italia oggi

Molto meglio aumentare i super ammortamenti

Molto meglio aumentare i super ammortamenti

di Massimo Blasoni – Italia Oggi

Ridurre le tasse è ormai il mantra del programma elettorale di ogni partito. Un obiettivo ovviamente lodevole, quantunque non sempre siano esplicitamente evidenziate le coperture per la sua attuazione. Di più, se la ripresa del Paese non può che essere conseguenza dello sviluppo delle nostre aziende va condiviso l’obiettivo di agire innanzitutto sulle imprese. Negli Stati Uniti ad esempio Trump ha ridotto dal 35% al 21% la corporate tax e meglio ancora si è fatto nel Regno Unito dove da aprile 2017 si è abbassata l’imposta sul reddito d’impresa al 19%. Occorre però chiedersi se l’obiettivo di ridurre imposte e gabelle sulle imprese si possa conseguire anche indirettamente e promuovendo ancor più crescita e investimenti. Diciamolo semplicemente, ridurre l’Ires incrementando gli utili d’impresa non ha come conseguenza necessaria che quelle risorse vengano poi reinvestite in azienda o con altri acquisti. Non è improbabile che nel clima attuale, ancora di incertezza, la destinazione di parte rilevante di quegli importi potrebbe essere il risparmio. Quest’ultimo è virtuoso ma di certo non genera sviluppo. Secondo Banca d’Italia ci sono mille miliardi parcheggiati sui conti correnti degli italiani. Forse sarebbe meglio incrementare i super ammortamenti per gli investimenti fatti in azienda, allargando lo spettro di quelli attualmente ammessi.
La misura, parte del programma Industria 4.0, sta ottenendo importanti risultati ma potrebbe essere resa molto più vantaggiosa. Se si aumentano gli ammortamenti si riduce l’imposizione fiscale ma questo beneficio si ottiene solo a patto di investire con conseguenti sviluppo e innovazione. Un’ultima considerazione. L’edilizia in Italia è il comparto che più ha sofferto la crisi economica con una contrazione del 32% della produzione dal 2010 ad oggi. Consentire il super ammortamento anche degli investimenti in questo settore -quindi sull’acquisto di immobili- rappresenterebbe un eccezionale volano. Meno tasse sì, ma anche più investimenti.

Italia, il peggior fisco d’Europa

Italia, il peggior fisco d’Europa

Cristina Bartelli – Italia Oggi

Italiani schiavi del fisco. Nell’indice della libertà fiscale 2016, redatto dal centro studi Impresalavoro, l’Italia risulta essere all’ultimo posto nella classifica finale dei 29 paesi analizzati nella loro libertà impositiva. Davanti a tutti i paesi dell’area Euro, più la Svizzera, incoronata regina della libertà fiscale.

L’indice, scrive il centro studi fondato dall’imprenditore Massimo Blasoni, è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali «analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale». Sono presi in esame il numero di procedure necessarie per pagare le tasse, il numero di ore necessarie per pagare le tasse, il total tax rate sulle imprese, i costi per pagare le tasse, la pressione fiscale sul Pil, la variazione della pressione fiscale dal 2000 al 2014 e il tax rate delle famiglie. Le banche dati a cui il centro studi ha attinto, rielaborando le informazioni, sono quelle di Eurostat e Doing business (Banca mondiale). L’Italia con 14 procedure per pagare le tasse, 11 giorni dedicati agli adempimenti e 7.600 euro di costi per la burocrazia fiscale occupa se non gli ultimi, tutti i posti di coda di ciascuna delle tabelle dei singoli indicatori.

Le procedure necessarie per pagare le tasse. È la Svezia a essere sul podio come paese con il più alto livello di semplificazione: sono sei gli appuntamenti con la cassa fiscale dei contribuenti svedesi. L’Italia ne ha 14 come la Romania, ma fanno peggio la Croazia (19), la Svizzera (19), il Lussemburgo (23) e Cipro (27).

