il sole 24 ore

Ora servono misure di soccorso efficaci

Ora servono misure di soccorso efficaci

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

«L’insània negli individui è qualcosa di raro – ma nei gruppi, nelle nazioni e nelle epoche, è la regola». Questa massima di Friedrich Nietzsche è sempre di attualità, come si vede nella tragedia di Gaza, e – in modo meno sanguinolento – nelle politiche di austerità in Europa. Basta guardare alle cifre. In queste pagine abbiamo documentato, per molte variabili del nostro benessere (o malessere) economico, la distanza (tanta, troppa) fra la situazione attuale e quella del passato. Il “come eravamo” si declina in un salto del gambero, non in un nostalgico “Amarcord”. Stiamo tornando indietro e, quel che è più grave, questo regresso non è la fase discendente dello yo-yo, ma una discesa che rende più difficile la risalita.

In termini economici, una disoccupazione a questi livelli porta a un deterioramento del capitale umano: si manifesta come disoccupati scoraggiati che escono dalla forza lavoro e/o come un arrugginirsi delle abilità. Le misure attive di sostegno al lavoro (formazione e altro) in Italia sono meno diffuse e meno efficienti rispetto ad altri Paesi. E quel che abbiamo appena definito come “arrugginirsi delle abilità” non riguarda solo i singoli, ma interi settori in cui il know how si va sfilacciando fino a scomparire. Ma ancora più importante, in questo regresso dell’economia, è l’aspetto psicologico. L’intera vicenda del dopoguerra, con la miracolosa impennata dell’attività economica, aveva avuto come causa ed effetto la “rivoluzione delle aspettative crescenti”: ogni generazione, ogni figlio e ogni figlia, avevano la speranza e l’attesa di migliorare il tenore di vita rispetto a quello dei genitori. Questa convinzione diventava molla e motore del progresso: lo sforzo aveva una ricompensa. Ma se la rivoluzione delle aspettative crescenti inverte la marcia, perché sforzarsi? Ottimismo e attivismo cedono il passo a rassegnazione e apatia. Viene gettata la maschera di uno sviluppo senza fine e i ruggiti si trasformano in guaiti e lamenti.

L’Italia aveva i suoi problemi anche prima della Grande recessione. Ma quando questa allargò le sue ali uncinate sull’economia, quando all’urto del tifone recessivo succedette la coda velenosa della crisi da debiti sovrani, l’unica risposta che l’Europa seppe dare – e il problema non era e non è solo italiano – fu quella di un’austerità a senso unico. Ancora oggi viene chiesto all’Italia di versare altro sale sulle ferite dell’economia: proprio quando l’economia continua nella sua marcia del gambero, proprio quando – si veda il dato ultimo sulla produzione industriale – la nostre fabbriche sfornano un quarto e passa in meno rispetto ai massimi precedenti, si chiede all’Italia di stringere di più la politica di bilancio. Torna alla mente l’insània dei mandarini del Tesoro americano nei primi anni Trenta quando, di fronte all’evidenza di fallimenti e disoccupazione, sostenevano che lo Stato doveva dare il buon esempio e far quadrare i suoi conti, aumentando le imposte e diminuendo le spese.

È vero, l’ossessione di oggi, presso i sostenitori dell’austerità, è un po’ più sofisticata di quella di allora. Il ragionamento è questo: se non insistiamo sull’austerità, i Paesi in deficit non fanno le riforme che li aiuterebbero a crescere. Allora, pur se la nostra insistenza sembra crudele (“tough love”, direbbero gli anglosassoni), siamo in fondo dei burberi benefici. Il difetto di questo ragionamento è nel manico, sta in un serio problema di miopia. Le riforme, quand’anche si facessero oggi, prendono tempo a esplicare i propri effetti, mentre l’economia ha bisogno di un soccorso hic et nunc. Se questo soccorso non viene – anzi, se le viti del bilancio vengono strette ancora – l’emorragia continua e diventa più difficile introdurre riforme. La gente vede le regole europee come una camicia di forza e non come un obiettivo virtuoso. Così il cerchio si chiude, in uno stallo disperante di azioni e reazioni.

Come uscire da questo circolo vizioso? Una via è quella di annunciare unilateralmente un rinvio degli obiettivi di pareggio, come ha fatto la Francia. Ma la via maestra è un’altra: non quella delle punzecchiature, ma quella della politica alta. Eliminare la discrasia dei tempi – riforme a tempi lunghi, soccorso a tempi brevi – con un atto di fiducia. Accettare, da parte di una Commissione bruxellese eterodiretta dalla governante teutonica, un allentamento delle regole e dare fiducia ai Paesi nell’adozione delle riforme. Riforme che in ogni caso, come ha detto più volte Matteo Renzi, dobbiamo fare per il nostro bene, non perché ce lo impone l’Europa. Ma la fiducia è una merce scarsa nella politica europea. Purtroppo, Nietzsche aveva ragione.

