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La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

La beffa dei debiti dello stato: alle imprese costano 7 miliardi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un salasso da 6,8 miliardi di euro nel 2013, un altro record negativo in ambito europeo e, soprattutto, un finanziamento indiretto alla “casta” che ai cittadini l’anno scorso è costata 5,1 miliardi. E’ questa la sintesi di una ricerca sulla ricadute negative dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione condotta da “ImpresaLavoro”, il centro studi creato dall’imprenditore friulano Massimo Blasoni e il cui board è presieduto da Giuseppe Pennisi.

Lo studio, infatti, analizza gli effetti del malcostume tutto italiano di non onorare prontamente le scadenze verso i fornitori. Il centro studi, basandosi sui dati di Eurostat e di Intrum Justitia, ha stimato in 72,2 miliardi di euro il totale dei debiti della pubblica amministrazione non saldati l’anno scorso, una cifra pari al 4,8 del Pil. Il valore, però, non tiene conto dei debiti delle partecipate dello Stato e degli enti pubblici che spesso sfuggono a queste misurazioni e, probabilmente, è sottostimato. Anche se lo stock si sta riducendo (nel 2010 era di 87 miliardi e nel 2012 di 81 miliardi circa) per effetto del recepimento della normativa europea – su imput dell’ex commissario Antonio Tajani – sui tempi di pagamento e sullo stanziamento di risorse ad hoc, ciò non toglie che i 170 giorni medi per un pagamento costituiscano un grave problema per le aziende.

Aspettare sei mesi per ottenere il pagamento di una fattura vuol dire rischiare il fallimento, a meno di non ricorrere a un “cuscinetto” di capitale che consenta di ovviare alla difficoltà. Questo “cuscinetto”, in molti casi, si chiama finanziamento bancario che può, ovviamente, articolarsi in differenti modalità di erogazione. Il centro studi ImpresaLavoro ha pertanto simulato quanto paghino le aziende queste risorse aggiuntive cui non si farebbe ricorso se lo Stato fosse un buon pagatore. Tecnicamente parlando, il costo del capitale è una variabile microeconomica funzione anche degli utili attesi, ma – in questo caso – si utilizza il costo medio dei finanziamenti bancari che, grosso modo, rappresentano una misura equivalente. Ebbene, la media ponderata tra linee di credito (tassi oltre il 10%), scoperti di conto (oltre il 16%), anticipo e sconto crediti (tra il 5,5% e l’8%) e factoring (tra il 4,2 e il 7,7%) restituisce un valore medio del 9,1 per cento. Ciò significa che quei 74,2 miliardi non pagati dallo Stato costano alle imprese 6,8 miliardi di extracosti di finanziamento, una cifra elevata anche a causa della congiuntura economica che rende sempre meno convincente alle banche prestare soldi alle aziende in difficoltà.

Per ironia della sorte, la memoria scritta del pg della Corte dei Conti Salvatore Nottola sul giudizio di parifica del rendiconto dello Stato indica in 5,1 miliardi di euro il costo sostenuto per gli organi istituzionali (Presidenza della Repubblica, Camera, Senato, Presidenza del Consiglio, enti locali). Insomma, è come se con quei soldi non pagati alle imprese lo Stato finanziasse la “casta” a spese delle attività produttive. Ma soprattutto, ed è questo ciò che conta, le aziende non recupereranno mai totalmente il costo dei finanziamenti: il centro studi ha infatti calcolato in circa 3,3 miliardi il valore degli interessi di mora applicabili ai debiti non saldati. Ben 3,5 miliardi se ne vanno perciò in fumo. Ultimo ma non meno importante è il costo sociale dei ritardati pagamenti: minori investimenti, meno sviluppo, perdita di posti di lavoro e fallimenti. Questo si traduce in una progressiva diminuzione della competitività: l’Italia è il Paese dell’Ue con il più elevato stock di debiti commerciali della Pa scaduti e il secondo dopo la Grecia (che però non fa testo essendo tecnicamente in default) per incidenza dei debiti sul Pil. Difficile dar torto a chi non investe in un Paese dove avere come controparte la Pa significa rischiare più del necessario.

