manovra

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

Maurizio Belpietro – Libero

Basta la parola, diceva Tino Scotti in un famoso spot di Carosello quando la tv era ancora in bianco e nero. Eh, si, basta la parola. O meglio, basta cambiare la parola e tutto diventa più accettabile. Da losco e brutto che era, con una parola diversa il provvedimento di un governo può diventare infatti ineccepibile e perfino bello. Ecco, si cancelli dunque il termine condono e lo si sostituisca con sanatoria, che derivando da sanare, cioè rendere sano, non fa lo stesso effetto di condono, che già da solo fa intravedere un dono. Anzi, meglio, chiamiamo la all’inglese voluntary disclosure, rivelazione volontaria, manco fosse l’annunciazione. E così, il tanto esecrato condono fiscale, ossia la madre di tutti gli orrori che a detta della sinistra favoriscono l’evasione fiscale, cambia nome e con il governo del cambiamento di verso diventa sanatoria fiscale.

A darne notizia ieri era la gazzetta dei compagni, ossia il giornale che ha tenuto a battesimo l’ascesa del presidente del Consiglio e di tutti i leader progressisti negli ultimi anni. Sulla Repubblica di Carlo De Benedetti, editore che ama a tal punto l’Italia da aver trasferito la sua residenza in Svizzera, si poteva infatti apprendere del prossimo arrivo di una sanatoria da 6 miliardi e mezzo. «Con il rientro dei capitali», titolava il quotidiano diretto da Ezio Mauro, «sconti a chi ha evaso in Italia». Magari ai lettori di Repubblica sarà saltata la mosca al naso a leggere che alla fine anche il governo del rottamatore rottama la lotta a chi ha portato i soldi all’estero, tuttavia per tranquillizzare chi aveva avuto il buon cuore di acquistarne una copia, il giornale di piazza Indipendenza precisava che sì, per i furbi ci sarebbero state sanzioni ridotte e reati cancellati – tranne che per chi ha emesso fatture false e si è macchiato di reati di mafia – ma la legge avrebbe imposto di dichiarare il nome del possessore di patrimoni non denunciati e il pagamento delle imposte.

Eh, già, ma quali imposte? n provvedimento vidimato alla Camera e ora in discussione al Senato dovrebbe imporre un’aliquota media del 37 per cento nel caso i soldi siano del tutto sconosciuti al fisco, mentre quelli su cui non si sono pagate le cedole potrebbe essere tassato con un’aliquota media del 6,75 per cinque anni. Insomma, un bei risparmio per gente che fino a ieri rischiava di vedersi requisito il patrimonio. Oggi invece con la nuova normativa in corso di approvazione, il contribuente infedele potrà tenersi il malloppo versando un po’ di soldi all’erario e senza alcun rischio penale. Considerato poi che le sanzioni applicate per il rientro di capitali all’estero che non erano stati dichiarati sono ridotte della metà e alla fine si pagherà l’1,5 per cento se le somme erano detenute in paesi appartenenti alla white list (e cioè non considerati paradisi fiscali) e del 3 per cento se invece sono depositati in banche che risiedono nei luoghi della black list (tipo quelle svizzere, dove sta l’80 per cento dei capitali all’estero) si capisce che la cosiddetta “voluntary disclosure”, ossia collaborazione volontaria dell’evasore, è assai conveniente. condono – pardon, la sanatoria consente di tenersi i soldi, versando le tasse non pagate a rate e con un’aliquota media comunque assai più conveniente di quella che si sarebbe stati costretti a pagare se si fosse dichiarato tutto al Fisco. Anche perché l’aliquota media per certi redditi (sopra i 300 mila) è pari al 45 per cento, mentre per certe aziende va oltre il 50. Insomma, se – pur con i ritocchini linguistici e i giochi di parole del politically correct – la sinistra è arrivata a varare un condono fiscale, significa che il governo sta proprio raschiando il barile nella speranza di trovare quei miliardi che gli servono per varare la legge di stabilità.

Del resto la sanatoria con l’erario non è l’unica notizia che fa intendere come il governo sia con l’acqua alla gola. È di ieri l’annuncio che dopo aver tassato i fondi pensione e introdotto la tassazione ordinaria (cioè meno favorevole per il contribuente) per il Trattamento di fine rapporto, l’esecutivo si appresta a far slittare di dieci giorni il pagamento delle pensioni, spostando la scadenza di erogazione dei vitalizi dalla fine del mese al dieci del mese successivo. La novità – che verrà introdotta a partire da gennaio – consentirà all’Inps – e dunque a Palazzo Chigi che ne ripiana le perdite – di guadagnare una decina di giorni sull’erogazione delle somme a chi si è ritirato dal lavoro, un ritardo che permetterà allo Stato di risparmiare un po’ di quattrini. In genere questi trucchi li fanno le banche, che sulla valuta di pochi giorni costruiscono parte dei loro guadagni. Adesso il gioco lo fa anche il Tesoro, il quale si abbassa al livello dei caimani dello sportello. A quando dunque l’introduzione di altre gabelle tipo quelle che gli istituti di credito sono soliti infilare nei loro estratti conto? Di questo passo per incassare la pensione presto si dovrà pagare.

