ricchezza

Disuguaglianza: quanto serve lo Stato?

Disuguaglianza: quanto serve lo Stato?

di Paolo Ermano

La disuguaglianza
Il tema delle diseguaglianze economiche entra sempre più prepotentemente nell’agenda politica di molti Paesi.
Con l’inizio della crisi finanziaria del 2008, movimenti come Occupy Wall Street, saliti alla ribalta nel 2011 con lo slogan We are the 99%, hanno posto l’accento sull’iniqua distribuzione del reddito e della ricchezza. Reddito e ricchezza sono fenomeni economici diversi, e spesso i manifestanti confondevano l’uno con l’altro, ma il senso della loro protesta era chiaro: secondo loro, il 99% della popolazione pagava gli errori di una piccola minoranza estremamente ricca che aveva spinto i mercati finanziari oltre ogni possibilità di gestione e controllo, causando il fallimento della Lehman Brothers, nel 2008, e tutto quello che ne conseguiva.
Stando a dati recenti, il USA nel 2013 l’1% della popolazione che godeva dei redditi più elevati raccoglieva quasi il 18% di tutto il reddito generato negli Stati Uniti. In Italia, la situazione è un po’ migliore: l’1% della popolazione raccoglie il 9,38% del reddito totale.
Tabella 1 Dis
In termini di ricchezza, la concentrazione è ancora maggiore.
Secondo uno studio annuale pubblicato da Credit Suisse, lo 0,7% della popolazione mondiale possiede una ricchezza maggiore di 1 milione di dollari. Sono 35 milioni di persone (su poco più di 7 miliardi di persone) e da sole possono vantare un patrimonio complessivo di circa 116 trilioni di dollari , il 44% della ricchezza complessiva.
Figura 1 Dis
I problemi della disuguaglianza
Esistono molte spiegazioni del perché si generi la diseguaglianza economica.
La più ordinaria è la seguente: ognuno nasce con una propria dotazione di risorse costituita da diversi elementi, dalle capacità psico-fisiche fino alla ricchezza della famiglia in cui si cresce, passando per il Paese in cui si nasce. Così, per semplice fortuna c’è chi nasce intelligente, forte e ricco e chi stupido, debole e povero: in mezzo, un insieme molto variegato di possibilità. Si tenga presenta che, secondo studi recenti, questa dotazione iniziale determina all’80% la capacità di reddito futura di un individuo.
Se si vuole modificare la dimensione della diseguaglianza economica, solo un soggetto terzo rispetto all’individuo e al libero mercato, come lo Stato, può razionalmente intervenire per alterare gli effetti di questa dotazione di risorse per favorire un gruppo che parte svantaggiato a spese di un gruppo che parte avvantaggiato.
Negli anni ’50 Simon Kuznets sosteneva che nelle economie in via di sviluppo la diseguaglianza dei redditi tendeva a salire, per poi scendere raggiunto un elevato grado di sviluppo. La diseguaglianza, quindi, è un fenomeno economico variabile nel tempo.
Recentemente, Thomas Picketty ha pubblicato nel 2014 un libro molto discusso su questo tema sostenendo che le società capitaliste tendono naturalmente ad aumentare le diseguaglianze economiche.
Considerando il problema dei redditi, un eccesso di diseguaglianza è un problema per le economie capitaliste, per tre motivi.
Primo, un eccesso di diseguaglianza può comprimere la domanda interna di beni, dato il minor reddito disponibile per la maggior parte della popolazione. In generale, la fascia più benestante della popolazione non riesce a sostituire con la propria domanda di beni, specialmente con quelli di lusso, la domanda generale di bene di tutta la popolazione.
Secondo, non è mai chiaro quando si possa parlare di “eccesso di diseguaglianza”: non esistono misure univoche che possano discriminare tra un eccesso e un non-eccesso di diseguaglianza, quindi è difficile capire se e quando sia opportuno intervenire.
Terzo, per ridurre le diseguaglianze in un mondo formato da agenti economici razionali deve intervenire lo Stato, principalmente, ma non esclusivamente, attraverso la politica fiscale. E l’intervento statale è sempre difficile da calibrare, altera il normale funzionamento dei mercati, può essere distorsivo e ingiusto. Inoltre, la decisione di intervenire per lenire la diseguaglianza è legata non solo a scelte di tipo economiche, ma anche sociali ed etiche: campi, questi ultimi, sempre difficili da maneggiare.
L’effetto delle politiche di riduzione della diseguaglianza
Esistono moltissimi modi attraverso cui uno Stato può organizzare il suo sistema di tassazione e trasferimenti per attenuare il fenomeno della diseguaglianza. Le scelte in questo campo hanno un legame forte con la storia e la cultura di una società. Nei paesi anglosassoni il livello di diseguaglianza generalmente accettato è sicuramente superiore a quello dei paesi europei: non ci sono giustificazioni economiche perché sussista questa differenza, ma l’economia non è una scienza che possa esaurirsi in se stessa, senza alcun riferimento a studi derivati da altre scienze sociali.
In questo dedalo di opzioni, però, si può giungere a una misura che restituisce la forza che ha uno Stato di modificare il livello di diseguaglianza con la politica fiscale.