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

ilsole24ore.com

Presto al pettine il nodo del Jobs Act, la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Martedì la commissione Lavoro del Senato esaminerà le proposte di modifica dell’articolo 4, che riguarda lo Statuto e che delega al Governo il riordino delle forme contrattuali. I partiti centristi della maggioranza (e Renzi) vorrebbero inserire le modifiche sui licenziamenti per le imprese che superano i 15 dipendenti, mentre la sinistra Pd chiede di non modificare il perimetro della delega. Obiettivo del Jobs Act, in Aula a palazzo Madama del 23 settembre, è modernizzare il mercato del lavoro, che secondo un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati del World Economic Forum è ultimo per efficienza in Europa (e in particolare nelle modalità di assunzione e licenziamento) e 136mo su 144 censiti nel mondo.

Donne e lavoro, confermato il 93° posto (su 144) 
Nella classifica dell’efficienza il nostro mercato del lavoro si piazza infatti poco sopra a Zimbabwe e Yemen, e viene superato da Sri Lanka e Uruguay. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale, e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore, così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

Efficacia, Italia fanalino di coda in Europa 
La performance del nostro mercato del lavoro è negativa anche per i parametri relativi all’efficacia, che ci vedono tra gli ultimi nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, rileva ImpresaLavoro, «siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario (contrattazione nazionale prevalente su quella decentrata). Siamo anche il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività e per l’alto livello di tassazione sul lavoro.

Solo i fatti salvano l’Europa

Solo i fatti salvano l’Europa

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

In Europa la ripresa non si vede, 27 milioni di disoccupati, invece, sì. Tutte le grandi aree del mondo crescono. Tutte, tranne l’eurozona dove negli ultimi 7 anni gli investimenti sono crollati del 20%. Le previsioni di Bruxelles dicono che nel prossimo decennio la crescita europea media sarà la metà di quella americana: non supererà l’1%. Se questo è vero e, se è vero come è vero che per esempio la sostenibilità del debito italiano passa per un tasso di sviluppo minimo del 2,6%, la vera malattia da curare si chiama sviluppo. La diagnosi è chiara, la terapia meno.

A Milano però i ministri delle Finanze Ue hanno provato a elaborarne una in tre mosse: la politica monetaria, misuratamente espansiva, è essenziale ma non basta. Ci vuole una corretta politica fiscale che permetta di scavare negli spazi flessibili del patto di stabilità senza minarne la credibilità. E ci vogliono le riforme strutturali per rimuovere tutti gli impedimenti che, ostruendo i canali dello sviluppo, scoraggiano il flusso dei capitali interni ed esteri. Messo così, il nuovo teorema europeo dello sviluppo suona bene. Tanto più che presto potrebbe avere il sostegno di un articolato piano di investimenti da circa 300 miliardi: ci lavoreranno da domani Commissione Ue e Banca europea degli investimenti. Per approntare una proposta entro l’anno.

Tante le idee da esplorare. Ma con un distinguo, avverte il commissario Ue Jyrki Katainen: quei 300 miliardi verranno per una quota dai mercati ma per il resto non saranno denaro fresco ma riciclato dai fondi esistenti nel bilancio europeo. Minimi o nulli i contribuiti dei bilanci nazionali perché tutti poveri di risorse, escluso quello tedesco che pare orientato però più a risparmiare che a spendere, nonostante i reiterati appelli di Bruxelles ai paesi in surplus perché investano a sostegno della domanda europea. La liquidità privata invece abbonda anche se, in assenza di riforme, è restia a scommettere su un pianeta sclerotico, poco coeso e strutturalmente poco competitivo. Allora vera svolta a Milano? Il sostanziale immobilismo sugli investimenti comuni non è estraneo alla stagnazione europea. Nella convinzione che solo le riforme strutturali siano il vero volano di una crescita sana e duratura, sia pure con ricadute positive dopo 3-4 anni dalla loro attuazione. Domanda: può l’Europa continuare a convivere ancora tanto a lungo con l’emergenza crescita e disoccupazione facendo al tempo stesso riforme costose per i Governi e i cittadini coinvolti? Finora la risposta dell’ortodossia tedesco-nordica è stata sì per due motivi: la radicata (anche se spesso motivata) sfiducia tra gli Stati membri e tra questi e le istituzioni Ue. La clamorosa mancanza, 7 anni dopo lo scoppio della crisi dell’euro, di una diagnosi comune della crisi e quindi dei rimedi da adottare, cioè di una politica economica condivisa. Il nocciolo dell’equazione impossibile è stato tutto qui.