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Fosca Bincher – Libero

Cedere alla proposta di Matteo Renzi e aderire alla proposta sul “Tfr nello stipendio” potrebbe mettere a rischio e non di poco quella pensione integrativa che faticosamente si è tentato di fare mettere da parte in questi anni. La certezza di vedere diminuire l’assegno c’è per tutti: alla fine dei conteggi mancheranno quei versamenti a cui si rinuncia ora per incassare subito (facendosi per altro tassare di più quella somma). Ma il taglio sarà tanto maggiore quanto più vicini alla pensione si è ora. A segnalarlo, una simulazione ancora una volta assai preziosa fatta dalla Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro: farsi ingolosire dalla sirena di Renzi potrebbe costare fra l’8 e il 22% dell’assegno mensile di previdenza integrativa che si percepirà quando si potrà andare in pensione.

Proprio la percentuale più alta chiarisce bene un punto chiave: quella possibilità di ottenere il Tfr in busta paga non è un dono fatto dal governo ai contribuenti italiani, ma la proposta di un prestito dietro cessione di un quinto dello stipendio e con grande lucro da parte dello Stato, che incassa un bell’interesse sull’operazione attraverso la maggiore imposizione fiscale. Per il contribuente italiano è più svantaggioso però di un normale prestito ottenuto da qualsiasi banca o finanziaria: perché in quel caso la cessione del quinto dello stipendio sarà limitata al raggiungimento della somma chiesta in anticipo più i relativi interessi. Nel caso proposto da Renzi sul Tfr la cessione del quinto (o del decimo nei casi più lievi) della pensione integrativa futura varrà tutta la vita, e quasi sempre supererà ampiamente il vantaggio economico che ora si percepisce.

Sono tre le simulazioni fatte dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro: quella di un giovane di 33 anni entrato nel mondo del lavoro nel 2007, aderendo fin dal primo giorno al sistema di previdenza integrativa con accantonamento del proprio Tfr. Il secondo caso è invece quello di un lavoratore di 43 anni assunto nel 1997 che versa il proprio Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Terzo caso, quello di un lavoratore sessantenne, più vicino all’età della pensione: assunto la prima volta nel 1980, versa anche lui il Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Aderendo alla proposta Renzi tutti e tre avranno tagliato per i mancati versamenti fra il 2015 e il 2018 la propria pensione integrativa.

Sarà un escalation: quel lavoratore assunto nel 2007 perderà il giorno in cui andrà in pensione l’8% del proprio assegno di pensione integrativa. E lo perderà dal giorno in cui lo percepirà fino al giorno in cui chiederà gli occhi. Quindi per 20-30 anni a seconda della lunghezza della propria vita. In valore assoluto ovviamente l’erosione dell’assegno futuro dipenderà dalla retribuzione oggi percepita: il danno va da 481,12 euro su 17 mila lordi di stipendio a 2.886,73 euro circa su 100 mila euro di stipendio.

Secondo caso: età 43 anni e ingresso nel mondo del lavoro datato 1997. Aderendo oggi alla proposta Renzi sul Tfr, l’assegno di pensione integrativa verrà tagliato dell’11% per tutta la vita. Anche in questo caso sono state ipotizzate tre fasce di reddito attuale, e in valore assoluto la diminuzione della pensione integrativa andrà da 386,95 a 2.321,69 euro l’anno (con fasce di reddito fra 17 e 100 mila euro lordi annui).

Terzo caso, quello del sessantenne che ha iniziato a lavorare nel 1980. Per lui scegliendo proprio alla vigilia della pensione il Tfr in busta paga, la perdita percentuale sull’assegno di pensione integrativa sarà la più alta: -22% dell’importo. In valore assoluto si oscilla sugli stessi redditi ipotizzati per gli altri fra 242 e 1.452 euro (in valore assoluto più si è anziani più si abbassa l’importo di pensione integrativa a cui si ha diritto, perché i versamenti sono iniziati solo a fine carriera, nel 2007).

I danni sono dunque rilevanti, ed è giusto che la scelta venga fatta con tutti i calcoli su vantaggi e svantaggi. Anche se è chiaro fin da ora che chiunque aderisca alla proposta Renzi perderà comunque soldi. Ne perderanno rispetto ad ora ovviamente anche le gestioni dei fondi pensione (che però recupereranno in futuro i danni sul vitalizio del lavoratore), mentre il solo ad avere vantaggi economici sarà lo Stato, che con questa proposta incasserà più tasse di prima. E non poche. Il solo vantaggio del lavoratore è avere a disposizione un po’ di liquidità in più che pagherà molto cara. Se proprio c’è bisogno di quei soldi, forse è più conveniente un prestito tradizionale in banca.

Noi scudi umani

Noi scudi umani

Giovanni Morandi – Il Resto del Carlino

Per capire se ha ragione Renzi a tagliare 4 miliardi alle Regioni o le Regioni che non ne vogliono sapere potremmo fare un referendum. E già che ci siamo potremmo chiedere se abbia ancora senso tenersi questi baracconi inutili per i cittadini, ma utilissimi per coloro che vi mettono piede e scoprono di poter vivere a nostre spese. Amara conclusione di un’età in cui c’era chi aveva il cuore verde di passione, almeno fino a quando non si sono accorti che era una passione che viaggiava cash per le spesucce più varie, per i figli, le amanti, gli amici, le case, le auto da corsa, le lauree in Albania e cose del genere.