La misura prende in considerazione l’impatto delle politiche fiscali in termini di tassazione (riduzione del reddito di un individuo) e trasferimenti (incremento del reddito di un individuo). In sostanza, la misura calcola l’indice di Gini sui redditi, una delle più note misure di diseguaglianza che va da 0, minima diseguaglianza, a 1 (o 100), massima diseguaglianza, prima dell’intervento dello Stato, cioè sostanzialmente considerando il reddito lordo al lordo dei trasferimenti (ex-ante), e lo confronta l’indice calcolato sul reddito finale, al netto quindi dei trasferimento (ex-post). Quindi, si lascia il mercato raggiungere il suo equilibrio, si misura l’indice di diseguaglianza, poi s’interviene sui redditi attraverso la tassazione e i trasferimenti sociali e si valuta la diseguaglianza finale. La logica alla base di questa misura è la seguente: nella differenza fra l’indice di Gini ex-ante e ex-post, prima e dopo l’intervento dello Stato, si valuta l’impatto delle politiche fiscali in un sistema economico.
Il vantaggio di questa misura sta nel permettere il confronto fra Paesi aventi sistemi fiscali e politiche di welfare diversi: ciò che conta non è la natura o l’efficacia di una singola politica, ma l’effetto congiunto di tutte le politiche sulla diseguaglianza sociale.
Come si vede nel grafico seguente (Figura 2), la capacità dei sistemi fiscali europei di ridurre la diseguaglianza varia fra i Paesi.
Gli istogrammi gialli indicano il coefficiente di Gini, pensioni incluse, prima di qualsiasi trasferimento sociale, quelle blu l’effetto di riduzione della diseguaglianza misurata come indice di Gini (per questo assume valori positivi) grazie ai trasferimenti sociali.
L’Italia è uno dei Paesi con la maggior diseguaglianza e, nonostante un elevato carico fiscale e una storica tensione verso un sistema di welfare esteso, non è capace di ridurre in maniera significata la diseguaglianza attraverso l’intervento dello Stato. Dove la Svezia, una nazione con una diseguaglianza di partenza superiore a quella italiana, attraverso l’intervento pubblico riduce l’indice di Gini di più del 50%; l’Italia si ferma sotto il 40%.
Figura 2 Dis
Ogni modifica nella politica fiscale di un Paese altera la capacità di uno Stato di intervenire sulla distribuzione del reddito (o della ricchezza), influenzando così il livello di diseguaglianza, dunque l’indice di Gini.
Figura 3 Dis
Come si vede nella figura 3, in Italia fra il 2008 e il 2012 l’indice di Gini, già alto rispetto a molti partner europei, salì di quasi 3 punti percentuali. Questo significa che nei 4 anni successivi all’inizio della crisi finanziaria del 2008, lo Stato è stato un po’ meno capace che in passato nel contenere l’aumento della diseguaglianza.
Sia chiaro, l’andamento della diseguaglianza nel tempo non dice tutto: bisogna sempre capire da che livello si partiva o a che livello si è arrivati. Nella Tabella 2 sono riportati i dati dell’indice di Gini presso i Paesi dell’Unione Europea nel 2013, con la variazione intercorsa dal 2008.
Tabella 2 Dis
Due considerazioni sulla tabella 2. Primo, paesi come la Bulgaria e Norvegia non possono essere facilmente confrontati, dato il diverso livello di sviluppo socio-economico delle due aree: ogni confronto fra paesi, dunque, richiede attenzione prima di trarre conclusioni affrettate. Secondo, appare chiaro dai dati che ogni paese si muove in maniera autonoma, con Stati che riescono a ridurre significativamente la diseguaglianza e Stati incapaci di aggredire seriamente l’ineguaglianza economica. Da questo punto di vista un coordinamento a livello europeo, anche per l’area Euro, sarebbe auspicabile.
Andando nel dettaglio, nella tabella 3 sono riportati i dati di Italia, Francia, Germania e Spagna riguarda l’indice di Gini prima dei trasferimenti e dopo i trasferimenti.
Tabella 3 Dis
Se in Germania, e più moderatamente in Spagna, la diseguaglianza dei redditi è cresciuta negli anni, l’impatto delle politiche fiscali è cresciuto negli anni considerati in tutti i paesi tranne che in Francia.
L’Italia non ha visto sostanzialmente cambiare la sua condizione strutturale: dal 2005 al 2013 nulla sembra essere cambiato, nel bene nel male.
Le Regioni Italiane
Un ultimo appunto sulla condizione delle regioni italiane.
Gli indici che misurano la diseguaglianza, come l’indice di Gini, possono essere applicati a qualsiasi gruppo economico-sociale: come possiamo confrontare Paesi diversi, così possiamo confrontare regioni diverse all’interno di un unico Stato.
Nel caso dell’Italia, tabella 4, nel 2012 abbiamo questa situazione:
Tabella 4 Dis
Purtroppo, per l’ennesima volta emerge la distanza fra il SUD e il CENTRO-NORD dell’Italia , una distanza socio-economica che influisce anche sulla distribuzione dei redditi. Impressione, da questo punto di vista, come la differenza fra la regione più egualitaria (la Provincia di Bolzano) e regione meno egualitaria (la Campania) sia superiore alla distanza fra la Norvegia e la Bulgaria. Non servono, a parere di chi scrive, altri commenti a riguardo.

