il sole 24 ore

Gelata a luglio su fatturato e ordini

Gelata a luglio su fatturato e ordini

Carlo Andrea Finotto – Il Sole 24 Ore

Se si ferma anche l’estero sono guai. Il rischio, per il manifatturiero, traspare dalla rilevazione di fatturato e ordinativi realizzata dall’Istat relativa al mese di luglio. A prevalere sono mestamente i segni negativi: il fatturato dell’industria perde un punto percentuale rispetto a giugno e 1,3 punti rispetto a dodici mesi prima (il dato peggiore da ottobre 2013); gli ordinativi perdono 1,5 punti rispetto a giugno e lo 0,7% sul luglio 2013.

Campanelli d’allarme
A preoccupare, al di là del calo generale, sono anche altri due aspetti: il primo è che la flessione dei due indicatori dipende molto dalla frenata dei mercati esteri. A livello congiunturale l’effetto salta agli occhi (-1,4% per il fatturato oltreconfine e addirittura -2,1% per gli ordini); ma anche a livello tendenziale le performance complessive risentono di un rallentamento estero evidente: a luglio i ricavi hanno messo a segno un +0,5% che è poca cosa rispetto al +2,6% di giugno 2014 su giugno 2013. E per gli ordini l’evoluzione è ancora più netta: -0,5% a luglio (nei confronti di luglio 2013) contro +5,2% a giugno. Il secondo aspetto preoccupante è che tra i settori più colpiti da questa gelata estiva ci sono anche quelli che nei mesi scorsi hanno trainato il made in Italy: macchinari (-1,3% il fatturato e -6,2% gli ordini per la meccanica strumentale) e chimica (rispettivamente -5,6% e -6%). Corrono, invece, i mezzi di trasporto (+5,9% il fatturato, +12,8 gli ordini) e l’elettronica (+7,8% e +7,7). A due facce il tessile-abbigliamento (+4,5% e -1,5%).

Recessione mai interrotta
Numeri che accendono un campanello d’allarme anche per Sergio De Nardis, capoeconomista di Nomisma: «Il dato Istat sul fatturato di luglio è in linea con quello, già noto, della produzione industriale. In più, emerge che non è solo il mercato interno a flettere: anche quello estero si è indebolito durante l’estate. Più preoccupante è la rilevazione sugli ordinativi che prefigurano la tendenza futura. Il calo rilevato in luglio segnala la prosecuzione della fase negativa: questi indicatori sembrano puntare a un terzo trimestre peggiore del secondo e dicono che la recessione iniziata a metà 2011 non si è mai interrotta. È solo meno virulenta». Puntuale, è arrivato ieri anche il pessimismo diffuso delle imprese piemontesi, che per il terzo trimestre dell’anno vedono grigio per quanto riguarda produzione e ordinativi.

Macchine utensili in tenuta
I macchinari frenano, secondo l’Istat, ma il comparto è sfaccettato e il segno meno, per fortuna, non è di tutti. Lo dimostrano le performance delle imprese associate a Ucimu (sistemi per produrre e robot): «Nel primo semestre 2014 – dice il direttore Alfredo Mariotti – abbiamo rilevato ordini in crescita del 59,5% sul mercato interno (ma va detto che lo stesso periodo 2013 è stato disastroso), e del 7,8% su quello estero, con una media complessiva di +14,9% rispetto ai primi due trimestri dello scorso anno». Dati più che confortanti, anche se rimane un gap da colmare sul periodo pre-crisi: «Nel primo trimestre 2014 – sottolinea Mariotti – eravamo ancora oltre 8 punti sotto rispetto al 2010».

Vantaggio tecnologico
Tra le pieghe dei numeri dell’Istat e delle performance, pur positive delle macchine utensili si nasconde tuttavia un’insidia a medio termine: la perdita del confronto tecnologico con i paesi competitor. A evidenziarlo è ancora Alfredo Mariotti: «L’età media del parco-macchinari esistente in Italia è di oltre 22 anni. È strategico e indispensabile favorirne lo svecchiamento, anche perché nel frattempo proprio i numeri dell’export dei macchinari indicano che all’estero le aziende si stanno progressivamente evolvendo». Servono, per il direttore di Ucimu e di Federmacchine «misure concrete che affianchino la nuova Sabatini (che peraltro funziona bene) e spingano la sostituzione dei macchinari a valle del nostro sistema; sia per rendere più sicuri e competitivi i luoghi di lavoro, sia per evitare che il nostro manifatturiero perda il vantaggio competitivo che si è costruito».