Lo conferma la cronaca recente. Di fronte alle omissioni riformiste di Francia e Italia, la Germania tira dritto: pretende il rispetto dei patti di stabilità e ostenta i dividendi delle sue virtù, a cominciare dal doppio surplus di bilancio e dei conti correnti, che accumula e non redistribuisce perché convinta che sarebbe denaro sprecato, peggio, incentivo ai soliti noti a non fare le riforme. I paesi del sud che hanno già fatto sacrifici pesantissimi e cominciano a raccogliere qualche frutto, Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, a loro volta non sono disposti a vedere risparmiato ad altri il loro calvario. Obtorto collo, l’Italia si adegua, anche perché la dimensione del suo iper-debito non le consente di fare altrimenti. E perché le riforme sono nel conclamato interesse nazionale prima che europeo. La Francia invece a parole ripete che rispetterà le regole, nei fatti le viola e mette l’eurozona di fronte al fatto compiuto. Dietro gli opposti estremismi in campo ci sono non solo divergenti interpretazioni delle ragioni della crisi e delle strade per uscirne. C’è una percezione diversa degli interessi comuni, la stanchezza diffusa verso una Europa avvertita dagli uni come gelido riformatorio, dagli altri come un insensato “bancomat” a disposizione di chi non sta ai patti. Con la Francia di Hollande che ha il paese contro e il consenso al 13%, sono politicamente fattibili riforme notoriamente impopolari e che comunque daranno benefici solo nel medio termine? Davvero la Germania e l’Europa possono correre il rischio di portare Marine Le Pen e il suo Front Nazional al Governo? I dilemmi di Matteo Renzi sono un po’ diversi ma i tempi di attuazione delle sue riforme rischiano di non coincidere con le tabelle di marcia del calendario europeo. Anche la Germania oggi ha bisogno di più crescita, compresa quella degli altri europei. Urge dunque un esercizio di moderazione e di buon senso generale. La svolta di Milano sugli investimenti, ammesso che alla fine non si riveli l’ennesima delusione di una lunga serie, potrebbe esserne il segnale. Anche se, per riconciliare davvero l’Europa restituendole la crescita insieme a un sentimento di fiducia reciproca, di strada da fare e di ostacoli da superare ne restano ancora molti. Forse troppi.

L’Italia non tema la vigilanza

L’Italia non tema la vigilanza

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

I ministri finanziari della Uem e della Ue, nelle recenti riunioni milanesi, hanno prefigurato “nuove” politiche economiche per ricomporre crescita, riforme, rigore e per evitare all’Europa una lunga stagnazione-deflazione. Il ministro dell’economia Padoan, quale presidente di turno di Ecofin, vi ha contribuito non poco malgrado la nostra debole posizione. Per favorire la crescita e l’occupazione sono stati messi al centro gli investimenti (a dimensione prevalentemente europea) e la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro(nei singoli Paesi). Speriamo che si passi presto all’azione.

Finanziamento degli investimenti. Per le politiche europee si è rafforzata la posizione che il rilancio della crescita passa da un partenariato pubblico-privato con un ruolo più importante della Bei che assuma anche maggiori gradi di rischio su varie filiere precisate da proposte franco-tedesche ed italiane. Si tratta dei finanziamenti agli investimenti sia delle imprese sia delle infrastrutture con ampio coinvolgimento del settore privato e creando anche un fondo ad hoc in cui convogliare risorse e potenziando le Casse depositi e prestiti dei vari Paesi. La complementarietà di queste posizioni, la loro natura di interventi a scala prevalentemente europea, che ricadono positivamente sui singoli Paesi membri, è chiara e non è nuova. La novità è invece politica perché in passato è stata proprio la concordia (sotto la guida e la vigilanza tedesca) dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, della Commissione e del Consiglio Europeo che ha consentito l’affermarsi della linea del rigore senza attenzione alla crescita e all’occupazione. Se adesso davvero si darà un forte impulso agli investimenti in infrastrutture (materiali e immateriali, purchè di qualità) raccogliendo risorse finanziarie nel mercato attraverso Enti Pubblici Europei e/o con garanzie pubbliche, allora l’Europa uscirà ben presto dalla crisi. Su queste colonne Beda Romano ha segnalato che anche la Germania dovrebbe aver capito la necessità di questi interventi sia pure come ponte pubblico per ovviare le carenze del mercato. Bisogna inoltre evitare che l’enorme liquidità in circolazione (e che aumenterà con i prefigurati interventi della Bce) crei pericolose bolle finanziarie che darebbero un’altra mazzata all’Europa.

Progetti e Commissione. Bisogna anche evitare di perdere tempo ad elaborare nuovi progetti essendoci già i programmi di Europa 2020, quelli sulle TransEuropean networks, quelli del quadro finanziario pluriennale 2014-2020. Negli stessi si tratta, in modo diretto o indiretto, di investimenti infrastrutturali europei nell’ordine dei 2.000 miliardi di euro nei prossimi 15-20 anni. È positivo che di questo abbia tenuto conto il neo presidente della Commissione europea Juncker nel suo “programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico” dove si è data una forte rilevanza ai sistemi europei di infrastrutture integrate con un potenziamento dei finanziamenti (via bilancio comunitario, Bei, partenariato pubblico-privato, nuovi strumenti finanziari di impresa) per mobilitare 300 miliardi di investimenti in tre anni. Preoccupa invece che la Vice presidenza della Commissione europea per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la compatitività sia stata affidata a Jyrki Katainen che coordinerà, anche con poteri di veto, l’attività di tutti gli altri commissari con competenze economiche. Prudenza vuole che i giudizi non siano affrettati anche se nel suo breve periodo quale Commissario agli affari economici e finanziari Katainen ha fatto di tutto per rafforzare il plateale rigorismo del suo predecessore Olli Rehn in tal modo facendo di fatto leva sul sostegno dei rigoristi tedeschi. Qui non possiamo tacere il nostro rammarico che a quella carica di vice presidente, il Presidente Renzi non abbia candidato Marco Buti che in un ruolo di coordinamento di altri Commissari non avrebbe probabilmente trovato ostacoli date le sue forti credenziali europee.