 

 

 

Siamo meno ricchi ma il risparmio cresce

Siamo meno ricchi ma il risparmio cresce

Davide Giacalone – Libero

Nel mentre la ricchezza prodotta dagli italiani diminuiva il risparmio gestito cresceva e cresce. L’uscita dalla recessione è solo un segno + davanti a uno zero virgola, restando alla metà della media eurozona e al di sotto di quel che la Banca centrale europea considera l’effetto indotto dal Quantitative easing, mentre la crescita del risparmio gestito ha un ritmo nettamente superiore. Si va strologando sull’esistenza o meno (vale il meno) di un «tesoretto» di 1,6 miliardi ma, da gennaio a marzo, sono 52 i miliardi che i risparmiatori hanno versato nelle casse dei gestori. Non sono due universi, ma sempre lo stesso. Per capirne il senso si devono fissare alcuni paletti.

1. Nel mentre, in Italia, ci muoviamo al ritmo dell’«andante» in de profundis, non parlando altro che di crisi, i mercati globali non hanno il metronomo puntato sul “presto”, ma, comunque, fra il «vivace» e l’«allegro». La ricchezza cresce sempre e investirvi è conveniente.

2. I tassi d’interesse dei titoli del debito pubblico puntano verso lo zero, sicché non è più tempo del fai da te. Ci fu quello in cui le famiglie erano contente nell’incassare interessi a due cifre, magari prestando poca attenzione all’inflazione che ne erodeva il significato. Ora non si può essere altrettanto artigianali, se si vuole danzare con la musica della crescita globale.

3. Dal primo gennaio dell’anno prossimo il risparmiatore rischia assieme alla banca. Siamo abituati a pensare che i soldi «depositati» in banca siano al sicuro, perché questo prevede la legge. Magari poco remunerati, ma al sicuro. La legge cambia, però, e i soldi non si depositeranno più, bensì si presteranno alla banca. Saranno remunerati sempre poco, ma il rischio cresce. In caso di bancarotta il correntista con un deposito superiore a 100mila euro sarà chiamato a compartecipare del fallimento, dopo gli azionisti e gli obbligazionisti. E se ha depositato meno, comunque non può riaverli subito. Quindi meglio mettere i soldi in fondi che sono solo custoditi dalla banca, restando di proprietà del risparmiatore. E ricordarsi che le banche non sono tutte uguali.

4. Il sistema pensionistico è stato modificato tante di quelle volte, e i più giovani non ne avranno uno paragonabile a quello dei loro maggiori, che non c’è da stupirsi se accelera la corsa ad assicurarsi in proprio un futuro non del tutto incerto.

5. Questi sono già buoni motivi per risparmiare, facendosi assistere da soggetti professionalmente adeguati (occhio a chi promette troppo, perché si pensa d’esser furbi e si è polli già allo spiedo). Ma c’è dell’altro: i consumi non riprendono anche perché la ripresa è solo nei comizi e nei titoli di qualche giornale. La moneta risparmiata ha incisa la saggezza su un lato, ma la paura sull’altro.

6. La crescita del risparmio non equivale alla crescita della ricchezza, ma segnala la divaricazione interna alla società: chi può mette da parte; chi non può s’impoverisce. I 23 miliardi raccolti nel solo mese di marzo non sono certo l’effetto dei mitici 80 euro, perché quelli sono stati assorbiti da altri prelievi fiscali e dal lievitare dalle tariffe amministrate. Sono due Italie. Se si allontanano troppo generano un terremoto sociale e politico.

7.Il fisco s’è incattivito anche sul risparmio. Il gestito cresce non perché è insensibile alla tortura, ma perché si dirige verso veicoli domiciliati all’estero. Una specie di monumento alla dabbenaggine fiscale, a come il satanismo esattoriale non può che generare diabolicità nella fuga.

8. Proprio perché s’insegue il mondo che cresce, il nostro risparmio va a finanziare chi è capace di farlo. Quindi genera ricchezza all’estero. È giusto che sia così, perché chi amministra quei soldi deve portare risultati ai clienti. Ma è folle che ciò non inquieti chi governa. Il rimedio non è impedire che si generi ricchezza fuori, ma consentire che si possa farlo anche a casa.

Se restassero cinque minuti di tempo libero, fra un sistema elettorale e una fiducia, tutto questo meriterebbe un pizzico d’attenzione.

Ricchi, eguali

Ricchi, eguali

Luciano Capone – Il Foglio

In questi 30 anni – quelli del “liberismo selvaggio” che affama i popoli, distrugge il pianeta, aumenta le disuguaglianze – l’umanità sta vincendo la più grande guerra contro la miseria. La Banca mondiale, lo scorso 9 ottobre, ha pubblicato un rapporto sulla povertà nel mondo. I dati dicono che la percentuale della popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà estrema – ovvero con meno di 1,25 dollari al giorno – è crollata dal 36,4 per cento del totale nel 1990 al 14,5 per cento nel 2011. È la più grande riduzione della povertà nella storia dell’umanità, circa 1 miliardo di poveri in meno, una cifra mostruosa, una rivoluzione silenziosa che forse meriterebbe maggiore attenzione del libro glamour di Thomas Piketty, premiato ieri da quei burloni del Financial Times.

La caduta vertiginosa della percentuale di poveri, mentre la popolazione mondiale è cresciuta esponenzialmente, spazza via il malthusianesimo di ritorno, le boiate sulla decrescita felice e il pauperismo no global. Secondo le proiezioni della Banca mondiale, con un tasso di crescita globale pari a quello degli anni 2000, nei prossimi 20 anni la povertà si ridurrà ulteriormente fino a scendere al 5 per cento della popolazione mondiale, che vuol dire altri 600 milioni di poveri in meno. L’ampiezza di questo fenomeno è ancora più impressionante se si guarda allo studio di un economista catalano della Columbia University, Xavier Sala-i-Martin, che dimostra come in un arco di tempo più ampio, dal 1970 al 2006, il tasso di povertà assoluta è crollato dell’80 per cento. Ma non basta: oltre a diventare più ricco il mondo è diventato anche meno diseguale. Sala-i-Martín mostra che sia il coefficiente di Gini sia l’indice di Atkinson (indicatori che misurano la distribuzione dei redditi) segnalano una riduzione della disuguaglianza a livello globale.

Ma a cosa è dovuto questo portentoso progresso? Nazioni Unite? Fondo monetario internazionale? Qualche programma governativo? Aiuti ai paesi in via di sviluppo? No. È merito della globalizzazione, del libero mercato, dei diritti di proprietà, del rule of law, della caduta di barriere interne ed esterne. In una parola, del capitalismo. E questo è evidente anche ai più scettici, dato che il contributo più grande alla riduzione della povertà l’hanno dato i popoli di due paesi fino a poco fa (e in parte ancora oggi) prigionieri dello stato e della pianificazione economica, cioe la Cina e l’India. Come hanno illustrato magistralmente il premio Nobel Ronald Coase e Ning Wang nel loro libro “Come la Cina è diventata un paese capitalista”, pubblicato in Italia dall’Istituto Bruno Leoni, sono stati l’apertura al mercato, la rottura dei monopoli statali, il superamento dei “piani quinquennali” e l’estensione dei diritti di proprietà a garantire una vita più decente a centinaia di milioni di esseri umani, tanto che adesso la povertà estrema sembra essere un problema africano e in particolare subsahariano, riguardante cioè quelle aree dove il capitalismo non ha ancora messo piede.

