il sole 24 ore

Quei rinvii sospetti su immobili e partecipate

Quei rinvii sospetti su immobili e partecipate

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il Consiglio dei ministri che segna l’avvio dei 1000 giorni del governo Renzi per cambiare l’Italia è di ampia portata e richiederà tempo per gli approfondimenti. Bisognerà andare oltre la copertina e l’indice dei provvedimenti per capire il potenziale degli stessi in un Paese dove la crisi diventa ancora più preoccupante. Nel contempo bisogna segnalare quali altri provvedimenti, non adottati dal Consiglio, sono delle priorità su cui il governo dovrà al più presto intervenire. Importante è quella di “razionalizzazione” del patrimonio pubblico sul quale era attesa la decisione del governo di chiusura di un migliaio di aziende inattive partecipate da enti locali, che purtroppo non c’è stata. Speriamo che non prevalgano i localismi corporativi per sconfiggere i quali ci vuole convinzione e metodo.

Il patrimonio pubblico. È noto come in Italia sia enorme e di pressoché impossibile valutazione in quanto parte dello stesso è composto da opere artistiche, archeologiche, naturalistiche e culturali alle quali non si può dare un prezzo stante la loro unicità e la loro non vendibilità. Per questo sarebbe bene distinguere sempre tra valori e prezzi. Spesso si parla genericamente di razionalizzare, valorizzare, privatizzare. Azioni che possono esprimere una sequenza o racchiudersi in sé a seconda dei patrimoni pubblici ai quali ci si riferisce. Quale che sia il metodo adottato, l’Italia deve riprendere la questione con un nuovo impegno e non solo perché una parte del patrimonio pubblico può essere economicamente usata per garantire o per ridurre il debito pubblico e/o per generare reddito e occupazione. Non va infatti mai dimenticato che il grado di incivilimento di un Paese e della sua popolazione si misura anche dalla cultura per la valorizzazione del patrimonio pubblico.

Il patrimonio pubblico economico. Con riferimento a quello con caratteristiche spiccatamente economiche e quindi con un potenziale di vendibilità, tre sono le principali categorie su cui il governo deve prendere posizione: le aziende (quasi) statali; le (quasi) aziende locali; il patrimonio immobiliare. Le ragioni di questa richiesta forte sono molte, anche per escludere che nelle urgenze improvvise il governo aumenti le tasse. Le privatizzazioni sono un capitolo della politica economica da più di trent’anni. Le finalità via via prefissate sono quattro: contribuire alla riduzione del debito pubblico; eliminare sprechi; aumentare l’efficienza dell’economia; favorire ampliamento e internazionalizzazione del mercato azionario. Infine vi è il messaggio, indirizzato alle istituzioni europee e ai mercati, che l’Italia fa sul serio. Anche se in modo non chiaro queste sembrano le finalità delle privatizzazioni, razionalizzazioni e valorizzazioni del governo Renzi.

Le aziende (quasi) statali. Nel Programma nazionale di riforma presentato alla Commissione europea nell’aprile 2014 si dice che il processo di privatizzazione è in fase avanzata e si elencano le molte società coinvolte. L’obiettivo è raccogliere un importo pari allo 0,7% del Pil per ogni anno del quadriennio 2014-2017. Si tratterebbe di 40-45 miliardi destinati a ridurre il debito pubblico. È una cifra grande se rapportata ai trend annuali delle privatizzazioni e piccola se rapportata al debito. Per ora è stata collocata faticosamente in Borsa solo una parte di Fincantieri con un introito di circa 350 milioni sui 600 preventivati. Forse anche per questo si passerà ora alla vendita di quote dei gioielli di famiglia: del 4,34% di Eni e del 5% di Enel per un controvalore di circa 5 miliardi. Non basta però la finalità di ridurre il debito per vendere quote di imprese come queste che pagano dividendi allo Stato e che possono entrare in strategie industriali, infrastrutturali e internazionali. Per altre aziende solo dopo le razionalizzazioni si può decidere. In tutto ciò può svolgere un ruolo crescente la Cdp, perché detiene partecipazioni importanti ed è controllata dallo Stato e perché ha visione e capacità operativa internazionale. Lo dimostra la cessione del 35% di Cdp Reti spa alla State grid international development controllata da una grande impresa statale cinese, con cui si possono costruire iniziative strategiche anche in altri settori.