Detassazione, rigore, riforme. Qui è stata netta la posizione dell’Eurogruppo (che amplia quella di luglio) sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale sul lavoro anche perché nella Uem si combina con una tassazione totale ben sopra quella della media Ocse. Questo danneggia la ripresa economica e dell’occupazione, i consumi e l’offerta di lavoro, la competitività e la profittabilità delle imprese. La proposta dell’Eurogruppo viene ben collocata in quattro coordinate da declinare sui singoli Paesi. E cioè: quella della semplificazione tributaria e della selezione di componenti del cuneo da ridurre per tipologie di lavoro e per massimizzarne l’effetto; quella delle riforme per l’efficienza dei mercati del lavoro; quella della consenso politico e sociale, da ottenere con la giusta gradualità, per la riallocazione del gravame fiscale; quella del rispetto dei vincoli di bilancio prescritti dal Patto di stabilità e di crescita o aumentando altre imposte o riducendo le spese pubbliche improduttive. Qui l’Italia ha un grosso problema visto che negli anni passati ha continuato ad aumentare la pressione fiscale invece di ridurre gli sprechi pubblici con effetto molto negativo sulla crescita. Riteniamo quindi che una mera riallocazione della pressione fiscale senza tagli agli sprechi avrebbe effetti limitati sulla crescita e la competitività italiana. Così come sappiamo che l’Italia necessita di tante altre riforme su cui regolarmente il Sole 24 Ore si intrattiene e su cui il Governo Renzi deve impegnarsi a fondo lasciando in secondo piano successi pura immagine.

Una conclusione italiana. Ciò detto, visto che l’economia italiana va male, dobbiamo contrattare adesso e subito con le Istituzioni europee margini di flessibilità nel bilancio a fronte di rigorosi impegni contrattuali a fare le riforme sotto il controllo della Ue. Polemiche o dichiarazioni che facciamo da soli non bastano. La Francia sta contrattando il suo rientro del deficit sul Pil sotto il 3% al 2017 con l’impegno a riforme vigilate in base ad un impegno ammissibile a termini giuridico-politici. Non per emulazione politica ma per necessità di sopravvivenza, anche noi dobbiamo contrattare con le Istituzioni Europee più flessibilità sotto la condizione di riforme specifiche vigliate dalla Ue e sotto il vincolo di destinare le risorse a ridurre (subito e non simbolicamente) il cuneo fiscale e contributivo specie per la nuova occupazione giovanile orientata all’innovazione e alla produttività.

L’anoressia di un sistema colpito in profondità

L’anoressia di un sistema colpito in profondità

Paolo Bricco – Il Sole 24 Ore

L’economia italiana sta sperimentando una forma – traslata – di anoressia. L’anoressia è una patologia dell’anima e del corpo. Nell’anima concentra il desiderio su pensieri ossessivi cristallizzati dalla paura e dall’angoscia. Nel corpo produce una riduzione della carne e dei tessuti, scavando i muscoli. Qualcosa di simile sta succedendo al capitalismo produttivo italiano. La deflazione è – insieme – causa ed effetto della recessione industriale. I consumatori hanno paura e, dunque, restano paralizzati. Gli imprenditori italiani – non radicalmente globalizzati e, per questo, meno allevati ad una esposizione ai mercati darwiniani che ha selezionato negli ultimi trent’anni il meglio del nostro capitalismo – rimandano gli investimenti. Il risultato è una miscela che colpisce – nell’anima, ma anche nel corpo – il nostro organismo manifatturiero. Nessuna recessione è stata mai così lunga. Già ora, rispetto alla crisi energetica dei primi anni Settanta e agli squilibri monetari internazionali innescatisi alla fine degli anni Ottanta, l’orizzonte temporale si è allungato di tre volte. Se allora ci vollero fra i due e i tre anni per superare lo shock, adesso siamo al sesto anno. E non sappiamo ancora fino a che punto durerà la notte.

