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«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

Luigi Grassia – La Stampa

Continuano ad arrivare stime sulla propensione dei lavoratori italiani a incassare subito il Tfr maturato nel 2015 anziché aspettare la fine del rapporto d’impiego, nonostante lo svantaggio fiscale per chi sceglie la prima soluzione. Un’indagine della Confcommercio e della società Format Research rivela che i dipendenti che vogliono prendere i soldi al più presto sono una quota abbastanza piccola, solo il 18,1%. Peraltro questo già basta a preoccupare le aziende sul piano finanziario. Il campione riguarda i dipendenti delle imprese fino a 49 addetti; sono quelle per cui la scelta farà la differenza, infatti fino a ora trattenevano tutte le somme accantonate per il Trattamento di fine rapporto e le usavano come liquidità propria – mentre le aziende da 50 dipendenti in su versano i fondi all’Inps, quindi per loro niente cambia con una diversa destinazione del Tfr.

L’indagine si occupa in via preliminare di un problema di informazione e rivela che il 91,9% dei lavoratori dipendenti sa della possibilità di ricevere in busta paga il Tfr che maturerà nel 2015. Quanto alle intenzioni, il 18,1% dice di voler approfittare di questa opportunità, il 18% è indeciso e ben il 63,9% dei lavoratori dice di non volerlo assolutamente fare. Ma queste sono cifre medie, che vanno scomposte. L’intenzione di anticipare l’incasso del Tfr è più forte della media fra i lavoratori di sesso maschile, fra i giovani fino a 34 anni, fra i dipendenti delle imprese del Nord-Ovest, fra i «single», fra coloro che vivono ancora con la famiglia di origine, e fra chi è operaio o comunque svolge mansioni a carattere esecutivo. Come saranno usate le somme che i lavoratori incasseranno in anticipo? Il 60% di chi vuole subito il Tfr lo utilizzerà per maggiori consumi o per spese di cui ha necessità urgente, mentre l’altro 40% dice che ritirerà il denaro extra per risparmiarlo. Se ne deduce che un certo effetto di espansione dei consumi, come spera il governo, dovrebbe esserci. Naturalmente lo scotto è che peggioreranno le prospettive previdenziali.

Le imprese italiane con un numero di addetti fino a 49 sono circa un milione e mezzo. Una parte di queste nel 2015 dovrà versare un extra a una parte dei dipendenti e questo peggiorerà la condizione finanziaria media delle aziende, che sono già provate da anni di crisi economica e da una domanda interna ferma. Difficile valutare l’impatto positivo dei maggiori consumi, ma è certo che l’eventuale beneficio andrà a tutte le imprese, anche a quelle sopra i 50 addetti, mentre l’aggravio finanziario sarà solo per le più piccole. Dall’indagine risulta che a trovarsi più in difficoltà per le nuove regole sul Tfr saranno le aziende con un numero di dipendenti compreso fra 20 e 49, quelle che operano nel ramo industriale (anziché nel terziario) e quelle collocare nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est. Fra le imprese dell’industria (cioè manifattura e costruzioni) il 34,3% (circa 170 mila) subirà richieste di anticipo del Tfr in busta paga da parte di alcuni dipendenti. La quota sarà invece più bassa, attorno al 10%, fra le aziende del terziario (cioe commercio, turismo e servizi) e questo corrisponderà ad altre 110 mila imprese coinvolte, in totale 280 mila.

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Paolo Baroni – La Stampa

Ci sono parrucchieri ed estetiste, spesso ex dipendenti licenziati, che continuano ad esercitare a casa loro o direttamente a casa dei clienti, tassisti completamente abusivi o che magari «sforano» in comuni limitrofi a quelli per cui hanno la licenza, idraulici ed elettricisti che tirano giù la serranda ma che poi continuano come se nulla fosse a prestare i loro servizi, e ancora trasportatori per conto terzi senza la necessaria abilitazione. Per non dire poi di imbianchini e muratori. C’è gente che fa il doppio lavoro e ci sono anche tanti cassintegrati che in questo modo cercano di arrotondare. Complice la crisi l’esercito degli abusivi cresce anno dopo anno. Oggi sono un milione, o quasi, calcola l’ufficio studi di Confartigianato. O meglio sono 881mila, ma visto in media lavorano molte più ore dei regolari «valgono» come 1 milione e 34mila persone, o «unità di lavoro equivalenti a tempo pieno» (ula) per usare il termine dei tecnici. Il tasso di irregolarità, tra i lavoratori autonomi, tocca così il 13,8%. Ovvero, un occupato su 7 è in nero. Se poi si allarga lo sguardo al totale dell’economia il conto degli irregolari, calcolando anche i 2.204.000 lavoratori dipendenti a loro volta «in nero», sale a quota 3 milioni e 85 mila, con un tasso complessivo di irregolarità del 12,4%.