Questi dati smentiscono gli “intellettuali” che dai pulpiti di paesi ricchi e stanchi da anni parlano di “ritorno a Marx”, crisi del capitalismo, caduta del saggio di profitto e proletarizzazione della borghesia. D’altronde lo stesso Karl Marx, a differenza dei marxisti, era un alfiere entusiasta della globalizzazione e aveva capito bene la potenza rivoluzionaria del capitalismo. E forse, oltre ai marxisti di ritorno, quella che può essere considerata come la più grande moltiplicazione dei pani e dei pesci della storia dell’umanità, seppure di origine non sovrannaturale, dovrebbe indurre a una riflessione anche Papa Francesco sul suo anti capitalismo pauperista esposto nella “Evangelii Gaudium”.

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Chiara Daina – Il Fatto Quotidiano

La risposta per le rime a Renzi arriva da Massimo Blasoni, 49 anni, imprenditore udinese, che ha comprato un’intera pagina su Il Giornale di ieri. Due tondi, una con la foto del premier come è adesso, l’altro con un fotomontaggio che lo ritrae anziano e canuto. Sotto, la scritta “Torneremo ai livelli del 2008 quando Renzi avrà 67 anni”. Non è una stima sparata a caso. All’inizio di agosto Blasoni ha fondato il centro studi ImpresaLavoro, che ha ipotizzato il conto e di cui fa parte anche Salvatore Zecchini, presidente del gruppo di lavoro dell’Ocse su Pmi e imprenditoria.
Come è venuto in mente di comprare una pagina di giornale?
«Volevo comunicare a Renzi con un linguaggio schietto e mediatico come il suo. Il governo aveva previsto un livello di crecita del Pil dello 0,8 per cento. Balle. Per tornare ai livelli pre-crisi, considerando una crescita media tra il 2008 e il 2014 dello 0,3%, ci serviranno altri 24 anni».
Cosa le fa più paura?
«Quella di Renzi è solo una politica degli annunci. La pressione tributaria non è diminuita. Nessuna semplificazione burocratica per le imprese e nessuna facilitazione per l’accesso al credito. Imsomma, zero segnali di ripresa, nonostante le belle parole. Lo sa quanto costano i ritardi nei pagamenti della Pa alle imprese?».
Quanto?
«Cinque miliardi di euro l’anno. Lo abbiamo calcolato nella nostra prima ricerca».
Lei ha votato Renzi?
«No, anche se all’inizio gli davo fiducia. Ma di riforme vere finora neanche l’ombra. Renzi è un politico di vecchio corso con una faccia da giovane. Ma noi l’abbiamo già invecchiato».
L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

Paul Krugman – Il Sole 24 Ore

Un nuovo studio dell’istituto economico tedesco Iw mette a confronto le percezioni della disuguaglianza nelle nazioni avanzate: uno dei dati più significativi è che gli americani tendono, molto più degli europei, a pensare di vivere in una società di classe media, nonostante il reddito da quella parte dell’Atlantico sia distribuito molto meno equamente che in Europa. Mettendo a confronto Stati Uniti e Francia, per esempio, esce fuori che i francesi pensano di vivere in una società gerarchica, piramidale, quando in realtà la maggioranza di loro appartiene alla classe media. Gli americani hanno la convinzione opposta. Come sottolineano gli autori della ricerca, anche altri dati indicano che gli americani sottovalutano enormemente la disuguaglianza presente nella loro società, e quando gli si chiede di scegliere un modello di distribuzione ideale della ricchezza, rispondono che gli piace la Svezia. 

Quali sono le ragioni di questa differenza? Io, come molti altri, sono del parere che l’eccezione americana riguardo alla distribuzione del reddito (la nostra peculiare diffidenza e ostilità verso il welfare e i programmi anti povertà) sia strettamente legata alla nostra storia razziale. Tuttavia questo non spiega direttamente perché abbiamo una percezione cosi distorta della disuguaglianza effettiva: la gente potrebbe essere contraria ad aiutare “quelli là”, ma non per questo essere inconsapevole di quanto siano ricchi i ricchi. E’ possibile, tuttavia, che ci sia un effetto indiretto: la divisione razziale rende più forti le formazioni di destra, di ogni tipo, e queste formazioni a loro volta producono propaganda in gran quantità che ignora e minimizza il problema della disuguaglianza.

I sentimenti anti-keynesiani
In un articolo per il Washington Post, Matt O’Brien recentemente ha sottolineato che l’Europa sta andando peggio che ai tempi della Grande depressione. Nel frattempo, il presidente francese François Hollande (che con la sua mancanza di spina dorsale e la sua disponibilità a bersi le fandonie rigoriste ha condannato al fallimento la sua presidenza e forse anche il progetto europeo) incomincia finalmente a suggerire, molto timidamente, che forse ancora più austerità non è la risposta giusta.

L’economista di Oxford Simon Wren Lewis è del parere che l’abbraccio entusiasta delle politiche rigoriste nel Vecchio continente sia dovuto a una contingenza storica: in sostanza, la crisi greca ha rafforzato le posizioni degli austeriani in un momento critico. Secondo me la spiegazione non è così semplice. La mia idea è che in Europa esistevano forti sentimenti anti-keynesiani anche prima della crisi greca e che la macroeconomia così come la intendono gli economisti anglosassoni non ha mai avuto davvero cittadinanza nei corridoi del potere europei. Qualunque sia la spiegazione, sta di fatto che ci troviamo di fronte, come sottolinea O’Brien, a una delle più grandi catastrofi della storia economica.