L’agroalimentare
L’industria alimentare ha limitato i danni rispetto ad altri settori (-1,7% il fatturato), ma secondo Coldiretti hanno pesato «il fatto che gli italiani abbiano tagliato il budget di spesa e l’effetto maltempo su alcuni prodottitipicamente stagionali (gelato, birra, bibite, frutta)». A cambiare, per Coldiretti «è anche il livello qualitativo degli alimenti acquistati con una preferenza per i cibi a basso prezzo».

La tassa-fantasia ha bisogno di una bussola

La tassa-fantasia ha bisogno di una bussola

Mauro Meazza e Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Se la fantasia si traducesse in decimali di Pil, basterebbe la dotazione schierata per Imu e Tasi a farci agganciare il treno della crescita. Le migliaia (sì, migliaia) di variabili che governano le detrazioni per la Tasi dimostrano quanto potenziale immaginativo possa farsi sentire in un terreno che si penserebbe povero di stimoli, come quello del Fisco.

In realtà, la fantasia impositiva dei Comuni viene da lontano ed è stata alimentata soprattutto da due fattori: le strette da parte dello Stato e il continuo traballare delle regole di prelievo. Se partiamo dalla prima Imu (dicembre 2011), non c’è stato un versamento che abbia seguito le stesse regole di quello precedente. Ma la danza era già cominciata con l’Ici, a onor del vero, chiamata ad aggirare la prima casa ma a garantire contemporaneamente gettito sufficiente per i municipi. Primi e pallidi segnali, se guardiamo al pasticcio in cui siamo finiti ora. Tanta fantasia (statale prima e locale poi) non solo non porta decimali alla crescita, ma anzi rischia di sottrarne. Perché, tanto per fare un esempio banale, chi non sa quanto deve spendere per le tasse può prudentemente scegliere di spendere meno per altre voci. L’incertezza costa, è nemica della fiducia e quindi anche delle speranze di ripresa dei consumi.

Nelle prossime settimane, mentre cittadini e professionisti affonderanno nei calcoli della Tasi, ministri e parlamentari saranno chini sui testi della nuova legge di stabilità, che tornerà a occuparsi del fisco del mattone. I pasticci da risolvere sono tanti, a partire dal fatto che senza correttivi la Tasi 2015 sulla prima casa può arrivare al 6 per mille senza detrazioni, polverizzando ogni confronto con la vecchia Imu. Il premier Renzi ha già annunciato un nuovo «tetto», che è indispensabile ma non basta. Quest’anno si è discusso per mesi di limiti pensati con il bilancino in una lotta estenuante fra sindaci e governo, e i risultati si vedono. Nello scrivere le nuove regole, la politica si faccia una domanda: fa più danni al Pil (e ai voti) il conto della Tasi o la montagna di regole cervellotiche che dobbiamo scalare per calcolarlo?

Centomila variabili per calcolare la Tasi

Centomila variabili per calcolare la Tasi

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Meno male che si tratta di un’imposta «unica». Nel suo anno del debutto, la componente immobiliare della «Iuc» – articolata in Tasi più Imu (a cui si aggiunge la Tari per pagare la nettezza urbana) – sfiora il muro delle 200mila aliquote: quelle approvate e pubblicate finora, come mostrano i calcoli di ItWorking (la società del sistema Assosoftware che ha monitorato tutte le delibere comunali), sono 197.350. Il contatore, però, può ancora salire perché per deliberare le aliquote Imu c’è tempo fino al 28 ottobre e mancano ancora 2.500 Comuni all’appello. Il tetto delle 200mila aliquote, addirittura, entro fine anno potrebbe essere sforato.

A far polverizzare ogni record di complicazione è naturalmente la Tasi, il tributo sui «servizi indivisibili» dei Comuni che si incrocia con l’Imu e moltiplica all’infinito le variabili di un’imposta, quella immobiliare, che in teoria sarebbe tra le più semplici da applicare. Fin dall’inizio, però, è stato chiaro che nella Tasi l’unica regola è stata rappresentata dall’assenza di regole, che ha impedito di trovare un qualsiasi parametro chiaro per orientarsi nel nuovo tributo. Anche nel calendario, per esempio, la legge dice una cosa, ma la realtà ne racconta un’altra. Dopo vari correttivi, l’acconto è stato fissato al 16 giugno per un primo gruppo di Comuni, quelli più “rapidi” a decidere le aliquote, e al 16 ottobre per tutti gli altri, con appuntamento al 16 dicembre per il saldo. Nei fatti, però, i Comuni hanno continuato a seguire la disciplina originaria, che non prevedeva date fisse, e spesso hanno scelto scadenze diverse che finiscono per avere la meglio su quelle “ordinarie”.