Concorrenza sleale
Questo esercito di abusivi non solo «fa concorrenza sleale alle imprese regolari – è scritto nel rapporto di Confartigianato, che ha elaborato i dati contenuti nei conti nazionali pubblicati dall’Istat a settembre, e che La Stampa pubblica in esclusiva – ma determina una rilevante evasione fiscale». Usando come reddito la media rilevata dagli studi di settore, Confartigianato stima che la presenza di una fetta così ampia di lavoro irregolare determini un’evasione fiscale e contributiva da parte dei soli lavoratori autonomi pari a 11,78 miliardi: 3,8 miliardi di Iva, 2,8 di Irpef, 604 milioni di Irap e 4,54 miliardi di contributi sociali. Tanto per fare un paragone: l’importo evaso dagli abusivi, in media 14.209 euro a testa all’anno, rappresenta lo 0,7 del Pil ed equivale alla spesa sanitaria di Veneto e Marche messe insieme.

Chi è più esposto
Ovviamente le imprese artigiane regolari sono tra le più esposte alla concorrenza sleale del sommerso: circa i due terzi del settore (923.559 imprese, 1.750.427 di addetti) sono a rischio. In cima alla lista “altri servizi alla persona” con un tasso di esposizione del 24,5%, servizi di alloggio e ristorazione (22,1%) e le attività di trasporto e magazzinaggio (19,5%) che in tutto assommano 333.748 imprese e 650.743 addetti. Particolarmente esposti anche parrucchieri ed estetiste, settore che conta 126.790 imprese e 229.300 addetti. In valori assoluti tra le regioni più «colpite» ci sono Lombardia (con 172.688 imprese, pari 18,7% del totale dell’artigianato più esposto), Emilia-Romagna (10,2), Veneto (9,6) e Piemonte (9,5). Commenta il presidente nazionale di Confartigianato, Giorgio Merletti: «Smettiamo di tollerare l’abusivismo e le attività irregolari come se fossero un male necessario. Il fenomeno del sommerso è un’emergenza nazionale, una grave minaccia per il Paese e per il sistema produttivo, soprattutto per artigiani e piccole imprese. Noi piccoli imprenditori siamo le prime vittime della concorrenza sleale di chi opera senza rispettare le leggi, sottraendo gettito alle casse dello Stato e minacciando la sicurezza dei consumatori».

Il record in Campania
In termini assoluti la metà degli occupati irregolari totali si concentra in cinque regioni: l’11,6% in Campania con 357.400 unità, il 10,7% in Sicilia (329.400), il 10,1% in Lombardia (312.600), il 9,4% in Lazio (290.900) e l’8,2% in Puglia con 253.400 unità. In Calabria un terzo (35,3%) degli occupati è irregolare, in Molise, Sardegna, Basilicata e Sicilia viaggiano sul 25%, Campania e Puglia sono attorno al 20. Il tasso di irregolarità più basso è pari al 5,9% e si rileva nella Valle d’Aosta. Un terzo (34,2%) degli occupati irregolari, pari ad oltre un milione (1.054.600 unità), si concentra nelle sette prime province: Roma (222.500 unità), Napoli (200.900), Milano (157.300), Torino (126.700), Bari (106.500), Palermo (87.900), Cosenza (78.500) e Salerno (74.300). Ma a livello provinciale i picchi si toccano a Crotone con il 40,1%, a Vibo Valentia (39,3%) e Catanzaro (37,8%).

Come rimediare a tutto ciò? «Non servono interventi spot e dichiarazioni di buone intenzioni – spiega Merletti -. Il fenomeno del sommerso va combattuto senza ipocrisie e in modo strutturale, intervenendo sulle cause che lo favoriscono, vale a dire tutto ciò che ostacola l’attività delle imprese che lavorano alla luce del sole, a cominciare dal carico fiscale e contributivo troppo elevato e dall’eccesso di burocrazia».