La nostra patologia economica ha, davvero, tratti anoressizzanti: nel senso che, ora, il rischio – in qualche maniera paventato dalla caduta costante di un indicatore come la produzione industriale – è che i meccanismi deflattivi si miscelino a fenomeni psicologici e producano prima un intorpidimento cronico e poi una una necrosi del nostro sistema industriale. Si tratta di un fenomeno economico potenzialmente molto grave. Come nell’anoressia degli uomini e delle donne alcune masse muscolari semplicemente scompaiono, nell’anoressia delle imprese alcune potenzialità produttive – altrettanto semplicemente, altrettanto drammaticamente – possono svanire. Nell’ultimo anno – in diverse occasioni – la Banca d’Italia, Nomisma e Prometeia hanno sottolineato il pericolo di un depotenziamento dell’apparato produttivo italiano. Con la deflazione il potenziale distruttivo è molto maggiore. La politica espansiva della Banca Centrale Europea è una cura ipotetica. Ma nessun paziente che non abbia voglia di superare il male può davvero guarire. Per questa ragione – più di ogni scelta di policy, più di ogni ipotetica riforma – ancora una volta, nella storia del Paese, a contare sarà – nei prossimi mesi, nei prossimi anni – la voglia di reagire e di ricostruire degli imprenditori.  

La sfida di Junker

La sfida di Junker

Sergio Fabbrini – Il Sole 24 Ore

Non è di grande aiuto lo schema “destra-sinistra” per capire se la Commissione Junker promuoverà politiche per la crescita oppure confermerà le politiche per l’austerità fiscale. Certamente, su 28 membri della Commissione, gli esponenti socialisti sono meno del 30%, mentre la componente maggioritaria è quella dei cristiano-democratici, con una buona presenza di liberali. Nella visione tradizionale, si potrebbe dire che siamo di fronte ad una grande coalizione, con il suo baricentro spostato a destra. Eppure, lo schema destra-sinistra dice poco o nulla rispetto ai futuri orientamenti della Commissione.

Dopo tutto, anche nel Parlamento europeo, quando si è trattato di votare su questioni che toccavano gli interessi nazionali (come è stato il caso del voto sugli Eurobonds del 15 febbraio 2012), la distinzione tra destra e sinistra non ha retto e i parlamentari si sono allineati sulle posizioni dei rispettivi paesi. Piuttosto, la domanda da porsi è un’altra: è la Commissione Junker in grado di promuovere un punto di vista sovranazionale che bilanci la logica intergovernativa che è alla base delle politiche di austerità? Sulla base dei fatti, la mia risposta è negativa.

Le politiche dell’austerità sono l’esito di una visione della politica economica europea basata sulla centralità decisionale dei governi nazionali (all’interno del Consiglio europeo e dell’Euro Summit, così come all’interno dell’Ecofin e dell’Eurogruppo). Se le politiche economiche vengono decise dai governi nazionali, è evidente che i governi più forti, anche perché espressione dei paesi più grandi e più ricchi, sono destinati ad imporre la propria agenda, la propria visione e i propri interessi. La Germania non ha complottato per imporre la sua visione su come rispondere alla crisi dell’euro, ma sono state le sue dimensioni demografiche e le sue capacità economiche a trasformarla nel leader dell’Unione e dell’eurozona. Ma queste possono funzionare solamente se vi è un equilibrio tra gli stati che le compongono, equilibrio che richiede il riconoscimento dei loro diversi ma altrettanto legittimi interessi. Per tutta la crisi dell’euro, i legittimi interessi degli stati del sud, il cui modello politico-economico è sostanzialmente diverso da quello proprio degli stati del nord, non sono stati presi in considerazione all’interno delle istituzioni intergovernative. È legittimo auspicare, dunque, che sia la Commissione a introdurre un punto di vista sovranazionale nella logica intergovernativa che è divenuta predominante. Un punto di vista sovranazionale è né di destra né di sinistra, ma esprime (o dovrebbe esprimere) l’interesse dell’Unione e della Eurozona nel loro complesso. Questo interesse non coincide con la somma degli interessi nazionali, né tanto meno con gli interessi nazionali degli stati più forti, perché si sostanzia nel favorire la crescita dell’Unione o dell’Eurozona in quanto tali. Se così è, allora sarebbero necessarie politiche anti-cicliche a livello europeo così da equilibrare gli effetti pro-ciclici delle politiche domestiche di consolidamento fiscale. Potrà la Commissione Junker fermare la deriva intergovernativa?