Le (quasi) aziende locali. Il Consiglio dei ministri ha rinviato ogni decisione che le riguarda alla legge di stabilità. In base al rapporto del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, l’obiettivo è quello far scendere queste quasi-aziende da circa 8.000 a 1.000 in tre anni. Questa sarà una strada impervia per le resistenze corporative e le rendite di posizione dei potentati locali. Anche per questo abbiamo titolato “quasi-aziende” perché molte non hanno nulla dell’impresa data la loro origine e/o la loro dissestata gestione. Cottarelli ha radiografato le partecipazioni degli enti locali quantificandole in 7.726 aziende (avvertendo che potrebbero essere 10mila). Tra queste l’82% sono dirette e le altre indirette; il 20% è interamente pubblico e il 28% a maggioranza pubblica; il restante 52% a maggioranza privata. Il totale dei dipendenti si avvicina ai 500mila di cui 377mila in aziende a gestione privata e 123mila a gestione pubblica. La distribuzione settoriale s’avvicina ai 360 gradi ed è ben al di là dei 5 settori tradizionali dei servizi pubblici a rete soggetti a regolazione (elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto). Ce ne sono poi 1.250 non operative che potrebbero essere chiuse subito. Cottarelli delinea una strategia per farle scendere a 1.000 (è il numero di quelle in Francia) in un triennio con l’aggregazione e lo sfruttamento di economie di scala per migliorarne l’efficienza con benefici per la finanza pubblica stimati a regime in almeno 2-3 miliardi annui, ai quali aggiungere i benefici di maggiore efficienza per i cittadini. Gli esempi di aziende locali (quotate in Borsa o no) che vanno bene ci sono e bisogna respingere l’affermazione che le perdite sono causate dalle esigenze del pubblico servizio.

Una conclusione. Un passaggio ulteriore, forse più difficile, riguarda il patrimonio immobiliare su cui è adesso disponibile un studio del Mef. Ne tratteremo in altra occasione salvo rilevare che a oggi il Mef ha ottenuto risposte solo dal 45% delle Pubbliche amministrazioni incluse nella rilevazione. Ecco qui un’altra sfida per il governo che speriamo, per l’Italia, possa essere vinta.

La scossa degli investimenti

La scossa degli investimenti

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

Il bonus da 80 euro non ha portato la scossa auspicata all’economia italiana, ma vendite al dettaglio in caduta del 2,6% rispetto all’anno scorso, nuovo balzo della disoccupazione (12,6%) e l’Italia in deflazione dopo oltre mezzo secolo. Non eravamo d’accordo con quella scelta e lo abbiamo detto subito. Il Paese esige serietà: la stessa somma poteva, da sola, consentire di cancellare il conto dell’Irap sul costo del lavoro privato. Un segnale così forte avrebbe tutelato gli investimenti in essere nazionali e esteri, probabilmente ne avrebbe attratti di nuovi, di certo avrebbe segnalato al mondo che stavamo cambiando per davvero.

La fiducia delle famiglie italiane non si “ricostruisce” con 80 euro in più in busta paga, ma dando un lavoro a chi l’ha perso e una prospettiva ai nostri giovani. Il mondo “brucia”, l’Europa ha le sue colpe gravi, ma noi non ci dobbiamo mettere del nostro e dobbiamo fare in casa le cose giuste. In gioco ci sono il futuro del Paese e la dignità delle persone, guai a dimenticarcelo.

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

Paul Krugman – Il Sole 24 Ore

Un nuovo studio dell’istituto economico tedesco Iw mette a confronto le percezioni della disuguaglianza nelle nazioni avanzate: uno dei dati più significativi è che gli americani tendono, molto più degli europei, a pensare di vivere in una società di classe media, nonostante il reddito da quella parte dell’Atlantico sia distribuito molto meno equamente che in Europa. Mettendo a confronto Stati Uniti e Francia, per esempio, esce fuori che i francesi pensano di vivere in una società gerarchica, piramidale, quando in realtà la maggioranza di loro appartiene alla classe media. Gli americani hanno la convinzione opposta. Come sottolineano gli autori della ricerca, anche altri dati indicano che gli americani sottovalutano enormemente la disuguaglianza presente nella loro società, e quando gli si chiede di scegliere un modello di distribuzione ideale della ricchezza, rispondono che gli piace la Svezia. 

Quali sono le ragioni di questa differenza? Io, come molti altri, sono del parere che l’eccezione americana riguardo alla distribuzione del reddito (la nostra peculiare diffidenza e ostilità verso il welfare e i programmi anti povertà) sia strettamente legata alla nostra storia razziale. Tuttavia questo non spiega direttamente perché abbiamo una percezione cosi distorta della disuguaglianza effettiva: la gente potrebbe essere contraria ad aiutare “quelli là”, ma non per questo essere inconsapevole di quanto siano ricchi i ricchi. E’ possibile, tuttavia, che ci sia un effetto indiretto: la divisione razziale rende più forti le formazioni di destra, di ogni tipo, e queste formazioni a loro volta producono propaganda in gran quantità che ignora e minimizza il problema della disuguaglianza.