Il numero di ore necessarie per pagare le tasse. I consulenti e i contribuenti lussemburghesi dedicano «solo» 55 ore, poco più di due giorni, allo smaltimento degli adempimenti tributari. L’Italia è in fondo alla classifica: richiede ai suoi professionisti e volenterosi dell’adempimento 269 ore annue, pari a 11 giorni e 2 ore. Peggio fanno la Polonia con 271 ore, il Portogallo con 275 ore, l’Ungheria con 277 ore, la Repubblica Ceca, 405 ore e la Bulgaria con 423 ore (17 giorni dedicati allo smaltimento delle scartoffie fiscali).

Total tax rate sulle imprese. Con questo indicatore nello studio si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo Stato sotto forma di tasse e contributi sociali. La Croazia, a pari merito con il Lussemburgo, sono i due Stati che impattano di meno nei conti delle azienda. Il peso è del 20%. L’Italia, in questa categoria arriva ultima con un peso pari al 64,8%. Non sono messe meglio comunque la Francia coni il 62,7% e il Belgio con il 58,4%.

Costo per pagare le tasse. Altra maglia nera per l’Italia in questa categoria. Il nostro paese fa pagare il prezzo più elevato in procedure burocratiche per essere in regola con il fisco. Una sorta, la definisce lo studio, di tassa sulle tasse. Si parla cioè di 7.559 euro annui che si perdono nei rivoli della burocrazia. In questo caso, in compagnia dell’Italia, agli ultimi posti c’è la Germania con 7.020 euro, seguita dal Belgio con 6.295 euro. In Romania, invece, l’esborso si ferma a 795 euro.

Pressione fiscale sul pil. Per il calcolo dell’indice è l’indicatore di maggior rilievo, quello che misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese. In questa classifica l’Italia si ferma al 43,6%. Il paese con la pressione fiscale più alta è la Danimarca, al 50,7%. Al primo posto la Svizzera con il 27,1%.

Variazione pressione fiscale dal 2000 al 2014. In questo caso peggio dell’Italia fanno solo Grecia, Malta e Cipro,

Tax rate sulle famiglie. Anche sulla pressione fiscale delle famiglie l’Italia è nelle ultime posizioni con un’incidenza del 28,28%. Peggio fanno l’Austria, la Grecia, la Germania, la Danimarca e il Belgio, che risulta essere il paese più «ostile» con una incidenza del 36,88%.

Scarica l’articolo in formato Pdf

 

 

Pensioni, c’è un effetto livella

Pensioni, c’è un effetto livella

Paolo Ermano – Italia Oggi*

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto reso le pensioni, più o meno volutamente, uno strumento di riduzione delle diseguaglianze. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno infatti reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista del reddito. Sia ben chiaro: una popolazione che si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, però, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’Indice di Gini, descrive una situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, sia per la popolazione dei pensionati.

Il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle indagini sui bilanci delle famiglie italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica. Il valore dell’Indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37. Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato sigificativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati: dal 1995 a oggi l’Indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010. Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. 

Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione. Se questo andamento continuerà, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Nel dettaglio dell’indice suddiviso per sesso troviamo una sostanziale parità di genere. L’Indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’Indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l`Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale.

Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese. Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’Indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30. E sembra proprio questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

*Docente di Economia internazionale al’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Leggi l’articolo di Italia Oggi in formato pdf

Le attese ottimistiche aiutano nel braccio di ferro con la Ue

Le attese ottimistiche aiutano nel braccio di ferro con la Ue

Luigi dell’Olio – Italia Oggi

All’analisi del Centro studi ImpresaLavoro presto potrebbe aggiungersi un altro tassello di errori per eccesso di ottimismo. Infatti, anche per il 2016 l’Italia si avvia verso una crescita su ritmi più contenuti rispetto a quanto stimato dal governo. Nei giorni scorsi l’Ocse ha detto di attendersi per l’anno in corso un Pil in crescita dell’1% netto rispetto a quanto registrato nel 2015, contro il +1,6% usato dall’Esecutivo nella definizione della legge di Stabilità. Uno scostamento non di poco conto, dato che sta a indicare il 37,5% di crescita stimata in meno. Evidentemente Renzi e i suoi ministri si attendevano una più rapida ripresa da parte della Cina e non avevano messo in conto un nuovo indebolimento delle principali grandezze macro nel Vecchio continente.