 

Tasse giù di 3 miliardi, ma solo per pochi

Tasse giù di 3 miliardi, ma solo per pochi

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Nel 2014 le tasse caleranno di 3 miliardi. Potrebbe sembrare una bella notizia quella della Cgia ma se andiamo a guardare nel dettaglio emerge che non solo è come una goccia nel deserto giacché la pressione fiscale resta elevatissima (il 43,3%) ma il taglio irrisorio interessa comunque una fascia di contribuenti circoscritta. La Cgia mette in evidenza che quest’anno la riduzione delle impose sarà pari a 11,8 miliardi di euro a fronte di aumenti per 8,7 miliardi. Queste cifre scaturiscono dal confronto tra le varie misure fiscali che hanno avuto impatto economico nel 2014.

Guardando nel dettaglio emerge che hanno beneficiato del taglio delle tasse soprattutto i redditi bassi mentre il ceto medio ne è rimasto escluso. Anzi è proprio questa fascia che ha subito i maggiori rincari. Tra le riduzioni di imposta avvenute nel 2014, la Cgia segnala il bonus di 80 euro voluto dal governo Renzi (misura pari a 6,6 miliardi di euro), il bonus Letta, che ha incrementato le detrazioni Irpef per i lavoratori dipendenti a basso reddito (sgravio da 1,5 miliardi di euro), l’eliminazione della maggiorazione Tares (1 miliardo di euro), la riduzione dell’aliquota della cedolare secca (1 miliardo di euro) e la deduzione del 30% dal reddito di impresa dell’Imu applicata sugli immobili strumentali (714 milioni di euro). Per contro, invece, tra i principali aumenti fiscali avvenuti quest’anno la Cgia registra l’introduzione della Tasi (3,8 miliardi di euro di gettito), la crescita della tassazione delle rendite finanziarie (720 milioni di euro di gettito), l’incremento dell’imposta di bollo sul dossier titoli (627 miliardi di euro) e la riduzione della deduzione forfetaria dei redditi derivanti dai contratti di locazione (627 milioni di euro).

Ad essere colpita dal fisco, come emerge chiaramente, è soprattutto la casa. La Tasi, l’imposta sui servizi indivisibili, è una specie di Imu dal momento che colpisce anche la prima casa ed è risultata più alta della vecchia imposta immobiliare non avendo la detrazione fissa di 200 euro e quella per ogni figlio sotto i 26 anni. Secondo i calcoli della Cisl il salasso maggiore l’hanno avuto coloro che hanno un’abitazione principale con rendita catastale bassa, fino a 300-500 euro. Più piccola è la casa, maggiore è la differenza rispetto all’Imu. Per gli immobili con rendita catastale di appena 300 euro, la nuova tassa sui servizi risulta più cara in 11 città, mentre in soli 4 centri urbani era più alta la vecchia imu sulla prima abitazione. Solo in 5 capoluoghi su 20, invece, i due balzelli sulla casa risultano equivalenti.

Secondo la Cgia «la stabilizzazione del bonus Renzi, gli sgravi contributivi per i neoassunti a tempo indeterminato e il taglio dell’Irap dovrebbero avere il sopravvento sugli aumenti di imposta previsti sui fondi pensione, sull’incremento della tassazione sul Tfr, e sull’incremento delle accise sui carburanti che scatterà dal prossimo 1° gennaio». «Era da molto tempo che ciò non accadeva – osserva il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – A far pendere l’ago della bilancia a favore dei contribuenti italiani è stato il bonus fiscale introdotto nella primavera scorsa dal Governo Renzi. In linea di massima possiamo affermare che i maggiori benefici economici, come era giusto che fosse, sono andati ai redditi medio bassi, mentre quelli superiori non hanno ancora fruito di nessun sollievo fiscale. Nonostante ciò, il carico fiscale complessivo rimane ancora molto elevato. Purtroppo, la contrazione del Pil continua ad essere superiore alla diminuzione del gettito: pertanto, la pressione fiscale non si abbassa».