C’è chi dice no, ecco chi ferma l’Italia

C’è chi dice no, ecco chi ferma l’Italia

Filippo Caleri – Il Tempo

Sono i più fieri avversari del cambiamento. Si oppongono sempre e comunque a qualunque riforma. Sono i sindacati italiani che spesso, in nome di difese corporative, si confrontano con le istanze di categorie nuove e con la complessità degli interessi da rappresentare. È il partito del «no», che non sperimenta soluzioni innovative e perpetua vecchi modelli di gestione delle relazioni industriali, facendo male a se stesso e al Paese. Con conseguenze per gli stessi lavoratori. L’inchiesta de Il Tempo ha preso in esame gli ultimi dossier economici passati al vaglio di Parlamento e governo. Ebbene, in ognuno di questi non è mai mancato l’atteggiamento pregiudiziale di chiusura verso ogni tipo di cambiamento. Una breve disamina, senza nessuna pretesa scientifica, che dimostra però come esista in Italia un autentico blocco di conservazione e resistenza al cambiamento.

Il partito del «Niet»
Un blocco che è in realtà trasversale ai vari schieramenti politici, ma nella cui composizione sono fortemente rappresentati i sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil e una miriade di associazioni datoriali, dalle più grosse a quelle di particolari settori. Da loro tanti e reiterati sono stati i dinieghi nonostante i richiami degli organismi internazionali, della Bce e di Bruxelles, per riforme incisive in grado di aumentare la competitività del Sistema Italia. Una regola, quella del «mettersi di traverso», che ha portato un solo risultato: Italia paese del Gattopardo, nel quale si fa finta di cambiare ma alla fine non cambia nulla. Dalla riforma del lavoro alla legge sulla rappresentanza, dal blocco dell’aumento Iva allo spostamento della tassazione dal lavoro alle cose, ci sono almeno 20 cambiamenti che, negli ultimi anni, sono stati stoppati o svuotati, dal fuoco di veti incrociati provenienti dalle parti sociali.

La tattica
La lunga sequela di stop, rallentamenti, no mascherati, apre, sul cambiamento dell’Italia, una contrapposizione continua. Si adotta una tecnica dilatoria che allontana la soluzione e che si avvale dei bizantinismi usati nelle relazioni tra padroni e operai nel ’900. Un mondo, allora chiuso, stretto tra barriere nazionali e che oggi non esiste più. La dinamica lineare ha lasciato il posto alla «complessità» per dominare la quale gli strumenti e le logiche del passato non sono più adeguati. Resta ancora in auge, anche se in lento declino, l’ultima eredità della fine del secondo millennio. Il «compromesso» che spesso lascia le cose più o meno al punto di partenza. Ognuno fa il proprio mestiere e le rappresentanze hanno il diritto legittimo a tutelare gli interessi dei loro rappresentati. Ma attenzione, spesso, troppo spesso, per proteggere gli interessi di pochi si perdono le opportunità di modernizzazione ineludibili.

Cgil campione di no
Il partito del Conserva Italia non ha un colore definito, è liquido, permeabile, si spacca e si ricompatta a seconda delle convenienze. Ma la predominanza del «no preventivo» è congeniale alla Cgil. Che si mette puntualmente di traverso quando si tentano di modernizzare le norme in qualunque settore economico. Il sindacato guidato da Susanna Camusso ha detto no su quasi tutto. Dalla costruzione del Ponte di Messina (scelta che avrebbe anche motivate ragioni visto la sostenibilità economica dell’opera) alla flessibilità per facilitare l’ingresso al lavoro dei più giovani. La stessa confederazione si è dichiarata contraria anche al Job Acts che ha in parte aggiustato alcune storture introdotte dalla riforma Fornero. No anche all’utilizzo delle prove Invalsi nelle scuole italiane (metodo di confronto dei rendimenti scolastici che ci avvicina ai partner europei) e al taglio delle province. Così come alle dismissioni dei beni statali per l’abbattimento del debito pubblico. E non è da dimenticare il rifiuto al piano degli esuberi di Alitalia che ha messo a rischio la fusione della compagnia italiana con gli arabi di Etihad.

Compagni di viaggio
La Cgil non è però la sola a mostrare forti resistenze al cambiamento. Il «virus» della conservazione colpisce innanzitutto i compagni di viaggio della Cgil e cioè la Cisl e la Uil. Anche loro, con opportuni distinguo, sono sempre pronti a cavalcare il destriero del rallentamento per i provvedimenti di cambiamento. Fronte compatto delle tre sigle per norme che rappresentano una delle riforme più richieste dagli italiani come la mobilità obbligatoria nella pubblica amministrazione e per l’abolizione del Cnel.