I sentimenti anti-keynesiani
In un articolo per il Washington Post, Matt O’Brien recentemente ha sottolineato che l’Europa sta andando peggio che ai tempi della Grande depressione. Nel frattempo, il presidente francese François Hollande (che con la sua mancanza di spina dorsale e la sua disponibilità a bersi le fandonie rigoriste ha condannato al fallimento la sua presidenza e forse anche il progetto europeo) incomincia finalmente a suggerire, molto timidamente, che forse ancora più austerità non è la risposta giusta.

L’economista di Oxford Simon Wren Lewis è del parere che l’abbraccio entusiasta delle politiche rigoriste nel Vecchio continente sia dovuto a una contingenza storica: in sostanza, la crisi greca ha rafforzato le posizioni degli austeriani in un momento critico. Secondo me la spiegazione non è così semplice. La mia idea è che in Europa esistevano forti sentimenti anti-keynesiani anche prima della crisi greca e che la macroeconomia così come la intendono gli economisti anglosassoni non ha mai avuto davvero cittadinanza nei corridoi del potere europei. Qualunque sia la spiegazione, sta di fatto che ci troviamo di fronte, come sottolinea O’Brien, a una delle più grandi catastrofi della storia economica.

Salta il taglio delle partecipate locali

Salta il taglio delle partecipate locali

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Salta l’operazione in due tappe per il disboscamento della giungla delle partecipate. Tutto il piano di riorganizzazione delle municipalizzate scatterà con la prossima legge di stabilità. In extremis, infatti, sono usciti dalla versione finale dello Sblocca-Italia i primi interventi per incentivare la quotazione in Borsa e la privatizzazione di aziende in house di trasporto locale e rifiuti in cambio di un allungamento della concessione fino a 22 anno e sei mesi. Ed è stata congelata per qualche settimana la cancellazione delle 1.250 municipalizzate che risultano non operative ma con i loro dirigenti ancora in carica. 

In due fasi potrebbe invece essere sviluppato l’intervento per utilizzare una parte della dote Inail destinata a investimenti immobiliari pubblici per l’immediato completamento di opere di pubblica utilità. Il decreto varato ieri prevede che vengano impiegati già nel 2o14 2oo milioni (fino ieri senza “mission” precisa) a disposizione dell’ente e altri 6-7oo nel biennio successivo. La prossima “stabilità” potrebbe rendere permanente questa misura facendo salire a quasi 3 miliardi nei prossimi tre anni la dote Inail spendibile per opere di pubblica utilità. 

Tornando alle partecipate, il rinvio del primo pacchetto sarebbe dovuto alla necessità di calibrare meglio con i Comuni l’operazione e di valutare tutte le soluzioni per scogliere il nodo del personale delle società oggetto di chiusura. «La parte municipalizzate sarà affrontata organicamente nella legge di stabilità», ha detto il sottosegretario alla presidenza, Graziano Delrio, confermando il rinvio delle prime misure preparate per lo Sblocca-Italia. La partita insomma resta complessa. Con i Comuni che vogliono dire la loro nell’affinamento del piano tracciato nelle scorse settimane dal commissario per la spending review, Carlo Cottarelli, e con i sindacati pronti a dare battaglia sulla questione del personale. Di qui la rinuncia all’operazione in due tappe. A questo punto nella “stabilità”, che prevederà i nuovi dispositivi per favorire le cessioni e gli accorpamenti delle partecipate non di pubblica utilità o pesantemente in perdita, confluiranno anche le misure messe a punto per il Dl varato ieri.

Con la legge di stabilità dovrebbe anche diventare permanente il meccanismo che lo Sblocca-Italia al momento attiva in via temporanea per destinare una fetta consistente della dote a disposizione dell’Inail per gli investimenti immobiliari al completamento di interventi di pubblica utilità. Si tratterebbe di circa 900 milioni ricavati dagli oltre 1,3 miliardi di risorse per il triennio 2014-2016 solo già in parte programmate dall’Inail per interventi immobiliari. Risorse già disponibili che, se non venissero subito impiegate, rischierebbero di restare senza destinazione. Con il Dl sono subito impiegabili 200 milioni nel 2014 non per la realizzazione di grandi opere ma per un’ampia gamma di interventi di pubblica utilità: dagli ospedali alle scuole. A individuare le opere da finanziare prioritariamente con urgenza con la dote Inail sara un apposito Dpcm. Questo intervento potrebbe essere esteso nel tempo dalla “stabilità” anche tenendo conto dei fondi per interventi immobiliari previsti dal piano triennale Inail 2o15-2017. Tra l’altro dal 2015 l’Inail non dovrebbe più destinare parte degli investimenti indiretti a operazioni per immobili pubblici tramite Invimit, la società del Tesoro, alla quale nel 2014 sono stati “girati” oltre 1,3 miliardi.

