massimo blasoni

Massimo Blasoni a “L’Aria che Tira” – La7

Massimo Blasoni a “L’Aria che Tira” – La7

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è stato ospite di Myrta Merlino a “L’Aria che Tira”. Con lui in studio il capogruppo della Lega Nord alla Camera dei Deputati, Massimiliano Fedriga, e il parlamentare europeo del Partito democratico, Pina Picierno.

Le responsabilità del PD nella nomina dei vertici di banche che non si sono comportate correttamente è sotto gli occhi di tutti. Dalla vicenda Monte dei Paschi guidata da un presidente legato a filo doppio con il PD alla famosa frase di Piero Fassino “Abbiamo una banca” parlando della scalata alla Bnl. Oggi la vicenda del padre della Boschi nominato vicepresidente della Banca Etruria in corrispondenza con la nomina della figlia a Ministro. Ci hanno rimesso migliaia di piccoli risparmiatori che qualche volta hanno perso tutto. Eppure esiste un problema ancor più grande. Le banche continuano a non imprestare a famiglie e imprese (meno 0,5% su base annua) e il Governo, ostaggio dell’Europa, non fa nulla.Oggi a L’Aria che tira su La7.

Posted by Massimo Blasoni on Monday, December 14, 2015

Errori politici pagati dai cittadini

Errori politici pagati dai cittadini

di Massimo Blasoni – Panorama

Il Quantitative Easing della BCE ha immesso nel sistema creditizio enormi quantità di denaro. Questa liquidità, però, non si è trasmessa a famiglie e imprese: l’andamento del credito continua a non dare segnali di ripresa (meno 0,5% prestiti al settore privato su base annua secondo Bankitalia). Il problema risiede in un sistema bancario che eroga con difficoltà il credito a causa di istituti strutturalmente sottocapitalizzati e di un livello di crediti deteriorati che stenta a diminuire. Lo Stato e la politica devono stare lontano dall’economia e quindi anche dalle banche, soprattutto dalla loro gestione. Troppe volte in questi anni le scelte sbagliate di partiti e governo in tema bancario sono state pagate dai cittadini che avevano investito in istituti in crisi da tempo. E si è trattato spesso di piccoli investitori, magari inconsapevoli, che hanno perso i risparmi di una vita.

Massimo Blasoni
Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

Tuteliamo chi crea ricchezza

Tuteliamo chi crea ricchezza

di Sandro Mangiaterra – Corriere del Veneto

Il circolo vizioso è più o meno questo. Il governo taglia le risorse ai Comuni. I quali, per fronteggiare le spese vive (aggiustare i marciapiedi, cambiare le lampade, eccetera), non trovano di meglio che aumentare le imposte locali, a cominciare da quelle sugli immobili. Ma visto che non è bello, o per essere più precisi non crea certo consenso, prendersela con le abitazioni dei (con)cittadini, i Comuni preferiscono calare la mannaia su uffici, negozi e soprattutto capannoni industriali. Senonché a questo punto ecco che rientra in gioco lo Stato, con l’Agenzia delle entrate che fa il diavolo a quattro per riportare in sede centrale proprio il gettito dell’Imu sui capannoni.

Benvenuti in Italia, il Paese del delirio fiscale. Dove ogni giorno c’è chi la spara grossa, tra accelerazioni e frenate, promesse di riduzione del carico fiscale, annunci di semplificazione. Senza contare la girandola di sigle: Ici, Imu, Tasi, Tari… Cambia l’ordine dei fattori, ma il prodotto rimane invariato: alla fine le cento tasse (vere, contate) aumentano sempre e la burocrazia non diminuisce mai.