Le associazioni
Non sono solo i sindacati a dire no e a opporsi ai tentativi di riforma. Insieme a loro, brillano per resistenza alle liberalizzazioni e alle norme anti corporazioni, tanti altri soggetti. Dai commercianti ai vescovi della Cei, ma anche farmacisti e balneari. Tutti pronti a erigere muri. Il caso emblematico è la riforma del mercato del lavoro, nata male e trasformata in peggio per la paura di stravolgere le protezioni oggi esistenti solo per chi lavora. Ebbene, doveva ridurre le tipologie contrattuali, la complessità dell’impianto normativo e introdurre i licenziamenti economici. Ad alzare le barricate le Pmi di Rete Imprese Italia sul primo punto, e quelle dei sindacati sul secondo. Stop che hanno prodotto una legge che non raggiunge quanto richiesto dai mercati: sui licenziamenti economici, dicono i giudici, non è cambiato quasi nulla. E la giungla di contratti non è stata disboscata.

Le professioni
Poca fortuna hanno avuto anche le liberalizzazioni delle professioni. I paletti posti dai sindacati delle categorie di farmacisti, notai e avvocati, l’hanno resa monca in partenza. Altro dossier e solito no, anche questo trasversale, sugli orari di apertura delle attività commerciali. Considerazioni economiche si scontrano con ragioni etiche. Così da una parte si sono schierate Confesercenti e Cei, dall’altra la Federdistribuzione. Una consuetudine che in altri paesi è la norma, con catene commerciali, aperte 24 ore su 24 ore per 365 giorni l’anno, in Italia è un tabù. La discrasia tra volontà di cambiamento e conservazione si ritrova nei tagli alla spesa statale: tutti d’accordo. Ma solo in via di principio. Poi prevalgono i no sindacali. Perfino sul taglio delle province sono arrivate le chiusure. La categoria Funzione Pubblica di Cgil si è opposta, così come l’Api che rappresenta gli enti.

Infratrutture
È uno dei campi preferiti nei quali si esercita il potere di veto dei sindacati. La Camusso, ad esempio, non è contraria alla Tav Torino-Lione. Ma ha sempre espresso una netta contrarietà alla costruzione del Ponte di Messina. Con Cisl e Uil, poi, il fronte è compatto per contrastare la costruzione di una centrale Centrale a biogas a Bertinoro tra Forlì e Cesena. Per tutte e tre le sigle è una scelta incompatibile con la vocazione turistico termale del territorio. La motivazione – spiegano le tre sigle – non è quella di una contrarietà a priori ma di una posizione di merito, legata principalmente alla scelta di quel territorio e alla mancanza di chiare garanzie sull’impatto ambientale». Per i sindacati l’approvvigionamento energetico non è una priorità.

Il fisco
Persino la grande battaglia contro l’evasione, che vede tutti d’accordo sull’obiettivo, non trova sintonia sui mezzi per contrastarla. Sul Durt – il documento unico di regolarità tributaria – tutte le associazioni di imprese hanno fatto la guerra. No corale anche per sulle norme di semplificazione che danneggiano i Centri di Assistenza Fiscale, i Caf, da cui sindacati e associazioni di imprese ricavano circa la metà degli introiti.

Il caso Alitalia
È l’esempio più recente ed emblematico di come il sindacato del «no» possa arrivare anche a far rischiare di naufragare una trattativa aziendale delicata in nome della conservazione dei posti anche quando l’azienda non è più in grado di remunerarli. Così nonostante il via libera della società all’arrivo di Etihad nel capitale sociale, le divisioni dei sindacati che si sono arroccate rispetto alla chiusura dell’accordo hanno fatto avvicinare pericolosamente Alitalia al fallimento. All’ostinazione della Cgil a non mollare sugli esuberi dei lavoratori si è aggiunta anche la Uil che ha puntato i piedi sul rinnovo contrattuale e sui piani di risparmio contrattati con i vertici aziendali. Divergenze rientrate ma che hanno messo in evidenza quanto ancora forte sia il potere di interdizione delle organizzazioni confederali nei processi di ristrutturazione aziendale.

