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Pensioni, dal 2016 le donne dovranno lavorare 22 mesi in più

Pensioni, dal 2016 le donne dovranno lavorare 22 mesi in più

di Francesca Schianchi – La Stampa

Ventidue mesi di lavoro in più per le donne impiegate nel settore privato, per agguantare la sospirata pensione di vecchiaia. Quattro mesi in più per tutti, come adeguamento alla speranza di vita: si vive più a lungo e allora bisogna anche lavorare più a lungo. E poi, arriva la revisione dei coefficienti necessari per determinare la quota contributiva della pensione: quello che si apre fra pochi giorni è un anno di novità non esattamente piacevoli per quanto riguarda il ritiro dal lavoro.

Per tradurre in esempi la fredda contabilità delle leggi, lo scalino in più che, in base alla legge Fornero, scatterà dal 2016 per le donne lavoratrici del privato, fa sì che potranno lasciare il lavoro per vecchiaia a 65 anni e sette mesi (63 anni e nove mesi sono stati sufficienti nel 2015); per le autonome non prima di 66 anni e un mese, mentre sono già equiparate agli uomini le dipendenti pubbliche. Cioè all’età di 66 anni e sette mesi: gli uomini potranno altrimenti andare in pensione anticipata se hanno versato 42 anni e dieci mesi di contributi; 41 anni e dieci mesi le donne.

Chi sarà particolarmente penalizzato dal meccanismo messo in piedi dalla legge sono le signore nate nel 1953: nel 2018, quando avranno raggiunto il traguardo dei 65 anni e sette mesi, sarà scattato un nuovo scaglione per spostare in avanti l’eta pensionabile (salvo revisioni della legge) e nel 2019 l’asticella dell’età sara spostata ancora più in alto da un nuovo adeguamento alle aspettative di vita. Morale, queste lavoratrici rischiano di potersi mettere a riposo solo nel 2020. Ma questo 2016 è anche l’anno scelto per far scattare i nuovi coefficienti di trasformazione, ossia quelli che servono per trasformare i contributi versati in assegno: nemmeno questa è una notizia allegra, se si considera che tra 2009 e 2016 l’importo calcolato col contributivo, prendendo a riferimento come età di uscita i 65 anni, è diminuito del 13 per cento. E nel 2016, secondo i calcoli di Antonietta Mundo, già coordinatore generale statistico attuariale dell’Inps, riportati dall’Ansa, gli uomini perderanno sulla quota contributiva circa l’1 per cento.

E se queste sono le (fosche) previsioni per le pensioni nel 2016, a tracciare un bilancio degli anni passati, per quanto riguarda invece il lavoro e la crisi, ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro, partendo da dati Istat: 656.911 sono i posti persi nel periodo 2008-2015, di cui 486mila andati in fumo al sud e nelle isole e 249mila a nord, mentre il centro ha fatto segnare un sorprendente più 78mila, tanto che il Lazio è, insieme al Trentino Alto Adige, l’unica regione che ha visto in questi anni di crisi aumentare gli occupati. Una crisi che, però, secondo la ricerca di ImpresaLavoro, sta forse finalmente allentando la presa: nel terzo trimestre del 2015, sottolinea, c’e stato un aumento di 154mila occupati su base annua.

Nello stesso periodo, 2008-2014, rivela uno studio dell’Istat diffuso ieri, tra gli stranieri, che per il 57 per cento arrivano in Italia per cercare un impiego e per il 29,9 per cento ritengono di svolgere mansioni poco qualificate rispetto al proprio titolo di studio, il tasso di occupazione ha subito un calo molto più accentuato rispetto agli italiani (6,3 punti contro 3,3). E la disoccupazione tra loro è quasi raddoppiata in quei sei anni, facendo registrare un più 7,1 contro il più 5,2 degli italiani.

