anno allo scopo di finanziare gli sconti sull’abitazione principale. In qualche Comune l’ingresso della Tasi può essere stato compensato da una riduzione dell’Imu, ma si tratta di casi minoritari.

Viste alla luce della situazione di oggi, le promesse di abbattere il carico fiscale sugli immobili d’impresa che erano fìorite intorno alla scorsa legge di stabilità appaiono lontanissime: laTasi, introdotta proprio dalla legge di stabilità per quest’anno, gonfia ancora una volta il peso del fisco immobiliare sulle imprese e annulla gli effetti della “mini-deducibilità” Imu scritta nella stessa legge. Gli incrementi di quest’anno, nei Comuni in cui la Tasi si applica anche agli immobili strumentali, oscillano tra il 9 c l’11,5 per cento, ma rispetto ai tempi dell’Ici le imposte si sono impennate, dall’80% registrato in tante città fino al 170% di Milano, dove la vecchia imposta comunale sugli immobili era più bassa della media.

A spingere le tasse “locali” (ma bisogna ricordare che su questi immobili l’Imu ad aliquota standard del 7,6 per mille finisce allo Stato), secondo la rassegna delle aliquote realizzata dal Caf Acli sono 3.649 Comuni. L’elenco, però, cresce ancora, a causa dei 652 Comuni, soprattutto medio-piccoli, che non hanno pubblicato delibere entro il 18 settembre. In questi casi, scatta per tutti l’aliquota all’1 per mille, che si aggiunge alle normali richieste avanzate dall’Imu; le uniche eccezioni arrivano quando il Comune ha già stabilito il massimo per l`imposta municipale, togliendo quindi ogni spazio alla Tasi, ma dal momento che gli enti senza delibera sono medio-piccoli questa eventualità non dovrebbe essere frequente.

Nelle città, l’evoluzione del carico fiscale sulle imprese dipende ovviamente dall’evoluzione delle singole aliquote, ma le dinamiche complessive sono simili fra loro. Facciamo i conti per un capannone da 700mila euro di valore catastale: per esempio a Milano e Roma, dove l’Imu era già al massimo e la «super-Tasi» è stata introdotta per finanziare gli sconti sulle abitazioni principali, si arriva a 7.232 euro di imposta da pagare, contro i 6.638 dello scorso anno, mentre a Cagliari, dove l’aliquota dell’1 per mille si aggiunge ad un’aliquota Imu del 9,6 per mille, la richiesta è di 6.858 euro invece dei 6.157 dell’anno scorso. Sul peso complessivo delle imposte sul mattone incide anche la deducibilità, cioè la possibilità di sottrarre al reddito d’impresa le somme pagate come tributi locali. Nell’Imu la deducibilità è parziale (20% da quest’anno, 30% nel 2013), mentre nella Tasi è totale, nel senso che l’intero tributo pagato viene “tolto” dall’imponibile dell’Ires. A conti fatti, però, si tratta di dettagli, come mostra per esempio il caso di Verona: la città ha abbassato l’Imu all’8,9 per mille e fissato la Tasi al 2,5 per mille, con il risultato di arrivare a un’aliquota massima uguale a quella di Milano e Roma (dove al 10,6 per mille di Imu si aggiunge lo 0,8 per mille di Tasi), ma di produrre un carico fiscale leggermente inferiore grazie al fatto che tutto il tributo sui servizi indivisibili è deducibile. Naturalmente, però, la deducibilità non scatta per le imprese in perdita, che per questa via maturano solo un “credito” spendibile quando ritorneranno utili da tassare.

Un altro effetto collaterale della Tasi riguarda i “fabbricati-merce”, cioè gli immobili che le imprese costruttrici non riescono a vendere. Dal 1 luglio scorso sono stati esentati dall’Imu, ma paradossalmente proprio questa mossa ha aperto le porte alla Tasi: quest’anno, come accade per l’abitazione principale, può arrivare al 2,5 per mille (e non mancano i Comuni che l’hanno applicata), ma senza correttivi nel 2015 la richiesta può volare rino a quota 10,6 per mille. Proprio come l’Imu da cui questi immobili erano stati appena esentati.