Qualcosa mi dice che se si votasse le cose si metterebbero male per quelli che in modo altisonante amano farsi chiamare governatori. Governatore è colui che governa, ma che cosa governano questi che per loro ammissione sono solo passacarte, intermediari tra Stato e strutture sanitarie verso le quali va il 75 per cento del loro bilancio? Ci costano 180 miliardi e se li abolissimo sicuramente risparmieremmo. Potrà essere sgradevole dire queste cose ma è inevitabile dopo aver visto la loro scomposta reazione appena hanno saputo che le loro casse sarebbero state tagliate, sebbene nemmeno di tanto. Hanno fatto le vittime. Come se gli italiani non ricordassero gli scandali con le centinaia di politici che pensavano a far la bella vita non alla salute nostra. Per non parlare di quella truffa che sono le Regioni a statuto speciale, dove lo spreco è istituzionalizzato. Perché dovrebbero avere più denaro delle altre? 150 milioni solo per il consiglio regionale siciliano.

I governatori pensavano di prenderci come scudi umani, o ci date quei 4 miliardi o togliamo le spese alla sanità. Un’uscita che si chiama solo in un modo: ricatto. Ci provino, se ne accorgeranno. La verità è che la levata di scudi ha dimostrato che si sono solo preoccupati di difendere il proprio status, per continuare a disporre di fiumi di denaro. Ha fatto male Renzi a pensare che indicando il saldo del taglio le Regioni avrebbero deciso da sole come disporre della propria quota di denaro. L’unica cosa invece che hanno detto è stata: e noi aumentiamo le tasse. Ci provino e così vedranno come si sloggia dai grattacieli che si sono costruiti. Altra cosa sono i Sindaci, è vero che ci sono migliaia di Comuni microscopici, ma i sindaci e i Comuni rappresentano identità, storie specifiche, appartenenze, culture, sono le radici della nostra società e vanno conservati, tutt’altra cosa dalle Regioni che, in quanto enti non in quanto territori, non hanno mai rappresentato nessuno se non quel sottobosco politico che trovava in quei grattacieli un motivo di consolazione ben remunerato.

Quarant’anni di storia delle Regioni non sono bastati a dare loro un senso alla loro esistenza. Sono sempre state, sono e saranno solo enti per burocrati gonfi di denaro pubblico. Che ci siano o non ci siano, non fa nessuna diflerenza. Solo la spesa cambia. Se non ci fossero i finanziamenti andrebbero direttamente alle strutture sanitarie, anziché passare prima dalle Regioni che poi provvedono a ridistribuirli. È un passaggio in più e un risparmio in meno.

I “dettagli” che zavorrano la manovra

I “dettagli” che zavorrano la manovra

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

A quattro giorni dall’approvazione della legge di stabilità in Consiglio dei ministri, ancora nessun testo più o meno ufficiale è disponibile. Non è forse una novità, è però certamente un malcostume che non aiuta la credibilità del modo in cui in Italia si fanno le leggi. Viene da chiedersi, per dirne una, che cosa sia stato mandato a Bruxelles e che testo stiano analizzando i tecnici della Commissione in vista del giudizio di fine mese. Ieri sera da Palazzo Chigi si è fatto trapelare che per domani un testo sarà pronto per il Quirinale, non rimane che attendere. Intanto dalle bozze che stanno circolando si possono cominciare ad analizzare alcuni aspetti tecnici che dalle prime slide non erano emersi. Resta, allora, confermato il giudizio complessivamente positivo di una manovra a carattere espansivo, che dà e non toglie, in una fase di risorse più scarse che mai. Una manovra che taglia tasse e riduce (o almeno prova) spesa pubblica improduttiva. E tuttavia i nodi che meritano un approfondimento, e magari un ripensamento in Parlamento, non mancano.

Il taglio dell’intera componente lavoro dalla base imponibile Irap (che vale intorno ai 6 miliardi) è uno dei risultati più importanti di questa manovra. Impossibile sottovalutarne il peso, in termini effettivi di risparmio per le aziende e in termini di fiducia nella creazione e nella difesa di posti di lavoro. La copertura della misura è però garantita per una parte (2,1 miliardi) dal dietrofront rispetto alla riduzione del 10% dell’aliquota Irap stabilita con il decreto Irpef del maggio scorso. L’aliquota ordinaria Irap, dunque, tornerà dal 1° gennaio prossimo al 3,9% (dal 3,5%). Va anche considerato, poi, che – sempre in base alle bozze disponibili – il taglio previsto dalla Legge di stabilità si limita al costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato, escludendo i lavori a termine e i collaboratori. Tutto questo significherà che talune aziende, quelle che non hanno o hanno pochissimi dipendenti stabili, saranno – per effetto della manovra – penalizzate. Per tutte le aziende, poi, viene meno la deduzione dell’Irap dall’imponibile Ires: questo è ovvio, ma riduce ulteriormente la portata – comunque positiva – del taglio dell’Irap.

