lavoro

In busta paga la crisi non è uguale per tutti

In busta paga la crisi non è uguale per tutti

Francesca Barbieri – Il Sole 24 Ore

Direttore generale, responsabile corporate banking, informatore scientifico del farmaco e capo turno. Sono questi i “vincitori” delle quattro categorie del borsino delle professioni realizzato da Od&M, la società specializzata in Hr consulting di Gi Group, su un campione di oltre 420mila profili retributivi per altrettanti dipendenti del settore privato. L’obiettivo? Individuare in un momento di crisi del mercato del lavoro italiano quali sono le attività che offrono gli stipendi migliori. Nel borsino, però, non si considera solo l’andamento dei cinque “mestieri” meglio retribuiti, ma si mettono sotto la lente anche quelli meno pagati. Il tutto distinto per quattro livelli di inquadramento, dall’apice fino alla base della piramide aziendale: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Sui gradini inferiori alla media si rintracciano le figure It, insieme a quelle tradizionali di staff e ai profili poco specializzati.

I dirigenti
A livello apicale si registra un gap del 62% tra i poli opposti sulla scala retributiva, con uno stipendio medio di 112.340 euro lordi l’anno. I direttori generali guadagnano 133mila euro contro gli 82mila dei responsabili di manutenzione dello stabilimento (ultimi in classifica). Tra le cinque professioni più pagate prevalgono le posizioni di direttore, mentre all’opposto troviamo i responsabili dei sistemi qualità, dell’area tecnica, dello sviluppo software, della manutenzione e il project leader It. Ma considerando il trend degli ultimi 5 anni emerge che le funzioni che hanno visto la crescita più timida sono quelle meglio retribuite, mentre hanno evidenziato una dinamica positiva quelle più in basso, in particolare l’ultima in classifica – il responsabile manutenzione di stabilimento – ha visto aumentare la propria retribuzione di oltre il 10%. Nel 2014, poi, sono cresciuti di più il direttore pubbliche relazioni (+8,8% sul 2013) e il country manager (+6 per cento). «Si tratta dei ruoli più critici nel mercato – commenta Simonetta Cavasin, general manager di Od&M – fortemente focalizzati sui risultati, quindi preziosi per le aziende».

Middle manager e impiegati
Le buste paga dei quadri sono decisamente inferiori rispetto a quelle dei dirigenti e ammontano in media a 54.233 euro, con l’unica eccezione del responsabile corporate banking (84mila euro l’anno) che batte l’ultimo in classica dei top manager. «In generale – commenta Cavasin – a vincere sono le figure manageriali o di responsabilità, mentre quelle meno retribuite riguardano ruoli più operativi, come la segretaria di direzione e gli specialisti formazione». Tra i colletti bianchi guadagna la vetta, un po’ a sorpresa, l’informatore scientifico del farmaco, che intasca il 54% in più della retribuzione media degli impiegati (44mila euro l’anno rispetto a circa 29mila) e il doppio dell’operatore grafico che, all’opposto, risulta il meno pagato. «Gli informatori – commenta Fabio Carinci, presidente della Federazione delle associazioni italiane di categoria – mantengono buoni livelli retributivi, anche se, complice la crisi, negli ultimi anni sono calati di numero e oggi sono circa 12mila». Il mercato comunque si muove. L’agenzia per il lavoro Randstad segnala tra le ricerche aperte quelle di laureati in farmacia e in scienze dell’alimentazione, o comunque in materie sanitarie a indirizzo scientifico. «Gli informatori sono figure specializzate – spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria -fondamentali in primis per l’aggiornamento dei medici sui nuovi prodotti. In generale poi in tutta l’industria farmaceutica gli stipendi sono di buon livello per le figure qualificate che vi operano grazie alla produttività elevata del settore». In generale tra gli impiegati, sull’orizzonte di 5 anni, a crescere di più sono stati i responsabili business development (+13,9%) e commerciale (+13,8%). Figure, queste ultime, spesso impiegate all’interno di piccole aziende in ruoli molto vicini a quelli dirigenziali.

