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La pratiche fiscali costano 20 euro al giorno

La pratiche fiscali costano 20 euro al giorno

Filippo Caleri – Il Tempo

Non solo fisco esoso e rapace. In Italia le imprese sopportano un costo esoso anche solo per restare in regola e per portare a termine le decine di adempimenti chiesti dall’amministrazione fiscale. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, una azienda media spende, infatti, ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le aziende sono costrette a sostenere.

Un numero che è emerso dall’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali e quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.

Per una volta l’Italia riesce a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con «solo» 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Il Paese supera anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come quello italico in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutte la pratiche relative al fisco. È anche vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi di quello applicato in Italia – spiega il rapporto della Fondazione – ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.

«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

Mentre si pagano costi pesanti per pagare le tasse. Queste ultime non accennano a diminuire. E l’eventuale sostituzione di una serie di tasse comunali con la «local tax» porterebbe in un’«unica» soluzione 26 miliardi di euro nelle casse dei Comuni italiani. A calcolarlo è l’Ufficio studi della Cgia, l’associazione degli artigiani di Mestre, che ha elencato le principali imposte/tasse comunali e i relativi gettiti che potrebbero essere sostituiti dalla nuova «tassa unica» che i sindaci dovrebbero applicare a partire dal 2016. Ebbene, tra Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), l’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), l’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), la tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), l’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e l’imposta di scopo (14 milioni di euro), il gettito totale si aggira sui 26 miliardi di euro.

Fisco, la burocrazia per pagare le tasse costa 7.559 euro a impresa

Fisco, la burocrazia per pagare le tasse costa 7.559 euro a impresa

Repubblica.it

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda media spende ogni anno 7.559 euro per sbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.

Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat.

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Fisco: per pagare le tasse un’impresa italiana spende in media 7.559 euro l’anno

Fisco: per pagare le tasse un’impresa italiana spende in media 7.559 euro l’anno

Nota

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda di medie dimensioni spende in media ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.
Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.
Vincere in questa classifica è tutt’altro che prestigioso e per una volta riusciamo a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con “solo” 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Superiamo anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come il nostro in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutti gli adempimenti. È pur vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi del nostro: ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.
«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

 

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Dopo l’eclisse dei verdi, l’ecologia deve rinascere liberale