La disuguaglianza mina la crescita

La disuguaglianza mina la crescita

Michael Spence – Il Sole 24 Ore

Sono trent’anni o più che il divario nella distribuzione della ricchezza e del reddito è andato aumentando in molti Paesi, ma l’attenzione sul suo andamento a lungo termine è cresciuta dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008: con una crescita rallentata, la disuguaglianza sempre più forte si fa sentire maggiormente. La “vecchia” teoria sulla disuguaglianza diceva che la redistribuzione con il sistema fiscale ha indebolito gli incentivi e minato la crescita. Ma il rapporto fra crescita e disuguaglianza è più complesso. Difficile tirare conclusioni considerando i diversi canali di influenza e meccanismi di riscontro.

Per esempio, Cina e Stati Uniti sono le principali economie mondiali con la crescita più rapida. Entrambe hanno livelli di disuguaglianza del reddito elevati e in aumento. Anche se da questo non si può concludere che crescita e disuguaglianza non siano correlate fra loro o lo siano positivamente, nemmeno dire che la disuguaglianza danneggia la crescita rispecchia propriamente la realtà dei fatti. Inoltre, in termini globali, la diseguaglianza è in diminuzione con la crescita dei Paesi in via di sviluppo, anche se sta aumentando all’interno di molti Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Ciò potrebbe sembrare controintuitivo, ma ha una sua logica. L’andamento globale dell’economia mondiale è il processo di convergenza cominciato dopo la Seconda guerra mondiale. Una fetta sostanziale dell’85 per cento della popolazione mondiale che vive nei Paesi in via di sviluppo ha vissuto per la prima volta una vera crescita rapida e sostenuta. Questo andamento globale è più forte di quello che vede aumentare la disuguaglianza interna. 

Tuttavia l’esperienza in un ampio ventaglio di Paesi rivela che livelli di disuguaglianza alti e in aumento, in particolare la disuguaglianza di opportunità, possono di fatto essere molto negativi per la crescita. Una ragione è che la disuguaglianza mina il consenso politico e sociale intorno alle strategie e alle politiche orientate alla crescita. Può portare a paralisi, conflitti e scelte politiche inadeguate. La sistematica esclusione di sottogruppi su qualsiasi base arbitraria (per esempio in base all’etnia, alla razza o alla religione) è particolarmente nociva in questo senso, come dimostra l’evidenza empirica.

La mobilità intergenerazionale è un indicatore chiave dell’uguaglianza di opportunità. La crescente disuguaglianza di reddito non porta necessariamente a una mobilità intergenerazionale ridotta. Se lo fa, dipende molto dall’accessibilità per tutti degli strumenti importanti che sostengono l’uguaglianza di opportunità, principalmente l’istruzione e la sanità. Per dire, se i sistemi di istruzione pubblica cominciano a andare male, all’estremo più alto della scala di reddito vengono sostituiti da un sistema privato, con conseguenze negative sulla mobilità intergenerazionale.

Ci sono altre correlazioni fra disuguaglianza e crescita. Alti livelli di reddito e disuguaglianza del reddito (come in gran parte del Sudamerica e in diverse zone dell’Africa) spesso sfociano in orientamenti iniqui e li consolidano. Anziché cercare di creare modelli di crescita inclusivi, i politici cercano di proteggere la ricchezza e il vantaggio che genera rendite ai ricchi. Ciò ha implicato una minor apertura verso il commercio e i flussi di investimento perché questi ultimi portano a una concorrenza esterna indesiderata. Il che ci fa capire che, in termini di risultati, c’è disuguaglianza e disuguaglianza. La disuguaglianza che si basa sulla ricerca delle rendite e sull’accesso privilegiato alle risorse e alle opportunità del mercato, è estremamente nociva per la coesione e la stabilità sociale – e per le politiche orientate alla crescita. In un ambiente generalmente meritocratico, i redditi da creatività, innovazione o talento straordinario di solito sono visti benevolmente e si pensa abbiano effetti meno dannosi.

Ed è anche per questo che l’attuale campagna “anti-corruzione” della Cina è così importante. Non è tanto la relativa disuguaglianza di reddito della Cina a minacciare la legittimità del Partito comunista cinese e l’efficacia della sua governance, ma le tensioni sociali create dall’accesso privilegiato a mercati e transazioni da parte degli insider. Quanto agli Usa, difficile dire in che misura l’aumento della disuguaglianza degli ultimi trent’anni rifletta il cambiamento tecnologico e la globalizzazione (che entrambi favoriscono chi ha livelli più alti di istruzione e competenze) e in che misura rifletta l’accesso privilegiato al processo di elaborazione delle politiche, è una domanda complessa e ancora senza risposta. Ma questa risposta è importante per due ragioni: 1) le risposte politiche sono diverse 2) lo sono anche gli effetti sulla coesione sociale e la credibilità del contratto sociale.

La crescita rapida aiuta. In un ambiente con una crescita elevata, con redditi in aumento quasi per tutti, la gente accetterà una disuguaglianza crescente fino a un certo punto, soprattutto se ciò avviene in un contesto fondamentalmente meritocratico. Ma in un ambiente a bassa crescita (o peggio, a crescita negativa), una disuguaglianza in rapido aumento significa che molte persone non avranno alcun aumento di reddito o staranno perdendo terreno in termini assoluti oltre che relativi. Le conseguenze di una crescente disuguaglianza del reddito possono indurre i politici in tentazione lungo una china pericolosa: il ricorso all’indebitamento, a volte combinato con una bolla di asset, per sostenere il consumo. Come è probabilmente successo negli anni ’20, prima della Grande Depressione e come si è verificato negli Usa (e in Spagna e nel Regno Unito) nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008.