Anche la cancellazione dei contributi per i primi tre anni per chi assume a tempo indeterminato è una misura che va nella giusta direzione di creare incentivi per le imprese a creare posti di lavoro stabili. Gli sgravi, tuttavia, valgono solo per le assunzioni effettuate nel 2015 e per chi non ha lavorato a tempo pieno nei sei mesi precedenti. Non si tratta, dunque, di una misura definitiva, mentre va a sostituire un beneficio permanente che è quello previsto dalla legge 407 del 1990, in base alla quale i disoccupati da oltre due anni potevano essere assunti a zero contributi (o con il 50%) per un triennio. Salta anche lo sconto contributivo legato alla prosecuzione di un anno dei contratti di apprendistato dopo il triennio. La cancellazione dei contributi prevede inoltre un tetto annuo di 6.200 euro. Questo significa che potranno giovarsi dell’abbattimento totale solamente i contratti che sono intorno alla soglia retributiva limite, per tutte le altre retribuzioni lo sgravio sarà parziale. Non basta. L’incrocio tra tetto e somme stanziate permette di stimare in 161mila le possibili assunzioni annue, molto meno di quelle stimate dal Governo. Senza considerare, infine, il tentativo di una parte del Pd di far inserire nel testo la clausola che, se il rapporto di lavoro si interrompe prima dei tre anni, l’imprenditore sarebbe costretto a pagare tutti i contributi arretrati. Un modo per rendere più incerto l’incentivo e ridurre la spinta che può venire dalla misura.

Contraddittoria con la linea affermata dal Governo nel Jobs act appare anche la scelta di tagliare 200 milioni al Fondo che incentiva la contrattazione aziendale. Sulla scarsa convenienza fiscale del Tfr in busta paga per chi ha redditi oltre i 15mila euro e sui rischi per la liquidità delle imprese è già stato detto tutto. Va però anche segnalato il rischio di un ulteriore aggravio di procedure burocratiche per le aziende, legato alla certificazione Inps e alla pratica con la banca. Sui tagli di spesa vale la pena soffermarsi. In riferimento a Regioni e Comuni non si può che essere d’accordo con Renzi: i governatori hanno tutta la possibilità di far fronte ai tagli attraverso una maggiore efficienza della spesa ed eliminando gli sprechi. Vi sono Regioni (analisi di Gianni Trovati sul Sole di ieri) che, per il proprio funzionamento, spendono 192 euro pro-capite contro altre che si limitano a 22; Regioni che hanno una spesa corrente di 619 euro pro-capite a altre che si fermano a 275; Regioni che spendono per il personale 174 euro e altre solo 12. Gli spazi per l’efficienza e i risparmi, dunque, ci sono, eccome.

Ma è sui ministeri che il Governo deve dimostrare di saper fare la propria parte. In una tabella preparatoria della manovra sono indicati tagli molto specifici per oltre 3 miliardi, missione per missione, nella logica (quasi) di una vera spending review. Nella bozza della legge a oggi disponibile, quei tagli – come hanno raccontato sul Sole Marco Rogari e Marco Mobili – si riducono a poco più di 1,4. Cosa ne è di tutto il resto? Ci si piegherà ancora una volta alla logica degli interventi lineari, limitandosi a indicare l’obiettivo del 3% di riduzione? O si recupererà quella tabella voce per voce, magari con i dovuti aggiustamenti? Tra i due metodi c’è tutta la distanza che passa tra un Governo che si prende le proprie responsabilità e uno che demanda ad altri le scelte impopolari.

Sull’azzardo di mettere tra le coperture le stime della lotta all’evasione Il Sole-24 Ore si è soffermato tante volte, ma va anche detto che il Governo questa volta ha prudentemente messo da parte una riserva di 3,4 miliardi che può tornare utile, in questo senso, anche nella trattativa con l’Europa. Sul credito d’imposta alla ricerca si parte solo da 260 milioni, una cifra certamente insufficiente e si lega l’incentivo esclusivamente agli incrementi di spesa, anziché al volume complessivo degli investimenti, come chiedevano le imprese. Viene inglobato, tra l’altro, il bonus oggi esistente per l’assunzione dei ricercatori. È francamente poco per riattivare gli investimenti privati. Lo sconto Irap, certamente, dovrebbe fare di più. Ma quello che manca del tutto in questa manovra sono gli investimenti pubblici. Gli 1,7 miliardi che (come racconta Giorgio Santilli a pagina 2) il Governo ha reso disponibili in questi giorni in attuazione dello “Sblocca-Italia” sono utili, ma sono una goccia. Laddove il mare non può che essere, per un Paese con le nostre difficoltà di finanza pubblica, un mare europeo. Renzi ha più volte invocato una maggiore concretezza per il piano Juncker. Ma anche quando si parla di investimenti europei c’è una fondamentale responsabilità nazionale, che è quella di fornire buoni progetti.