Naturalmente tutti si sentono sotto tiro, dalle casalinghe ai lavoratori dipendenti, ai liberi professionisti. Per non parlare degli imprenditori: il Centro studi Impresalavoro, rielaborando i dati della classifica Doing Business 2015, curata dalla Banca mondiale, ha calcolato che nel 2014 la pressione fiscale per le aziende italiane ha toccato il 65,4 per cento, livello superato esclusivamente dal 66,6 per cento della Francia. Ora la Cgia di Mestre ricorda urbi et orbi che c’è un altro «soggetto» supertartassato, quasi una categoria a sé: il capannone, appunto. Il 16 dicembre scade la seconda rata di Imu e Tasi sui cosiddetti immobili strumentali: una «tornata» di pagamenti che vale 5 miliardi. Proiettata sull’anno si va dai 4 mila agli 8 mila euro a seconda della dimensione e della destinazione, industriale o commerciale, dei capannoni. E questo perché, secondo gli artigiani mestrini, il 68 per cento dei Comuni capoluogo di provincia ha applicato sui capannoni l’aliquota Tasi più Imu massima e in molti casi (contemplati ovviamente dalla legge) persino superiore. Conclusione: dal 2011, ultimo anno di vita dell’Ici, a oggi, il carico su questi particolari immobili è raddoppiato.

Poveri capannoni. Non se lo meritano. Anche perché ne hanno viste e passate tante. A Nordest sono stati l’emblema (tangibile) del boom economico degli anni Ottanta e Novanta. «Mi son fatto il capannone», si sentiva ripetere più spesso che «mi son fatto l`auto nuova». E la proliferazione è continuata pure di recente, grazie alle agevolazioni introdotte dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Con buona pace del rispetto del territorio. Numeri catastali alla mano, in Veneto ce ne sono 113.603 di ogni genere, natura e specie, l’11,5 per cento di quanti se ne trovano lungo l’intera penisola. Peccato che, dopo la Grande Crisi, almeno uno su cinque sia vuoto, per un valore superiore al miliardo. Cifra assolutamente teorica, visto che i compratori non ci sono.

Ci vorrebbe una sorta di Piano nazionale dei capannoni, per incentivare la riconversione di quelli dismessi, metterli in mille modi a disposizione dei cittadini, trasformarli in luoghi della bellezza anziché del degrado. Macché. Oltre il danno, la beffa delle tasse. Matteo Renzi ha annunciato, a partire dal 2016, l’abolizione dell’lmu sui cosiddetti imbullonati, cioè sugli impianti produttivi fissati a terra. Cui si dovrebbe aggiungere, dal 2017, la riduzione dell’Ires. L’unico a battersi per la deducibilità al 100 per cento dei capannoni, provvedimento che richiederebbe una copertura di 1,2 miliardi, è il veneziano (guarda un po’) Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia. Di sicuro non si cavalca la ripresa penalizzando gli spazi del fare, siano essi perduti o tanto meno ancora vivi. Sono scelte che si pagano. In comode rate.

 

Regione Fvg. Serve un piano straordinario per credito e lavoro

Regione Fvg. Serve un piano straordinario per credito e lavoro

di Massimo Blasoni – Messaggero Veneto

La nostra regione sembra vivere una condizione del tutto peculiare rispetto al panorama economico italiano: non è annoverabile tra le regioni in cui la ripresa è pienamente in atto e in cui gli indicatori stanno ritornando rapidamente ai livelli pre-crisi e non è nemmeno incasellabile tra le economie più arretrate della nostra penisola. Siamo una via di mezzo pericolosa, caratterizzata da crescita bassa e livelli occupazionali che faticano a riprendersi.

Come rileva Bankitalia, nel 2015 il Friuli Venezia Giulia ha registrato una ripresa moderata, sostenuta dalla domanda rivolta all’industria e dall’incremento dei consumi intermedi. L’export però fa segnare livelli di crescita decisamente più contenuti rispetto al resto del Nord-Est e ritornerà ai livelli pre-crisi soltanto quest’anno, 36 mesi dopo il Veneto. Il comparto edile continua a registrare una contrazione dei suoi livelli di attività, anche se l’emorragia dei semestri precedenti pare rallentare. Un dato motivato dalla seppur lievissima ripresa degli scambi immobiliari, che rimangono comunque lontanissimi dai livelli del 2012. Segnali in chiaroscuro, insomma, che trasmettono all’intero sistema economico un diffuso clima di incertezza.