A giugno, l’incrocio tra date nazionali e calendari locali ha portato a una sostanziale disapplicazione delle sanzioni per chi avesse sforato la scadenza del 16, e anche per l’appuntamento di ottobre è facile pronosticare più di un problema. «Per semplificare davvero – spiega Bonfiglio Mariotti, presidente di Assosoftware – bastano piccoli correttivi che non hanno costi per lo Stato o per gli enti locali. Nel caso di Imu e Tasi sarebbero sufficienti formati standard per le delibere con campi predefiniti per le aliquote, e un limite alla fantasia nelle detrazioni».

Non è solo il numero delle variabili a complicare la vita dei contribuenti, e dei professionisti che li devono assistere. Rispetto all’Imu, che da sola dispiega circa 99.200 aliquote diverse (ma tutte fondate su criteri costanti), i parametri della Tasi si sono sviluppati in nome della “libertà totale” lasciata alle amministrazioni locali. Con risultati spesso cervellotici, e qualche volta paradossali (si veda anche l’articolo in basso). Nel costruire le architetture gotiche della Tasi, i sindaci sono stati animati anche da buone intenzioni. È il caso di chi ha voluto evitare alle abitazioni principali un carico fiscale superiore all’Imu, introducendo decine di detrazioni diverse (a Bologna sono 23) o addirittura formule matematiche per sconti “su misura”. Oppure di chi ha studiato decine di aliquote ridotte per negozi, laboratori artigianali o fabbricati invenduti.

Non è questo, però, a poter giustificare la confusione di un tributo che pare ormai fuori controllo. I conti di Assosoftware confermano, inoltre, che le detrazioni hanno una presenza piuttosto limitata nel campo della Tasi. L’Imu, che esclude la quasi totalità delle abitazioni principali (pagano solo quelle considerate «di lusso» dal Fisco), conta in Italia più di 28mila detrazioni diverse, mentre la Tasi non arriva a 10mila. La rassegna delle delibere mostra, del resto, che solo nel 29% dei Comuni il tributo sull’abitazione principale è alleggerito da detrazioni (i calcoli sono del Caf Acli). Limitati nel numero, gli sconti Tasi non conoscono però confini nella fantasia di applicazione: possono essere graduati o riservati in base al reddito del proprietario, al suo «riccometro» (cioè l’indicatore Isee), all’età, alla presenza di figli, di famigliari disabili, oppure alle caratteristiche della casa. Risultato: le 28mila detrazioni Imu ricadono tutte in 13 grandi tipologie, mentre le famiglie degli sconti Tasi sono incalcolabili perché la stessa ItWorking, dopo aver catalogato 186 variabili, si è dovuta arrendere.

Le complicazioni, infine, non abbandonano nemmeno i contribuenti dei quasi 700 Comuni in cui la delibera non è ancora stata approvata. In quel caso, infatti, la Tasi andrà pagata tutta a dicembre, con l’aliquota standard dell’1 per mille. Per le abitazioni principali questo significa che non ci sono detrazioni, e che quindi tutti (anche chi non ha mai pagato né Imu né Ici) dovranno versare qualcosa. Sugli altri immobili, invece, il dato andrà incrociato con le aliquote Imu, perché la somma delle due gambe della Iuc non può superare il 10,6 per mille. Dove l’Imu è già al massimo, la Tasi non sarà dovuta. Dove è al 10 per mille si pagherà lo 0,6 per mille, e così via. Anche questo aiuta a capire come mai l’invio dei bollettini pre-compilati, promesso dalla legge, è rimasto nell’ampia maggioranza dei casi una pia illusione.