E per far fronte al caro imposte in molti pensano di farsi anticipare il Tfr in busta paga. Secondo un’indagine realizzata da Confcommercio-Imprese, un lavoratore su cinque, nelle imprese fino a 49 addetti, è pronto a chiedere il Tfr in busta paga. Un’intenzione che sta maturando soprattutto tra i dipendenti di sesso maschile, giovani, single che vivono nella famiglia d’origine, con un’età compresa tra i 25 e i 34 anni d’origine, e un’ampia maggioranza (il 60%) conta di utilizzare l’anticipo della liquidazione per consumi e per fronteggiare spese ritenute necessarie mentre il 40% circa vuole depositarlo in banca come fondo per le emergenze. Si tratta di un’operazione che coinvolgerà circa 300 mila imprese e, per molte, non sarà certo indolore visto che comporterà un aggravio della loro capacità finanziaria.

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Da gennaio l’addizionale Irpef regionale potrà salire fino al 3,33%. Un punto in più del 2,33%, già applicato da quattro Regioni: Piemonte, Lazio, Molise e Basilicata. Il Piemonte guidato da Sergio Chiamparino, che è anche presidente della Conferenza delle Regioni, ha già deciso un aumento dell’aliquota per i redditi sopra 28 mila euro. Riguarda meno di un quarto dei 2,6 milioni di contribuenti piemontesi, si giustifica la Giunta. Il conto più salato sarà per i 127 mila cittadini sopra i 55 mila euro. Per loro l’aliquota salirà di un punto: al 3,32% per lo scaglione tra 55 mila e 75 mila euro, al 3,33% oltre. Per fare un esempio, un torinese con più di 75 mila euro subirà un prelievo Irpef complessivo superiore al 47%, considerando l’Irpef nazionale del 43% e comunale dello 0,8%. Si tratta di aumenti «obbligati», sostiene la Regione, per far fronte al debito salito a quasi 9 miliardi. Ma, spiega Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori al Bilancio della Conferenza delle Regioni, «anche altre Regioni, quelle con i Piani di rientro sanitari (oltre al Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, ndr.), rischiano di aumentare le addizionali, a causa dei tagli alle Regioni: 4 miliardi con l’ultima legge di Stabilità e 1,8 con le precedenti due manovre».

Il prelievo medio pro capite che quest’anno è salito a 377 euro con punte di 548 euro nel Lazio e 442 in Piemonte e Campania, potrebbe salire ancora. Come l’aliquota media, che ora sfiora 1,6% (va tenuto conto che molte Regioni articolano il prelievo sui 5 scaglioni Irpef) con Lazio, Molise, Campania e Calabria oltre il 2% mentre il prelievo medio più basso c’è nelle province autonome di Bolzano e di Trento. L’aumento fino al 3,33% è quasi certo nel Lazio, dove è già previsto dalla manovra approvata l’anno scorso, mentre la Campania fa sapere che sarà confermato il 2,03% in vigore. Già domani potrebbe esserci un nuovo incontro governo-Regioni, dice il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta. Che anticipa: «Le proposte delle Regioni non vanno nella direzione giusta. Vorrebbero alleggerire i tagli utilizzando i fondi non spesi per il pagamento dei debiti verso le imprese. Sarebbe una soluzione finanziaria mentre secondo noi vanno ridotti gli sprechi».

Le posizioni sono distanti. A sentire le Regioni, 4 miliardi di tagli sono insostenibili, mettono a rischio i servizi, per non ridurre i quali bisogna appunto aumentare l’addizionale. In effetti, secondo i calcoli della Copaff, la commissione del’Economia per il federalismo fiscale presieduta da Luca Antonini, tra il 2008 e il 2013 sono proprio le Regioni ad aver sopportato, in proporzione, i tagli maggiori di spesa: 13 miliardi più 8 sul fondo sanitario. Ma, a sentire il premier Matteo Renzi, tagliare 4 miliardi, su una spesa regionale di 200 miliardi, è possibile intervenendo sugli sprechi e applicando i costi standard. Secondo il rapporto dell’istituto di ricerca Glocus, nella sanità si possono risparmiare 22 miliardi in 5 anni. Per Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, la società del ministero dell’Economia per gli acquisti della pubblica amministrazione, «è senza dubbio nel campo dell’energia che ci sono troppi sprechi. In qualche caso si sono ottenuti risparmi fino al 40%. Centralizzando gli acquisti, oltre a eliminare gli sprechi, si rende più difficile la corruzione».