Operai
Sul podio delle tute blu troviamo capo turno (31mila euro), capo squadra produzione e capo squadra manutenzione (29mila euro). All’opposto, invece, le figure meno qualificate, come l’addetto di cucina (21mila euro), il cameriere (20mila euro) e il barista (19mila euro) rispetto a una media di categoria di 23.884 euro. Considerando gli anni dal 2009 in poi, il trend è positivo per quasi tutti i ruoli e in particolare per il capo squadra produzione (+12%) e per il verniciatore (+10 per cento).

Settori e comparti
A livello settoriale, sono le banche e le assicurazioni a offrire i migliori stipendi ai dirigenti (+12% rispetto alla media), mentre il comparto con le retribuzioni più basse è l’edilizia (97mila euro, il 13,5% sotto la media). I quadri guadagnano oltre la media solo nel campo del credito, mentre l’industria premia di più impiegati e operai: sono in particolare la farmaceutica e la chimica a riconoscere compensi superiori rispetto alla media di oltre il 15 per cento.

Il trend dal 2002
Analizzando, infine, la dinamica retributiva rilevata negli anni 2000, gli esperti di Od&M evidenziano l’andamento in tre periodi distinti: dal 2002 al 2007 le retribuzioni sono cresciute ben più dei prezzi al consumo (eccezion fatta per gli impiegati). Dal 2007 al 2011 si è verificata una stagnazione, che ha prodotto un calo di potere d’acquisto significativo: gli operai, per esempio, hanno visto salire la busta paga di appena lo 0,6% in media l’anno, contro un’inflazione cresciuta del 2,2%. Dal 2011 il trend si è invertito: crescita superiore all’inflazione, in primis proprio per le tute blu. «Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014 – conclude Cavasin – le retribuzioni sono salite di poco, ma grazie a un buon incremento avvenuto nel 2012 e a un rallentamento del costo della vita, si è realizzata negli ultimi tre anni una crescita, seppur lieve, del potere d’acquisto, con l’eccezione del middle management».

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Paolo Baroni – La Stampa

Ci sono parrucchieri ed estetiste, spesso ex dipendenti licenziati, che continuano ad esercitare a casa loro o direttamente a casa dei clienti, tassisti completamente abusivi o che magari «sforano» in comuni limitrofi a quelli per cui hanno la licenza, idraulici ed elettricisti che tirano giù la serranda ma che poi continuano come se nulla fosse a prestare i loro servizi, e ancora trasportatori per conto terzi senza la necessaria abilitazione. Per non dire poi di imbianchini e muratori. C’è gente che fa il doppio lavoro e ci sono anche tanti cassintegrati che in questo modo cercano di arrotondare. Complice la crisi l’esercito degli abusivi cresce anno dopo anno. Oggi sono un milione, o quasi, calcola l’ufficio studi di Confartigianato. O meglio sono 881mila, ma visto in media lavorano molte più ore dei regolari «valgono» come 1 milione e 34mila persone, o «unità di lavoro equivalenti a tempo pieno» (ula) per usare il termine dei tecnici. Il tasso di irregolarità, tra i lavoratori autonomi, tocca così il 13,8%. Ovvero, un occupato su 7 è in nero. Se poi si allarga lo sguardo al totale dell’economia il conto degli irregolari, calcolando anche i 2.204.000 lavoratori dipendenti a loro volta «in nero», sale a quota 3 milioni e 85 mila, con un tasso complessivo di irregolarità del 12,4%.

Concorrenza sleale
Questo esercito di abusivi non solo «fa concorrenza sleale alle imprese regolari – è scritto nel rapporto di Confartigianato, che ha elaborato i dati contenuti nei conti nazionali pubblicati dall’Istat a settembre, e che La Stampa pubblica in esclusiva – ma determina una rilevante evasione fiscale». Usando come reddito la media rilevata dagli studi di settore, Confartigianato stima che la presenza di una fetta così ampia di lavoro irregolare determini un’evasione fiscale e contributiva da parte dei soli lavoratori autonomi pari a 11,78 miliardi: 3,8 miliardi di Iva, 2,8 di Irpef, 604 milioni di Irap e 4,54 miliardi di contributi sociali. Tanto per fare un paragone: l’importo evaso dagli abusivi, in media 14.209 euro a testa all’anno, rappresenta lo 0,7 del Pil ed equivale alla spesa sanitaria di Veneto e Marche messe insieme.

Chi è più esposto
Ovviamente le imprese artigiane regolari sono tra le più esposte alla concorrenza sleale del sommerso: circa i due terzi del settore (923.559 imprese, 1.750.427 di addetti) sono a rischio. In cima alla lista “altri servizi alla persona” con un tasso di esposizione del 24,5%, servizi di alloggio e ristorazione (22,1%) e le attività di trasporto e magazzinaggio (19,5%) che in tutto assommano 333.748 imprese e 650.743 addetti. Particolarmente esposti anche parrucchieri ed estetiste, settore che conta 126.790 imprese e 229.300 addetti. In valori assoluti tra le regioni più «colpite» ci sono Lombardia (con 172.688 imprese, pari 18,7% del totale dell’artigianato più esposto), Emilia-Romagna (10,2), Veneto (9,6) e Piemonte (9,5). Commenta il presidente nazionale di Confartigianato, Giorgio Merletti: «Smettiamo di tollerare l’abusivismo e le attività irregolari come se fossero un male necessario. Il fenomeno del sommerso è un’emergenza nazionale, una grave minaccia per il Paese e per il sistema produttivo, soprattutto per artigiani e piccole imprese. Noi piccoli imprenditori siamo le prime vittime della concorrenza sleale di chi opera senza rispettare le leggi, sottraendo gettito alle casse dello Stato e minacciando la sicurezza dei consumatori».

Il record in Campania
In termini assoluti la metà degli occupati irregolari totali si concentra in cinque regioni: l’11,6% in Campania con 357.400 unità, il 10,7% in Sicilia (329.400), il 10,1% in Lombardia (312.600), il 9,4% in Lazio (290.900) e l’8,2% in Puglia con 253.400 unità. In Calabria un terzo (35,3%) degli occupati è irregolare, in Molise, Sardegna, Basilicata e Sicilia viaggiano sul 25%, Campania e Puglia sono attorno al 20. Il tasso di irregolarità più basso è pari al 5,9% e si rileva nella Valle d’Aosta. Un terzo (34,2%) degli occupati irregolari, pari ad oltre un milione (1.054.600 unità), si concentra nelle sette prime province: Roma (222.500 unità), Napoli (200.900), Milano (157.300), Torino (126.700), Bari (106.500), Palermo (87.900), Cosenza (78.500) e Salerno (74.300). Ma a livello provinciale i picchi si toccano a Crotone con il 40,1%, a Vibo Valentia (39,3%) e Catanzaro (37,8%).

Come rimediare a tutto ciò? «Non servono interventi spot e dichiarazioni di buone intenzioni – spiega Merletti -. Il fenomeno del sommerso va combattuto senza ipocrisie e in modo strutturale, intervenendo sulle cause che lo favoriscono, vale a dire tutto ciò che ostacola l’attività delle imprese che lavorano alla luce del sole, a cominciare dal carico fiscale e contributivo troppo elevato e dall’eccesso di burocrazia».

 

Il Jobs Act c’è. Poche chiacchiere

Il Jobs Act c’è. Poche chiacchiere

Il Foglio

È sbagliato considerare chissà quale retromarcia i ritocchi annunciati al Jobs Act, compresa la possibilità di reintegra (peraltro demandata ai decreti D’attuazione) per circostanziati licenziamenti disciplinari. Chi lo dice guarda al dito anziché alla luna. Il primo soddisfa le temporanee vanità di minoranze e partitini che giustificano così la propria presenza. La luna è l’introduzione anche in Italia della regola aurea di ogni paese civile: non esiste lavoro senza giusto profitto, e non esiste l’abbonamento a vita al posto fisso, mentre in una vita è lecito e spesso utile cambiare più lavori. La riforma introduce il diritto dell’imprenditore a licenziare, dietro indennizzo, per motivi economici: è così ovunque, anche nell’Europa del Welfare state, ma per l’Italia pare una rivoluzione.

Gli stranieri, imprese e istituzioni come Banca centrale europea e Ocse, dicono che qui è più facile separarsi dalla moglie che da un dipendente. Basta guardare ai 118 milioni di ore di cassa integrazione, in gran parte straordinaria, erogati in dieci mesi per mantenere posti fasulli, spesso con aziende decotte o chiuse. L’equiparazione tra “lavoro” e “posto” non esiste nelle economie ad alta occupazione, ma resta un dogma per la Cgil dello sciopero surreale del 5 dicembre, e per la Fiom che ha cavalcato quello “sociale” di ieri. Nel quale sono echeggiate minacce per Matteo Renzi, proprio nelle ore in cui alcuni suoi collaboratori venivano costretti sotto scorta. In Italia per impedire le riforme del lavoro si è ucciso: non dimentichiamolo ora che si ha il coraggio di cambiare.

Né stop né retromarce

Né stop né retromarce

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Come una coperta corta il Jobs Act scopre le contraddizioni della maggioranza sul tema del lavoro. Mettere d’accordo Maurizio Sacconi, da una parte, e Cesare Damiano, dall’altra, su un tema ostico come l’articolo 18 è impresa difficile anche per un tessitore abile come Matteo Renzi. Non c’è da sorprendersi, quindi, se al momento di tirare le somme emergano quelle divergenze. Il tema della riforma del lavoro, come ribadito tra gli altri in queste ore dal presidente della Bce Mario Draghi, è però troppo importante per restare ostaggio delle divisioni. È sulla capacità di portare a termine entro la fine dell’anno le nuove regole dell’impiego, infatti, che si gioca la credibilità della capacità riformista non tanto di questo governo, ma dell’Italia nel suo complesso. Tanto più che dal 1° gennaio entrerà in vigore la decontribuzione per chi assume a tempo indeterminato e saranno disponibili nuove risorse per chi perde il posto di lavoro, così come è previsto nella Legge di stabilità.

Non è il momento perciò di stop o di inciampi. Nello stesso tempo va ribadito che non è una riforma purchessia quella che serve. Già ai tempi del governo Monti si è sacrificata l’efficacia della riforma del lavoro sull’altare della mediazione politica. La conseguenza sono stati tre anni di regole che hanno penalizzato e non favorito la creazione di posti di lavoro. Rifare lo stesso errore sarebbe un delitto. È presto per dire se l’accordo interno al Pd configuri appunto un passo indietro. Il testo sull’articolo 18 uscito dalla direzione del Partito democratico, che riapriva al reintegro nel caso dei licenziamenti disciplinari, lo era certamente rispetto all’impostazione originaria di Renzi. Ma la materia si presta a molte sfumature e a molte interpretazioni. Perciò bisognerà aspettare la formulazione degli emendamenti del governo per capire quanto l’esigenza di mediare con la sinistra del Pd possa comportare un effettivo indebolimento della riforma.

Le rassicurazioni che ieri sono arrivate dal premier, e dal suo delegato alla trattativa Filippo Taddei, fanno ben sperare sulle reali intenzioni del governo. Nessuno dalle parti di Palazzo Chigi sembra intenzionato a riallargare in modo ampio e pericoloso le tipologie per le quali ritorna il reintegro in caso di licenziamento. Tanto che anche la posizione del Nuovo centrodestra, dopo il primo allarme, si è fatta in serata più prudente e più ottimista sull’esito finale della trattativa. Il Jobs act ha un suo equilibrio che non va snaturato. Poi toccherà ai decreti attuativi, che saranno il vero cuore della riforma. E su questi il governo potrà avere le mani più libere. Purché, appunto, il Parlamento non introduca in extremis vincoli in una direzione conservatrice.

Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti

Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti

Sergio Patti – La Notizia

La pubblica amministrazione non sta affatto riducendo i suoi debiti con le imprese creditrici. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Dunque, limitarsi a liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce lo stock complessivo dei debiti: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa».

Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. «Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta» è la conclusione di Blasoni. «Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi circa e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente».

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

Claudio Antonelli – Libero

Il sistema di sussidi a chi è rimasto senza lavoro dal punto di vista finanziario non sta più in piedi. Già nel 2010 a lanciare l’allarme è stato il ministero delle Finanze. Nel frattempo anche le novità avviate sotto la competenza di Elsa Fornero non hanno invertito il trend. Nel periodo 2007-2013 la spesa complessiva per il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è cresciuta in modo rilevante, passando dai 7,9 miliardi complessivi per cassa integrazione guadagni, mobilità e disoccupazione del 2007 ai 23,6 miliardi del 2013, importo che comprende anche le nuove misure introdotte dalla riforma Fornero come le ASPI e mini-ASPI.

Ad analizzare nel dettaglio i numeri dell’intero comparto dei sostegni è stato il Centro Studi ImpresaLavoro, ideato dall’imprenditore del Nord-est Massimo Blasoni. Ne risulta che «la spesa per ammortizzatori sociali è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi)», si legge nello studio. «Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo». Ovviamente fino al 2007 nessuno si è posto il dubbio. Tanto meno si è messo al lavoro per riformare il sistema. D’altronde le uscite eccedenti vanno a carico della fiscalità generale e nel 2007 erano una cifra pari a zero: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013. E nel triennio precedente la cifra complessiva è arrivata a 38,1 miliardi. La cifra pesa sull’intera comunità, mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori).

E per di più – si evince dallo studio – non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Senza dimenticare che la rigidità dei contributi ha un effetto deleterio sul mondo del lavoro. Basta pensare che l’Aspi non vincola il disoccupato ad accettare altri posti su scala nazionale.

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

ABSTRACT

La spesa per ammortizzatori sociali in Italia è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi). Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento a cui è riservata la copertura. Di questi 9 miliardi annui, una quota appena inferiore ai 4 costituisce formalmente la contribuzione a copertura della cassa integrazione guadagni, sia essa ordinaria o straordinaria; 600 milioni circa sono le entrate (a carico delle imprese) a copertura dell’indennità di mobilità, mentre la restante parte è destinata all’indennità di disoccupazione e alle neonate ASPI e mini-ASPI. Le uscite eccedenti (nulle nel 2007) vanno a carico della fiscalità generale: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013 (38,1 miliardi la spesa del triennio 2011-2013).
Già nel 2010, il MEF rilevava che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia risulta eccessivamente oneroso (per le imprese e per lo Stato), poco universale, iniquo nei sistemi di finanziamento e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo. Mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono ad un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori), il sistema è finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso; inoltre non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Il paper analizza nel dettaglio i costi complessivi del sistema, le modalità con cui essi vengono finanziati, separando il contributo a carico delle imprese da quello a carico della fiscalità generale, ed inoltre analizza la struttura degli strumenti attivati ed alcuni principi e ipotesi di una loro riforma.
Scarica il Paper di ImpresaLavoro: Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia
Rassegna stampa
Libero
Il Fatto Quotidiano
Soltanto dal lavoro verrà la ripresa

Soltanto dal lavoro verrà la ripresa

Marco Fortis – Il Sole 24 Ore

L’Italia aspetta invano la ripresa da oltre due anni. Immancabilmente ogni trimestre è sembrato essere quello buono per la ripartenza ma le previsioni sono state sempre brutalmente smentite. Il Pil ha continuato a calare, affondato da consumi e investimenti, e fatica a ripartire. La principale ragione di ciò è che l’economia non invertirà la tendenza negativa fintanto che l’occupazione non ricomincerà a crescere. Allora, con la fine dell’agonia del mercato interno, ci sarà la svolta.

Da ottobre 2008 ad aprile 2014 gli occupati, secondo le serie destagionalizzate dell’Istat, sono diminuiti di oltre 1 milione e 100mila unità. Metà dei posti di lavoro persi hanno riguardato i giovani dai 15 ai 24 anni. Ma da aprile a settembre di quest’anno forse le cose stanno finalmente cambiando. Gli occupati totali sono cresciuti di 153mila unità, 82mila dei quali soltanto nell’ultimo mese, dopo la ripresa dalle ferie. Inoltre, la caduta degli occupati tra i giovani sembra essersi fermata.

Che cosa sta succedendo? Valutazioni più precise saranno possibili soltanto tra alcuni giorni quando l’Ista pubblicherà i dati trimestrali sull’occupazione aggiornati a settembre, con un elevato grado di dettaglio sia per macro-settori sia per macroaree geografiche. Per intanto, disponiamo delle rilevazioni Istat relative al secondo trimestre di quest’anno, che già indicavano linee di tendenza piuttosto chiare. Infatti, considerando le variazioni tendenziali, nel secondo trimestre 2014 si rilevava una crescita di 124mila addetti nell’industria in senso stretto rispetto al secondo trimestre 2013 e una crescita di 15mila addetti nell’agricoltura nello stesso periodo. Presentavano invece ancora cali tendenziali significativi i servizi (-92mila addetti) e le costruzioni (-61mila addetti). Se poi analizziamo le statistiche per aree geografiche, notiamo che nel secondo trimestre 2014 il Nord presentava già una modesta crescita degli occupati totali rispetto al secondo trimestre 2013 (+36mila), così come il Centro (+40mila), mentre risultava an cora in forte calo il Mezzogiorno (-90mila).

Da questi dati appare chiaro che l’occupazione italiana non si smuoverà stabilmente dal fossato in cui è sprofondata durante la crisi se non ricominceranno ad aumentare a livello nazionale gli addetti nei servizi e nelle costruzioni, o almeno in uno dei due comparti (fermo restando che industria e agricoltura mantengano i precedenti recuperi). A livello geografico serve invece che riparta l’occupazione nel Mezzogiorno, altrimenti il dato nazionale resterà zavorrato a dispetto dei miglioramenti nel Nord e nel Centro. Incrociando i segnali disaggregati dei dati trimestrali sull’occupazione italiana, fermi per ora a giugno con quelli mensili aggiornati a settembre, possiamo dedurre che qualcosa di positivo sta effettivamente accadendo. E cioè che dopo l’industria e l’agricoltura qualche altro macro-settore (i servizi? le costruzioni?) probabilmente si è ripreso nel terzo trimestre di quest’anno e che forse l’emorragia di posti di lavoro nel Mezzogiorno si è arrestata o è, quantomeno, diminuita.

Se queste impressioni dovessero essere convalidate dalle prossime rilevazioni trimestrali dell’Istat sull’occupazione aggiornate al terzo trimestre 2014, ne risulterà che finalmente l’attesa svolta dell’economia italiana è cominciata. A quel punto l’ attenzione si sposterà sui mesi a cavallo tra la fine di quest’anno e l’inizio dell’anno prossimo. Cruciale sarà il miglioramento del clima di fiducia di famiglie e imprese (con la stabilizzazione degli 80 euro in busta paga, il taglio della componente lavoro dell’Irap e gli incentivi fiscali sulle nuove assunzioni). E non secondario risulterà il prevedibile impatto positivo sul quarto trimestre 2014 e sul primo trimestre del 2015 degli investimenti in macchinari favoriti dalla nuova legge Sabatini. Se tutti gli ingranaggi fin qui inceppati (lavoro, consumi e investimenti) ricominceranno a muoversi nel modo giusto, forse il motore del nostro Pil riuscirà finalmente a scaricare un po’ di potenza sul circuito ad handicap della

Bertelli, la Camusso della moda

Bertelli, la Camusso della moda

Gaetano Pedullà – La Notizia

Patrizio Bertelli è da ieri la Camusso della moda. Non che si sentisse bisogno di nuovi sindacalisti, ma il personaggio più noto al pubblico come Mr. Prada (dal cognome della moglie, la stilista Miuccia) non ha resistito a bombardare la giornalista Gabanelli. L’inchiesta sulle oche spennate vive per produrre a due euro i piumini Moncler ha messo in agitazione i padroni delle griffe. E dopo essersi morso la lingua per dieci giorni alla fine Bertelli è scoppiato. Il servizio di Report – ha detto – è la dimostrazione della stupidità umana. Ora, premesso che informare i cittadini fa cultura (come la moda, d’altronde), l’imprenditore diventato ricchissimo con il marchio di famiglia (e molta finanza) si è preso una sacrosanta bastonata dalla stessa Gabanelli. Mr. Prada è infatti indagato per un’elusione fiscale da mezzo miliardo. Naturale che sia un signore che non ami certa pubblicità, preferendo acquistarne per milioni sui giornali, così da promuovere il brand e – mentre ci siamo – far dimenticare le sue pendenze tributarie. La moda è una cosa seria, ma certa arroganza non è di moda. E l’informazione – quella vera – non è pubblicità che si compra come una borsetta.