Rimborsi Iva: in Italia si aspettano 2 anni e mezzo, in UK 10 giorni

Rimborsi Iva: in Italia si aspettano 2 anni e mezzo, in UK 10 giorni

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

Due anni e mezzo. Tanto deve attendere, in media, un’impresa in Italia per avere il rimborso dei crediti Iva. Va un po’ meglio – un anno e mezzo – con la procedura semplificata, ma resta un’eternità se si pensa che in Gran Bretagna basta aspettare tra i 7 e i 10 giorni e in Germania appena una decina. Per la stessa operazione in Francia – secondo le stime fornite da Kpmg sui cinque big europei, frutto dell’esperienza sul campo – occorre invece in media un mese, mentre in Spagna l’attesa si dilata a sei. Un divario inaccettabile secondo la Commissione Ue, che nel settembre 2013 ha avviato una procedura di infrazione contro il nostro Paese con l’invio di una “lettera di contestazione”. Roma è fanalino di coda anche nel caso di un’impresa non registrata ai fini Iva nello Stato di rimborso: per il recupero deve aspettare, in media, un anno e mezzo. In questo caso la procedura più veloce è quella francese, dove in appena due mesi la pratica è chiusa.

Come si spiegano queste tempistiche così diverse? «I Paesi più virtuosi, come Gran Bretagna e Germania – sottolinea Davide Morabito, Associate Partner KStudio Associato (Kpmg) – hanno un’attività istruttoria molto rapida e snella, quasi automatica, e prevedono controlli successivi. Una peculiarità italiana è invece la necessità di presentare garanzie bancarie o fidejussioni di tre anni come condizione per ottenere il rimborso». Un ostacolo in più, rileva Morabito, soprattutto per le aziende in difficoltà, che per queste garanzie devono sostenere costi aggiuntivi.

Nel frattempo l’Italia è sotto procedura di infrazione da parte della Ue. «Le autorità italiane – spiegano da Bruxelles – ci hanno risposto e i contatti proseguono». Per chiudere il contenzioso il governo ha introdotto nell’attuazione della delega fiscale (ancora in elaborazione) uno snellimento delle regole. Occorrerà però vedere se, una volta approvate, soddisferanno la Commissione e riusciranno a evitare il “cartellino rosso”, con la messa in mora, seguita dal deferimento alla Corte di giustizia Ue. Le nuove regole puntano sulla semplificazione, innalzando da 5 a 15mila euro la soglia per ottenere i rimborsi senza adempimenti. Per alcune categorie di contribuenti sarà inoltre possibile richiedere il rimborso del credito oltre 15mila euro senza presentare garanzie, ma occorreranno il visto di conformità e le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà. Queste misure, come ha dichiarato in sede di audizione parlamentare il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, consentiranno lo sblocco di 22mila rimborsi. Sempre in sede di audizione, a fine luglio la semplificazione è stata definita «positiva e apprezzabile» dal presidente del Comitato tecnico per il fisco di Confindustria, Andrea Bolla, che ha però invitato a «ripensarne l’attuazione». Secondo Confindustria, infatti, la misura «non è in grado di incidere in modo significativo sul costo degli adempimenti di soggetti che vantano crediti di entità molto maggiore»: se da un lato si fa risparmiare alle imprese il costo della garanzia fideiussoria, dall’altro si sostituisce di fatto questo onere con un altro.

Sul fronte dei tempi l’Italia procede dunque a rilento, ma si cominciano a intravedere alcuni miglioramenti su quello delle erogazioni. Nel 2013, secondo i dati dell’agenzia delle Entrate, sono stati rimborsati 11,5 miliardi contro i 6,8 del 2012. Da gennaio all’inizio di settembre di quest’anno si è invece arrivati a quota 5 miliardi. Allargando il focus su 65 Paesi, si scopre che il sistema italiano è in buona compagnia. Secondo un recente studio di Kpmg, infatti, solo il 40% degli Stati restituisce l’Iva per i soggetti residenti in tempi ragionevoli (che non superano i 56 giorni) e con procedure efficienti. Di questo gruppo fanno parte undici Paesi della Ue tra cui, oltre alle già citate Gran Bretagna e Germania, anche Irlanda, Austria e Olanda. L’Italia si situa invece nel restante 60%, insieme a Francia, Grecia, Spagna e Portogallo. «Questa lentezza – conclude Morabito – è un grande ostacolo per le imprese e rischia di scoraggiare gli investimenti esteri. L’Iva è una componente fondamentale delle scelte strategiche delle multinazionali, perché ha un impatto diretto sul conto economico e diventa dunque un fattore di competitività».

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Circa quarant’anni fa, in un’Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati. Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all’evoluzione della sinistra.

Questo per dire che non c’è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro. Nell’Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall’estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest’ultimo decida di vivere nel nostro tempo.

In ogni caso, quello che risulta essere – e in effetti è – un grave ritardo nell’aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent’anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l’alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto.

Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un’Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso. Anche perché l’attuale sinistra – che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato – dovrebbe avere tutto l’interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l’impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini).

Una lotteria delle tasse che deprime il mercato

Una lotteria delle tasse che deprime il mercato

Saverio Fossati – Il Sole 24 Ore

La fiscalità immobiliare è diventata una lotteria, affidata alle mani di amministratori pubblici che probabilmente non considerano gli effetti delle loro decisioni. I continui mutamenti normativi, e la crescente autonomia dei Comuni, stanno creando una situazione di disparità e di incertezza, con effetti pesanti sul mercato immobiliare. Non si tratta, infatti, di considerare solo il generale gravame fiscale sul mattone, che ha già creato una forte diffidenza da parte dei proprietari sulla convenienza di una locazione (e di questa diffidenza sarà vittima anche il bonus, nuovo di zecca, per chi compra case nuove e le affitta per otto anni) ma di rendersi conto che lo stesso tipo di immobile, nello stesso tipo di Comune, paga imposte diverse, senza che ci sia un perché razionalmente comprensibile.

Se già le aliquote Imu si differenziano pesantemente da città a città, ora la Tasi aggiunge al panorama un elemento di disturbo (attraverso le complicazioni cui il contribuente è chiamato a far fronte) e di onerosità. Viene da chiedersi come sia possibile che per una casa affittata il proprietario possa pagare un’aliquota Imu che va dal 10,6 per mille a meno della metà, e che magari debba sopportare tutto il peso della Tasi mentre nel Comune confinante il 30% va a carico dell’inquilino. Costruire in un Comune medio-grande dove le imposte annuali sulla seconda casa locata siano, alla fine, il doppio che in un altro, vuol dire semplicemente creare le condizioni per non avere domanda. Non viene qui messo in discussione il principio dell’autonomia finanziaria, che poi si traduce, in pratica, nello scaricare sul mattone le difficoltà gestionali degli amministratori. Ciò che sorprende è l’incapacità di prevedere che, a parità di condizioni, chi deve costruire, a bocce ferme, lo farà nel Comune più conveniente, perché sarà lì che gli investitori potranno pensare di comprare una casa da mettere a reddito.

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

«Attenzione, l’articolo 18 riguarda 9 milioni di rapporti di lavoro dipendente su 18 milioni, quindi è una protezione che riguarda meno della metà dei dipendenti italiani» ha affermato ieri mattina ai microfoni di Radio24 il giuslavorista e senatore di Scelta Civica, Pietro Ichino. Un dato incontrovertibile. Ma che fotografa un “mondo immobile”, per usare un’espressione cara a Robert Lucas, teorico assertore della capacità della politica economica di mutare quadri apparentemente immutabili.

Se dai dati di stock volgiamo lo sguardo ai flussi, quelli che fotografano mese dopo mese con quali contratti si entra nel mercato del lavoro, scopriamo che i rapporti sono molto diversi. E che anche se le cose non cambiassero a lungo andare quei 9 milioni sono destinati a ridursi molto velocemente. Vediamo i dati relativi alle comunicazioni obbligatorie del secondo trimestre dell’anno. Dati buoni nonostante la crisi perché, come ha segnalato l’Isfol a fine agosto, segnalano un aumento delle assunzioni (+3,1% su base annua con circa 2.651.000 avviamenti), centrando il il miglior dato dal secondo trimestre del 2012. Ebbene quelle nuove assunzioni sono avvenute per oltre l’80% con contratti flessibili, per i quali non si applica l’articolo 18. Le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sfiorano appena il 15%, gli apprendistati il 3,1%, tutto il resto è flessibile. Per capire il decrescente peso relativo dell’articolo 18 bisogna poi considerare che solo una parte di quel 15% di assunzioni standard è avvenuta in un’azienda con più di 15 dipendenti, unico ambito in cui oggi vale la tutela reale contro i licenziamenti senza giusta causa. Insomma se oggi l’articolo 18 vale per meno la metà dei dipendenti la sua prospettiva sembra ancor peggiore, a dimostrazione di come il dibattito politico nazionale sia sempre inversamente proporzionale agli effetti pratici che una norma ha sulla vita delle persone.