Ma nel Lazio l’occupazione non conosce crisi

Ma nel Lazio l’occupazione non conosce crisi

IL TEMPO del 29 dicembre 2015

Dall’inizio della crisi, ovvero dal 2008 ad oggi sono stati persi 656.911 posti di lavoro: ben 486mila al Sud e nelle Isole, 249mila nelle regioni del Nord mentre il Centro (grazie ai 116mila posti di lavoro in più registrati in Lazio) fa segnare un dato in controtendenza, +78mila. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Istat. Poche regioni italiane hanno oggi livelli occupazionali vicini a quelli fatti segnare prima della crisi. Ad essere sopra i livelli del 2008 ci sono due regioni: oltre al Lazio, infatti, solo il Trentino Alto Adige ha visto in questi anni aumentare il numero dei propri occupati (+20mila).

In termini percentuali ad aver risentito maggiormente della crisi è stata la Calabria, dove sono andati in fumo il 14,83% dei posti di lavoro. A seguire il Molise (-10,52%) e la Sicilia (-10,22%). Al Nord la regione che ha sofferto di più in questi anni è il Friuli Venezia Giulia (-4,52%), seguita dal Veneto (-4,23%) e dalla Liguria (-4,01%). La Lombardia (-0,66%) è sostanzialmente ai livelli di occupazione fatti riscontrare prima della crisi, mentre il Trentino Alto Adige riesce addirittura a far crescere del 4,19% i propri occupati.

Il 2015 ha confermato il trend di recupero dell’occupazione iniziato nel 2014. I dati al terzo trimestre 2015 indicano un aumento di 154mila occupati su base annua, con una composizione per regione che questa volta sembra premiare il Sud del Paese. In valori assoluti la regione in cui si sono creati più nuovi posti di lavoro è la Puglia (+38mila700), seguita dalla Toscana (+23mila200), dalla Sicilia (+19mila600) e dalla Sardegna (+18mila200). Rimane drammatica la situazione della Calabria che nei primi nove mesi del 2015 perde ulteriori 13mila400 posti di lavoro, rimanendo la regione italiana più colpita dalla crisi. Al nord crescono sensibilmente Liguria (+12mila) e Lombardia (+8mila500).

Il dossier ImpresaLavoro: dal 2008 si sono persi 656.911 posti

Il dossier ImpresaLavoro: dal 2008 si sono persi 656.911 posti

IL CORRIERE ADRIATICO del 29 dicembre 2015

Dell 2008 a oggi sono stati persi 656.911 occupati in Italia: ben 486 mila posti di lavoro sono stati persi al Sud e nelle Isole. 249 mila nelle regioni del Nord mentre il Centro (grazie ai 116mila posti di lavoro in più registrati in Lazio) fa segnare un dato in controtendenza, +78 mila. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Istat. Poche regioni italiane hanno oggi livelli occupazionali vicini a quelli fatti segnare prima della crisi. A essere sopra i livelli del 2008 ci sono due regioni: oltre al Lazio, infatti, solo il Trentino Alto Adige ha visto in questi anni aumentare il numero dei propri occupati (+20 mila).

In termini percentuali ad aver risentito maggiormente della crisi è stata la Calabria, dove sono andati in fumo il 14,83% dei posti di lavoro. A seguire il Molise (-10,52%) e la Sicilia (-10,22%). Al Nord la regione che ha sofferto di più in questi anni è il Friuli Venezia Giulia (-4,52%), seguita dal Veneto (-4,23%) e dalla Liguria (-4,01%). La Lombardia (-0,66%) è sostanzialmente ai livelli di occupazione fatti riscontrare prima della crisi, mentre il Trentino Alto Adige riesce addirittura a far crescere del 4,19% i propri occupati. Un dato in controtendenza rispetto al trend nazionale e più in particolare rispetto alla condizione del resto del nordest del Paese.