Dopo l’eclisse dei verdi, l’ecologia deve rinascere liberale

Carlo Lottieri

Se per alcuni anni sono sembrati rappresentare anche in Italia una novità di successo e un movimento con il veto in poppa, da tempo gli ecologisti sono in crisi di prospettive e visibilità. In sostanza, quel che resta del movimento verde fa ormai da stampella alla sinistra di Niki Vendola, ma in una posizione sostanzialmente subordinata.
L’eclisse dei verdi come partito, però, non sembra essere accompagnata da un accantonamento della loro ideologia, che anzi è stata abbracciata un po’ da tutti: a destra come a sinistra. Il guaio è che lo statalismo ecologista non rappresenta una risposta adeguata dinanzi alle difficoltà su cui richiama l’attenzione e anzi, in molti casi – anche al di là delle intenzioni – esso finisce perfino per aggravare i problemi.
Si tratta allora di immaginare un altro ambientalismo; ed è interessante rilevare come nel corso degli ultimi quindici anni l’editoria italiana abbia iniziato a dare spazio a quell’ecologia di mercato che affronta quei temi senza sacrificare la libertà individuale e il progresso economico sull’altare di una presunta sacralità della natura.
La prima cosa che uscì fu una piccola antologia, curata da Guglielmo Piombini e dal sottoscritto (Privatizziamo il chiaro di luna!, pubblicata nel 2001 da Leonardo Facco Editore), ma in seguito questa biblioteca controcorrente si è allargata sempre più. Un volume di straordinario interesse che da alcuni anni è pure disponibile in italiano è quello scritto dagli americani Terry L. Anderson e Donald R. Leal: L’ecologia di mercato. Una via liberale alla tutela dell’ambiente (edito nel 2008 da Lindau). Impegnati nell’applicazione di soluzioni innovative ai problemi ambientali, gli autori si focalizzano sulla necessità di definire e proteggere titoli di proprietà commerciabili. La tesi di Anderson e Leal è che se l’ambiente è di tutti (e quindi di nessuno), mancheranno gli incentivi a prendersene cura. I due studiosi non si limitano allora a mostrare i fallimenti dell’ecologismo, ma al tempo stesso sottolineano l’esigenza di responsabilizzare sempre più i comportamenti dei singoli, usando la proprietà per proteggere la natura stessa. La ricerca illustra molti casi concreti all’interno dei quali si è adottata una logica imprenditoriale ed è proprio dall’esame di queste esperienze che l’ecologia di mercato si rivela uno strumento fondamentale.
Per un lungo periodo, però, anni, la letteratura liberale sull’ambiente si è mossa soprattutto sulla difensiva: cercando di limitare le  conseguenze più nefaste di una propaganda basata su nozioni equivoche come “sviluppo sostenibile”, “diritti delle generazioni future” e “principio di precauzione”. Lo stesso volume del danese Bjørn Lomborg (L’ambientalista scettico, pubblicato da Mondadori nel 2010) ha rappresentato più una dura requisitoria verso ogni allarmismo ingiustificato che non una proposta alternativa.
Lo studio di Anderson e Leal ci dice invece che oggi è possibile essere propositivi anche in questioni che fino a poco fa erano veri e propri tabù. La situazione sta insomma iniziando a mutare, a riprova che si più imbrogliare molta gente per un breve periodo di tempo, e anche un piccolo gruppo di persone per molto tempo, ma è difficile che una serie di sciocchezze vengano accettate da un gran numero di persone e per molti anni.
In questo senso va segnalato anche il volume di Henry I. Miller e Gregory Conko, Il cibo di Frankenstein. La rivoluzione biotecnologica tra politica e protesta (edito sempre da Lindau e pubblicato nel 2008), in cui i due studiosi dissolvono i pregiudizi che ostacolano l’utilizzo delle biotecnologie in ambito agricolo, impedendoci di trarre beneficio dall’innovazione. Gli autori mostrano quale intreccio di interessi sia schierato a difesa di una demonizzazione (specialmente europea) che frena la ricerca, mantiene alti i prezzi e obbliga a utilizzare ampie estensioni. Quest’ultimo punto è interessante perché rileva come in questo caso – come già nella vicenda della mucca pazza, del bioetanolo, del Ddt e in altri casi simili – siano state proprio le tesi ecologiste a causare problemi rilevanti alla salute e allo stesso rapporto tra uomo e natura.
Anche sulle questioni energetiche sono ormai le prospettive liberali a rivelarsi meglio in grado di affrontare il futuro. Evidenziando che non saranno il solare o l’eolico a risolvere i nostri problemi, un esperto di questioni energetiche quale Carlo Stagnaro – direttore del dipartimento Energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni – nel 2005 aveva curato un volume (Più energia per tutti. Perché la concorrenza funziona, edito da Leonardo Facco) nel quale aveva mostrato come più competizione in tale settore significhi una maggiore efficienza per l’economia nel suo insieme: e come per questo sia necessario non già moltiplicare i vincoli, ma invece rimuovere le barriere all’ingresso, alleggerire la regolamentazione, evitare una tassazione discriminatoria delle fonti.
Qualche anno dopo Stagnaro – che da qualche mese è consulente del ministro Guidi – è tornato su tale problema con una corposa ricerca, nella quale ha coinvolto un gran numero di esperti. Intitolato Sicurezza energetica. Petrolio e gas tra mercato, ambiente e geopolitica (edito da Rubbettino) lo studio ha analizzato i problemi dell’energia attraverso tre principali fattori: le politiche economiche, le politiche ambientali e la politica internazionale. Ne è derivata una proposta che è un mix di fiducia nella razionalità umana, difesa del mercato, riduzione dei conflitti internazionali (grazie a relazioni politiche improntate alla negoziazione e agli scambi).
“Pace e commercio” era la divisa dei liberali fin nell’Amsterdam secentesca, ma può essere uno slogan efficace ancora oggi per affrontare con realismo questioni su cui gli ecologisti verde-rossi hanno davvero ben poco da dire.
Produttività, l’Italia perde punti preziosi

Produttività, l’Italia perde punti preziosi

Carola Olmi – La Notizia

L’Istat ha recentemente certificato che il costo del lavoro in Italia è in linea con la media europea. Dal 2007 stiamo assistendo a una compressione dei salari reali che, in linea teorica, potrebbe rendere le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali. Per comprendere se un Paese sia più o meno competitivo, occorre però analizzare il livello non soltanto dei salari reali ma anche quello della produttività. E in Italia questa è sensibilmente diminuita.