Detto che il superamento dell’articolo 18 riguarda dunque una minoranza di lavoratori c’è ora da chiedersi se servirà a migliorare la qualità del lavoro, ovvero se il Governo vincerà la scommessa che si è dato con la “strategia Poletti”. Come hanno ben riassunto in un loro scritto su lavoce.info gli analisti Isfol Emiliano Mandrone, Manuel Marocco e Debora Radicchia, la strategia prevede «una prima liberalizzazione del rapporto di lavoro a termine (più quantità) e poi una complessiva semplificazione, con l’introduzione del contratto unico a tutele progressive (più qualità), sperando che la prima tamponi l’emergenza e la seconda sia sostenuta dalla ripresa economica». Prima è arrivato il decreto che ha cancellato le causali e ora dobbiamo aspettare il decreto legislativo che attuerà l’articolo 4 del Jobs Act.

Per sapere se funzionerà bisognerà aspettare e leggere i futuri andamenti del mercato del lavoro, le comunicazioni obbligatorie e, soprattutto, la lettura longitudinale del panel Isfol-Plus che seguirà. I tecnici dicono che già nel primo trimestre di applicazione delle nuove norme si potranno intravvedere segnali concreti, anche se non ancora molto significativi. Dopo 12 mesi si capirà invece meglio se la strategia ha funzionato. In questo caso non vedremo solo più assunzioni con contratto a tempo indeterminato, incoraggiate dal superamento dell’articolo 18. Vedremo anche un rafforzamento del “ruolo di ponte” svolto dai contratti non standard, quando essi assicurano poi una trasformazione a contratti standard. Quel “ponte”, come dimostrano gli analisti Isfol, è stato colpito dalla crisi: se tra il 2005 e il 2006 il 37,5% dei contratti flessibili si trasformava in contratti a tempo indeterminato, tra il 2010 e il 2011 quella percentuale è scesa di 5 punti, al 32,8%.

Il contesto sarà più difficile, perché il mercato del lavoro è diventato in generale più freddo sulle nuove assunzioni, avendo cumulato un calo degli occupati del 4,2% tra il 2008 e il 2013, l’equivalente di un milione di posti in meno. Ma se la “strategia Poletti” riuscirà a centrare l’obiettivo con la «certezza delle non reintegra in caso di licenziamento illegittimo», allora più contratti flessibili potranno essere trasformati in standard e il “ponte” tra quantità e qualità verrà ricostruito.

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Il Sole 24 Ore

Dal salotto di Porta a porta lo scorso marzo il premier Matteo Renzi aveva scommesso con il conduttore: «Il 21 settembre a San Matteo, ultimo giorno d’estate, se abbiamo sbloccato tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Quel giorno è arrivato: Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo, gli imprenditori italiani no. «La tappa del 21 settembre ci vede ancora distanti dal traguardo», nota il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti: all’appello mancano 21,4 miliardi di euro perché al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, pari al 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014. «La promessa non è stata mantenuta», gli fa eco Giuseppe Bertolussi, presidente della Cgia di Mestre: «Lo Stato italiano rimane il peggior pagatore d’Europa». Per la Cgia, in tutto, i fondi resi disponibili nel biennio 2013-2014 ammontano a 56,8 miliardi, ma alle aziende sono stati pagati soltanto 26,1 miliardi, più gli altri 5-6 miliardi che secondo il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sarebbero stati versati dopo il 21 luglio. Insomma: restano da saldare altri 24-25 miliardi.

Debiti commerciali della Pa al 3,3% del Pil
Merletti riconosce gli sforzi compiuti negli ultimi due anni, «che hanno portato a un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma ricorda che «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti commerciali della Pa, pari al 3,3% del Pil.

La piattaforma per certificare i crediti sconosciuta ai più
Secondo un sondaggio Ispo-Confartigianato condotto su un campione di Pmi, il 61% non sa dell’esistenza della piattaforma governativa web che consente di certificare i crediti commerciali vantati nei confronti della Pa e farsi scontare le fatture in banca (è in virtù di questo sistema che Renzi e Padoan considerano mantenuta la promessa). Del 39% che la conosce, l’ha utilizzata il 9%, che la promuove con un voto più che sufficiente. Gli altri sono scettici sulla sua efficacia e temono che la certificazione allunghi ancora i tempi di riscossione. In cifre, le registrazioni alla piattaforma all’8 settembre risultano 15.613, aumentate al ritmo di 49 imprese al giorno dal 24 agosto. Le istanze di certificazione sono 56.189, per un importo complessivo di 6 miliardi e un importo medio di 107.762 euro.