Una variante, come si è visto in Europa, è il ricorso al prestito governativo per colmare il divario della domanda e dell’occupazione creato da una domanda privata interna ed esterna carente. Nella misura in cui quest’ultima è legata ai problemi di produttività e competitività ed esacerbata dalla divisa comune, tale risposta politica è inadeguata. Preoccupazioni simili sono state sollevate a proposito del rapido aumento dei ratio di indebitamento in Cina. Forse l’indebitamento sembra il percorso con meno attrito per affrontare gli effetti della disuguaglianza e della crescita rallentata. Ma ci sono modi migliori e peggiori di far fronte alla crescente disuguaglianza. L’indebitamento è uno dei peggiori. 

Allora cosa fare? Per me le priorità sono molto chiare. Nel breve termine, la priorità fondamentale è il sostegno al reddito per i poveri e i disoccupati che sono le prime vittime delle crisi e degli squilibri e dei problemi strutturali correlati che ci vuole tempo per rimuovere. In secondo luogo, specialmente con la disuguaglianza di reddito in aumento, l’accesso per tutti ai servizi pubblici di alta qualità, in particolare all’istruzione, è fondamentale. L’inclusione sostiene la coesione sociale e politica e dunque quella crescita necessaria per aiutare a mitigare gli effetti di una crescente disuguaglianza. Sono tanti i modi per non sostenere il potenziale di crescita di un’economia, ma il sottoinvestimento, soprattutto nel settore pubblico, è uno dei più efficaci e dei più usati. 

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I fatti iniziano a farsi sempre più chiari. Le due anomalie che l’Italia rappresenta, quella di essere l’unico paese dell’eurozona in recessione e quella di incarnare l’unica economia che al terzo anno di tentate riforme non riesce in alcun modo a far ripartire la crescita e il pil, stanno per arrivare al pettine. Mario Draghi ha parlato da Jackson Hole e ha detto chiaramente che senza le riforme che l’Italia rinvia dal 2011, in primis quella per rendere più efficiente il mercato del lavoro, la Bce non potrà fare molto di più di quanto ha già fatto. Un messaggio chiaro a Matteo Renzi che continua a chiedere una flessibilità che nessuno può concedergli a priori. Anche perché il trimestre in corso sarà chiave per l’Italia. Se, anche in conseguenza di una pessima estate climatica e conseguentemente di una fiacca stagione turistica, il pil di luglio-settembre dovesse registrare un nuovo dato negativo, allora la faccenda per Renzi e per il Belpaese si farebbe davvero grave. Non tanto e non solo perché sarebbe già acquisito a quel punto per il 2014 un calo della ricchezza nazionale dello 0,4-0,5%, con tutto quello che significa in termini di occupazione ed entrate fiscali, ma perché l’Italia diventerebbe automaticamente portatrice di una ulteriore anomalia dell’eurozona: l’unica economia a subire l’ennesimo downgrade da parte della agenzie di rating mentre gli altri paesi registrano promozioni nei giudizi. Se, infatti, il pil scendesse ancora nel trimestre in corso per Moody’s&Co.diventerebbe normale capire se il rating dell’Italia possa essere o meno confermato. Un paese in recessione da tre trimestri, con una disoccupazione giovanile monstre e indebolito da una strisciante deflazione è oggettivamente a rischio di downgrade. Ma per l’Italia perdere un notch, questa volta, equivarrebbe a spalancare le porte di Roma all’arrivo della troika.

Lo spartiacque della crisi stavolta corre lungo gli effetti che i dati a consuntivo del pil del terzo trimestre potranno produrre. Un altro quarter a crescita negativa e la secchiata gelata potrebbe investire il governo Renzi e la sua autonomia di manovra.

Del resto, è stato Renzi a precipitarsi nella villa umbra di Draghi per un confronto sulla situazione e per capire che margini di manovra in assenza delle riforme non ne esistono più. Se è presumibile che la troika sia già a Bolzano, allora al Premier non rimane che un’ultima via di fuga dal commissariamento: scongiurare un nuovo trimestre di pil negativo. Ma la confusione nel dibattito politico italiano e l’assenza di un chiaro programma riformista e di un calendario per attuarlo, certamente non aiutano l’Italia a guadagnare punti con le agenzie di rating. E a Renzi di respingere oltre il Brennero la temuta troika.

Un Pil di troppo

Un Pil di troppo

Davide Giacalone – Libero

All’inizio se ne parlava con aria cospirativa: con i nuovi criteri per calcolare il prodotto interno lordo risolveremo lo sforamento del deficit. In realtà, come vedremo, il deficit lo allarghiamo. Poi si è passati alla versione criminale: il pil crescerà grazie a puttane e spacciatori. Il rischio è, se mi passate il paradosso, che la criminalità cattiva scacci la buona. Questa faccenda del ricalcolo è piena di trappole ed equivoci. Per capirlo se ne devono vedere tre aspetti: 1. i criteri; 2. le quantità stimabili; 3. gli effetti.

1. Il pil è una somma, diversi dei cui addendi sono stimati. Solitamente l’indice lo si legge in percentuale, intendendosi di crescita o decrescita rispetto al passato. È evidente che più la stima si attiene alla realtà e più quel numero non è campato in aria. È evidente una seconda cosa: se si mettono a paragone pil di diversi paesi, si dovrebbe misurarli tutti allo stesso modo. Invece non accade. Prendiamo la prostituzione (questo non è un dibattito nel merito, ma, giusto per non scantonare, sono favorevole alla sua legalizzazione, mentre sono contrario per quel che riguarda la droga): in Germania è legale, in Italia no; in Germania pagano le tasse, in Italia no. Quando paragoniamo i due pil, quindi, misuriamo cose diverse. Eurostat (l’Istat dell’Unione europea), giustamente, chiede l’introduzione di criteri omogenei, con il che entra nel conto quel che magari, in un determinato Paese, è illecito. Ma c’è un limite. Tanto per capirsi: l’estorsione non entra nel conto mai. Diciamo che l’idea è quella di contabilizzare quel che da qualche parte è consentito, sicché si tratta di criminalità accettata e consensuale (fra le due parti, chi paga e chi incassa). Ciò pone un problema per l’induzione in schiavitù, che è risolto dove la cosa è legalizzata, mentre resta oscuro dove non lo è. Attenzione: dove l’economia sommersa è fatta di fuga dal fisco, quindi di attività lecite, ma in evasione, queste, che hanno un dna sano, non entreranno nel conto. Per questo dico che la criminalità cattiva (droga) scaccia la buona (pescatore che vende sulla banchina, senza scontrino).