In realtà la Commissione ha aumentato il suo tasso intergovernativo. Considerando l’incarico che avevano prima della nomina, tra gli attuali commissari vi sono 5 ex primi ministri, 1 ex vice-primo ministro e 12 tra ex ministri o vice-ministri. Ovvero 2/3 dei commissari sono (stati) esponenti dei governi nazionali. Certamente si tratta di una Commissione “politica”, perché composta di leader politici, ma non perché portatrice di un suo programma politico. Se poi si guarda la distribuzione dei portafogli, con ben 4 ex primi ministri nella vice-presidenza, e ai loro orientamenti di politica economica, allora i dubbi sulla capacità della Commissione di esprimere un punto di vista sovranazionale sono destinati a crescere. Come si potrebbe pensare diversamente, se il paese alfiere di un nuovo approccio alla politica economica (come la grande Francia del commissario Moscovici) dovrà farsi coordinare dai due vice-presidenti (come gli ex primi ministri Dombrovskis and Katainen delle piccole Lettonia e Finlandia) che sono stati i più convinti sostenitori delle politiche di consolidamento? Se poi si guarda all’insieme delle nomine europee di questi giorni, allora i segnali sono ancora di meno rassicuranti. Il Consiglio europeo ha eletto, come suo presidente ma anche come presidente dell’Euro Summit, il polacco Donald Tusk, cioè l’esponente di una paese che non fa neppure parte dell’Eurozona. La cosa fa piacere agli inglesi che, insieme ai paesi esterni all’eurozona, potranno condizionare le scelte di quest’ultima. Ma soprattutto la scelta di Tusk viene incontro agli interessi della Germania che potrà esercitare la sua influenza in quelle cruciali istituzioni intergovernative senza dover fare i conti con un presidente dotato di una sua autonoma autorevolezza.

Naturalmente in politica le cose possono cambiare. Così come è possibile che il presidente Juncker possa utilizzare i fondi della Bei per promuovere politiche di sviluppo che abbiano effetti keynesiani sull’Unione nel suo complesso. È anche probabile che le gerarchie interne alla Commissione possano saltare. Tuttavia, se Federica Mogherini, nella sua qualità di vice-presidente della Commissione e non solo di alto rappresentante per la politica estera, vuole promuovere un punto di vista sovranazionale, allora sarebbe auspicabile che non rimanesse prigioniera dello schema sinistra-destra. Non c’è un punto di vista “socialista” da promuovere, ma un interesse alla crescita da rappresentare con i commissari che sanno cosa ha prodotto l’austerità nei loro paesi.

A luglio nuovo picco del debito: 2.168 miliardi

A luglio nuovo picco del debito: 2.168 miliardi

Il Sole 24 Ore

A luglio il debito pubblico italiano ha toccato un altro record: 2.168,6 miliardi di euro, 0,2 miliardi in più rispetto al precedente massimo di giugno. Le cifre sono contenute nel bollettino della Banca d’Italia. Nei primi sette mesi dell’anno – si legge – il debito pubblico è aumentato di 99,2 miliardi, riflettendo il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche (32,7 miliardi) e l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (72,1 miliardi). Nel complesso, l’emissione di titoli sopra la pari, l’apprezzamento dell’euro e gli effetti della rivalutazione dei BTP hanno contenuto l’incremento del debito per 5,6 miliardi. Sul fabbisogno dei primi sette mesi ha inciso per 4,5 miliardi (8,7 miliardi nel corrispondente periodo del 2013) il sostegno finanziario ai Paesi dell’area dell’euro (la quota italiana del sostegno ai Paesi dell’area era pari alla fine dello scorso luglio ai 60,1 miliardi). A luglio gli investitori esteri possedevano 728 miliardi di debito pubblico italiano, di cui 687 miliardi in titoli di Stato, in calo rispetto ai 692 miliardi di giugno.

Accelerare sul fisco si può, dunque si deve

Accelerare sul fisco si può, dunque si deve

Il Sole 24 Ore

La provocazione del presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone, che suggerisce una riforma fiscale in 100 giorni attraverso 12 mosse, ha il merito di porre l”attenzione sui tempi di attuazione della delega. E il Parlamento ha un’occasione per dimostrare (su un piccolo aspetto procedurale) che accelerare si può. Fra pochi giorni le Camere riceveranno gli schemi di decreto legislativo sulle semplificazioni e sul catasto per dare un parere aggiuntivo dopo quello delle scorse settimane. La delega fiscale prevede, infatti, (e qui sta forse l’errore di impostazione) che questo ulteriore parere venga dato quando non vengano recepite le precedenti indicazioni delle Camere. La conseguenza sarà un ulteriore aggravio nei tempi della procedura. Se è vero, però, che l’attuazione della delega fiscale “serve” al sistema e se è vero che la politica vuole fare in fretta, c’è un’occasione per dimostrarlo: dare i pareri suppletivi (e forse inutili) usando soltanto uno dei dieci giorni previsti dalla legge.

Allarme Bce sui conti italiani

Allarme Bce sui conti italiani

Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore

A rischio l’obiettivo del Governo italiano sui conti pubblici per il 2014. Lo scrive la Banca centrale europea nel bollettino mensile diffuso ieri, in un’analisi dei bilanci dei Paesi dell’area euro. Secondo la Bce, il pericolo del mancato raggiungimento del target ufficiale (un deficit pari al 2,6% del prodotto interno lordo) deriva dall’evoluzione dell’economia, che sta andando peggio del previsto. Nel secondo trimestre, l’economia italiana ha accusato una contrazione dello 0,2%. La Bce sollecita quindi il Governo a «rafforzare ulteriormente» la politica di bilancio in modo da assicurare il rispetto del Patto di stabilità, soprattutto per quanto riguarda la riduzione del rapporto debito/Pil. Un’osservazione destinata a provocare una discussione sulla necessità di una manovra correttiva per l’anno in corso.