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

L’inflazione scende ancora. Dove andrà? Qualcuno argomenta che ora può solo salire; ma anche se cosi fosse non sarebbe un buon motivo per pensare che la politica della Bce sia oggi sufficiente. Non si può infatti sperare in un vero aumento dei prezzi. L’inflazione, a fine anno, potrà forse allontanarsi un po’ dalla temuta quota zero, ma resterà bassa. Troppo bassa per consentire quel riequilibrio delle economie europee che richiede prezzi alti dove la ripresa ha più forza e prezzi più competitivi dove invece l’attività e più lontana dalle potenzialità del paese. È così quasi scontato che le nuove proiezioni della Bce, giovedì prossimo, indicheranno un peggioramento delle previsioni di inflazione: le indicazioni date a giugno per 2014 (+0,7%) e 2015 (+1,1%) non sono raggiungibili. 

Non si può allora dire che le misure della banca centrale stiano avendo effetto. Soprattutto a giudicare dalle aspettative di inflazione, che sono il vero obiettivo della politica monetaria e che, con i dati di agosto e i prossimi di settembre – destinati a essere altrettanto brutti – non potranno che peggiorare. A luglio, la Bce già ammetteva nel suo bollettino che «le aspettative di mercato suggeriscono» che l’inflazione possa tornare «vicino al 2% non prima del 2020». A inizio mese, scegliendo il meno favorevole degli indicatori a disposizione, il presidente Mario Draghi ha detto che le aspettative di inflazione a cinque anni puntano all’1%, e il 22 agosto a Jackson Hole ha ammesso che queste aspettative sono peggiorate. L’obiettivo del 2% a medio termine è lontano. 

Possono bastare allora le prossime operazioni finalizzate ai prestiti alle imprese? Forse no. Innanzitutto lasciano tutta l’iniziativa alle banche (mentre occorre chela Bce sia attiva nell’aumentare la liquidità). Aumenta poi la sensazione che, in assenza di domanda, questi Tltro possano solo favorire la concorrenza sui tassi tra le aziende di credito, in un gioco quasi a somma zero. È troppo poco, e questo poco può segnalare due cose. O la politica della Bce è asimmetrica, teme l’inflazione che sale troppo sopra il 2% ma non quella che scende troppo sotto il 2%, e questo è un errore. Oppure i vincoli politici sono troppo forti, e questo è un male.

Le recenti ingerenze del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, sono state in questo senso un segnale molto brutto. Schäuble prima si è sentito in diritto di dare l’interpretazione autentica delle parole di Draghi a ]ackson Hole, dicendo che è stato frainteso. Poi ieri ha detto di non ritenere «che la Bce abbia gli strumenti per combattere la deflazione». Detta da un giornalista, sarebbe una sciocchezza, ma detta da un ministro è una dichiarazione politica: quegli strumenti non vanno usati. Perché? Perché aiutano la politica fiscale. Il punto – se si vuole il problema – è però proprio questo: la politica monetaria può sostenere prezzi e crescita anche, se non soprattutto, aiutando la politica fiscale. Altrimenti gli obiettivi sfuggono e la politica monetaria fallisce.

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il mercato del lavoro resta in grande crisi. Ma laddove si tolgono i vincoli, e si ha più coraggio, qualcosa inizia a muoversi. Nel secondo trimestre di quest’anno l’Istat evidenzia un aumento dei dipendenti a termine del 3,8%, pari a 86mila lavoratori in più rispetto ai 12 mesi prima. Anche il ministero del Lavoro e l’Isfol, analizzando i dati sui rapporti di lavoro attivati, segnalano, negli stessi tre mesi, una crescita dei contratti a termine del 3,9 per cento. Un incremento maggiore, ed è una notizia, riguarda l’apprendistato che dal varo della Testo unico Sacconi (fine 2011) inverte rotta e nel terzo trimestre 2014 cresce addirittura del 16,1% (+12mila contratti circa rispetto al secondo trimestre 2013, +8mila, su base destagionalizzata, rispetto al trimestre precedente). Un incremento concentrato essenzialmente nella classe d’età compresa tra i 20 e i 29 anni. Resta invece in difficoltà l’apprendistato di primo livello per i giovani in età 15-19: dal 2010 il numero di nuovi rapporti risulta più che dimezzato.