2. Nell’immaginare quanto potrà crescere il pil, dati questi criteri, si entra nel cuore del problema. In Germania le prostitute non porteranno nulla, perché già portano, da noi sì. Ma è intuitivo che quel tipo di economia è maggiormente florida laddove c’è più ricchezza. Quindi, puttane a parte, il pil crescerà di più dove è già più alto. È difficile credere che il Paese senza limiti nella circolazione del denaro contante sia quello con meno economia sommersa, semmai il contrario. E quel Paese, con relativa evasione fiscale, è la Germania. Introdurre nel conteggio la spesa per ricerca è cosa buona, ma quella italiana sarà bassa, perché la gran parte, da noi, si fa nei capannoni e nei laboratori di piccole e medie imprese. Introdurre la spesa militare non significa che il pil aumenterà di quanto spendiamo nella difesa, perché, giusto per esempio, quel che paghiamo a Finmeccanica è già contabilizzato, dal lato dell’impresa italiana, quindi crescerà solo di quel che spendiamo comprando all’estero. Non è proprio il massimo e, comunque, non è molto. Alla fine, quindi, scopriremo che il nostro pil cresce meno di quelli con cui ci paragoniamo. Né vale la furbata, ad uso interno, di vendersi l’aumento come una conquista, dato che verranno ricontabilizzati anche gli anni precedenti.

3. Gli effetti sono da ridere. O da piangere. L’anno prossimo la pressione fiscale diminuirà, ma noi pagheremo quanto e più di prima. Magia? No, imbroglio: il pil cresce perché si contabilizza anche (in parte) quel che non è legale, quindi non paga tasse, ciò fa scendere l’indice della pressione sulla ricchezza prodotta, ma quelli che pagano non vedranno ridursi un accidente. C’è di più: i contributi che ciascuno Stato versa al bilancio Ue sono in proporzione al pil, quindi aumentano aumentandolo, ma siccome quel di più che si dovrà versare non sarà accompagnato da gettito fiscale, ne deriva che il deficit ne risente negativamente. L’illusione ottica dura qualche settimana.

Riassumendo: omogenizzare i criteri di contabilità è giusto, ma prima di trarne conclusioni su effetti miracolistica sarebbe bene studiare le carte. Se qualcuno pensava fosse, o si potesse farne una mandrakata, del cavallo più che la febbre ha la follia. Diverso sarebbe se (posto che la ricetta principale consiste nell’abbattimento del debito mediante dismissioni) usassimo il fisco per far emergere l’economia nera che abbiamo (un ipotetico 18%). Ma questo comporta abbassare drasticamente le pretese dello Stato e consentire, come fanno i tedeschi, che ciascuno faccia quel che vuole con i propri soldi (aumentando il gettito iva). Anche leccandosi il pollice. Qui, invece, vedo sguardi languidi verso le lucciole. Ma non per le ragioni tradizionali, quanto per tassare i proventi delle loro fatiche.

Il sommerso nel Pil non ci riporta a galla

Il sommerso nel Pil non ci riporta a galla

Francesco Forte – Il Giornale

La rivalutazione del Pil dell’Italia, che l’Istat farà fra circa un mese, costituisce, per Renzi che si dibatte fra cattive statistiche, un piccolo ma non trascurabile aiuto. Il nuovo calcolo farà scendere la pressione fiscale ufficiale anche se i contribuenti pagheranno le cifre esorbitanti di prima. Anche la spesa pubblica risulterà più bassa sul Pil, anche l’importo rimane eguale. E il rapporto del debito pubblico col Pil scenderà. Un buon aiutino arriverà a Renzi per il deficit in percentuale sul Pil. Se – in ipotesi – per il 2015, prima delle manovre correttive, il deficit è stimato in 48 miliardi, su un Pil di 1.600 miliardi, esso risulta il 3%. L’aumento del 2% del Pil porterà quest’ultimo a 1.632 miliardi, farà scenderà il deficit al 2,94%: 0,6 punti in meno, risparmiando 9,6 miliardi alla manovra correttiva. Questa rivalutazione del Pil dell’Italia avverrà, provvidenzialmente per Renzi, a ridosso della legge di bilancio per il triennio 2015-2017. Essa però non è una escogitazione né del premier fiorentino né dell’Istat. Deriva da una decisione dell’Unione europea per tutti i Paesi membri, che nasce dalla necessità di adeguare il calcolo europeo del Pil ai criteri degli Stati Uniti e altri Paesi. La rivalutazione comporta di includere nel Pil i proventi di attività, che in Italia (e in qualche Stato europeo) sono vietate o semi legalizzate come i traffici di droghe e di prostituzione, che altrove sono invece ampiamente legalizzati. Ma l’impatto sarà limitato anche perché le prostitute e prostituti a volte si chiamano «escort»; i traffici di droghe sono in parte già inclusi nell’economia sommersa, che in Italia viene valutata con indicatori presuntivi (per difetto) al 18%. Soprattutto, verranno incluse nel Pil le spese di ricerca, che in Italia sono considerate costi senza utile e quelle per gli investimenti per la difesa, che per l’Unione europea, per una scelta ideologica adesso non sono veri investimenti. Il calcolo del Pil in più è scivoloso. Per la «prostituzione», concetto labile, e per la droga, di cui si hanno vaghe stime, l’Istat intende fare una correzione del Pil molto limitata. La ricerca scientifica (difficile da definire) può dar luogo a una rivalutazione più consistente. Fra gli investimenti nella difesa verranno inclusi solo quelli fatti con beni comprati all’estero.