Tuttavia, se si considera che gli errori negli ultimi anni sono stati generalizzati, senza particolari differenze quanto al colore politico della compagine di governo, è legittimo avanzare il sospetto che non si sia trattato solo di valutazioni errate per incapacità. A maggior ragione se si considera che gli errori nella medesima direzione hanno coinvolto anche gli esecutivi guidati da economisti. Probabilmente nella redazione dei documenti di bilancio per l’anno a venire entrano in gioco una serie di valutazioni politiche che vanno a inficiare la “purezza” delle stime. Questo vale a maggior ragione dall’ingresso in Europa, con tutti i paletti che ne conseguono per i singoli Stati aderenti.

Nel momento in cui il governo indica la sua previsione in merito al Pil dell’anno successivo, fissa una bandierina intorno alla quale costruire tutti gli interventi. Infatti, dai tagli di spesa a eventuali nuove tasse fino alla dismissione di beni pubblici, tutto viene parametrato al Pil atteso in modo da rispettare i vincoli europei. Eccedere nell’ottimismo significa non dover agire con l’accetta, quanto meno in un primo momento. Se poi nella realtà si verificano le condizioni che confermano le previsioni, ogni preoccupazione viene accantonata. Se la crescita si rivela invece inferiore alle attese, si potrà imputare il dato a cause esterne (come la turbolenza dei mercati finanziari o l’improvvisa frenata degli emergenti) per sforare rispetto alle regole europee. In caso di stime effettuate con un atteggiamento prudenziale, si rischierebbe un effetto poco gradito dai politici: quello di una crescita economica superiore alle attese che farebbe accelerare il calo del deficit e del rapporto debito/pil più di quanto imposto dall’Europa. A quel punto reclamare spazi di manovra per premiare il rispetto delle attese sarebbe difficilmente produttivo.

Considerazioni da tenere ben presenti nelle prossime settimane, dato che è iniziata l’analisi in vista del Def 2017 che già parte con 24 miliardi di euro da trovare per non far scattare le clausole di salvaguardia (a cominciare da un nuovo aumento dell’Iva). E il conto è destinato a salire per finanziare interventi a sostegno della crescita. Così non ci sarebbe da stupirsi in caso di nuove stime ottimistiche.

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

Tino Oldani – Italia Oggi

La pressione fiscale era intorno al 15% del pil in epoca fascista, è salita al 18% nel dopoguerra, per attestarsi intorno al 20% nel 1972, quando Bruno Visentini varò una storica riforma tributaria, che introdusse la trattenuta alla fonte sui redditi da lavoro. Da allora, la pressione fiscale è cresciuta di continuo, fino ad attestarsi al 43,7% attuale, con le tasse locali che negli ultimi vent’anni sono cresciute del 248% e quelle nazionali del 72%. È da questi dati che prende le mosse un bel libro («Privatizziamo!»; Rubbettino), scritto da un imprenditore di prima generazione del Nord Est, Massimo Blasoni, 45 anni, che, in base all’esperienza personale (è stato anche in politica), giudica ormai inaccettabile la pervasività asfissiante dello Stato in ogni settore, uno Stato cresciuto troppo, che si nutre di troppe tasse, uno Stato inefficiente e in perenne deficit, che va messo a stecchetto al più presto, con una radicale politica di privatizzazioni, lasciando al settore pubblico soltanto l’esercito, la giustizia e la polizia, oltre al compito di fare le leggi.