Il dato sull’apprendistato è un primo segnale. Ma indicativo di quanto aiutino regolazioni semplici. Le aziende, da sempre, lamentano difficoltà nell’utilizzo di questo strumento carico di troppa burocrazia e di difficile gestione pratica (nonostante gli incentivi e i forti sgravi contributivi previsti). Ebbene, prima il decreto Giovannini, poi ulteriori interventi semplificatori su libretto formativo e formazione pubblica contenuti nel decreto Poletti, hanno colto nel segno e reso un po’ più accessibile l’apprendistato alle aziende. Sul coinvolgimento degli studenti il decreto Carrozza ha lanciato un programma sperimentale per coinvolgere alunni di quarta e quinta superiore. Il provvedimento attuativo è però arrivato ben sette mesi dopo, a ridosso della fine della scuola. A settembre partirà solo una grande azienda, Enel, con circa 150 assunzioni di studenti-apprendisti.

La direzione è quella giusta, ma la burocrazia va combattuta fino in fondo e serve un piano di comunicazione e orientamento ad ampio raggio. È poi importante abbattere le barriere ideologiche semplificando ancor più l’apprendistato a partire dai 14 anni, come chiede una parte della maggioranza capeggiata da Maurizio Sacconi (la misura convince pure il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi). Molto può fare anche «Garanzia giovani» (che è partita in forte sordina) e serve un legame vero tra scuola e lavoro, come sottolineano anche dal Pd, con l’economista del lavoro Carlo Dell’Aringa. È positivo, poi che il nuovo regime di a-causalità fino a 36 mesi dei rapporti a tempo non abbia “colpito” i contratti a tempo indeterminato che fanno segnare la prima variazione positiva (+140/0) da oltre due anni. L’attenzione ora è alla delega lavoro sul «Jobs act»che riparte a settembre. Serve coraggio, magari togliendo il limite del 20% ai contratti a termine e rendendo più flessibili mansioni e recesso nei contratti a tempo indeterminato. Il lavoro ha bisogno della ripresa economica, non c’è dubbio. Ma anche norme semplici, certe e chiare per le imprese possono aiutare.

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Cristina Casadei – Il Sole 24 Ore

Osservati dal punto di vista dell’industria i dati Istat non presentano un quadro drammatico perché nell’industria in senso stretto torna a crescere l’occupazione: +2,8% rispetto a un anno prima, pari a 124,000 unità, sia tra i dipendenti sia tra gli indipendenti. Se ci spostiamo e li guardiamo dal punto di vista dell’agricoltura, ancora una volta, il segno è positivo: il numero di occupati in agricoltura aumenta rispetto a un anno prima (+1,8%, pari a 15.000 unita) e riguarda soltanto i dipendenti (+5,6%, pari a 22.000 unità), a fronte di un calo degli indipendenti. È quando i dati vengono osservati dal punto di vista delle costruzioni e del terziario che la situazione diventa pesantemente drammatica. Prosegue per il quindicesimo trimestre, la flessione degli occupati nelle costruzioni (-3,8%, pari a -61.000 unità), concentrata soprattutto nel CentroNord. L’occupazione si riduce su base annua anche nel terziario (-0,6%, pari a -92.000 unità). La diminuzione, diffusa territorialmente, interessa principalmente gli occupati nel commercio e nei servizi di credito e assicurazioni, mentre si riscontra un aumento nella sanità e nei servizi alle famiglie. 

«I settori più ciclici, come appunto le costruzioni e il terziario, che risentono maggiormente dell’andamento del ciclo economico, sono in forte sofferenza. Però non ci si può aspettare una ripresa dell’occupazione con tassi di crescita vicini allo zero negativo. Se il paese non cresce, l’occupazione non cresce». Il ragionamento del professor Marco Leonardi che insegna Economia Politica alla Statale di Milano è lineare, non è il risultato di complesse equazioni perché la realtà che ci presentano i dati Istat è semplice e allo stesso tempo non consente vie d’uscita simili al passato. «Abbiamo avuto negli anni passati un aumento dell’occupazione in assenza di crescita economica grazie alla diffusione rapida dei contratti a termine – continua Leonardi -. Ormai però abbiamo raggiunto un livello dei contratti a termine fisiologico, in linea con la media europea. Se l’Italia non riprende a crescere, la disoccupazione non scende». Anche l’arma dei contratti a termine appare spuntata. Mentre gli interinali rappresentano numeri ancora piccoli nel nostro paese, comunque non tali da poter incidere visibilmente sugli andamenti. Secondo gli ultimi dati di Assolavoro, fermi a maggio di quest’anno, il monte retributivo dei lavoratori in somministrazione cresce del 9,8% rispetto allo stesso mese del 2013. La variazione congiunturale è pari a -1,5% contro il -2,3% di maggio 2013. Il numero medio mensile di occupati registra un +12% su base annua, i lavoratori occupati sono 278 mila. A maggio, le ore lavorate sono 28,9 milioni circa (+5,8% su base annua), mentre il rapporto fra somministrazione e occupazione totale passa dall’1,14% di maggio 2013 all’1,24% dello stesso mese del 2014.