Le cause sono sia la scarsa attitudine delle nostre imprese e dello Stato a investire in ricerca e sviluppo sia la crescita a un ritmo sempre più basso dello stock di capitale utile alla produzione (un dato che serve a capire se le imprese continuano a investire nell’impresa). Significa che senza innovazione non si possono fare passi avanti nella produttività, ma anche che senza investimenti non avremo mai alcuna innovazione. Lo dimostra una ricerca realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni.

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Produttività: il vero problema dell’Italia

Produttività: il vero problema dell’Italia

Abstract

L’Istat ha recentemente certificato che il costo del lavoro in Italia è in linea con la media europea. Dal 2007, in realtà, stiamo assistendo a una compressione dei salari reali che, in linea teorica, potrebbe rendere le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali. Come dimostriamo in questo lavoro, non basta analizzare i livelli di salario reale per capire se un paese è più o meno competitivo: bisogna guardare anche alla produttività. Da questo punto di vista, ci si accorge che dal 2007 al 2013 oltre agli stipendi è calata la produttività e per cause che spesso non hanno a che fare con la crisi economica.

Le retribuzioni

Hanno suscitato un vivo dibattito, per almeno un giorno, i dati ISTAT sulle retribuzioni in Italia.

grafico 1

FONTE: Struttura del costo del lavoro – ISTAT (2014)
 
Come si può vedere, i dati riportati, che fanno riferimento alla situazione nel 2012, presentano un Paese in cui la somma fra la retribuzione lorda e i contributi sociali si pone subito sotto la media dell’Area Euro. Un fatto che smonta molti luoghi comuni sull’alto costo del lavoro in Italia: un costo elevato se paragonato a quello presente in Polonia, ma inferiore a quanto pagato in Francia o in Germania. Secondo dati più recenti riguardante il periodo fra 1° trimestre del 2009 e il 2° trimestre 2014, il costo del lavoro è variato sostanzialmente poco e non sempre al rialzo, con una netta flessione verso l’immobilità dal 3° trimestre del 2013.

grafico 2

FONTE: ISTAT- INDICATORI DEL LAVORO NELLE IMPRESE (2014)
 
A questo punto, c’è da chiedersi cosa sia accaduto negli altri paesi, per poter capire se effettivamente negli anni stiamo assistendo a una crescita o a una riduzione del salario degli occupati italiani relativamente ai loro colleghi di altri paesi europei.
Secondo quanto descritto in un recente lavoro dell’ILO, International Labour Organization, l’agenzia dell’Onu che si occupa di monitorare le variabili chiave del mercato del lavoro (occupati, retribuzioni, qualità forza lavoro, ecc…) e di promuovere nel mondo le migliori pratiche per favorire un’occupazione diffusa, regolare e sicura, in Italia il salario reale, ovvero la retribuzione lorda commisurata al costo della vita, è scesa dal 2007 del 6%. Un calo questo più rilevante di quello registrato, per esempio, in Portogallo o in Irlanda.

grafici 3 4

FONTE: ILO Global Wage Report 2014/15
 
In Italia, soprattutto dal 2010, il potere d’acquisto dei salari è sceso del 6% e c’è quindi poco da meravigliarsi se la domanda interna non si riprende: meno soldi ai lavoratori, meno consumi. Questo vuol però anche dire che se il lavoro costa meno, a parità di ogni altro fattore le aziende diventano più competitive. Questa spinta verso una maggior competitività dovrebbe riflettersi nel tempo nella produzione di beni e servizi meno costosi, e quindi più appetibili sui mercati internazionali. Così, di solito, vengono interpretati questi dati nei mass media.
Eppure, mancano due elementi per comprendere se davvero questa riduzione del reddito da lavoro porterà veramente a un aumento della competitività del sistema, un aumento che a regime potrà creare nuovi posti di lavoro e rilanciare la domanda interna. Il primo elemento riguarda la produttività. Il secondo elemento ha a che fare con la massa di denaro appannaggio dei lavoratori stipendiati, la stragrande maggioranza della forza lavoro.