L’ultimo anno ha confermato il trend di recupero dell’occupazione iniziato nel 2014. I dati al terzo trimestre 2015 fanno segnare complessivamente un aumento di 154mila occupati su base annua, con una composizione per regione della nuova occupazione che questa volta sembra premiare il Sud del Paese. In valori assoluti la regione in cui si sono creati più nuovi posti di lavoro è la Puglia (+33.700), seguita dalla Toscana (+23.200), dalla Sicilia (+19.600) e dalla Sardegna (+18.200). Rimane drammatica la situazione della Calabria che nei primi nove mesi del 2015 perde ulteriori 13.400 posti di lavoro, rimanendo la regione italiana più colpita dalla crisi dell’occupazione in questi anni e l’unica tra quelle del Sud a non registrare alcun segnale di ripresa. Al Nord crescono sensibilmente Liguria (+12 mila) e Lombardia (+8.500 occupati), mentre arretra il Veneto che perde 10.800 posti di lavoro nel solo 2015.

Lavoro: i livelli pre-crisi sono ancora lontani

Lavoro: i livelli pre-crisi sono ancora lontani

di Massimo Blasoni*

Parallelamente a quando accade con il Pil, anche l’occupazione nel nostro paese è ben lontana dai livelli pre-crisi. La ripresa in atto è debole e rischia di non tradursi in un sensibile recupero dei posti di lavoro che si sono persi dal 2008 ad oggi. Nell’ultimo anno il combinato di Jobs Act e decontribuzione ha garantito un aumento dell’occupazione di 150mila unità, a ulteriore dimostrazione che i benefici fiscali e contributivi garantiti alle nuove assunzioni a tempo indeterminato sono serviti principalmente a trasformare contratti. Alcuni timidi segnali di ripresa, tuttavia, si intravedono: al sud si è quantomeno fermata l’emorragia di occupati anche se non si può dimenticare che nel mezzogiorno del paese la crisi ha bruciato il 10% dei posti di lavoro esistenti. E questo in territori con tassi di occupazione generale già straordinariamente bassi.

*imprenditore, presidente Centro Studi ImpresaLavoro

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

L’Italia detiene un record molto particolare in campo economico: tra i paesi monitorati dall’OCSE, infatti, è quello in cui la pressione fiscale è cresciuta di più dal 1979 ad oggi. Prima degli anni ’80 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo mentre nel 2014, secondo i calcoli dell’OCSE, si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra i paesi sviluppati. Solo Turchia, Grecia, e Portogallo fanno segnare performance simili, ma comunque inferiori, alle nostre mentre esistono paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito che vedono sostanzialmente stabile l’incidenza del prelievo fiscale sulla ricchezza prodotta. Per tacere di chi, come la Germania, paga oggi un po’ meno tasse (-0,2%) che nel 1979. A crescere negli ultimi 35 anni sono state tutte le principali tipologie di imposte: il prelievo sui redditi è aumentato dell’82,6%, quello sui consumi del 64,5% e le tasse sulla proprietà sono cresciute del 164,1% assorbendo oggi 1,6 punti percentuali di Pil. “L’elaborazione – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – dimostra che al di là degli scostamenti dello zero virgola, la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato”.

Il Bel paese delle tasse. Dal ’79 nessuno al mondo le ha alzate come l’Italia

Il Bel paese delle tasse. Dal ’79 nessuno al mondo le ha alzate come l’Italia

di Antonio Signorini – Il Giornale

Sono passati 35 anni, 15 governi e due repubbliche, ma poco è cambiato. Il vizio della politica italiana di risolvere tutto aumentando le tasse non è passato di moda e il risultato è che siamo il paese Ocse (organizzazione che riunisce le economie più sviluppate del pianeta) dove la pressione fiscale è aumentata in misura maggiore. È decollata negli anni Settanta, quando un po’ ovunque si pensava che il fisco servisse a redistribuire ricchezza, ma è cresciuta anche negli Ottanta, quando nel resto del mondo tutti si erano accorti che aumentando le tasse non si fa altro che danneggiare imprese e famiglie. Nulla è cambiato nemmeno negli anni Novanta né con il terzo millennio.