Sui settori incombono diversi fattori. Di lungo periodo come per esempio «il fatto di essere pur sempre un paese manifatturiero importante – interpreta Leonardi – L’industria italiana, soprattutto quella che esporta, tiene. La crescita del pil è trainata dalla manifattura esportatrice». Poi però ci sono anche fattori strutturali come per esempio «i servizi che funzionano meglio che in altri paesi». Il momento pero è delicato, siamo infatti in una fase in cui «rischiamo di perdere gli elementi di ripresa e di uscita dalla crisi che si potevano intravedere».

Incentivi aleatori non portano lavoro

Incentivi aleatori non portano lavoro

Il Sole 24 Ore

Incentivi alle assunzioni: mosso dall’emergenza occupazione oppure dalla necessità di rinnovare il sistema produttivo, il legislatore spesso concede aiuti ai datori di lavoro. Peccato che le buone intenzioni spesso si scontrino con le lungaggini e gli ostacoli della burocrazia. Un caso esemplare è quello della legge 83/2012 che ha previsto un credito d’imposta per le assunzioni, in azienda, di personale altamente qualificato. Il regolamento dell’agevolazione, però, è arivato solo qualche settimana fa e solo a settembre, da lunedì 15, con una gara telematica le imprese che hanno assunto nel 2012 potranno sapere se avranno o meno diritto al premio fiscale. Nel frattempo, tanto era la convinzione sulla bontà della scelta, i fondi per gli anni successivi sono stati diminuiti.

Con queste premesse – i ritardi nello stanziamento delle risorse e l’incertezza sulla possibilità di beneficiarne – sembra davvero difficile che un imprenditore possa ragionevolmente pianificare un’assunzione sulla scorta di un incentivo aleatorio.   

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Andrea Biondi e Giovanna Mancini – Il Sole 24 Ore

È durata poco l’illusione di essere usciti dalla recessione che da sei anni ormai attanaglia il nostro Paese e che solo nel periodo 2011-2013 ha bruciato 4,1 punti di Pil. Gli ultimi aggiornamenti dei principali indicatori macroeconomici sembrano senza tanti dubbi spegnere l’entusiasmo al quale, fino a poco più di un mese fa, si aggrappavano gli italiani. Tanto è vero che ad agosto l’indice di fiducia delle imprese registrato dall’Istat è sceso a 88,2, contro il 90,8 registrato a luglio. Un pessimismo che riguarda tutti i settori produttivi, ma in particolare il manifatturiero che, dopo tre mesi consecutivi in discesa, ha raggiunto i livelli più bassi da un anno (95,7). E che riflette il calo di fiducia dei consumatori, reso noto l’altroieri, sceso in agosto per il terzo mese consecutivo, da 104,4 a 101,9. Insomma, tutto fuorché una cartina di tornasole di una stagione dell’ottimismo. E infatti, se in tutta Europa l’indice Esi (il «sentiment economico» complessivo) scende a quota 104,6, è l’Italia il Paese più sfiduciato dell’Unione, secondo i dati diffusi dalla Commissione Ue.

Non che manchino gli spiragli di luce, come il dato sulla produzione industriale (+0,9% a giugno su base annua) o quello sulle immatricolazioni di auto (+5,02% su base annua a luglio). Ma mettendo in fila i principali indicatori – e il loro andamento altalenante nei mesi – emerge un quadro ancora troppo fragile e (soprattutto) contraddittorio per parlare di una vera ripresa. A guastare la festa degli ottimisti, ieri sono arrivati i dati relativi alle vendite al dettaglio, che su base annua sono diminuite addirittura del 2,6%, rispedendo sul banco degli imputati il bonus da 80 euro del governo Renzi.