Blasoni è a capo di un’azienda che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani, ha 1.600 dipendenti, e fa buoni utili. In passato è stato consigliere comunale a Udine per Forza Italia, ed è stato poi eletto consigliere regionale in Friuli, risultando il più votato. Ma, di quell’esperienza, non conserva un buon ricordo. Anzi, nel libro racconta la delusione che provò quando propose di istituire un Fondo regionale di garanzia, per dare liquidità alle aziende friulane in crisi, e la burocrazia regionale si mise di traverso. Un superburocrate regionale non trovò di meglio che affossare l’iniziativa con un sorrisetto di scherno: «Eh, voi imprenditori. Gli imprenditori evadono, già facciamo molto per le imprese, bisogna sostenere i lavoratori non le imprese, e la burocrazia ha i suoi tempi”. Purtroppo, tempi vergognosamente lenti: “Da un anno e mezzo”, annota Blasoni, “attendo la concessione di una licenza edilizia in Veneto, e con me tutti i lavoratori impegnati nel progetto, mentre le Asl piemontesi impiegano mediamente dieci mesi per i pagamenti».

Uscito dalla politica, Blasoni ha fondato un proprio centro studi (ImpresaLavoro), che negli ultimi due anni ha messo insieme una montagna di dati sui danni dello statalismo. I confronti con gli altri paesi sono impietosi. Se in Italia ci fosse la stessa pressione fiscale che c’è in Germania (39,4%, contro il nostro 43,7%), pagheremmo 54 miliardi di tasse in meno ogni anno. Andrebbe ancora meglio se da noi ci fosse la pressione fiscale della Spagna (34%): 145 miliardi di tasse in meno. Per rilasciare una concessione edilizia, la burocrazia italiana impiega 233 giorni, contro 96 della Germania e 87 della Gran Bretagna. Lo Stato, in media, paga le forniture private con un ritardo di 144 giorni, mentre la media Ue è di meno di un mese, con il risultato che lo Stato non è ancora riuscito a pagare i debiti che aveva con i fornitori privati, cosa che Matteo Renzi ha dato più volte per fatta. «Come ha certificato la Banca d’Italia, mancano ancora 70 miliardi», sostiene Blasoni.

La scarsa efficienza di tutti i servizi pubblici, dalla sanità agli sportelli comunali, si deve al fatto che lo status dei dipendenti pubblici è tuttora diverso da quello dei privati, un punto sul quale né il Jobs act, né la riforma Madia hanno cambiato una virgola. «Lo so per esperienza diretta», dice Blasoni: «Un sindaco non ha neppure il potere di spostare un impiegato da un ufficio a un altro. E un lavoratore privato, quando deve fare la fila a uno sportello pubblico, è il primo a toccare con mano che i tempi di lavoro dell’impiegato pubblico sono molto diversi da quelli che vigono in ogni azienda privata. Ecco perché serve una riforma vera della burocrazia, che renda paritario lo status dei dipendenti pubblici e privati, ma soprattutto privatizzi tutti quei servizi che i privati svolgerebbero con maggiore efficienza rispetto a Comuni e Regioni».

Lo Stato vuole fare tutto, anche l’immobiliarista, ma lo fa male. «Prendiamo l’Inps: possiede 22.500 immobili, del valore di 3,2 miliardi, ma ci rimette più di 100 milioni ogni anno nella gestione. È il segno che funziona male», sostiene l’imprenditore friulano. «Visto che la riforma Fornero ha reso le pensioni contributive, che senso ha fare gestire ancora i contributi previdenziali a un ente pubblico inefficiente come l’Inps? Una società privata li gestirebbe meglio. Lo Stato, poi, che aspetta a dismettere l’immenso patrimonio immobiliare, visto che lo gestisce così male?».

L’organizzazione del settore pubblico che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo. Ma non sta scritto da nessuna parte che uffici pubblici, scuola, sanità, trasporti, pensioni e acqua debbano essere gestite direttamente dallo Stato. Tanto più se il costo dell’intermediazione politica (fatta di Cda, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti) genera costi impropri, che vengono fatti pagare a tutti noi, famiglie e imprese, con una tassazione folle. Contro lo Stato cattivo imprenditore e cattivo immobiliarista, che si è trasformato in un’idrovora fiscale pur di mantenere un apparato burocratico pletorico, a stipendio garantito e ostile all’impresa, c’è un solo rimedio, per Blasoni: privatizzare. Difficile dargli torto.