Non è un caso, infatti, che i timidi segnali di ripresa del primo semestre 2015 non si siano ancora riflessi in un miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro e la dinamica dell’occupazione sia rimasta comunque negativa, facendo segnare dati peggiori sia rispetto al resto del Paese che al vicino Veneto. Il tasso di disoccupazione attuale fa segnare il livello più alto degli ultimi cinque anni.

Si dirà che anche in Friuli Venezia Giulia molti contratti a tempo determinato sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato. È certamente vero ma si tratta di un miglioramento della qualità dell’occupazione determinato dagli incentivi economici voluti dal Governo e la cui entità si dimezza con il prossimo anno.

Rimane poi un problema non secondario, quello del credito. Banca d’Italia rileva come nel 2015 i prestiti bancari alla imprese siano, seppur di poco, ripartiti. La crescita dei finanziamenti, però, è circoscritta alle imprese medie e grandi mentre per le altre aziende, che rappresentano la grande maggioranza del tessuto economico regionale, l’accesso al credito si è fatto ancor più difficoltoso. A preoccupare ulteriormente è l’ulteriore deterioramento della qualità di questo credito, con incagli e sofferenze in continuo aumento.

Lavoro e credito sono due ambiti in cui la Regione può fare molto. Non si tratta di incidere sull’impianto regolatorio dei due settori (le norme sull’occupazione sono per larga parte di competenza statale e i principali indicatori per il merito creditizio vengono da accordi internazionali ) quanto più di garantire alle nostre imprese strumenti adeguati con cui competere. In tema di accesso al credito le risorse che la Regione ha messo sul piatto in questi anni sono state ragguardevoli. Tuttavia, gli esiti non sono stati pari allo sforzo fatto. Le cause sono da imputarsi in parte a una certa difficoltà di applicazione delle misure adottate dalla Regione per il sostegno al credito. Burocrazia e forse una non piena collaborazione da parte delle banche hanno limitato gli effetti del Fondo regionale finalizzato allo smobilizzo crediti e al consolido delle passività. A ciò si aggiunga che strumenti come Friulia, Finest, Frie e Mediocredito, pur ampiamente finanziati, si sono rivelati non adeguatamente efficaci. Sono nati il secolo scorso e oggi necessiterebbero di una revisione con riferimento alla mission ed alle modalità operative. Tra l’altro il loro numero rappresenta un’anomalia tutta friulana: nessun’altra regione italiana mette in campo un numero così elevato di enti finanziari pubblici.

Troppo spesso i loro costi di funzionamento si sono dimostrati eccessivi e pare ravvisarsi l’assenza di una regia complessiva. È veramente necessario avere una banca controllata dalla regione se,per le sue contenute dimensioni, produce strutturalmente disavanzi coperti annualmente dalla “mano pubblica”, cioè dalle nostre tasse?Se vogliamo garantire alla nostre imprese un ambiente economico competitivo e alle nostre famiglie tassi di occupazione vicini alle economie europee più avanzate non possiamo sottrarci al tentativo di elaborare un piano ambizioso e straordinario, anche bipartisan. Un piano capace di rendere moderni ed efficaci gli strumenti per agevolare l’accesso al credito, lo start up e sviluppo delle nostre imprese, nonché in grado di migliorare l’efficienza del nostro mercato del lavoro. La specialità si misura anche su questo.

Pensioni, presto necessaria una nuova riforma

Pensioni, presto necessaria una nuova riforma

Massimo Blasoni – Metro

Il presidente dell’Inps Boeri ha avuto il coraggio di annunciare con schiettezza che gli attuali trentenni dovranno lavorare fino a 75 anni per incassare assegni pensionistici sensibilmente inferiori a quelli dei loro genitori. Se è vero che gli interventi effettuati dal 2004 a oggi hanno garantito al sistema previdenziale una sostenibilità nel breve periodo, resta ancora irrisolto il nodo delle pensioni che potremo erogare alle prossime generazioni.