La lezione Fiat
Nonostante la forza residuale il sindacato italiano non è più una parte attiva nel processo di governo dell’economia. Questo a causa della complessità connaturata ai mercati del mondo d’oggi. Il caso di scuola è quello della Fiat che ha compreso anzitempo l’impossibilità di reggere così come strutturata in Italia la competizione internazionale. Se n’è andata e ha lasciato i sindacati in balia di loro stessi. Un atteggiamento, quello di Marchionne, dettato dal fatto che oggi è il mercato che detta le regole e non più le corporazioni. La velocità di trasformazione del mondo industriale ha reso vetusti gli strumenti sindacali di un tempo. La concertazione è di fatto ridotta a una rappresentazione di interessi al tavolo delle trattative. Vecchi metodi per un nuovo mondo. Il no preventivo sta perdendo la sua forza. Forse è il momento di ripensare il sindacato in un’ottica più moderna.

E ora sistemate i conti

E ora sistemate i conti

Francesco Forte – Il Giornale

Adesso il premier Renzi non ha alibi per dilazionare le riforme economiche. Vi aveva anteposto la ambiziosa (e in parte opinabile e perfettibile) riforma costituzionale che ridimensiona il Senato e ridà allo Stato poteri che ora condivide con le «autonomie» regionali e comunali, con conseguenti veti e dilazioni. L’ostruzionismo alla riforma costituzionale dei nemici casalinghi di Matteo, che lo stava impelagando, è caduto non solo perché Ferragosto incombe, ma soprattutto a causa del supporto di Berlusconi. Ora Renzi ha la bici con la gomma davanti sgonfia: e dal primo settembre deve pedalare sulla strada delle riforme economiche. I tempi sono stretti, perché da ottobre l’Italia è sotto esame della Commissione europea, con la Merkel che l’attende al varco. Ma in primo luogo perché la Spagna ha ripreso a crescere, come l’Irlanda, mentre noi stentiamo. E ciò genera un debito altissimo, in rapporto al Pil: sfiora il 135 per cento. Berlusconi dovette dimettersi perché il rapporto debito/Pil nel 2011 era al 118% e poteva salire a 120. Fra Monti, Letta e un pochino di Renzi, in 32 mesi, lo hanno fatto crescere di 15 punti: quasi mezzo punto di Pil al mese, un bel record. Ciò è dovuto a una terapia errata fatta di maggiori imposte, in particolare sul risparmio e su chi fa più fatica e ha più meriti nel guadagno. Ciò doveva far quadrare il bilancio e ridurre il rapporto debito/Pil. Ma questo tipo di politica fiscale (con annessa guerra ideologica all’evasore vero, presunto o potenziale) ha generato depressione anziché crescita. La ripresa non c’è anche perché a queste errate scelte si sono aggiunte la riforma Fornero del mercato del lavoro che lo ha irrigidito e una politica populista e insieme neomercantilista fatta di bonus discriminati a lavoratori a basso reddito e di premi fiscali a favore di singoli settori di imprese o di singoli tipi di investimenti. E non si è privatizzato nulla. Agli eccessi di giustizialismo non si è risposto con semplificazioni e depenalizzazioni, ma con nuovi commissari. Anche Renzi ha fatto alcuni di questi peccati. Ma ha iniziato alcune riforme e prese di posizione contro lo strapotere dei sindacati e contro la adozione dei tecnocrati come surrogato alla responsabilità di chi governa. Ora che ha questa bicicletta, Renzi pedali. La più urgente riforma riguarda il mercato del lavoro. Una drastica, a modo suo, l’ha fatta la Spagna. Ed ora essa riparte bene, anche con nuove fabbriche estere di auto. Invece Fiat se ne va dall’Italia, innanzitutto perché incontrano veti e inghippi i contratti di lavoro aziendali Marchionne: un modello che essa adotta a Detroit e altrove in America. Si dia piena validità a questi contratti, anche se ciò dispiace alla Camusso e al capitalismo neocorporativo, che si intreccia con sindacato in cambio di favori di Stato. Occorre anche il ripristino delle partite Iva e di altri contratti della legge Biagi abrogati da Monti. Bisogna eliminare tutta l’Irap sui costi del lavoro. Le Regioni possono avere un contributo sanitario regionale equivalente, riducendo i contributi previdenziali diversi da quelli per pensioni e invalidità: costa 12 miliardi; lo si può fare in tre anni. Bisogna tagliare selettivamente la spesa improduttiva. Ciò a partire dalle sovvenzioni sia correnti che di investimento alle 8mila imprese pubbliche. L’investimento in infrastrutture si può fare meglio con un maggior ricorso a mercato. Sono da sfoltire anche le sovvenzioni ai privati. Riforme già note: non occorrono commissari e dossier. Renzi non ha più argomenti per evitare tali «compiti»: se i suoi non lo sosterranno, sa a chi può chiedere il voto.