L’Italia in questi anni è mancata totalmente in questa sfida: pochi buoni progetti e pochissima capacità di trovare il matching con i finanziamenti. In questi giorni finalmente c’è un tavolo governativo (coordinato da Del Rio e Pagani per conto di Padoan) che sta lavorando con gli uomini della Bei proprio per individuare i progetti possibili. C’è da augurarsi che produca risultati concreti. Perché non c’è dubbio che – come ha sottolineato il Governatore Visco proprio ieri nel suo intervento a Bologna – il rilancio dell’occupazione e della crescita può passare solo attraverso una ripresa degli investimenti. In attesa, certo, del testo definitivo della manovra.

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Il passaggio dalle slides del dopo-consiglio dei ministri alla bozza del testo del Ddl di Stabilità ieri in circolazione (47 articoli per 123 pagine) reca diverse novità sull’operazione Tfr in busta paga. La prima, quella che ha suscitato le maggiori reazioni, riguarda il profilo fiscale. Sulla retribuzione integrativa di chi opta per avere la liquidazione nel mensile scatterà la tassazione Irpef. Una scelta che, se confermata nel testo ufficiale che verrà trasmesso al Parlamento, farebbe crollare l’appeal della misura per i lavoratori con un reddito superiore ai 15mila euro. L’aliquota media attualmente applicata al Tfr è infatti compresa tra il 23 e il 26%, mentre l’Irpef sull’imponibile che supera i 15mila euro parte dal 27% e cresce con gli scaglioni di reddito sulla nota curva delle aliquote fino al 43%. Ne segue che più elevato è il reddito da lavoro meno è incentivata (fiscalmente) l’opzione del Tfr in busta. A controbilanciare quest’aggravio ne arriva un altro di segno opposto: l’imposta sostitutiva sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto (ovvero sul maturato) passerà dall’11 al 17%. A chiudere il quadro fiscale una clausola di salvaguardia che esclude il reddito aggiuntivo dal computo del tetto complessivo che garantisce il bonus Irpef da 80 euro, in vigore dal maggio scorso. Insomma, chi opterà per il Tfr in busta non perderà quel bonus.

Passando agli altri profili, l’operazione si conferma di carattere sperimentale, visto che sarà valida per le paghe comprese tra il marzo del 2015 e il giugno del 2018, e volontaria. Sarà inoltre esclusivamente rivolta ai dipendenti privati (ma non i lavoratori domestici e agricoli) e nel caso di scelta della liquidazione in busta mese dopo mese non si potrà più cambiare idea fino a fine giugno 2018. Esclusi dall’iniziativa anche i dipendenti di aziende in crisi o con una procedura concorsuale aperta, mentre potranno optare per il Tfr in busta nei prossimi tre anni anche coloro che hanno già aderito a un fondo di previdenza integrativa.

Sulle modalità di pagamento del Tfr in busta paga si prevede per le imprese una doppia strada: versare direttamente l’ammontare del Tfr maturando ottenendo in cambio gli stessi benefici oggi previsti per i datori che versano il Tfr alle forme di previdenza complementare oppure optare per lo schema di accesso al credito bancario che verrà definito con un Dpcm (da adottare entro 30 giorni dal varo della legge di Stabilità) e con la convenzione Abi-Mef-Ministero del Lavoro. Per seguire questa seconda via il datore deve chiedere all’Inps la certificazione del Tfr maturato dei singoli lavoratori dopodiché potrà chiedere il previsto finanziamento bancario. Al momento del rimborso alla banca degli anticipi dovrà essere riconosciuto solo il tasso di rivalutazione della quota Tfr (ovvero l’1,5% più lo 0,75% annuo dell’indice di inflazione).

Per le piccole imprese (meno di 50 addetti) l’operazione sarà sostenuta da un Fondo di garanzia Inps che parte con una dote di 100 milioni e che verrà finanziato con un contributo datoriale dello 0,2%. In caso di insolvenza le banche si rivolgeranno a questo fondo a sua volta assistito dalla «garanzia di ultima istanza» dello Stato. Tutta l’attuazione del meccanismo è rinviata, come detto, a un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Mentre l’Inps dovrà svolgere il ruolo di «certificazione dei Tfr» a budget invariato e senza contare su nuove risorse umane o strumentali.

Renzi, il premier carro armato

Renzi, il premier carro armato

Bruno Vespa – Il Mattino

Sempre contro le istituzioni, sempre con l’opinione pubblica. Matteo Renzi è fatto così. Per istituzioni qui si intendono i poteri pubblici e privati costituiti e riconosciuti. Il vecchio Pd, il seminario economico di Cernobbio, l’assemblea di Confindustria, la Cgil. E adesso le regioni e le province. Ieri mattina ho provato a chiedere alla radio se avesse ragione Renzi a chiedere tagli alle regioni o le regioni a protestare. Un diluvio (quasi) a favore del presidente del Consiglio. «Quando il mio capo ha scoperto che cercavo su internet un fornitore di apparati sanitari più conveniente dei soliti mi ha bloccato». «Ho fatto uno stage in un Comune e ho visto tanti sprechi che lei non può immaginare». «Lavoro nell’edilizia e per fissare a terra tre panchine sono venuti tre operai comunali per tre giorni». «Giro per conto di un’azienda farmaceutica e non le dico quel che vedo». E così via.