In questo braccio di ferro a rimetterci è il contribuente. Eppure la legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale fissava il principio dell’invarianza della pressione fiscale, quindi se aumentavano le addizionali doveva diminuire l’Irpef nazionale. Invece, afferma la Corte dei conti nel Rapporto sulla finanza pubblica 2013, «non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e locale ma, anzi, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate territoriali sia di quelle centrali». Solo nel 1998, ricorda la Corte, quando l’addizionale regionale debuttò con un’ aliquota che allora era dello 0,5%, «furono ridotte della stessa misura le aliquote Irpef». Da allora, spiega Antonini, «c’è stato un continuo scaricabarile tra Stato, Regioni ed enti locali e il principio dell’invarianza di gettito è stato massacrato». Più accademica la Corte: «Le evidenze» dimostrano «una mancanza di coordinamento fra prelievo centrale e locale, sconfinato nell’aumento della pressione fiscale complessiva a causa di un perverso effetto combinato: lo Stato centrale che taglia i trasferimenti ma lascia invariato il prelievo di sua competenza; gli enti territoriali che, per sopperire ai tagli, aumentano le aliquote dei propri tributi». Quando finirà? Il governatore della Campania, Stefano Caldoro, ha suggerito un po’ provocatoriamente: «Lasciamo il governo nazionale, sciogliamo le Regioni e riorganizziamo le funzioni sulla base delle macroaree».

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dopo tre anni in cui il Fisco sul mattone ha visto crescere a passo di carica il caos delle regole e soprattutto il conto a carico dei cittadini, ogni novità su parametri e aliquote tocca un nervo scoperto. In questo quadro, i nuovi indicatori della «tassa locale» non passeranno certo inosservati, soprattutto nel capitolo dedicato a seconde case e altri immobili, per i quali l’aliquota massima sale fino al 12 per mille invece dell’11,4 attuale. Uno scarto piccolo, rivolto però a proprietari che oggi pagano dal 100 al 200% in più di quello che versavano tre anni fa, mentre il loro immobile perde valore schiacciato dalla crisi e dalle tasse.

Il fatto è che nel Fisco gli errori si pagano, e nel travaglio eterno della Tasi di errori ne sono stati fatti parecchi. Dopo un continuo lavorio sulle norme per mettere una pezza a questo o quel difetto del nuovo tributo, il debutto effettivo della Tasi è stato accompagnato da un fondo statale di 625 milioni. L’aiuto è stato pensato per permettere a molti Comuni di far quadrare i conti e di riservare anche qualche detrazione sulle abitazioni principali, nel tentativo di attenuare il drastico effetto regressivo (aumenti per le case più “povere”, sconti per quelle più ricche) del nuovo sistema. Questo assegno statale, però, ha solo rimandato il problema di un anno, perché ora altri 625 milioni non ci sono (o il Governo non è disposto a metterli) e la leva fiscale potenziale dei Comuni sale.

Non solo: la nuova spending review resta un boccone amaro per i sindaci, e una quota (minoritaria) viene compensata con una maggiore libertà di aliquote. Il caos dellaTasi, poi, si pagherà anche in termini di polemiche sull’abitazione principale: il tributo sui servizi indivisibili ha colpito le case di valore più basso, il nuovo meccanismo, grazie alla detrazione fissa, redistribuisce il carico verso l’alto, ma in questa altalena continua c’è chi perde e chi guadagna e il dibattito è servito.

Come se ne esce? Il Governo punta su «autonomia» e «semplificazione», per costruire una tassa locale che sia comprensibile da chi la paga (certe delibere Tasi con decine di parametri bizantini fanno più male dei modelli di versamento in fatto di consenso da parte dei cittadini) e sia davvero tutta comunale, cancellando il paradosso dell’imposta «municipale» nel nome ma statale a metà nei fatti. È una strada corretta, come saggia è stata la rinuncia all’idea iniziale di accorpare nella tassa locale anche i tributi minori, con una mossa che avrebbe fatto pagare a tutti una quota del miliardo versato ogni anno sui cartelloni pubblicitari o l’occupazione di suolo pubblico. Gli scogli da superare, però, restano parecchi e per non finire incagliati serve che la semplificazione sia vera e l’autonomia effettiva. E serve, va aggiunto, che questa riforma sia l’ultima: perché imporre ai contribuenti un corso accelerato tre volte all’anno per pagare le tasse sulla casa non è un’abitudine civile.