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Maurizio Belpietro – Libero

Ci sono voluti pochi giorni per capire chi avesse ragione tra Carlo Cottarelli e Matteo Renzi. Il dubbio che il commissario alla spending review avesse esagerato nel descrivere lo stato di salute dei conti pubblici è stato dissipato ieri da due notizie. La prima è la marcia indietro del governo sul prepensionamento di 4 mila insegnanti e sul tetto dell’età pensionabile per i primari, ossia sull’emendamento che proprio Cottarelli aveva dichiarato senza alcuna copertura, sostenendo che fosse stato finanziato con un generico quanto inesistente taglio di prossime spese.

La precedente settimana, quando il Parlamento aveva votato il provvedimento, il ministro della Pubblica amministrazione era stato zitto, lasciando intendere di essere favorevole alla misura. Ma poi, vista la denuncia del super commissario il quale ha di fatto dato le dimissioni beccandosi pure un poco gratificante saluto dal premier, ecco la retromarcia di Palazzo Chigi e di Marianna Madia. Segno evidente che le critiche erano fondate, altrimenti il presidente del Consiglio avrebbe tirato dritto. E allo stesso tempo prova concreta che la spending review è diventata la madre di tutte le spese, in quanto annunciando futuri tagli si dà via libera a costi immediati che prossimamente graveranno sullo stato di salute della contabilità nazionale e dunque sulle spalle dei contribuenti.

Tuttavia non c’è solo l’episodio di ieri a confermare che Cottarelli ha ragione e Renzi torto. E dunque che i tanto sospirati risparmi sulle uscite dello Stato sono solo sospirati ma non destinati a tradursi in realtà. L’altra notizia della giornata è che la sanità pugliese si prepara ad assumere 2.500 persone. Ad annunciarlo è stato il governatore della Regione che poi è pure il numero uno di Sinistra ecologia e libertà. Evidentemente, non contento di essere a capo di un sistema sanitario tra i più costosi d’Italia, tanto da dover approfittare della solidarietà del fondo sanitario da cui incassa 487 euro pro capite, Nichi Vendola vuole pure assumere. E poco importa che – come segnalava ieri il Sole 24 Ore – dal 2007 al 2013 il disavanzo della regione sia stato di 1 miliardo e 312 milioni, cioè uno dei più pesanti tra quelli registrati in Italia: il governatore prima di ritirarsi dalla politica preferisce fare un’altra infornata di medici e infermieri. Pazienza se questo si tradurrà in un aumento del ticket, che, sempre come segnalava il quotidiano confindustriale, sarà presto preso in esame con una revisione del contributo richiesto agli ammalati in base al reddito. Di questo passo altro che servizio sanitario nazionale, presto avremo il servizio sanitario fiscale, nel senso che per essere curati bisognerà presentare la dichiarazione dei redditi insieme con la carta di credito, mentre gli indigenti – e dunque la maggior parte degli immigrati – avranno cure gratis: tanto il ticket lo paga chi guadagna e versa le tasse.

È questo il fantastico mondo della spending review, che dopo le parole di Cottarelli è stata ribattezzata Spending di più. Del resto, l’operazione di rimettere in equilibrio i conti del welfare, facendo sparire il fondo sanitario che grava sulle regioni virtuose (Lombardia tra le prime) a favore di quelle che invece sono spendaccione, ha poche speranze di successo. La chiusura del rubinetto che ogni anno toglie alle Regioni meritevoli per dare a quelle che non meritano avrebbe dovuto avvenire nel 2013 e invece con i ritmi adottati da diversi governatori l’addio al sistema di finanziamenti a fondo perduto alle sanità colabrodo arriverà nel 2066. Sì, avete capito bene: fra cinquant’anni, parola della bibbia salmonata diretta da Roberto Napoletano. C’è da stupirsi dunque se in Italia continuano ad aumentare le tasse? Ovvio che no. La logica conclusione dei tagli alla spesa non fatti è il Fisco che diventa sempre più vorace.