La produttività

A un bravo imprenditore dovrebbe interessare poco quanto costa un dipendente: finché costui rende all’impresa più di quanto essa spenda per averlo a sua disposizione, ci sono buone ragione per assumere delle persone. Si pensi al calcio, un settore in cui la forza lavoro è molto costosa (si prendano i dati sui giocatori più pagati del calcio nazionale o europeo per farsene un’idea).
Seguendo questa catena di ragionamento, si argomenta che se il costo del lavoro diminuisce, un’impresa sarà più competitiva e cioè: pagando meno una persona che compie un certo lavoro, il lavoro costerà meno e potrà essere venduto a un prezzo più basso. Se, ad esempio, si riduce la tariffa kilometrica dei taxi, ogni tratta costerà di meno, rendendo così più competitivo il servizio di taxi rispetto alle alternative presenti (es.: bici, auto privata, mezzi pubblici, ecc…).
Purtroppo spesso si da per scontato che la produttività non cambia nel tempo, rimanendo costante indipendentemente dalla paga o da altri fattori. Semmai, questa aumenta a seguito di investimenti specifici.
E’ ovvio che una persona ben pagata lavora meglio, se non altro perché vede riconosciuto il suo impegno. In ogni caso, questo ragionamento serve a far comprendere che l’analisi del costo del lavoro senza l’analisi della produttività non porta a nessuna conclusione azzeccata. Così come senza un’analisi della cause che portano a modificare il costo del lavoro o la produttività, non si può pensare di proporre una qualsiasi riforma che sortisca degli effetti positivi nel medio-lungo periodo.
Eurostat, l’istituto di statistica europeo, fornisce dati molto interessanti sulla produttività. Nella tabelle che riportiamo in Appendice, l’Istituto analizza i dati sulla produttività reale per addetto nei 28 paesi dell’Europa Unita. Fatto 100 la produttività misurata nel 2010, l’Italia ha un valore di 102 nel 2004, raggiunge un valore pari a 103 nel 2007, e scenda a un valore di 98 nel 2013. Quindi, alla riduzione del 6% del salario intercorsa fra il 2007 e il 2013 si è accompagnata una riduzione della produttività per addetto del 4,85%.
Attenzione a leggere bene questi dati: si guardi il caso della Germania e della Spagna. In Germania il salario è cresciuto, fra il 2007 e il 2013, del 3%, mentre la produttività per addetto è scesa del 2%. Però nello stesso periodo la disoccupazione è scesa di circa il 3%, facendo sì che vi fossero più addetti e quindi, a parità di produttività, abbassando il valore della produttività per addetto (produttività totale / occupati).
In Spagna, invece, a fronte di un calo del salario reale del 3%, c’è stato un aumento della produttività per addetto del 10%. Eppure la Germania tira, la Spagna no. Questo si spiega con riferimento al numero di addetti: infatti, se la disoccupazione aumenta più della produttività totale dovremmo assistere a un aumento della produttività per addetto. In Spagna la disoccupazione è aumentata ed è circa il doppio della nostra: ora è circa al 25%, era poco più dell’8% nel 2007. Meno persone che fanno le stesse cose, produttività che sale. Fra Germania e Spagna c’è una differenza di 20 punti nel tasso di disoccupazione e questo spiega la differenza fra i dati dei due paesi.
In definitiva, come emerge dalla seguente figura, l’Italia ha molti punti di produttività da recuperare. E da anni, da ben prima dell’introduzione dell’Euro.
Grafico X: Relazione fra la retribuzione reale per addetto e la crescita della produttività nelle principale economie sviluppate, 1999-2013

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FONTE: ILO Global Wage Report 2014/15