Matteo Renzi ha sotto il letto due fantasmi pronti a venir fuori. Uno si chiama Franco Fiorito, il Batman di Anagni, già potentissimo capogruppo del PdL al consiglio regionale del Lazio. L’altro è Filippo Penati, potentissimo presidente della provincia di Milano, poi assistente a Roma di Pierluigi Bersani: esempio classico, con il «sistema Sesto», della continuazione nelle relazioni oblique tra costruttori e politici, anche «rossi»›, dai tempi di Tangentopoli alla Seconda Repubblica. Condannato a tre anni e quattro mesi e a restituire un milione 90mila euro, Fiorito disse in una memorabile trasmissione di «Porta a porta» poco prima che l’arrestassero (e continua a dire tuttora): «Non ho rubato nulla, quei soldi mi sono stati assegnati con regolari delibere». Nel senso che i capigruppo in consiglio regionale potevano amministrare, diciamo così, discrezionalmente, i fondi ad essi assegnati. Penati se l’è cavata con la prescrizione: era accusato di concussione perché il «sistema Sesto» che ruotava intorno al risanamento dell’area Falk-Marelli di Sesto San Giovanni era il modo esemplare di gestione affaristica del Pci-Pds-Ds. Renzi ha eliminato i consiglieri provinciali elettivi: da 2600 li ha portati a poco meno di mille, senza retribuzione aggiuntiva perché sono consiglieri regionali o comunali. Ma la corsa avvenuta tra il 26 settembre e domenica scorsa per accaparrarsi posti in cui si lavora gratis è stata così forte che il governo ha chiuso i rubinetti togliendo un miliardo alle province contro i quattro chiesti alle regioni.

È evidente che queste misure vanno amministrare con saggezza: qualcuno dovrà pur provvedere le scuole e le strade in carico alle province, mentre sarebbe grave se i tagli alle regioni si ripercuotessero su sanità e servizi. Quattro miliardi sono meno del 3 per cento della spesa regionale, assorbita in larghissima parte da stipendi e sanità. Quanto si può tagliare sulla sanità senza penalizzare uno dei migliori servizi del mondo? Basterebbe imporre sul serio i costi standard ed eliminare le anomalie ancora visibili nel Sud, ma non solo. Resta incomprensibile perché dal rispetto dei costi standard sono escluse le cinque regioni a statuto speciale per un patto del febbraio 2011. Non credo che l’autonomia etnica verrebbe compromessa da un adeguamento alla linea nazionale di risparmio. La Lega, che pure era al governo, non protestò. Se Matteo Renzi riuscisse a togliere anche questa anomalia, farebbe cosa buona e giusta.

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Daniele Di Mario – Il Tempo

C’è chi le difende e chi le attacca. Chi ne sottolinea gli sforzi di risanamento e abbattimento delle spese e chi invece ne ricorda gli scandali. Lo scontro politico sulle Regione prosegue, così come il dibattito sulla legge di stabilità. I governatori restano in trincea, nonostante l’apertura di Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd e governatrice del Friuli che invita a valutare la manovra «nel suo complesso», ma ammonisce: «Siamo tutti chiamati con responsabilità ad azioni di governo, anche in Friuli Venezia Giulia abbiamo messo mano a molte sacche di improduttività, constatando che la razionalizzazione della spesa ha margini di miglioramento».

Perché il nodo alla fine è sempre quello: tagliare. Non i servizi, non la sanità, ma gli sprechi. E le Regioni italiane ne abbondano, nonostante nell’ultimo biennio dopo i vari scandali che hanno interessato un po’ tutti i Consigli d’Italia, abbiano intrapreso un percorso di revisione di una spesa che complessivamente ammontava a 131 miliardi e che conteneva dentro di tutto, dagli studi per le trote ai consulenti per la neve, il salvataggio delle biblioteche in Mauritania e le auto blu. I Consigli regionali hanno fatto la loro parte, riducendo i compensi dei consiglieri, tagliando gruppi e commissioni, abolendo i vitalizi. Ma sarebbe disonesto negare che le Regioni potrebbero fare di più, mettendo mano ad esempio a società partecipate ed enti (comunità montane, enti parco, unioni di comuni, università agrarie), riducendo gli assessori esterni, razionalizzando le spese per una sanità spesso fuori controllo, tagliando dirigenti e ruoli apicali. Le Regioni spendono complessivamente molto più dei Comuni e del Parlamento e rappresentano circa un terzo della spesa pubblica italiana. Ma la questione afferisce al più generale e cronico problema del regionalismo italiano.

Il ministro per gli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta è netta: «Il periodo è molto complesso, dobbiamo tutti quanti rinunciare a qualcosa, riorganizzarci per favorire l’assunzione di giovani nelle aziende, che mi sembra una buona risposta alla crisi». Ma Stefano Fassina – che parla di «tagli drastici, orizzontali, insostenibili a servizi fondamentali» – contrattacca: «Capisco le posizioni dei presidenti delle Regioni, che non sono estremisti antirenziani: sono solo attenti ai servizi che devono tagliare o alle tasse che debbono aumentare». Il governatore del Piemonte e presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino apre ufficialmente la trattativa col governo: «Da Renzi andiamo con delle proposte concrete, che non toccano i quattro miliardi ma che li articolano in modo tale da consentire di reggerli. La polemica è inevitabile, ma è indispensabile un incontro per raggiungere l’obiettivo. Il premier ha ragione quando dice che ci sono tanti sprechi da eliminare, ci sono delle cose da migliorare come le società partecipate, ad esempio. E poi parliamoci chiaro, è anche vero che sugli sprechi, come diceva il Vangelo, chi è senza peccato…». E Paola De Micheli, vicepresidente vicario del gruppo Pd alla Camera difende i governatori: i tagli di 4 miliardi alla Regioni «sono un fattore di preoccupazione per le possibili ripercussioni su alcuni servizi ai cittadini».