Scendono i tempi medi di pagamento
Se sul fronte dei debiti arretrati prevale l’incertezza, va molto meglio la situazione dei tempi di pagamento della Pa. L’indagine Ispo-Confartigianato mette in luce come in media tra gennaio e settembre 2014 gli enti pubblici siano passati da 104 a 88 giorni. A sorpresa, gli enti più “virtuosi” sono le Asl che riescono a saldare le fatture in 75 giorni, rispetto ai 106 rilevati a gennaio. Più lenti i Comuni (89 giorni, contro i 104 di inizio anno). Resta peggiore in generale l’attesa al Sud, dove la pubblica amministrazione impiega 108 giorni per saldare le fatture alle imprese (erano 122 a gennaio).

Ma i 30 giorni restano una chimera
Nonostante l’accelerazione, Confartigianato rileva come la meta dei 30 giorni imposti dalla legge in vigore dal 1° gennaio 2013 resti molto lontana. Appena il 15% degli imprenditori interpellati dichiara di essere stato pagato entro un mese, mentre soltanto l’8% delle imprese sostiene di non aver ancora riscosso il credito. Sale peraltro dal 12 al 19% la quota di imprese che segnala comportamenti anomali da parte della Pa, come la richiesta di ritardare l’emissione delle fatture, la pretesa di remissione, la contestazione pretestuosa dei beni e servizi forniti.

Sotto tiro anche gli altri fabbricati

Sotto tiro anche gli altri fabbricati

Il Sole 24 Ore

Non solo prima casa. In una città su due, la Tasi colpisce anche gli immobili diversi dall’abitazione principale. Come dimostrano le elaborazioni del Caf Acli sulle delibere ufficiali, in più di 3.800 Comuni su 7.405 la nuova imposta sui servizi indivisibili comunali si aggiunge all’Imu sugli immobili locati, i fabbricati produttivi, le aree edificabili, gli edifici rurali strumentali. Le regole locali variano secondo molte sfumature, ma la sostanza è che la Tasi – oltre a essere l’erede dell’Imu sulla prima casa – costituisce spesso una sorta di addizionale impropria dell’Imu: stessa base imponibile, identico limite di prelievo dato dalla somma delle due aliquote e scadenze di versamento parzialmente allineate (acconto Tasi al 16 ottobre per i Comuni che non avevano deliberato a maggio, saldo Tasi e Imu al 16 dicembre per tutti i contribuenti).

L’aliquota media della Tasi sugli “altri immobili” è pari all’1,31 per mille. Lontana dall’1,95 per mille della Tasi sull’abitazione principale, ma pur sempre al di sopra del livello base dell’1 per mille. Oltretutto, in questo caso bisogna considerare che c’è anche un limite generale fissato dalla legge, per cui la somma di Tasi e Imu può superare il 10,6 per mille solo se il Comune sfrutta il margine di aumento straordinario dello 0,8 per mille, con un tetto massimo dell’11,4 per mille. È probabile, quindi, che molti dei Comuni che non hanno istituito la Tasi sugli immobili diversi dalla prima casa avessero già l’Imu al massimo e non abbiano voluto fare una sorta di “scambio” tra i due tributi.

A complicare il quadro c’è il fatto che molti Comuni hanno previsto aliquote differenziate tra le diverse tipologie di “altri immobili”, modulando il prelievo in modo diverso – ad esempio – tra abitazioni locate, case sfitte, negozi, capannoni e così via. Sugli immobili affittati, ad esempio, l’aliquota media è pari all’1,33 per mille, mentre la quota a carico dell’inquilino ammonta al 18,4% e si piazza a metà della forchetta dal 10 e il 30% prevista dalla legge. A quanto pare, molti amministratori locali si sono discostati dalla quota minima – che secondo le previsioni della vigilia avrebbe dovuto essere la più usata – per evitare che l’imposta dovuta si riducesse a pochi spiccioli, finendo così sotto la soglia minima di versamento e diventando quasi impossibile da riscuotere in caso di mancato pagamento. È tutto da dimostrare, però, che l’aumento della quota a carico dell’inquilino sia sufficiente a superare questo difetto di costruzione del tributo: oltretutto, a dover pagare non solo gli inquilini, ma gli occupanti in generale, e quindi anche i comodatari, che detengono un immobili in prestito dai parenti, i titolari di contratti di leasing, le badanti e i conviventi non sposati con il proprietario.