Ma la doccia fredda era arrivata già a inizio estate, con quello 0,2% in meno del Pil registrato dall’Istat nel secondo trimestre dell’anno rispetto al trimestre precedente, e dello 0,3% rispetto all’anno precedente. Un dato non solo inferiore alle attese, ma che ha inoltre costretto analisti e imprese a rileggere tutti gli altri indicatori. Perché se è vero che la produzione industriale a giugno è cresciuta, è anche vero che da novembre dello scorso anno l’andamento di questo indicatore oscilla costantemente tra segno positivo e negativo. E preoccupa il dato sugli ordini dell’industria, riferito a maggio, che rileva un calo del 2,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e che ha colpito in particolare il comparto dei macchinari e attrezzature (-13,6%). Inoltre, rispetto al mese precedente, in maggio gli ordinativi totali sono scesi del 2,1%, registrando il calo più pesante (-4,5%) proprio su quei mercati esteri su cui si fonda la speranza di una ripresa da parte delle imprese italiane.

Anche dal fronte export arrivano del resto segnali contraddittori e perciò non facili da interpretare. Al risveglio dei mercati europei, che da inizio anno avevano contribuito in modo decisivo a trainare le vendite all’estero dei prodotti made in Italy, si era aggiunto a maggio anche il recupero dei mercati extra-Ue, che invece negli ultimi mesi avevano fatto registrare segnali negativi, dovuti soprattutto alle svalutazioni, alla crisi di domanda interna e alle turbolenze geopolitiche.

Purtroppo però il mese di giugno (a cui risalgono gli ultimi dati disponibili) ha provveduto a congelare le speranze delle imprese, con una contrazione dell’export extra-Ue addirittura del 4,3% su base mensile, che si traduce in un -2,8% su base annua. Il quadro complessivo delle esportazioni (dati relativi a maggio) è perciò deludente, con una crescita tendenziale di appena lo 0,2% rispetto a maggio del 2013, sintesi dell’incremento delle vendite verso l’Europa (+2,4%) e della diminuzione di quelle verso l’area extra-Ue (-2,3%). Si aggiunga un mercato del lavoro in piena paralisi, con retribuzioni mai così basse (si veda l’articolo in basso) e un numero di disoccupati oltre quota 3,15 milioni, con una disoccupazione giovanile del 43,7% (+4,3% rispetto a giugno 2013).

La disuguaglianza mina la crescita

La disuguaglianza mina la crescita

Michael Spence – Il Sole 24 Ore

Sono trent’anni o più che il divario nella distribuzione della ricchezza e del reddito è andato aumentando in molti Paesi, ma l’attenzione sul suo andamento a lungo termine è cresciuta dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008: con una crescita rallentata, la disuguaglianza sempre più forte si fa sentire maggiormente. La “vecchia” teoria sulla disuguaglianza diceva che la redistribuzione con il sistema fiscale ha indebolito gli incentivi e minato la crescita. Ma il rapporto fra crescita e disuguaglianza è più complesso. Difficile tirare conclusioni considerando i diversi canali di influenza e meccanismi di riscontro.

Per esempio, Cina e Stati Uniti sono le principali economie mondiali con la crescita più rapida. Entrambe hanno livelli di disuguaglianza del reddito elevati e in aumento. Anche se da questo non si può concludere che crescita e disuguaglianza non siano correlate fra loro o lo siano positivamente, nemmeno dire che la disuguaglianza danneggia la crescita rispecchia propriamente la realtà dei fatti. Inoltre, in termini globali, la diseguaglianza è in diminuzione con la crescita dei Paesi in via di sviluppo, anche se sta aumentando all’interno di molti Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Ciò potrebbe sembrare controintuitivo, ma ha una sua logica. L’andamento globale dell’economia mondiale è il processo di convergenza cominciato dopo la Seconda guerra mondiale. Una fetta sostanziale dell’85 per cento della popolazione mondiale che vive nei Paesi in via di sviluppo ha vissuto per la prima volta una vera crescita rapida e sostenuta. Questo andamento globale è più forte di quello che vede aumentare la disuguaglianza interna. 

Tuttavia l’esperienza in un ampio ventaglio di Paesi rivela che livelli di disuguaglianza alti e in aumento, in particolare la disuguaglianza di opportunità, possono di fatto essere molto negativi per la crescita. Una ragione è che la disuguaglianza mina il consenso politico e sociale intorno alle strategie e alle politiche orientate alla crescita. Può portare a paralisi, conflitti e scelte politiche inadeguate. La sistematica esclusione di sottogruppi su qualsiasi base arbitraria (per esempio in base all’etnia, alla razza o alla religione) è particolarmente nociva in questo senso, come dimostra l’evidenza empirica.