Continua a leggere su Metro

Multe: dal 2010 al 2015 gettito dei Comuni diminuito del 17,82%

Multe: dal 2010 al 2015 gettito dei Comuni diminuito del 17,82%

In rapporto agli abitanti Milano, Firenze e Bologna al top
Negli ultimi cinque anni il gettito extratributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni riscosso dai Comuni italiani è diminuito di 272,5 milioni di euro. Le cifre complessivamente incamerate sono infatti passate da 1 miliardo 529 milioni 677 mila euro nel 2010 a 1 miliardo 257 milioni 141mila euro nel 2015 (-17,82%). Nell’ultimo anno il trend delle riscossioni è rimasto sostanzialmente stabile (+0,24%, pari a circa 3 milioni di euro), passando da 1 miliardo 254 milioni di euro del 2014 a un 1 miliardo 257 milioni di euro del 2015**. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati SIOPE, il Sistema informativo sulle operazioni degli Enti pubblici del Ministero delle Finanze.

nazionale

nazionalebarre

ImpresaLavoro ha poi effettuato un’analisi incrociata dei dati SIOPE e Istat sulle sanzioni e ammende riscosse nel periodo 2013-2015 in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani. È risultato così che Milano è la città che in rapporto agli abitanti incassa di più da sanzioni, ammende e oblazioni (139,11 euro a testa per un gettito medio annuo di circa 157,35 milioni di euro), seguita da Firenze (96,36 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,39 milioni di euro), Bologna (93,58 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,14 milioni di euro), Parma (82,32 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 13,23 milioni di euro) e Torino (68,68 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 52,47 milioni di euro). Nei primi posti di questa particolare compare anche la Capitale: Roma incassa 59,49 euro a per ogni cittadino maggiorenne residente e ricava un gettito medio annuo di circa 143,35 milioni di euro.

comuni

 

**Dati 2008-2014 definitivi, dati 2015 stima ImpresaLavoro su andamento incassi Gennaio-Novembre.

O riforme radicali o più sacrifici per tutti

O riforme radicali o più sacrifici per tutti

Massimo Blasoni* – Panorama

La tenuta del nostro sistema pensionistico non è una variabile indipendente dal contesto socio-economico in cui viviamo. Un modello a ripartizione, con i lavoratori attivi che versano contributi per pagare gli assegni di chi è in pensione, è sostenibile se al crescere dei pensionati aumentano anche Pil e occupazione. In questi anni la spesa per pensioni è cresciuta, nonostante un Pil stagnante e tassi di occupazione fermi al palo. Il premier Matteo Renzi tende a etichettare come “gufi” tutti coloro che si dimostrano poco entusiasti rispetto all’andamento della nostra economia: purtroppo sono i numeri a dire che con questa crescita anemica, e sempre sotto la media europea, il nostro sistema pensionistico non sarà sostenibile. O si attuano riforme radicali in grado di liberare la crescita e spingere l’occupazione ai livelli dei Paesi più avanzati o servirà un’altra riforma previdenziale con più sacrifici per tutti.

*Imprenditore e Presidente del Centro Studi ImpresaLavoro

Quando la malattia diventa un vizio

Quando la malattia diventa un vizio

di Massimo Blasoni – Metro

Dall’aprile del 2010 tutti i lavoratori dipendenti non sono più costretti a inviare a proprie spese i loro certificati di malattia tramite due raccomandate all’INPS e al proprio datore di lavoro. A sbrigare questa pratica sono adesso i medici di famiglia e ospedalieri, che hanno finora trasmesso via web all’INPS più di 71,5 milioni di documenti (di cui 17 milioni 526 mila nel 2014). Nonostante le novità di metodo, permangono alcuni vizi antichi del nostro sistema. I circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici, infatti, si ammalano in media quasi il doppio delle volte dei circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’INPS e questo conferma un trend che i dati raccolti dall’Istituto Nazionale di Previdenza segnalano da più di qualche anno.

Continua a leggere su Metro