L’addizionale sull’Irpef cede il passo a un’imposta aggiuntiva

L’addizionale sull’Irpef cede il passo a un’imposta aggiuntiva

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Tassa unica locale dal 2015 e destinata tutta ai Comuni, addio all’addizionale Irpef sostituita con una «sovraimposta» statale con clausola anti-rincari, aumento del fondo crediti di dubbia esigibilità in cambio di ulteriore flessibilità sul Patto di stabilità e sulle coperture degli extradeficit, finanziamento centrale degli interessi sui mutui per gli investimenti comunali, possibilità di usare parte degli oneri di urbanizzazione per finanziare spesa corrente e cancellazione di tutte le norme puntuali che in questi anni si sono concentrate su singole voci dei bilanci locali. Sono i contenuti dell’accordo politico che Governo e sindaci hanno raggiunto ieri a Palazzo Chigi. La direzione, insomma, pare segnata, e ora toccherà ai tavoli tecnici tradurre tutto in regole da inserire nel correttivo alla legge di stabilità. «Gran parte delle nostre richieste sono state accolte dal Governo – ha spiegato il presidente dell’Anci, Piero Fassino, appena dopo l’incontro – e ora la legge di stabilità è un po’ meno onerosa».

Sulla tassa unica, l’accordo conferma le anticipazioni dei giorni scorsi. L’aliquota di base per le abitazioni principali sarà più alta rispetto alla Tasi, ma le detrazioni standard alleggeriranno il peso per le case di valore medio-basso (la maggioranza) e dovrebbero tornare a escludere dall’imposta chi già non pagava né Imu né Ici. Sugli altri immobili, il primo effetto sarà la semplificazione, mentre le imprese attendono interventi di peso sulla deducibilità dalle imposte sul reddito e sull’esclusione dal calcolo dei macchinari (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). La semplificazione, secondo il progetto, sarà però generalizzata dal fatto che i Comuni potranno distinguere il trattamento per grandi categorie di immobili (casa sfitta, casa affittata e così via) e non per micro-dettagli. Imposta sulla pubblicità, tassa sull’occupazione del suolo pubblico e gli altri tributi minori non entreranno nella tassa locale, ma si fonderanno in un canone unico nella disponibilità dei Comuni, che potranno articolarlo come meglio credono. Questa soluzione rende un po’ meno «unica» la tassa locale, ma evita di distribuire sulla generalità dei contribuenti il carico (oltre un miliardo di euro all’anno) oggi pagato da chi mette cartelloni pubblicitari oppure utilizza suolo pubblico per la propria attività commerciale.

Con la tassa locale va in soffitta l’addizionale Irpef, che passa allo Stato. L’idea, sul punto, è di trasformarla in una «sovraimposta», cioè un’addizionale statale calcolata non sull’imponibile ma sulle tasse già versate. Il meccanismo serve a dare progressività alle richieste, e ad escludere del tutto chi oggi non paga Irpef perché ha un reddito basso oppure grazie a deduzioni e detrazioni. In ogni caso, per rendere anche politicamente tranquillo il passaggio, il debutto della sovra-imposta sarà accompagnato da una clausola anti-rincari per evitare di bussare alla porta di chi oggi non paga l’addizionale o paga meno della media grazie alle aliquota basse decise dal Comune. Ora si tratta di capire come adattare al nuovo sistema i conti di tutti i Comuni, agendo prima di tutto sulla perequazione, mentre qualche novità ulteriore potrebbe arrivare sui meccanismi di debutto della riforma dei bilanci.

Il vizio di torturare gli italiani sulla casa

Il vizio di torturare gli italiani sulla casa

Francesco Forte – Il Giornale

Il Catasto patrimoniale degli immobili, che il governo vara mediante un’apposita Commissione, non è, come si vuole far credere, un puro strumento tecnico di aggiornamento dei valori catastali, ma un nuovo strumento di tortura del contribuente. C’è, in questa idea del Catasto, un messaggio ideologico politico pericoloso: la tassazione dei patrimoni, anche indipendentemente dal reddito che se ne trae in denaro o con l’uso. Non c’è, sino ad ora, la tassazione dei patrimoni azionari o di quadri e gioielli, o di titoli a reddito fisso e depositi bancari, ma il principio generale è decollato partendo dagli immobili.