Leggi l’articolo sul sito di Italia Oggi

Le sanzioni comunali a dieta, i dati di ImpresaLavoro

Le sanzioni comunali a dieta, i dati di ImpresaLavoro

di Gloria Grigolon – Italia Oggi

Sanzioni e multe non fanno ingrassare le casse locali. Il gettito comunale extratributario degli ultimi cinque anni legato a sanzioni amministrative, ammende e oblazioni è infatti diminuito del 17,82%; una situazione che, a detta di Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, mostra la buona condotta dei Comuni, che non hanno spinto sulle entrate «extra» al fine di colmare gli ammanchi derivanti dalla riduzione dei trasferimenti. La maglia nera per multe riscosse spetta a Milano (con una sanzione pro capite di 139 euro), mentre la città meno sanzionata risulta essere Latina (11,75 euro).

Sono questi alcuni dei dati diffusi ieri dal centro studi ImpresaLavoro (sui dati Siope, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici del Ministero delle finanze), relativi alle sanzioni riscosse dai Comuni italiani. «I comuni» ha sottolineato l’Anci «non hanno utilizzato le multe in forma impropria, nonostante negli ultimi cinque anni siano stati soggetti a una riduzione dei trasferimenti senza precedenti». Nonostante il calo delle riscossioni, nell’ultimo anno il trend è rimasto sostanzialmente stabile (+0,24%, circa 1,26 mld di euro). Il Comune che in rapporto agli abitanti ha incassato di più tra sanzioni, ammende e oblazioni è stato Milano, seguito da Firenze, Bologna, Parma e Torino. Napoli divide in due la classifica (con multe medie da 38,97 euro), mentre il minor gettito si è registrato a Latina, Potenza, Siracusa, Trieste e Novara.

In sei anni fallite 75mila aziende

In sei anni fallite 75mila aziende

Tancredi Cerne – Italia Oggi

Italia maglia nera per numero di fallimenti. Nei sei anni tra il 2009 e il 2014, infatti, sono fallite 75.175 aziende, uno dei valori più alti tra i Paesi dell’area Ocse. L’allarme è contenuto nell’ultimo rapporto del Centro studi ImpresaLavoro. Rielaborando i numeri forniti dall’Ocse gli analisti hanno evidenziato come, rispetto al 2009, i fallimenti di imprese in Italia siano cresciuti del 66,3%, passando dai 9.383 del 2009 ai 15.605 del 2014. «Nel 2014 il numero di fallimenti negli Usa è stato inferiore a quello del 2009 del 55,1% , nel Regno Unito del 23,4% , in Germania del 20,5%». Anche laddove 1’uscita dalla crisi è sembrata più lenta (Francia), il fenomeno pare comunque sotto controllo, con il numero di imprese fallite in calo dell’1,1%.

L’Italia è ancora ampiamente al di sopra dei livelli pre-crisi, con un’escalation negativa che solo quest’anno sembra destinata a interrompersi. «I primi due trimestri del 2015», ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «lasciano intravedere un rallentamento nel numero di fallimenti. La nostra stima è un calo di 1.300 fallimenti rispetto al 2014, con un livello complessivo che dovrebbe attestarei sui valori del 2013». Secondo Blasoni «anche con questo miglioramento» l’Italia resterà quella «che ha reagito peggio alla crisi internazionale».