La mobilità intergenerazionale è un indicatore chiave dell’uguaglianza di opportunità. La crescente disuguaglianza di reddito non porta necessariamente a una mobilità intergenerazionale ridotta. Se lo fa, dipende molto dall’accessibilità per tutti degli strumenti importanti che sostengono l’uguaglianza di opportunità, principalmente l’istruzione e la sanità. Per dire, se i sistemi di istruzione pubblica cominciano a andare male, all’estremo più alto della scala di reddito vengono sostituiti da un sistema privato, con conseguenze negative sulla mobilità intergenerazionale.

Ci sono altre correlazioni fra disuguaglianza e crescita. Alti livelli di reddito e disuguaglianza del reddito (come in gran parte del Sudamerica e in diverse zone dell’Africa) spesso sfociano in orientamenti iniqui e li consolidano. Anziché cercare di creare modelli di crescita inclusivi, i politici cercano di proteggere la ricchezza e il vantaggio che genera rendite ai ricchi. Ciò ha implicato una minor apertura verso il commercio e i flussi di investimento perché questi ultimi portano a una concorrenza esterna indesiderata. Il che ci fa capire che, in termini di risultati, c’è disuguaglianza e disuguaglianza. La disuguaglianza che si basa sulla ricerca delle rendite e sull’accesso privilegiato alle risorse e alle opportunità del mercato, è estremamente nociva per la coesione e la stabilità sociale – e per le politiche orientate alla crescita. In un ambiente generalmente meritocratico, i redditi da creatività, innovazione o talento straordinario di solito sono visti benevolmente e si pensa abbiano effetti meno dannosi.

Ed è anche per questo che l’attuale campagna “anti-corruzione” della Cina è così importante. Non è tanto la relativa disuguaglianza di reddito della Cina a minacciare la legittimità del Partito comunista cinese e l’efficacia della sua governance, ma le tensioni sociali create dall’accesso privilegiato a mercati e transazioni da parte degli insider. Quanto agli Usa, difficile dire in che misura l’aumento della disuguaglianza degli ultimi trent’anni rifletta il cambiamento tecnologico e la globalizzazione (che entrambi favoriscono chi ha livelli più alti di istruzione e competenze) e in che misura rifletta l’accesso privilegiato al processo di elaborazione delle politiche, è una domanda complessa e ancora senza risposta. Ma questa risposta è importante per due ragioni: 1) le risposte politiche sono diverse 2) lo sono anche gli effetti sulla coesione sociale e la credibilità del contratto sociale.

La crescita rapida aiuta. In un ambiente con una crescita elevata, con redditi in aumento quasi per tutti, la gente accetterà una disuguaglianza crescente fino a un certo punto, soprattutto se ciò avviene in un contesto fondamentalmente meritocratico. Ma in un ambiente a bassa crescita (o peggio, a crescita negativa), una disuguaglianza in rapido aumento significa che molte persone non avranno alcun aumento di reddito o staranno perdendo terreno in termini assoluti oltre che relativi. Le conseguenze di una crescente disuguaglianza del reddito possono indurre i politici in tentazione lungo una china pericolosa: il ricorso all’indebitamento, a volte combinato con una bolla di asset, per sostenere il consumo. Come è probabilmente successo negli anni ’20, prima della Grande Depressione e come si è verificato negli Usa (e in Spagna e nel Regno Unito) nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008.

Una variante, come si è visto in Europa, è il ricorso al prestito governativo per colmare il divario della domanda e dell’occupazione creato da una domanda privata interna ed esterna carente. Nella misura in cui quest’ultima è legata ai problemi di produttività e competitività ed esacerbata dalla divisa comune, tale risposta politica è inadeguata. Preoccupazioni simili sono state sollevate a proposito del rapido aumento dei ratio di indebitamento in Cina. Forse l’indebitamento sembra il percorso con meno attrito per affrontare gli effetti della disuguaglianza e della crescita rallentata. Ma ci sono modi migliori e peggiori di far fronte alla crescente disuguaglianza. L’indebitamento è uno dei peggiori. 

Allora cosa fare? Per me le priorità sono molto chiare. Nel breve termine, la priorità fondamentale è il sostegno al reddito per i poveri e i disoccupati che sono le prime vittime delle crisi e degli squilibri e dei problemi strutturali correlati che ci vuole tempo per rimuovere. In secondo luogo, specialmente con la disuguaglianza di reddito in aumento, l’accesso per tutti ai servizi pubblici di alta qualità, in particolare all’istruzione, è fondamentale. L’inclusione sostiene la coesione sociale e politica e dunque quella crescita necessaria per aiutare a mitigare gli effetti di una crescente disuguaglianza. Sono tanti i modi per non sostenere il potenziale di crescita di un’economia, ma il sottoinvestimento, soprattutto nel settore pubblico, è uno dei più efficaci e dei più usati.