E a proposito di imposte si segnala che è in dirittura d’arrivo un nuovo siluro: la riforma del catasto, ovvero la revisione degli estimi che venerdì scorso ha ricevuto il via libera dalla commissione Finanze del Senato. Sempre secondo il solito Sole 24 Ore in molte città si registreranno rincari d’imposta, in quanto tra i valori catastali attuali e quelli di mercato che si vorrebbero adottare c’è una differenza che in qualche caso sfiora il 300 per cento. Ma a rischiare di più a quanto pare non sono i proprietari di attici, ma chi possiede un’abitazione di categoria A3, cioè quelle considerate economico popolari. Essendosi queste case rivalutate di molto nel corso degli anni, l’Agenzia delle entrate si prepara a battere cassa. E ovviamente con i soliti metodi molto gentili, dato che nonostante il cambio al vertice nulla è cambiato. Insomma, Cottarelli ha ragione. Governo, Parlamento e Regioni spendono senza tagliare e ai soliti noti tocca pagare. Ma almeno ora è chiaro chi devono ringraziare.

GIUSEPPE PENNISI (Presidente Board Scientifico): serve un cambio di passo

GIUSEPPE PENNISI (Presidente Board Scientifico): serve un cambio di passo

Il Documento del Centro Studi Impresa Lavoro tratta, in modo originale, un tema non nuovo: gli effetti drammatici dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sulla competitiva complessiva del sistema produttivo  italiano. Sono state proposte varie soluzioni. Il Documento ne delinea le principali.
Ma, nonostante , in seguito ad accordi con il resto della maggioranza e con il maggiore partito di opposizione, il Governo attualmente in carica abbia adottato misure per affrontare il problema, si tratta di provvedimenti parziali, la cui applicazione è molto più lenta di quanto anticipato dall’Esecutivo medesimo.
Se non c’è un cambiamento di passo, gli esiti non saranno positivi: sotto il profilo micro-economico molto imprese si troveranno in serie difficoltà tanto da dover chiudere i battenti, sotto il profilo settoriale si rischia la sparizione di interi settori prodottivi, sotto il profilo macro-economico, aumenta il pericolo di deflazione e prolungata recessione ove non depressione con un aumento del disagio sociale.
Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro
PA, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese 6 miliardi

PA, il ritardo nei pagamenti costa alle imprese 6 miliardi

Metronews – 4 agosto 2014

UDINE. Il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca (scaricabile interamente dal sito www.impresalavoro.org) realizzata dal centro studi di ispirazione liberale “ImpresaLavoro” di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).

Lo studio di “ImpresaLavoro” sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».

Secondo le stime prudenziali di “ImpresaLavoro”, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di €, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra PA risulta in calo: nel 2010, esso aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del PIL. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.

La ricerca di “ImpresaLavoro” rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%).

Massimo Blasoni(Presidente ImpresaLavoro): «Schiacciati dalla burocrazia, chi crea lavoro è senza voce»

Massimo Blasoni(Presidente ImpresaLavoro): «Schiacciati dalla burocrazia, chi crea lavoro è senza voce»