Il bollettino mensile della Bce nota che nei primi tre mesi dell’anno il deficit italiano ha registrato un miglioramento rispetto allo stesso periodo del 2013 (dall’1,8% del Pil all’1,6), in seguito alla minor spesa pubblica, soprattutto per investimenti, mentre le entrate sono rimaste più o meno costanti. Nel primo semestre, c’è stato un lieve calo (pari allo 0,1% del Pil) delle entrate fiscali, ma questo, osserva la Bce, è da attribuirsi a un diverso calendario dei pagamenti delle imposte rispetto all’anno scorso. Il documento elaborato dagli economisti dell’Eurotower nota che, in base al Patto di stabilità, l’Italia si è impegnata a un aggiustamento strutturale dei conti pubblici (depurato quindi dagli effetti del ciclo economico) pari allo 0,7% sia quest’anno sia il prossimo, ma che le previsioni di primavera della Commissione europea indicano un risultato dello 0,1% in ciascuno dei due anni. Il bollettino ricorda il mancato rispetto da parte dell’Italia del valore di riferimento per la riduzione della spesa pubblica e del rapporto debito/Pil.

Il tema della politica fiscale è stato recentemente al centro del dibattito europeo, con Italia e Francia (che ha appena annunciato che rinvierà la riduzione del deficit al 3% al 2017) che premono per un allentamento dell’austerità e la Germania sul fronte opposto. Sulla questione è intervenuto di recente anche il presidente della Bce, Mario Draghi, sostenendo che, pur nel rispetto delle regole attuali, possono essere utilizzati tutti i margini di flessibilità esistenti e che i Paesi che hanno margini di manovra (un riferimento implicito alla Germania) possono utilizzare la leva di bilancio per stimolare l’economia. Il bollettino mensile dell’Eurotower rileva che nei primi sei mesi del 2014 il bilancio tedesco ha registrato un attivo dello 0,6% del Pil, e che sia questo, sia gli obiettivi del Governo per questo e i prossimi anni, vanno al di là di quanto fissato sia nella legge costituzionale sul “freno” al debito pubblico, sia negli accordi europei. Analoghe pressioni su Berlino, in modo più esplicito di quanto ha fatto Draghi, sono venute in questi giorni dal direttore del Fondo monetario, Christine Lagarde, con una sottolineatura sulla necessità di investimenti in infrastrutture. Sono state però già respinte in modo piuttosto netto dal Governo tedesco, che nel progetto di bilancio presentato al Bundestag questa settimana ha confermato l’obiettivo del pareggio per il 2015 e per gli anni successivi.

La questione della politica fiscale, insieme a proposte per il rilancio degli investimenti nell’area euro, verrà discussa alle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin in programma oggi e domani a Milano, sotto presidenza italiana. A Milano la discussione sarà presumibilmente inasprita dall’annuncio di Parigi che il deficit pubblico di quest’anno salirà al 4,4% del Pil, contro un target del 3,8%, e che l’obiettivo del 3%, che avrebbe dovuto esser raggiunto originariamente nel 2015, è spostato al 2017, anche in questo caso a causa di una crescita inferiore al previsto. L’irrigidimento di Berlino nel dibattito europeo sulla politica di bilancio viene giustificato in ambienti governativi anche con la scarsa affidabilità di Francia e Italia sul rispetto degli impegni assunti.  

Un’agenzia di rating per le Pmi

Un’agenzia di rating per le Pmi

Gian Luigi Durante – Il Sole 24 Ore

Come allentare la stretta che soffoca le imprese italiane? Ci sono due problemi: la domanda è scarsa e mancano anche i finanziamenti. E purtroppo, data la natura pro-ciclica dell’attività bancaria, le due componenti si alimentano a vicenda. Quando la recessione fa aumentare le sofferenze, spinge le banche a tirare in barca i remi dei prestiti. E nelle temperie di questi anni la reticenza degli istituti bancari ad erogare credito è stata aggravata dalla crisi dei debiti sovrani e anche dalle imposizioni – peraltro strutturalmente, se non congiunturalmente, giuste – di Basilea 2 e 3 volte a innalzare i patrimoni bancari.

La concomitanza di tali fattori ha comportato circa 4 trilioni di euro di deleveraging nell’Eurozona; ciononostante le banche registrano ancora attivi pari a 3,1 volte il Pil (2,7 in Italia) e i prestiti deteriorati sui bilanci delle banche italiane sono aumentati al 15,9% (Banca d’Italia). Dopo la forte contrazione dell’offerta di credito coincisa con la crisi dei debiti sovrani, oggi alla radice dei problemi c’è la scarsa domanda – una questione di economia reale e non di economia finanziaria.