I beni nazionali sono già compresi nel prodotto delle imprese italiane. Si pensa che, con questa rivalutazione, il nostro Pil si accresca di circa 1/2 punti che vanno considerati anche per gli anni passati. Dunque se il Pil è, in ipotesi, 1.600 miliardi, col 2% in più, diventerà 1.632. La pressione fiscale di 704 miliardi su 1.600 di Pil è il 44%. Su 1.632 sarebbe 43,03. Se le spese pubbliche sono 784 miliardi scenderanno dal 49% al 47,98% del Pil. Il debito pubblico di 2.160 miliardi scenderà dal 135 al 132,35% del Pil. La rivalutazione del Pil non riduce di un euro il sacrificio fiscale che, per ogni famiglia e impresa, rimane quello di prima. E Renzi è pregato di non prendere il giro il contribuente. Prostituzione e droga, non pagano le imposte ora e non le pagheranno con la rivalutazione. Per la ricerca, il regime fiscale non muta.

Gli acquisti dall’estero di beni d’investimento per la difesa produrranno, come ora, reddito fiscale all’estero. Sembrerà che noi abbiano meno debiti. Ma gli interessi e i rimborsi futuri sono gli stessi. E il deficit produrrà tanto nuovo debito come prima. Per finire, la rivalutazione del Pil non farà aumentare il misero trend della crescita italiana. Infatti le rivalutazioni accresceranno il Pil passato e futuro d’analoghe percentuali. Perciò i rapporti fra tali Pil non mutano. I disoccupati rimarranno una cifra enorme. Questo ritocco non è un alibi per rimandare le riforme.

Prodotto interno lurido? Allora legalizziamo prostituzione e spinelli

Prodotto interno lurido? Allora legalizziamo prostituzione e spinelli

Gianluigi Paragone – Libero

Scusate, ma se parte dei proventi delle attività illecite vanno bene per gonfiare un po’ di pil europeo e quindi ritarare il debito (soliti trucchetti da pezzenti…), domando: perché non vogliamo aprire gli occhi su droga e prostituzione? Perché alcol, sigarette e gioco d’azzardo possono rientrare nell’elenco dei buoni, mentre droga e mignotte no? O meglio, no con qualche se e qualche ma perché resta sempre vero che il denaro non puzza. Il ricalcolo del pil italiano non può essere liquidato come tema ragionieristico, varrebbe la pena (e qui lo faccio) di finirla con questo finto perbenismo tutto italiano e di legalizzare prostituzione e droghe leggere. Sulla prostituzione soprattutto sarebbe ora di 1) abrogare la legge Merlin; 2) legalizzare l’esercizio sessuale in casa; 3) creare quartieri a luci rosse; 4) tassare l’attività delle lucciole. Ci sarebbe un quinto che però appartiene al costume: la libertà sessuale.
Quando ne parlo mi sento ripetere che uno stato magnaccia sarebbe inopportuno. A parte che ormai se lo stato fosse solo magnaccia sarebbe il minore dei mali, ma spiegatemi perché il gioco d’azzardo sì, l’alcol sì, il tabacco sì e le droghe leggere (cannabis) e la prostituzione no. La prostituzione è nella pelle delle nostre città ma nel controllo quasi totale di organizzazioni criminali. Inoltre chiudiamo gli occhi sull’esercizio della prostituzione in casa, pubblicizzata su giornali e siti internet: ci vuole nulla per farsi una trombata in santa pace.

C’è un mercato enorme su scambi e offerte di prestazioni che non capisco il motivo per cui debba stare sommerso e oscuro. Per non dire dei vari giocattoli e attrezzi sessuali che fanno la felicità di venditori e produttori. Insomma,il sesso ci circonda e siccome quello a pagamento si consuma sotto i nostri occhi (farisaicamente chiusi) forse è il caso di fare i conti con l’oste.

L’errore più grossolano che si commette ogni volta che si affronta l’argomento è condizionarlo a un registro morale. Sapete che vi dico? Chissenefrega della morale! Piantiamola. Insisto, se c’è un’attività che non conosce crisi è quella legata al sesso, quindi – siccome fa meno male dell’alcol e del gioco d’azzardo – sbrighiamoci a uscire dalla Merlin. Il sesso straborda in ogni luogo, reale e virtuale: insomma non c’è una sola ragione per non legalizzare la prostituzione e non far godere così anche il gettito fiscale. A meno che non si voglia darla vinta ai bacchettoni in mutandone.

Infine non mi sta affatto bene che per sistemare la contabilità si debbano inserire proventi in mano alla criminalità; se quel denaro non puzza allora cerchiamo di sottrarlo ai criminali. Vale per la prostituzione così come per alcune droghe. Quelle leggere. La cannabis, almeno. Perché non si può vendere in appositi coffee shop? In America si è aperto un dibattito politico, prima ancora che giuridico, sull’uso della marjuana. Ci sono Paesi dove la vendita e il consumo sono leciti senza tanti alambicchi normativi. Aggiungo che nemmeno sullo spaccio hanno senso alcune osservazioni critiche visto che ogni volta che si debbono fare i conti con colpi di spugna gli spacciatori sono i primi a fare festa.

Un’ultima considerazione. Spendo alcune righe sul fatto che la cannabis è una droga ormai superata, poco attrattiva tra i giovani i quali “debuttano” spesso con le droghe sintetiche assolutamente più dannose del vecchio spinello. Lo dico per abituarci all’idea che anche le sfide che ci pongono le nuove generazioni sulle tossicodipendenze sono già più avanti del dibattito politico.

Per chiudere. Se puttane e droga valgono bene un’aggiustatina dei conti economici, allora, cari politici, giù la maschera. Legalizziamo.