Ma la materia è delicata. Fabrizio Cicchitto (Ncd) chiede alle Regioni di darsi un taglio, mentre in FI non c’è univocità di giudizio. Giovanni Toti e Raffaele Fitto si trovano finalmente d’accordo su una cosa: la difesa degli enti locali. Mentre Maria Stella Gelmini dice nettamente che «il taglio di 4 miliardi ai trasferimenti non può diventare l’alibi per i presidenti delle Regioni di aumentare le tasse locali o i ticket nella sanità. È il tempo della responsabilità. Le Regioni devono trovare il grasso che cola dai loro apparati burocratici, e ne hanno ancora tanto, prima di pensare a mettere le mani nelle tasche dei cittadini». Già, ma loro, i governatori, restano sull’Aventino. Stefano Caldoro (Campania) usa Twitter per ricordare a Renzi i tagli effettuati e propone di sciogliere le Regioni per varare le macroaree. Roberto Maroni (Lombardia) attacca: «Non sarà l’esecutore testamentario, il killer, della Regione più virtuosa d’Italia. Renzi vuol riportare le Regioni a com’erano negli anni Settanta». «Da quale cattedra viene la lezione sugli sprechi delle Regioni? È irricevibile», sbotta Nichi Vendola (Puglia). Luca Zaia (Veneto) minaccia: «Il ricorso contro la legge di stabilità lo faremo».

L’autogol delle Regioni sui tagli

L’autogol delle Regioni sui tagli

Gaetano Pedullà – La Notizia

Le Regioni presenteranno le loro controproposte, ma il solco tracciato col Governo è ormai troppo largo per chiudere la polemica degli ultimi giorni a tarallucci e vino. Renzi – è l’accusa dei suoi sempre più numerosi detrattori nel Palazzo – si sta cercando ogni giorno un nuovo nemico (sindacati, magistrati, lobby, enti inutili come il Cnel, ecc.) per accreditarsi elettoralmente come l’uomo che vuol cambiare il sistema. E in questo calderone adesso sono finiti i governatori. Quello che nessuno può negare è che però tutti questi bersagli del premier sono ciascuno per la propria parte strenui difensori dei loro privilegi, e soprattutto sono ormai colossi dai piedi d’argilla.

Il consenso sociale attorno a questi totem di un’Italia piegata è ormai bassissimo. Senza i pensionati i sindacati avrebbero meno iscritti di un club della bocciofila. E il prestigio delle Regioni, come quello purtroppo di molte altre istituzioni, è ai minimi. Di chi è la colpa: di Renzi o dei governatori che di fronte ai tagli del Governo minacciano di sacrificare sanità e trasporti invece di tagliare consulenze e clientele? Il premier dunque farà pure i suoi calcoli, ma se gli elettori lo seguono non è solo merito suo.

Insanità regionale

Insanità regionale

Davide Giacalone – Libero

Posto che la pressione fiscale generata dagli enti locali è aumentata dell’80 per cento in quattordici anni, senza che sia diminuita quella nazionale, posto, quindi, che da tre lustri gli italiani s’impoveriscono e perdono competitività anche per finanziare enti la cui utilità è nota più che altro a chi li abita, è facile capire il perché non si trovi divertente la polemica fra il governo e le regioni. Oltre tutto giocata usando il linguaggio della più sciatta demagogia: “spreconi”, da una parte, “affamatori”, dall’altra. I governatori regionali, abituati a batter cassa presso il governo, non s’aspettavano di trovarsi di fronte chi usa la cassa per battergliela in testa. Molti di loro sognarono il partito di “lotta e di governo”, eccoli serviti: salvo che usa la lotta demagogica contro di loro.

Piuttosto che l’opera dei pupi, però, si possono fare operazioni interessanti: chiudere la tragica storia della sanità regionalizzata, che con la riforma Bindi, del 1999, elevò a sistema la militarizzazione partitocratica dell’amministrazione, e con la riforma costituzionale del 2001 stese una pietra tombale sull’idea che la salute e la sanità fossero questioni di competenza nazionale. Due operazioni “Made in left”, così anche i newcomers capiscono. Contabilizzati i disastri è ora di farla finita.