 Matteo Basile – Il Giornale

«Di economia dovrebbe parlarne chi l’economia la conosce davvero perché la fa. Chi si ostina a fare impresa e a creare lavoro nonostante tutto». Questa l’idea di base che ha spinto Massimo Blasoni a creare un centro studi di ispirazione liberale in grado di catalizzare imprenditori, ricercatori e studiosi capaci di analizzare la situazione del Paese e capire il modo di uscire dalla stagnazione in cui langue il Paese. Un board scientifico con nomi di primissimo livello, un direttore – Massimo Bressan – di 32 anni, due sedi (a Roma e a Udine) e tanta voglia di metterci la faccia e fare la propria parte anziché limitarsi a coltivare l’orticello.
Blasoni è imprenditore del Nord Est “da manuale”: partito da zero è ora a capo di un’impresa nel settore delle residenze socio-sanitarie con 40 filiali, 1.300 dipendenti e fatturato e utili in costante aumento. Ma dopo alcune esperienze in politica che non lo hanno entusiasmato perché, spiega, «troppi sembra vivano sulla Luna», ha deciso di darsi da fare diversamente. Già il nome scelto per il Centro Studi dice tutto: impresa e lavoro. Facile no?
«In Italia fare impresa è difficilissimo. Paghiamo più tasse, abbiamo meno credito dalle banche e operiamo in un Paese senza infrastrutture e con una burocrazia insopportabile. Vogliamo dare voce a chi fa impresa: in primis partite Iva e piccoli artigiani che sono il vero tessuto sociale dell’Italia».
Come imprenditore ha successo. Chi glielo fa fare?
«Serve un grande impegno perché senza chi fa impresa andiamo incontro a un futuro fatto di giovani disoccupati, di aziende fallite e di imprese cedute all’estero. La strada è questa, dobbiamo invertirla e farlo in fretta».
Proprio voi «imprenditori-evasori-nemici dello Stato»?
«Magari anche uscendo da questi stereotipi senza senso. l’evasione va colpita duramente. Ma il binomio imprenditori-evasori è fuori dalla logica. I nemici sono altri».
Uno è senz’altro la burocrazia.
«L’Italia sembra divisa tra controllori e controllati. Troppo spesso sembra che in Italia ci siano più attività di ispezione che attività che producono. Non è più accettabile».
Eppure adesso c’è Renzi il nuovo, il giovane, il risolutore…
«Abbiamo verificato quel che ha detto e quel che ha fatto. Finora non ha mantenuto niente di ciò che ha promesso e tutti gli indicatori sono in peggioramento».
Quindi bocciato senza appello?
«Lui fa il politico di professione, mi pare che per il momento non abbia compreso la terribile situazione dell’economia. Per nulla».
La situazione è nera, quale sarebbe la prima e più urgente misura da adottare?
«È necessario ridurre le imposte alle aziende. Questo significherebbe creare posti di lavoro da subito. L’economia non riparte con misure omeopatiche come gli 80 euro ma solo con una vera e forte contrazione delle tasse per le imprese».
NASCE IMPRESALAVORO: ridare voce a chi fa impresa

NASCE IMPRESALAVORO: ridare voce a chi fa impresa

Si chiama ImpresaLavoro e punta ad essere un centro studi di respiro nazionale e di ispirazione liberale, capace di “rimettere al centro del dibattito i temi dell’economia e del lavoro”. L’idea è dell’imprenditore udinese Massimo Blasoni che ha presentato oggi, anche su alcuni quotidiani nazionali, la sua ultima iniziativa. Il nome già dice molto perché, come scritto nella presentazione del Centro Studi, “le difficoltà che attraversa l’impresa italiana sono anche le difficoltà dei lavoratori italiani”, due mondi questi che rappresentano “le componenti fondamentali del nostro tessuto produttivo”.
Per Blasoni l’obiettivo è duplice: “da un lato – spiega – far parlare di economia chi l’economia la fa davvero riportando l’attenzione sui temi che veri che riguardano il nostro paese: c’è davvero qualcuno che pensa che i tanti giovani disoccupati o le partite iva che stanno chiudendo per colpa di una crisi senza precedenti siano interessati a conoscere le modalità di elezione dei nostri senatori? Credo piuttosto che dovremmo occuparci  con maggior attenzione di quel che davvero soffoca il nostro paese: burocrazia, tasse, regole che scoraggiano gli investimenti”. Poi c’è l’aspetto politico: “il centro nasce anche come luogo di aggregazione dei tanti ancora convinti che la ricetta liberale in economia sia la migliore e che si possa fare di più e meglio di quel che sta facendo Renzi: il debito continua a correre, la spesa pubblica cresce senza freno, le tasse hanno toccato livelli record. E’ difficile dire che il Presidente del Consiglio, politico da sempre, abbia la reale percezione di quel che sta accadendo nel paese”.
 Per “svegliare” la politica ImpresaLavoro produrrà ricerche e studi sul quadro economico italiano ed europeo, svolgerà un attento fact-checking sui provvedimenti economici del governo e soprattutto farà parlare gli imprenditori, attraverso focus mirati sui problemi di chi fa impresa in Italia. E proprio sul tema del rapporto tra Imprese e Pubblica Amministrazione si concentrerà il primo studio, in uscita il 4 Agosto.
A dirigere il centro ci sarà un altro udinese, Simone Bressan, mentre tra il board scientifico spiccano nomi di assoluto rilievo: Giuseppe Pennisi (economista, membro del CNEL ed editorialista), Salvatore Zecchini (Tor Vergata), Luciano Pellicani (Luiss di Roma) e Cesare Gottardo (Università di Udine). Accanto a loro un team di ricercatori per la parte relativa alla finanza d’impresa  e da Carlo Lottieri (Istituto Bruno Leoni) per l’ambizioso progetto di un atlante fiscale europeo.
SCARICA I GRAFICI E LE TABELLE DEL NOSTRO PAPER

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Debiti Commerciali della Pubblica Amministrazione: confronto con gli altri paesi europei. 