Imu agricola col perdono

Imu agricola col perdono

Francesco Cerisano – Italia Oggi

Niente sanzioni e interessi per i ritardati o erronei versamenti dell’Imu agricola. Si è chiuso ieri, ultimo giorno per pagare l’imposta, la telenovela che per due mesi ha creato tensioni nel governo e tra i contribuenti, fino ad arrivare al clamoroso dietrofront con cui l’esecutivo ha abbandonato la classificazione altimetrica tornando a quella Istat. La buona notizia è che a coloro che hanno sbagliato a versare non dovrebbero essere irrogate sanzioni da parte dei Comuni, a condizione che la regolarizzazione avvenga in tempi brevi. Un emendamento in tal senso potrebbe essere depositato in commissione Finanze del Senato dove è all’esame il decreto legge n.4/2015. Quello che ha esentato totalmente 3.456 Comuni classificati come totalmente montani dall’Istat, non facendo pagare l’Imu ai coltivatori diretti e agli imprenditori agricoli negli enti parzialmente montani. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, sull’ipotesi di sanatoria sarebbe già al lavoro il relatore, Federico Fornaro, che peròo attenderebbe l’ok del governo per formalizzare la proposta, a favore della quale militerebbero ragioni di «galateo tributario» (lo Statuto del contribuente sterilizza le sanzioni in presenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma e vieta di imporre adempimenti fiscali prima che siano decorsi 60 giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni) unite a un importante precedente: quello della cosiddetta «Mini-Imu» del 2014. Se ne saprà qualcosa in più domani quando il governo sarà presente in commissione per iniziare a valutare gli emendamenti che dovranno essere presentati entro le ore 18. Tra questi, un nutrito pacchetto di proposte di modifica arriva dall’Anci che ieri in audizione ha rimarcato i molti punti di criticità lasciati aperti dal decreto.

Pur apprezzando il provvedimento, in quanto riduce da 359 a 230 milioni i tagli per i Comuni, risultando meno penalizzante (rispetto al dm 28 novembre 2014) soprattutto per gli enti montani, l’Anci continua a rimarcare come si tratti di una «decurtazione di risorse certe a fronte di un gettito ipotetico e di difficile recupero». Secondo l’Associazione dei Comuni, le stime di gettito potenziale previste dal Mef sono sbagliate in eccesso e non tengono conto delle difficoltà che i sindaci incontreranno nel riscuotere l’Imu soprattutto in presenza di versamenti di modico valore. Per questo l’Anci ha chiesto, in sede di conversione del dl 4, l’inserimento di «opportune modalità di verifica del gettito e di eventuale compensazione dei minori importi che ne potranno risultare». E anche secondo l’associazione guidata da Piero Fassino, gli eventuali ritardi nel pagamento dell’imposta non dovranno essere sanzionati, in considerazione dei tempi stretti fissati per il versamento (il decreto che ha spostato la scadenza al 10 febbraio è stato varato solo il 23 gennaio) e delle «connesse difficoltà di assicurare un’adeguata pubblicità dei nuovi obblighi tributari».

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Tra circa un mese partirà il quantitative easing della Banca centrale europea. Senza limiti predefiniti, inizia con acquisti di 60 miliardi di titoli di stato al mese e dovrebbe durare fino a settembre 2016, ma tutto dipende dall’andamento dell’inflazione: se rimane troppo lontana dal valore target del 2% la Bce andrà avanti con il Qe. Con un limite molto importante, però. La banca presieduta da Mario Draghi potrà comprare solo titoli di paesi membri che abbiano almeno un rating «investment grade». Non, quindi, le obbligazioni classificate come spazzatura dalle agenzie di rating. Il merito di credito della repubblica italiana, com’è noto, è solo un gradino al di sopra della soglia dei junk bond. BBB- è l’ultimo rating del Btp, un notch di distanza dal livello dei junk bond che li renderebbe inacquistabili dalla Bce.

L’Italia, dunque, balla sul ciglio del quantitative easing: senza riforme e senza ripresa economica rischia un nuovo downgrade e con esso l’esclusione dai benefici della manovra varata da Francoforte. Significa che le agenzie di rating hanno ora un vero cannone a disposizione per forzare la mano dei governi della periferia mediterranea dell’Eurozona e costringerli a fare vere riforme dei singoli mercati e le eventuali necessarie privatizzazioni. Per una ragione semplicissima: il ribasso alla categoria C del rating dei Btp si tradurrebbe, automaticamente nei fatti, nell’attivazione del cosiddetto scudo antispread, cioè nella richiesta da parte dell’Italia del programma Omt che permette alla Bce di comprare anche i titoli spazzatura dei paesi che hanno già concordato con Bruxelles e Francoforte un piano di interventi e di riforme. In pratica a Roma sbarcherebbe la Troika.