Inutile continuare a polemizzare sul costo delle siringhe. Anche stucchevole e oltraggioso, perché sentendolo ripetere da anni, da governi e governanti di ogni colore, il cittadino si chiede: ma a chi lo stanno dicendo? Se il sistema fa così schifo, e lo fa, lo cambino. La soluzione non è che le tasse per coprire quei costi siano a cura degli enti locali anziché dello Stato, dato che a pagare sono i medesimi italiani. Semmai si deve avere il coraggio di spiegare perché il politico regionale nomina i capi dell’amministrazione sanitaria e perché l’organizzazione che presiede alla difesa della mia salute debba essere regionale. Non saprei spiegarlo, perché lo considero sbagliato.

Fin qui ci si è trastullati con le siringhe e i costi standard, che già di loro sono un non senso: se l’acquirente compra molto materiale sanitario e molti farmaci, bandendo una gara fra fornitori, è ovvio che riesce a spuntare un prezzo migliore rispetto a venti acquirenti che comprano un ventesimo e bandiscono centinaia di gare. Oggi le regioni ricevono un rimborso, dallo Stato, pari alla media dei tre migliori prezzi. A parte che il prezzo adottabile dovrebbe essere il più basso, non una media, quando comprano pagando più degli altri generano nuovo debito, che si somma a quello immenso, già esistente. Quando, sventuratamente, negli anni 70, si chiusero le mutue queste lasciarono un immenso patrimonio immobiliare, avendo fornito assistenza a tutti i mutuati. Oggi ci sono solo deficit e debiti. Cosa serve di più per capire che la regionalizzazione è una follia?

Senza mai dimenticare che la qualità media dell’assistenza sanitaria, in Italia, è ottima. Purtroppo con vergognose sperequazioni interne (ulteriore conferma della pessima regionalizzazione), ma mediamente fra le migliori al mondo. Il che dimostra, se ve ne fosse bisogno, che il nostro problema non sono i medici, ma gli amministratori. Ed è questo il lato positivo: per formare buoni medici ci vogliono anni, per mandare a casa cattivi amministratori, protettori di amministrativi nullafacenti, soci di sindacati corporativi, ci vogliono, a saperlo e volerlo fare, un paio di mesi. A patto di non perderli in battibecchi degradanti e di utilizzarli per fare vere e sane riforme.

Le virtù e i difetti nascosti

Le virtù e i difetti nascosti

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Nella bozza inviata a Bruxelles, la legge di Stabilità è presentata come strumento «per la crescita»: meno pressione fiscale su imprese e famiglie e dunque – si spera – più investimenti, consumi e posti di lavoro. Le cifre confermano che stavolta l’impegno del governo è significativo: 36 miliardi fra entrate ed uscite. L’Irap e i contributi sociali per i neo-assunti (a tempo indeterminato) scenderanno. Il bonus di 80 euro sarà confermato, mantenendo le promesse fatte a maggio. I lavoratori che lo vorranno potranno attingere da subito a una quota del Tfr. Per la prima volta, poi, si concede un po’ di respiro fiscale a quel milione circa di «partite Iva» senza le quali interi settori produttivi sarebbero già scomparsi.

Non sono previsti tagli diretti alla spesa sociale. Anzi, ci saranno risorse aggiuntive per gli ammortizzatori, la famiglia e la scuola. Qui l’intento è virtuoso, ma tutto dipenderà da come i soldi verranno spesi. Colpisce l’inadeguatezza dei fondi destinati al contrasto alla povertà, nonostante le esortazioni a fare di più su questo fronte ricevute a giugno proprio dalla Ue.

Le coperture sono il punto più debole della manovra. Non solo (e forse non tanto) per gli 11 miliardi di maggior deficit, ma per l’aleatorietà di molti dei tagli previsti. Quella spending review che doveva dare inizio ad una incisiva razionalizzazione dell’intero settore pubblico ha partorito una covata di sfuggenti topolini. Ci sono alcuni tagli lineari, una gran quantità di microriduzioni, blocco generalizzato dei contratti nel pubblico impiego, tetti a Regioni ed Enti locali (sui quali si sta originando una spirale di polemiche: come spesso succede, la verità sta nel mezzo). Sicuramente la scure eliminerà varie spese inutili. Non c’è però stata una svolta nell’individuazione di inefficienze e sprechi, andando alla radice dei problemi. Inoltre molti dei provvedimenti di riduzione della spesa non saranno immediatamente esecutivi. Come al solito, richiederanno quella catena di misure attuative e «concerti fra ministeri» che hanno già affossato molte passate riforme.

Come reagirà l’Unione europea? Non è da escludere che la Commissione s’impunti (a questo punto assurdamente) su una questione di decimali. È possibile però che le perplessità Ue siano legate più alla bassa credibilità delle politiche italiane che ai livelli di deficit e debito. Senza nulla togliere alle capacità del ministro Padoan, fra lo smilzo documento in inglese presentato a Bruxelles e la disordinata bozza in italiano uscita dal Consiglio dei ministri c’è un divario preoccupante.

I documenti degli altri Paesi sono molto più ricchi di dettagli e valutazioni, i loro impegni risultano così più affidabili. Sul versante della «serietà», Matteo Renzi ha ancora molto lavoro da fare. Non solo per convincere l’Europa a concedere maggiore flessibilità, ma anche per garantire ai cittadini effettività ed efficacia dell’azione di governo. Condizione necessaria affinché le norme di legge abbiano un qualche impatto sulla realtà, nella direzione auspicata.