La liquidità da sola non basta

La liquidità da sola non basta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Ci sono limiti a quello che la politica monetaria può fare, oltre i quali spetterebbe alla politica fiscale dei governi intervenire, sostenere direttamente l’economia e la domanda aggregata. Il modesto esito della prima operazione di credito mirato e a lungo termine (Tltro) è probabilmente una testimonianza dei limiti della Bce. Quella di ieri non rappresenta una lezione conclusiva, vi sono infatti anche ragioni tecniche dietro al collocamento di solo metà dell’ammontare di crediti che era stato stimato.

Tuttavia la bassa domanda per prestiti quasi senza costo, di durata lunga e da destinare alle imprese, inevitabilmente accentua i dubbi sullo stato dell’economia reale e sulla possibilità che sia la politica monetaria a scioglierli. Nella media dell’area euro il credito alle piccole e medie imprese non è più limitato dalla disponibilità di fondi quanto in passato, ma pesa un’incertezza ancora grave sul futuro.

Il rischio di deflazione, per esempio, renderebbe il livello dei tassi reali non così favorevole come sembra. Inoltre è ancora in corso un processo di riduzione dei debiti, e questo comprime l’effetto di ogni politica monetaria espansiva. Alla fine la maggiore offerta di credito finisce per essere poco utile alla crescita, o secondo la nota metafora, finisce per spingere invano una corda.

Nelle statistiche europee spicca la coincidenza tra debolezza del credito bancario e degli investimenti. Nei paesi europei più vulnerabili d’altronde le condizioni incerte dei debitori pesano sia sull’offerta sia sulla domanda di credito e la caduta degli investimenti è stata particolarmente forte. Ma chi si aspettava più adesioni all’offerta della Bce, osserva che nell’operazione di ieri si sono fatte sentire soprattutto le defezioni delle banche di paesi non della periferia. Alcune di esse hanno voluto evitare di apparire bisognose di fondi proprio alla vigilia della valutazione dei bilanci. Ma in realtà sono mesi che, nonostante la disponibilità di denaro a buon mercato, il credito non sta crescendo nemmeno nei paesi più solidi dell’area euro.

La scarsa domanda di credito delle banche dei paesi più saldi si aggiunge alla diagnosi di chi ritiene che l’area dell’euro sia scivolata in una trappola della liquidità; che i problemi dell’economia siano soprattutto nel vuoto di investimenti; o si nascondano in un’incertezza più insidiosa sul futuro dell’Europa che affonda le sue radici sotto l’intero territorio economico dell’euro-area. Se è così, è possibile che anche altre iniziative della Bce – l’acquisto di titoli da cartolarizzazione (Abs) o perfino quello di titoli sovrani – abbiano un impatto insufficiente su un’economia reale che non vuole investire e non può consumare.
Prima di trarre conclusioni bisognerà attendere che si chiarisca tra poche settimane lo stato delle banche europee, con l’esito dell’analisi dei bilanci e la revisione degli attivi. A quel punto sarà chiaro quali istituti avranno bisogno di ricapitalizzarsi. Per banche più solide sarà possibile assumersi il rischio tipico delle fasi di transizione dell’economia, l’asimmetria informativa che durante le crisi rende più difficile al creditore valutare le reali prospettive del debitore. Ma a patto che si riesca a ricostruire un po’ di fiducia nel futuro. E per farlo non è indispensabile fare davvero tutte le cose inutili prima di fare quella necessaria: senza rilanciare la fiducia, le aspettative non possono cambiare.

Non è un compito che si può lasciare solo alla Bce. L’operazione di ieri getta anzi un’ombra sull’obiettivo della Bce di aumentare rapidamente il proprio bilancio. La quantità di credito che la Bce intende immettere nei prossimi mesi è davvero grande, poco meno di mille miliardi di euro. Ma nelle complesse circostanze attuali, l’effetto dell’offerta di credito non sembra dipendere dal volume, quanto dall’effettivo beneficio per il debitore: può essere il trasferimento di rischi a carico del creditore oppure un costo del denaro eccezionalmente conveniente. In entrambi i casi, la politica monetaria tenderebbe però ad assumere caratteri fiscali, che spetterebbero invece ai governi. Quando la Bce ha chiesto ai governi di farsi carico dei rischi dei titoli cartolarizzati, la risposta di Germania e Francia è stata negativa, come se si fosse ormai accettato che la politica fiscale comune finisca nascosta dentro al bilancio della Banca centrale. Non è un buon modo per convincere i cittadini, i risparmiatori e gli investitori, ad avere fiducia nella volontà politica europea.