Il settore manifatturiero

Nello specifico, prendendo a riferimento il comparto manifatturiero, il settore che traina sostanzialmente il nostro export e che da lustro all’idea di Made in Italy, come fa osservare il Centro Studi di Confindustria (Scenari Industriali, giugno 2014), dal 2007 al 2013 il manifatturiero in Italia ha perso competitività rispetto ai partner europei sia in termini di produttività oraria sia di costo del lavoro:

grafico 6

Come riporta il Centro Studi di Confindustria, a commento del grafico appena riportato:
«Sul piano internazionale il manifatturiero italiano ha perso competitività in termini di CLUP2 rispetto sia alla media dell’Eurozona sia ai singoli principali paesi (che infatti si collocano tutti nel quadrante in basso a destra del grafico), dato che la produttività del loro manifatturiero è cresciuta più che in Italia, con un costo del lavoro che è aumentato a ritmo inferiore. Durante la crisi anche l’industria manifatturiera tedesca ha sofferto in termini di produttività, che è cresciuta solo dell’1,5%. L’andamento del costo del lavoro in Germania è stato, tuttavia, ben più contenuto che in Italia (+14,8% cumulato), grazie a una moderazione salariale già in atto nel periodo pre-crisi e che si è allentata solo di recente. Tra il 2007 e il 2013 il CLUP tedesco ha pertanto registrato un incremento pari al 13,0%. Ciò fa sì che dall’inizio della crisi la competitività di costo del manifatturiero italiano sia arretrata rispetto a quella dell’industria tedesca di 6,2 punti percentuali, aggravando il già ampio divario accumulatosi nel decennio precedente (35 punti dal 1997 al 2007)» (p. 51)
Nel settore manifatturiero, il CLUP è aumentato del 20% in 6 anni (2007-2013), rendendo il settore meno competitivo. E non c’è svalutazione che tenga per riportare competitività ad un sistema che ha dei problemi strutturali! A conferma di quanto detto prima, come si vede nel seguente grafico riportato nell’ottimo studio di Confindustria anche nel settore manifatturiero il problema della competitività del sistema Italia ha una storia lunga almeno 3 lustri.

grafico 7

Esistono molteplici spiegazioni alla base di una scarsa competitività del sistema Italia. Qui vogliamo riportare due soli dati: l’andamento dello Stock di capitale fisso e la spesa in Ricerca e Sviluppo. Il primo dato serve a capire se le imprese continuano a investire nell’impresa e il secondo dato serve a capire se il sistema Italia investe per sviluppare nuove tecnologie, nuovi prodotti, nuovi processi.
Stock di capitale lordo, stock di capitale netto e ammortamenti, Anni 1980-2009.
(Variazioni percentuali, Valori concatenati – Anno di riferimento 2000)

grafico 8

FONTE: ISTAT – Investimenti fissi lordi per branca proprietaria, stock di capitale e ammortamenti.
 
Come si vede, lo stock di capitale netto nel paese cresce ad un tasso sempre più basso, specialmente negli anni dello sviluppo massiccio dell’informativa applicata all’industria e ai servizi (dagli anni ’90 in poi), consegnandoci all’alba della crisi un Paese poco attrezzato per rispondere con la tecnologia alle sfide che ha davanti. Non va meglio, ovviamente, alle spese per Ricerca & Sviluppo: le imprese coprono il 50% delle spese in R&S, lo Stato l’altro 50%, con valori al di sotto della Spagna o del Portogallo.

grafico 9

 

Senza innovazione non si possono fare passi avanti nella produttività. Ma senza investimenti, non avremo mai alcuna innovazione.

Conclusioni

I salari reali sono diminuiti e ora sono in linea con la media Europea: questo ci ha detto l’Istat poche settimane fa. Se non fosse accaduto null’altro, questa sarebbe una buona notizia. Purtroppo, come abbiamo cercato di mettere in luce in questo studio, la riduzione del salario si accompagna a una riduzione della produttività che ha fra le sue cause una scarsa attitudine delle imprese italiane e dello Stato a investire in R&S e nello stock di capitale utile alla produzione. Ai lettori lasciamo trarre le conclusioni sulle vere urgenze del paese.

Appendice

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