Si dà per ovvio che il Catasto edilizio debba essere sul valore patrimoniale di mercato. Ma non lo è. Infatti, il Catasto agricolo rimane basato sul reddito medio ordinario dei terreni. L’imposta principale sui fabbricati è attualmente l’Imu, a cui verrà unificata la Tasi. Poiché l’Imu è commisurata al valore patrimoniale degli immobili si dice che è ovvio che il Catasto accerti il loro valore di mercato. Ma ciò è errato. Infatti, in Italia c’è il principio che la tassazione deve basarsi sulla capacità contributiva, la Repubblica tutela il risparmio in tutte le sue forme e l’iniziativa privata è libera, salvo per i vincoli dell’utilità sociale. Da ciò viene che le imposte, che riguardano i patrimoni, li devono tassare in base al loro reddito: se non si tiene conto del diverso rendimento, ciò può dare luogo a tassazioni che intaccano il risparmio e il capitale. Dunque, il Catasto patrimoniale è contrario alla giustizia tributaria e alle regole fiscali dell’economia di mercato.

E c’è di peggio. Infatti, il nuovo Catasto non si baserà più sui vani, ma sulla superficie. Ciò darà luogo a distorsioni dannose per il nostro patrimonio immobiliare storico-artistico. E questo in quanto ci sono molte abitazioni, uffici e botteghe con spazi per corridoi e ingressi che nelle ultime costruzioni non si usano più. Non è facile modificare le case di una volta, sia per i costi che ciò comporta sia perché ciò contrasta con la loro tutela. Si afferma che l’aggiornamento del Catasto si farà con invarianza di pressione fiscale: qualche unità immobiliare pagherebbe di più, altre di meno, perché ciò è scritto nella Legge delega. Ma la norma sulla invarianza di gettito si può togliere, con un semplice decreto, dopo fatta la revisione. Anche con Matteo Renzi, il governo a guida Pd ha, come vessillo, la tassazione patrimoniale diffusa.

C’è un terzo pericolo: la Commissione che dirigerà le nuove valutazioni lo farà secondo una formula che non viene resa nota.Ciò non è accettabile.La collettività e il contribuente hanno diritto di conoscere la formula con cui viene accertata la capacità contributiva, onde sapere se è rispettata. Il sistema fiscale in democrazia deve essere certo trasparente, non imprevedibile e incomprensibile.

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

Claudio Antonelli – Libero

Il sistema di sussidi a chi è rimasto senza lavoro dal punto di vista finanziario non sta più in piedi. Già nel 2010 a lanciare l’allarme è stato il ministero delle Finanze. Nel frattempo anche le novità avviate sotto la competenza di Elsa Fornero non hanno invertito il trend. Nel periodo 2007-2013 la spesa complessiva per il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è cresciuta in modo rilevante, passando dai 7,9 miliardi complessivi per cassa integrazione guadagni, mobilità e disoccupazione del 2007 ai 23,6 miliardi del 2013, importo che comprende anche le nuove misure introdotte dalla riforma Fornero come le ASPI e mini-ASPI.

Ad analizzare nel dettaglio i numeri dell’intero comparto dei sostegni è stato il Centro Studi ImpresaLavoro, ideato dall’imprenditore del Nord-est Massimo Blasoni. Ne risulta che «la spesa per ammortizzatori sociali è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi)», si legge nello studio. «Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo». Ovviamente fino al 2007 nessuno si è posto il dubbio. Tanto meno si è messo al lavoro per riformare il sistema. D’altronde le uscite eccedenti vanno a carico della fiscalità generale e nel 2007 erano una cifra pari a zero: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013. E nel triennio precedente la cifra complessiva è arrivata a 38,1 miliardi. La cifra pesa sull’intera comunità, mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori).

E per di più – si evince dallo studio – non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Senza dimenticare che la rigidità dei contributi ha un effetto deleterio sul mondo del lavoro. Basta pensare che l’Aspi non vincola il disoccupato ad accettare altri posti su scala nazionale.

I tecnici accusano: manovra colabrodo

I tecnici accusano: manovra colabrodo

Franco Bechis – Libero

Finanza creativa come ai bei vecchi tempi e cifre appese in aria a modelli teorici inventati lì per lì. Dalla proroga dello sconto degli 80 euro alla riduzione dell’Irap, dal Tfr in busta paga alla lotta all’evasione, fino ai rischi notevoli contenuti nelle norme sulla tesoreria unica che coinvolgono la Cassa depositi e prestiti, la manovra di Matteo Renzi sembra con i piedi di argilla come raramente è avvenuto negli ultimi anni.