La fondazione ImpresaLavoro, approfittando delle serie storiche della pressione fiscale rese disponibili dalla stessa Ocse, è arrivata alla conclusione che l’Italia detiene saldamente il primato degli aumenti delle tasse. Nel 1979 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo, nel 2014 si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra le economie avanzate. Seguono a distanza Paesi come la Turchia con aumenti del 16,9% e la Grecia con il 14,6%. La Francia, statalista e burocratica, nello stesso periodo ha infierito sui contribuenti solo per il 7,1%. La media Ocse è del 4,4%, quattro volte inferiore alla poco invidiabile performance italiana. Dai dati Ocse emerge che ci sono economie che hanno lasciato la pressione fiscale più o meno invariata. Sono le democrazie di tradizione più solida e antica: il Regno unito (più 1,88%) e gli Stati Uniti (più 0,83%). Ma ci sono anche stati che possono vantare una riduzione della pressione fiscale. E non sono dei «mostri» del liberismo selvaggio. La Germania, culla del welfare, ha registrato un calo dello 0,2 per cento. Svezia e Norvegia, hanno registrato un calo dell’1,2%. Nel 1979 la pressione fiscale italiana era simile a quella degli Stati Uniti, poco sopra il 25%, la Germania era al 36%. Oggi il superstato riunificato è sempre sulla stessa percentuale, noi otto punti sopra. Avevamo un vantaggio competitivo e ce lo siamo mangiato.

«Al di là degli scostamenti dello zero virgola – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – il dato dimostra che la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato». Una volontà che, stando ai fatti, non c’è. Le imposte sulla proprietà dal 1979 al 2015 sono aumentate del 164%. Quelle sui redditi e sui profitti dell’82,6%. Il partito della patrimoniale non ha mai vinto le elezioni. Ma il suo obiettivo l’ha raggiunto lo stesso: ha trascinato giù tutto il Paese.

Acquisti on-line: nel 2015 italiani al quart’ultimo posto in Europa

Acquisti on-line: nel 2015 italiani al quart’ultimo posto in Europa

Negli ultimi 12 mesi solo il 26% dei cittadini italiani di età compresa tra i 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca così al quart’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena sopra Cipro (23%), Bulgaria (18%) e Romania (11%). Ai vertici della graduatoria 2015 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (81%), Danimarca (79%), Lussemburgo (78%) e Germania (73%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

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In Italia i consumatori più attivi online risultano essere quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni (40%) e i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (36%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono soltanto il 17% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni e il 7% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni.

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Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 5% ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro. Nell’ultimo anno i beni più acquistati dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (11%), vestiti (10%), articoli casalinghi (7%), libri e abbonamenti a riviste (7%), biglietti per eventi (5%). Curiosamente, solo il 2% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di hardware per computer o servizi di telecomunicazione (banda larga, abbonamenti a canali televisivi, ricarica di carte telefoniche prepagate…).

tipologia

Errori politici pagati dai cittadini

Errori politici pagati dai cittadini

di Massimo Blasoni – Panorama

Il Quantitative Easing della BCE ha immesso nel sistema creditizio enormi quantità di denaro. Questa liquidità, però, non si è trasmessa a famiglie e imprese: l’andamento del credito continua a non dare segnali di ripresa (meno 0,5% prestiti al settore privato su base annua secondo Bankitalia). Il problema risiede in un sistema bancario che eroga con difficoltà il credito a causa di istituti strutturalmente sottocapitalizzati e di un livello di crediti deteriorati che stenta a diminuire. Lo Stato e la politica devono stare lontano dall’economia e quindi anche dalle banche, soprattutto dalla loro gestione. Troppe volte in questi anni le scelte sbagliate di partiti e governo in tema bancario sono state pagate dai cittadini che avevano investito in istituti in crisi da tempo. E si è trattato spesso di piccoli investitori, magari inconsapevoli, che hanno perso i risparmi di una vita.

Massimo Blasoni
Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro