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Non si usi la Costituzione per difendere l’articolo 18

Non si usi la Costituzione per difendere l’articolo 18

Andrea Del Re – Corriere della Sera

Il sondaggio di Nando Pagnoncelli (Corriere, 28 settembre) evidenzia che il 53% degli italiani non sa cosa preveda l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Quella norma rimane dunque più un tema della politica che non del sentire quotidiano. Il che conforterebbe l’assunto di quanti sostengono che si tratti di una mera battaglia ideologica. L’articolo 18 si applica a circa un terzo dei lavoratori – chi si trova in imprese sopra i 15 dipendenti (tranne sindacati, partiti, associazioni culturali). Il datore di lavoro sotto quella soglia, in caso di licenziamento illegittimo, se la «cava» con un risarcimento massimo di 6 mensilità, salvo che non venga dichiarato discriminatorio. «Precari» sono dunque, di fatto, tutti i dipendenti, anche a tempo indeterminato, sotto il fatidico numero di 15 assunti.

Vista l’imbarazzante applicazione di certa magistratura, nel 1985 e nel 1987 il «padre» dello Statuto, il giurista socialista Gino Giugni, tentò invano di modificarlo spostando la soglia a 80 dipendenti e 5 miliardi di lire di fatturato. Nel ’90, Dc e Pci approvarono la possibilità per il lavoratore, vinta la causa, di rinunciare al reintegro in cambio di 15 mensilità. Sono rari i casi in cui il lavoratore abbia poi preferito la reintegrazione al risarcimento: il che dimostra l’inapplicabilità dell’art. 18 nella pratica quotidiana. La Consulta, nel ’92, ritenne legittima tale scelta. Nel 2000, la stessa Corte dichiarò l’ammissibilità del referendum per l’abrogazione dell’articolo 18, definendolo una norma dal contenuto non «costituzionalmente vincolato». Il reintegro è solo «uno del modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro»; senza di esso «resterebbe comunque operante la tutela risarcitoria» di cui si sottolineò la «tendenziale generalità». Dai ripetuti pronunciamenti della Consulta, in modo inequivocabile, si ricava che 1’articolo 18 non ha valore di intangibilità costituzionale e può essere sostituito dalla sola tutela risarcitoria – questa sì indefettibile.

Si fa presto a dire “Tfr in busta”

Si fa presto a dire “Tfr in busta”

Massimo Calvi – Avvenire

L’anticipo della liquidazione in busta paga, secondo l’ipotesi più generosa allo studio del governo, dovrebbe portare nelle tasche dei lavoratori 100 euro netti in più al mese, se la media sono i redditi da 23mila euro lordi. Una retribuzione più “ricca”, tuttavia, può produrre un effetto poco simpatico per le famiglie con figli, come ha messo in evidenza un dossier di “Repubblica”: il rischio è perdere una parte di detrazioni e poi finire anche in una fascia Isee più alta, e dover dunque pagare rette più care per asili nido, mense scolastiche o tasse universitarie, fino a vanificare il beneficio dell’aumento, quando non a renderlo sconsigliabile.

Non è un problema del Tfr, è una questione antica che si ripropone. In sostanza il combinato tra un fisco modellato sul reddito individuale, che non valuta adeguatamente i carichi familiari, e la struttura delle tariffe dei servizi per i minori legate ai redditi, finisce per generare situazioni paradossali. È come se il sistema “spingesse” i cittadini ad accontentarsi di uno stipendio contenuto, ad avere pochi figli e a non darsi molto da fare per migliorare la propria condizione di lavoro: tanto poi scattano gli aumenti di tasse e tariffe. Un’incoerenza che dovrebbe spingere chi si interroga sulle ragioni della mancata crescita dell’Italia a concentrarsi anche sulle responsabilità del sistema fiscale.

Il vero punto critico resta in ogni caso il deficit strutturale di attenzione alle famiglie, in particolare a quelle numerose, e ai bambini in generale. A tutti i livelli. Il peso delle rette di nidi e mense, con i rincari diffusi, rappresenta oggi una delle voci più importanti nei bilanci delle famiglie. Oltretutto, l’uso improprio dell’indicatore Isee non per agevolare le fasce deboli, ma per “tassare” quelle medie, finisce per penalizzare chi paga già le tasse e contribuisce in modo progressivo al finanziamento dei servizi pubblici. L’anticipo del Tfr nelle buste paga dei lavoratori può forse servire a rilanciare i consumi. Ma è difficile che questo si verifichi – l’esperienza del bonus da 80 euro insegna – in assenza di altri interventi, considerato che ogni misura che non tiene conto dei carichi familiari finisce per configurarsi come una palese ingiustizia.

Lavoratori stranieri in Italia: dal 2005 al 2013 le rimesse ai paesi d’origine hanno sfiorato i 54 miliardi di euro

Lavoratori stranieri in Italia: dal 2005 al 2013 le rimesse ai paesi d’origine hanno sfiorato i 54 miliardi di euro

Dal 2005 al 2013 le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole (e per certi versi sorprendente) di quasi 54 miliardi: per la precisione 53.893.978.000 euro.
Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai circa 7,3 miliardi del 2011 ai circa 6,8 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai circa 5,5 miliardi del 2013 (-19,4%). Quanto al 2014 le rimesse finora effettuate da gennaio a giugno ammontano a circa 2,6 miliardi di euro (per la precisione a 2.596.987.998 euro).

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Limitatamente al 2013, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1.178.434.000 euro trasferiti nei rispettivi Paesi d’origine), nel Lazio (1.058.866.000 euro), in Toscana (603.734.000 euro), in Emilia-Romagna (443.460.000) e in Campania (330.618.000 euro).
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Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro Studi “ImpresaLavoro” (che contempla cittadini di 197 nazionalità differenti) risulta che nei primi sei mesi del 2014 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (72.772.334 euro) e cinesi (69.681.999 euro). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Bangladesh (27.489.667 euro), dalle Filippine (26.827.167 euro), dal Marocco (19.988.166 euro), dal Senegal (17.873.667 euro), dall’India (17.629.667 euro), dal Perù (15.540.333 euro), dallo Sri Lanka (14.483.167 euro) e dall’Ucraina (12.933.667 euro).
Decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito in patria da gennaio a giugno scorso: al primo posto della classifica risultano gli spagnoli (3.475.333 euro), seguiti da francesi (2.332.000 euro), tedeschi (2.256.333 euro), britannici (1.739.667 euro) e greci (1.038.333 euro). Osservando nel dettaglio questa classifica, si osserva infine come i lavoratori provenienti dalla Federazione russa si collochino al 24° posto (con 3.359.500 euro trasferiti in patria) subito prima di quelli provenienti dagli Stati Uniti d’America (con 2.733.833 euro).

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Tfr, nessuno ha detto quale sarebbe l’aliquota Irpef da applicare

Tfr, nessuno ha detto quale sarebbe l’aliquota Irpef da applicare

Giuseppe Marini – Il Tempo

La ricetta data da più parti per tentare di risanare la nostra economia è stata, come è noto, quella di un alleggerimento della pressione fiscale sulle imprese finalizzata ad agevolare nuove assunzioni e, soprattutto, nuovi investimenti. Il Governo, fedele al principio che i consigli gratuiti non devono essere seguiti, nel mezzo di un acceso (e in buona parte inutile) dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori tira fuori dal cilindro l’ennesima trovata che è quella di mettere in busta paga tutto o parte del Tfr. E ciò, sembra di capire, per rafforzare il potere di acquisto immediato dei lavoratori.

Come sempre accade, non si dice come ed in quali tempi tale “sconvolgente” innovazione possa essere attuata. Ad esempio, non è stato chiarito quale sarebbe l’aliquota d’imposta che dovrebbe scontare il Tfr pagato in busta paga. Al riguardo, occorre ricordare che la tassazione agevolata del Tfr risponde all’esigenza di evitare che il relativo importo, venendo incassato una tantum pur derivando da un processo produttivo pluriennale, determini un prelievo fiscale ingiustamente gravoso per l’effetto dell’aumento progressivo delle aliquote Irpef. Ma se il Tfr viene incassato in tante soluzioni spalmate nel tempo, tale effetto distorsivo non si realizza in capo al contribuente e sarebbe ragionevole una tassazione ordinaria per chi, liberamente, scegliesse di ricevere il Tfr in busta paga. Inoltre, non si dice come la misura in parola possa essere attuata senza incidere (e in modo devastante) sulla liquidità delle piccole e medie imprese e senza dover fare l’ennesimo “regalo” al Fisco. È vero che le imprese dovrebbero accantonare il Tfr dovuto ai dipendenti e che, pertanto, nessuna incidenza sulla loro liquidità dovrebbe avere il “passaggio” del Tfr nella busta paga dei loro dipendenti.

Ma quanto precede vale solo in teoria ed è invece meno vero o niente affatto vero per quelle imprese, e sono ormai un numero fuori controllo, che proprio per la mancanza di liquidità economica seguono la triste via del fallimento. E la mancanza di liquidità dovrebbe essere, tra l’altro, ben conosciuta dallo Stato essendo in notevole misura imputabile allo Stato che non paga i suoi debiti. È comprensibile, pertanto, come la proposta del Tfr in busta paga abbia raggiunto l’invidiabile risultato di mettere d’accordo Sindacati del lavoratori e Confindustria e contribuire in tal modo alla realizzazione della pace sociale tra lavoratori e imprese. Anche se, una pace siffatta riflette soltanto, come si è tentato di dimostrare, l’inadeguatezza e il carattere improvvisato di certe proposte riformatrici.

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Foglio

A chi fa paura il tfr in busta paga? Non ai lavoratori, naturalmente, trattandosi di soldi loro che, sulla base delle intenzioni renziane, finirebbero in busta paga (non tutti, e peraltro in via facoltativa). Logica vorrebbe, quindi, che anche i sindacati si dicessero favorevoli. E per osmosi anche la sinistra old labour dovrebbe mostrare simpatia per un provvedimento che mette gli assunti in condizione di decidere in libertà se congelare o spendere oppure tesaurizzare a piacimento la quota annuale della così detta liquidazione. Invece no, c’e qualcosa di misteriosamente ostile alla proposta del premier Matteo Renzi, un rigagnolo limaccioso e trasversale nel quale scorre una diffidenza sospetta.

Da Confindustria alla Cgil, dai reduci inconsolabili del governo di Enrico Letta (Francesco Boccia del Pd: “Solo chi in un’azienda non ci è mai entrato può pensare che quella del tfr sia una soluzione”) agli avanzi del sindacalismo post fascista (Renata Polverini di Forza Italia), fino ad alcune molecole del mondo accademico che si pretende liberista (Cesare Pozzi della Luiss, per esempio): è tutto un coro stonato ma potente. Ma per quale ragione? Si può capire che a Giorgio Squinzi e alla sua lobby confìndustriale faccia comodo difendere il capitalismo pigro e paraculo grazie ai risparmi del lavoro dipendente ben sigillati nel proprio retrobottega. Si comprende meno come faccia Susanna Camusso ad assecondare lo stesso punto di vista, quando il suo collega/avversario Maurizio Landini della Fiom la pensa invece all’opposto.

Non si comprendono affatto le ragioni degli altri. Quelli che urlano all’attentato statale contro la vecchiaia dei prossimi pensionati; quelli che assicurano che il governo vuole finanziare la domanda attraverso il risparmio privato, o che Renzi sbloccherà i tfr per taglieggiarli meglio con altre tasse; quelli che fanno l’elogio del Bismarck inventore del Welfare prussiano, coatto e a prova d’infrazioni private. È un modo gentile per disprezzare i lavoratori, come fossero minorenni strabici, cicale pronte a rovinarsi l’ultima stagione della vita, o forse solo potenziali simpatizzanti di un governo sgradito.

La vera riforma dell’articolo 18

La vera riforma dell’articolo 18

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari. Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.

È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali. Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

Infatti nella via di un’impresa sono rari i casi in cui per sopravvivere deve licenziare, delocalizzare, oppure ridurre l’occupazione (fini per cui tra l’altro si possono attivare già altri strumenti). Rari i casi di disoccupazione tecnologica: già Sismondi, due secoli fa, ironizzava con chi teme que le roi, demeuré tout seul dans l’ile, en tournant constamment une manivelle, fasse accomplir, par des automates, tout l’ouvrage de l’Angleterre. Rari sono anche i casi opposti, in cui l’azienda aumenta gli organici perché è riuscita a invadere nuovi mercati, oppure perché ha sbaragliato la concorrenza con un’innovazione. La gran parte delle aziende, per la massima parte della loro vita, procede per variazioni incrementali, una nuova filiale di vendita, una macchina più veloce, un’organizzazione del lavoro più efficiente: la metodica, incessante, noiosa ricerca di fare le cose in modo più produttivo. Rare sono le inaugurazioni di nuovi capannoni, rare per fortuna le chiusure, la normalità è migliorare marginalmente ogni fase di ogni attività: e questo significa anche trovare persone marginalmente più capaci di svolgerle.

Fare squadra non è soltanto la qualità mitizzata di leader mitizzati, lo fanno tutte le cellule delle organizzazioni: e nessun allenatore riesce a fare squadra se la sola soluzione di cui dispone è allungare la panchina. Per questo, i miglioramenti marginali di efficienza sono «giustificato motivo economico» per licenziamenti individuali: se anche ci fosse ricorso al giudice e questo ordinasse il reintegro, l’azienda deve potere optare per l’indennizzo. È vero, l’azienda è, per storica definizione, luogo dello scontro di classe; è anche, per umane ragioni, luogo di abrasioni caratteriali: dietro il licenziamento disciplinare ci può essere una meschina ripicca, una stupida vendetta. Ma la fabbrica è anche il luogo in cui ognuno è nodo di un reticolo complesso di relazioni, verticali e orizzontali, anche i rapporti gerarchici sono trasformati dalla generale disintermediazione: sarebbe proprio stupido rischiare di danneggiare un ambiente sociale con una palese ingiustizia.

Recuperare produttività è il cuore del problema italiano. Molto dipende dai servizi erogati dallo Stato, quindi dal funzionamento dello Stato stesso, molto dalla produttività delle singole aziende. Per le poche che sono leader mondiali nei loro settori, per le tante che cercano di tenere il mare, l’aumento della produttività è un processo incrementale, che si basa sulla continua ottimizzazione delle funzioni e sulla selezione di chi meglio le sa svolgere. La produttività dell’Italia ristagna da 15-20 anni, rispetto ad aumenti molto più congrui dei paesi concorrenti: eppure il governo sembra voler lasciare a questo proposito le cose come stanno, non far nulla per facilitare questo processo di miglioramento interno.

Le nuove norme, e quindi anche il considerare «giustificato motivo economico» i miglioramenti marginali di efficienza, non si applicheranno a chi oggi ha un contratto a tempo indeterminato. E nella nostra cultura giuslavoristica rimarrà per anni il principio della job property, che la riforma avrebbe dovuto sradicare. Se per i casi di licenziamento disciplinare non si desse all’azienda la possibilità di procedere per l’indennizzo in luogo del reintegro, e se questa comunque non valesse per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato fino alla loro pensione, ci sarebbe veramente da interrogarsi sul perché di tanta contestazione a una legge che estende diritti a molti (dipendenti di aziende con meno di 15 persone, lavoratori non a tempo indeterminato, contratto di reinserimento per tutti) e non ne leva a nessuno. Verrebbe da dire che questa è stata una finta battaglia, ingaggiata soltanto per poter dire di averla vinta.

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.

Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.

Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.

Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.

Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?

Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.

Il disoccupato riluttante

Il disoccupato riluttante

Massimo Gramellini – La Stampa

Nascere a Berna presenta i suoi vantaggi. Intanto c’è una disoccupazione al 2,6 per cento, per cui hai 97,4 possibilità di trovare un lavoro o di permettere a lui di trovarti. Ma anche nel caso in cui tu faccia le capriole per sfuggirgli, usufruirai delle meraviglie del Renzi Act, che nei cantoni elvetici non è una chiacchiera da bar etrusco ma una legge che garantisce ai senza impiego un sussidio di lauta sopravvivenza. E se lo Stato, in cambio del sussidio, osa accalappiare un lavoro e addirittura proportelo? Potrai sempre fargli causa per mancanza di buongusto.

È quanto è capitato a un laureato disoccupato e sussidiato, nonché padre di neonato, che da anni studia a spese dello Stato per sostenere l’esame da avvocato. Pur di inserire una dissonanza in quell’esistenza piena di rime, gli hanno offerto un posto da spazzino. Mestiere che in Svizzera rasenta il contemplativo, dato che gli abitanti di quelle lande ossessive raccolgono, oltre alle cicche, anche la cenere e passano la cera pure sui marciapiedi. Per impugnare una ramazza simbolica, al prode laureato hanno garantito uno stipendio di 3600 euro al mese. E lui giustamente si è offeso: non tanto per la cifra, quanto per il disprezzo che da una simile proposta trasudava nei confronti dei suoi studi: un laureato in legge può al massimo spazzare il tribunale o una raccolta di codici polverosi. Lo Stato svizzero lo ha posto di fronte a un ricatto odioso: niente ramazza, niente sussidio. Così il nostro gli ha fatto causa, la prima della sua vita, ma l’ha persa. Forse neanche l’avvocato è il suo mestiere.

La riforma monca

La riforma monca

Giuseppe Turani – La Nazione

Incontro di Renzi con i sindacati (un’ora) e poi con la Confindustria per cercare di mandare in porto la contestatissima riforma del lavoro. Su un altro tavolo, riservato, proseguono intanto le trattative con la minoranza del Pd, molto contraria a dare deleghe in bianco al governo e schierata in difesa dell’articolo 18. Sarà la volta buona?

La sensazione è che il governo ai sindacati abbia più cose da chiedere che da dare: la riunione, quindi dal punto di vista della Cgil e degli altri suoi colleghi rischia di essere del tutto inutile, se non dannosa. Ma il governo potrebbe decidersi di fare qualche concessione proprio sull’articolo 18 in cambio del via libera al Tfr in busta paga. Stessa cosa, ma rovesciata con la Confindustria. Difficile immaginare l’esito delle due riunioni. E ancora di più della trattativa riservata con la minoranza Pd. Alla fine, comunque, è possibile, molto possibile, che Renzi riesca a procedere con il suo progetto di riforma del lavoro. E allora la domanda che tutti si pongono è: sarà una svolta? Servirà a creare qualche occupato in più? La risposta immediata che viene in mente è: nemmeno uno. E non è una cosa difficile da capire.

Fino a quando il sistema economico è in crisi, in recessione, come ora, si può anche stabilire che i lavoratori andranno in fabbrica o in ufficio gratis, ma nessuno li assumerà per la semplice ragione che non si saprebbe che cosa fargli fare. Dopo questa riforma, se non ci saranno cambiamenti sostanziali, il datore di lavoro avrà più libertà per disfarsi della manodopera non gradita. E questo è certamente un incentivo. Ma solo in periodi di forte crescita economica e quindi con la necessità di aumentare la produzione. In questo momento, invece, abbiamo un quarto del sistema industriale del Paese che, semplicemente, è come se non esistesse più: luci spente e fabbriche ferme. Qui è evidente che non esiste alcun problema nel rapporto con i dipendenti: sono tutti a casa. in cassa integrazione.

Nel resto del sistema produttivo c’è una situazione molto composita. Ci sono aziende che vanno molto bene (perché esportano molto) e aziende che vanno molto male (perché hanno quasi solo il mercato interno). È difficile immaginare che una riforma (per quanto ben fatta) del mercato del lavoro possa indurre le prime a esportare di più e le seconde a trovare un mercato che non c’è. Se si voleva ottenere le due cose appena dette, la strada maestra è stata indicata da tempo da tutti gli esperti: bisognava abbattere di 30-40 miliardi il peso fiscale che grava sul lavoro (portandolo così al livello di quello tedesco). Per fare questo, però, bisognava mettere in cantiere tagli di spesa pubblica almeno per analogo importo.

Ma la spesa pubblica sembra che sia un totem intoccabile. Tutti sanno che i nostri guai maggiori vengono dalle spese della pubblica amministrazione, ma alla resa dei conti nessuno riesce a toccarla. Ormai siamo al terzo governo di emergenza, tutti hanno promesso che avrebbero aggredito il moloch della spesa pubblica. Ma i risultati finora sono stati assai deludenti. Non potendo discutere di questo, che è il tema centrale della nostra precaria condizione, si discute d’altro, ad esempio del mercato del lavoro. La riforma in corso d’opera un giorno si rivelerà probabilmente utile e interessante, quando questo Paese sarà tornato a crescere. Ma nessuno sa dirci quando sarà quel giorno. Forse nel 2016, o nel 2017.

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Qualsiasi intervento sul Tfr sarà volontario e a costo zero per le imprese. Parola del governo. Alla vigilia dell’incontro con i sindacati ai quali il premier Matteo Renzi vuol far digerire il Jobs Act mettendo sul tavolo come compensazione l’anticipo delle liquidazioni sugli stipendi, si moltiplicano i messaggi rassicuranti soprattutto alle imprese che rischiano di più da questa operazione. Così prima il ministro dell’Interno Alfano e poi il viceministro all’Economia, Enrico Morando, hanno ribadito che se l’intervento andrà in porto, verrà «fatto in modo che per la liquidità delle imprese risulti neutrale e per i lavoratori non aumenti il prelievo Irpef. E comunque sarà volontario». Tra le opzioni sul tavolo anche quella di dare una compensazione alle imprese attraverso i nuovi prestiti della Bce alle banche.

Ma al di là delle rassicurazioni, resta il sospetto che il governo voglia acquisire al fisco maggiori risorse per finanziare gli 80 euro e renderli stabili. L’esperienza della Tasi che non avrebbe dovuto portare maggior onere fiscale rispetto alla vecchia Imu e che invece si è tradotta nell’ennesima batosta, è un precedente che induce a guardare con sospetto alle promesse del governo. Dai calcoli dei Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro emerge che mettere nelle buste paga il Tfr significa per i lavoratori un maggior reddito pari a circa 40 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 50%), circa 62 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 75%) e circa 82 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 100%). Il Tfr maturato ogni anno è circa 21,451 miliardi di euro. Non c’è solo il problema di privare le aziende di liquidità ma anche di asciugare la fonte principale della previdenza integrativa a cui ogni anno vengono destinati 6 miliardi del Tfr. Il dibattito si è scatenato. «La soluzione dell’anticipo del Tfr a costo zero per le aziende, paventata dal governo, è tutta da verificare» afferma il deputato di Forza Italia Luca Squeri. Per Stefania Prestigiacomo sempre di FI, «darebbe solo un colpo di grazia al Paese». Michele Perini, presidente della Fiera di Milano, lancia l’allarme: «Sarebbe un guaio grandissimo per le finanze imprenditoriali che utilizzano quella liquidità anche per far funzionare il sistema». E lancia l’alternativa: «Si può semmai discutere di Tfr futuro ma con un accesso al credito al 2,75%».