Come era accaduto qualche mese fa con altri provvedimenti economici, i tecnici del Servizio bilancio del Parlamento l’hanno passata incontro luce segnalando numerosi rischi e altrettante incongruenze che potrebbero fare ballare per cifre anche notevoli i conti dello Stato. Allora furono i tecnici del Senato, che per questo loro prezioso lavoro istituzionale furono pubblicamente sbeffeggiati dallo stesso Renzi, poi difesi (non proprio vibratamente) dal presidente del Senato, Piero Grasso. Ora è meglio che si prepari a incrociare la spada Laura Boldrini, perché a fare pezzi la legge di stabilità sono i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Ecco come nelle principali voci.

80 euro
Prima osservazione: le simulazioni su cui si basano gli effetti di finanza pubblica del bonus da 80 euro si basano su modelli abbastanza di fantasia. E curiosamente – nonostante la norma identica – divergono non poco dalla relazione tecnica del decreto dell’aprile scorso che concedeva la stessa agevolazione. Attenzione però, perché «la microsimulazione è effettuata con riferimento ai redditi 2012, estrapolati al 2015», avvertono i tecnici della Boldrini, perché da allora a oggi molti possono essere usciti dalla platea dei beneficiari ed altri esservi entrati. Bisogna però sapere quanti sono entrati e quanti sono usciti per fare bene i calcoli.

Sconti Irap
Anche qui il modello di riferimento viene ritenuto piuttosto fantasioso e un po’ improvvisato. I tecnici sono tali e non segnalano temi politici come fa la stampa. Lì si è evidenziata la beffa dello sconto Irap che non c’è, perché retroattivamente vengono tolte le riduzioni di aliquote stabilite proprio con il decreto 80 euro. Una presa in giro delle imprese, però fatto alla carlona come tutte le cose di questo esecutivo. Segnalano i tecnici: «l’abrogazione dell’art. 2 del DL n. 66/2014, che aveva disposto la riduzione delle aliquote IRAP, non determina in via automatica il ripristino delle precedenti maggiori aliquote in base alle quali la relazione tecnica ha quantificato gli effetti positivi di gettito». Detto fra noi:meglio così. L’aumento delle aliquote può essere impugnato dalle imprese, perché la norma è fatta male.

Tfr in busta paga
Non costa niente alle imprese, diceva il governo. Bugia: la relazione tecnica inserisce nuove entrate per il fisco. Come? «Le maggiori entrate sembrerebbero infatti derivare dall’aumento per le aziende interessate degli sgravi contributivi previsti, cui dovrebbero tuttavia corrispondere minori deduzioni fiscali».

Ammortizzatori sociali
Qui c’è un fondo fantasma, perché viene legato al Jobs act, bandiera di Renzi che al momento non c’è. Con la finanza pubblica però non si può giocare: «le disposizioni in esame istituiscono un Fondo di finanziamento per l’attuazione delle modifiche in materia di lavoro e di ammortizzatori sociali, che verranno definite a seguito dell’adozione dei decreti di attuazione all’apposita legge di delega,già approvata dal Senato e attualmente all’esame presso la Camera dei deputati. In proposito non risulta possibile procedere a una verifica di tali effetti non essendo allo stato definita la nuova disciplina relativa alle materie oggetto di delega».

Sistema tesoreria unico
È forse il tema più delicato dell’intera manovra, ed è quello di cui si è parlato meno. I compiti che vengono girati alla Cassa depositi e prestiti hanno un rischio enorme: quello che venga consolidata anche quell’area nei conti dello Stato. Con un’esplosione del debito pubblico: «In merito al trasferimento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato presso la Cassa depositi e prestiti», scrivono i tecnici della Boldrini, «andrebbe espressamente escluso che tale operazione possa determinare un rischio di inclusione della Cassa nel perimetro della p.a. con conseguenti effetti negativi sui saldi di finanza pubblica e sul debito».

Evasione fiscale
Anche qui le norme sembrano scritte da principianti. Si prevedono entrate massicce su simulazioni vecchie e fatte su settori che nulla c’entrano con i provvedimenti. E attenzione: «occorrerebbe acquisire elementi volti a verificare che il maggior gettito imputato alle disposizioni in esame abbia effettivamente carattere aggiuntivo rispetto a quello ascritto a provvedimenti di contrasto all’evasione già adottati».