L’allentamento monetario di Francoforte rappresenta l’ultimo giro di campo per i paesi europei a basso rating ed elevato spread. Devono viverlo come l’ultima spiaggia, l’ultima occasione offerta dalla Bce per aiutare e rendere fattibile un programma di ambiziose riforme, accompagnate da tagli strutturali della spesa corrente, la cosiddetta spending review della burocrazia, e da sensibili cali nella pressione fiscale. Solo così il pil si rimetterà in moto e il rating uscirà dall’area rischiosa del giudizio «spazzatura». Non c’è più possibilità di comprare altro tempo: o Roma fa le riforme oppure perde la sovranità. E farsi distrarre dalla demagogia inconcludente di Alexis Tsipras non serve a nulla per raggiungere l’obiettivo che interessa all’Italia. Roma non è Atene, perché ha una vera manifattura e una vera economia da difendere.

Delega fiscale contro il tempo

Delega fiscale contro il tempo

Beatrice Migliorini – Italia Oggi

Recuperare il comitato ristretto per licenziare nel più breve tempo possibile tutti i decreti legislativi già pronti e scongiurare il fantasma della proroga a fine anno. Questa, in base a quanto risulta a Italia Oggi, la strategia che governo e parlamento starebbero mettendo in campo per dare forma entro la scadenza di fine marzo al contenuto della legge 23/2014 (delega fiscale). A quasi un anno dall’approvazione della legge delega sono, infatti, solo tre i dlgs che hanno ricevuto il via libera delle camere: il semplificazioni fiscali, la riforma delle commissioni censuarie e la riforma della tassazione delle accise sui tabacchi. Di questi, solo i primi due sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale non, però, senza qualche difficoltà. Un ritmo a dir poco insostenibile per un testo che nasce con l’ambizione di essere quanto meno un’opera di manutenzione straordinaria del sistema fiscale italiano. Ecco, quindi, che per ottimizzare il fattore tempo la soluzione comitato ristretto potrebbe tornare utile.

L’idea, su cui il cui governo dovrà pronunciarsi in queste ore, sarebbe quella reinstaurare il gruppo di lavoro trasversale alle due camere e ai partiti politici. Questa operazione potrebbe, infatti, consentire un rapido esame preliminare dei testi una volta licenziati da palazzo Chigi, in modo tale che una volta giunti all’esame delle Commissioni finanze a ranghi completi siano sufficienti un paio di sedute per esprimere il parere al testo. Ammesso e non concesso che il meccanismo funzioni, sarà poi compito dell’esecutivo non apportare ulteriori modifiche ai testi dei decreti, per evitare di ricadere in dinamiche simili a quelle che hanno dettato le sorti del dlgs sulle semplificazioni fiscali (cambiato dal governo in seconda lettura). Un lavoro che, se ben strutturato, potrebbe portare a licenziare quasi dieci decreti (tra cui, il dlgs contenente i punti cardine della riforma del catasto, il dlgs sulla fatturazione elettronica, sulla certezza del diritto e sui giochi) entro la fine di marzo.

Una missione ai limiti dell’impossibile ma che potrebbe concretizzarsi laddove il governo volesse con ogni mezzo possibile evitare la strada della proroga che assomiglierebbe molto ad una sconfitta. Ma per non rischiare un’altra stoccata a vuoto e lasciare comunque aperta la strada dello slittamento dei termini restano ancora in piedi le altre due opzioni incardinate alla Camera: il ddl di proroga a firma di Marco Causi (Pd) e Daniele Capezzone (Fi) i cui lavori inizieranno questo pomeriggio e il dl Milleproroghe al vaglio delle Commissioni affari costituzionali e bilancio di Montecitorio. E proprio la mancata presentazione di un emendamento ad hoc contenente la proroga sia da parte dell’esecutivo, sia da parte di esponenti della maggioranza, suggerisce che palazzo Chigi e via venti settembre stiano cercando ogni strada per evitare lo slittamento dei termini.