Per la prima volta dal 2007 i criteri di offerta dei prestiti sono divenuti lievemente espansivi, mentre la domanda degli stessi è rimasta debole (Bank Lending Survey, Bce). La ‘pro-ciclicità’ delle banche è specialmente penalizzante per le Pmi (98% delle imprese in Italia e in Europa), che hanno meno potere negoziale nel mondo finanziario e sono più esposte ai venti recessivi del mondo reale. Intanto, le politiche monetarie espansive della Bce hanno fallito nel loro intento di far ripartire il flusso di credito banca-impresa – tutto quello che può aiutare la finanza a rendere più fluido il credito per il settore produttivo è benvenuto.

Facilitare l’accesso al mercato dei capitali è imperativo e occorre farlo nelle forme più svariate: cartolarizzazioni dei prestiti, emissioni obbligazionarie pubbliche, o negoziate su base bilaterale con gli investitori. Un mix bilanciato di prestiti bancari e obbligazionari contribuirebbe non solo a rendere più fluido il mercato del credito, ma anche a proteggere il sistema da futuri shock. Mentre per le imprese più grandi, però, esistono procedure di valutazione del merito di credito che facilitano l’allocazione del capitale finanziario, le agenzie di rating non si occupano delle Pmi. Il problema è specialmente serio in Europa, dove il finanziamento dell’impresa è per il 90% affidato alle banche – contro il 45% negli Usa. Una soluzione potrebbe essere quella di promuovere un’agenzia di rating specializzata nel merito di credito delle Pmi.

Vediamo due casi concreti: nel settembre 2012 è stata costituita in India una agenzia di rating per le Pmi (Smera). Si legge nei documenti costitutivi: «Considerando che le banche utilizzano procedure di rating customizzate prima di erogare credito, i richiedenti si trovano ad investire risorse e tempo per trattare con gli istituti di credito. Smera ha adottato un sistema standardizzato, trasparente ed affidabile per elaborare una valutazione sul rischio di credito intrinseco ad una business unit. Inoltre, Smera è supportata da un gran numero di banche pubbliche e private nella regione».

Le valutazioni di merito di credito che le banche private effettuano sulle imprese loro clienti sono un giacimento immenso da sfruttare e armonizzare. Il secondo esempio concreto è la Credit Benchmark: fondata da due ‘imprenditori seriali’, Mark Faulkner e Donal Smith, ha ottenuto capitali di ventura per iniziare un’attività di raccolta dati nel mercato dell’informazione sul rischio di credito. La società raccoglierà i dati di base dalle analisi del rischio credito in ciascuna banca (una dozzina di banche globali hanno già dato il loro assenso), li aggregherà rendendoli anonimi e potrà così creare ‘giudizi di consenso’ per profili settoriali e per fasce di fatturato.

Un’Agenzia di rating europea per le Pmi, sotto l’egida della Ue e accompagnata da una estensione di forme di garanzia governativa sui relativi prestiti, avrebbe come obiettivo primario quello di migliorare tenuta e struttura dei ‘ponti’ che uniscono le Pmi alle istituzioni finanziarie e ai mercati. L’istituzionalizzazione del rating sbloccherebbe diversi canali di finanziamento ad alto potenziale, come ad esempio le cartolarizzazioni dei prestiti – in grado di sopperire alla mancanza di scala che impedisce alle Pmi di finanziarsi sui mercati dei capitali.

Se assemblati con criteri semplici e trasparenti infatti, i prestiti cartolarizzati delle Pmi potrebbero essere acquistati in parte dalle Banche centrali, come peraltro lasciato recentemente intendere dalla Bce e dalla Bank of England, restituendo nuova linfa al mercato dei prestiti bancari. Le regole che governano questo strumento sono state largamente rivisitate dopo la crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti, esacerbata dall’effetto amplificatore della cartolarizzazione degli stessi: la necessità di un adeguato reporting su ogni prestito cartolarizzato, così come l’obbligo di mantenere una partecipazione nella stessa operazione da parte dell’istituto emittente, dovrebbero favorirne l’adozione. Inoltre, un sistema di rating delle Pmi consentirebbe la sua diffusione anche alle istituzioni non bancarie, le quali non hanno accesso a un vasto ammontare di dati sul mercato dei prestiti, esclusiva degli istituti bancari.

Certamente, si porrà il problema che segna tutte le agenzie di rating: come finanziare le analisi senza creare conflitti di interessi? Una soluzione può essere quella di far pagare il funzionamento ai vari protagonisti del mercato: dalle banche ai fondi di investimento, con contributi anche dalla Ue e dalle Associazioni di Pmi. Tra i vari traguardi di medio termine sono anche fondamentali la banking e fiscal union, per finire con la capital markets union: obiettivo del neo-eletto Presidente della Commissione Europea Juncker. Un grande lavoro di armonizzazione sarebbe necessario anche sotto il profilo legale, al momento, infatti, il diverso trattamento della base di investitori in un’emissione obbligazionaria nei vari paesi dell’eurozona determina inefficienze nell’allocazione del capitale in eccesso.