Ammontare debiti commerciali

Debiti Commerciali della Pubblica Amministrazione in rapporto al Pil: confronto con gli altri paesi europei. 


Debiti commerciali pil

 

Giorni medi per il pagamento dei debiti commerciali della Pubblica Amministrazione: confronto con gli altri paesi europei. 

Giorni di pagamento

 Costi a carico delle imprese italiane.  

Schermata 2014-08-04 alle 12.53.07

 

Contarelli

Contarelli

Davide Giacalone – Libero

I soldi non ancora risparmiati sono stati già impegnati e spesi. Lo sapevamo e lo scrivevamo prima che lo ricordasse il commissario alla revisione della spesa, Carlo Cottarelli. I soldi per onorare le promesse già fatte non ci sono. In autunno servirà una correzione dei conti per un minimo di 15 o 20 miliardi, ma che nessuno osi chiamarla manovra o stangata. Chiamiamola rottamazione delle assicurazioni date, così si continua il viaggio verso l’avvenire. Tutto questo è il meno, anche perché scontato, mi preoccupano ancora di più i soldi che non sono ancora stati incassati, derivanti dall’equivoco capitolo delle “privatizzazioni”. Come si pensa di utilizzarli? Perché se andranno a equilibrare le partite correnti, a finanziare la spesa, anziché ad abbattere il debito, avremo assicurato la rovina d’Italia. Quella che dovrebbe essere un’arma vincente rischiamo di puntarcela alla tempia, inebetiti dal suo fugace effetto stupefacente.

Nel novembre dell’anno scorso scrivevamo che se il lavoro di Cottarelli fosse andato a buon fine (e ce lo auguravamo), avrebbe inevitabilmente comportato scelte politiche. Al tecnico si chiede la conoscenza, al politico spetta la decisione. Quello di cui finge d’accorgersi Matteo Renzi, quindi, ci era chiaro e lo chiarivamo fin dall’inizio. Scegliere significa discernere fra interessi contrapposti e rompere con le costose e improduttive retoriche in voga. Fin qui, invece, i tagli alla spesa pubblica si sono applicati seguendo due scuole: a. i tagli lineari (il copyright è di Gordon Brown), ciechi e deprecati, ma funzionanti; b. i risparmi dovuti a maggiore efficienza. Nessuno dei due approcci sfiora il problema italiano: troppa spesa, per troppe cose, cui si aggiungono mostruosi interessi sul debito. Noi non dobbiamo (solo) risparmiare, dobbiamo sopprimere funzioni pubbliche disfunzionali. Invece si pensa di rendere pubbliche e rette da spesa pubblica anche le banche del seme. Che la sinistra insegua lo statalismo, cullante e sepolcrale, è frutto di una cultura. Sbagliata. Che faccia lo stesso la destra è frutto di vuoto culturale.

Per questo mi fanno paura quelle privatizzazioni che, per altro verso, auspico. Già è capitato: noi chiediamo vendite e ci ritroviamo con svendite; noi chiediamo più mercato e ci ritroviamo con più mercanti. Se si vendono altre azioni Eni, o una quota della società delle reti, se si punta alla quotazione di Poste o di RaiWay, e così via, dove finiscono i proventi e che si fa del resto? Perché quella roba è patrimonio pubblico, pagato dai contribuenti, ed è bene che sia ben valorizzata e, se venduta, che il ricavo vada massicciamente ad abbattere il debito pubblico, che grava sui contribuenti. Semmai una parte agli investimenti. Neanche un centesimo alla spesa corrente. Ma se, giusto per retare a un esempio, la Rai pensa di usare l’incasso per finanziare un baraccone che andrebbe sbaraccato e venduto nel suo insieme, allora occhio, perché si prepara una gigantesca opera di depredazione e dilapidazione. Al termine della quale saremo più poveri e più indebitati, salvo avere goduto una breve parentesi d’equilibrio nei conti pubblici.

Per evitare che tutti i conti finiscano in contarelli, per evitare che ci si accorga dell’ovvio con mesi e anni di ritardo, direi che non si vende nulla se prima non sono disponibili: 1. il piano generale delle dismissioni; 2. il metodo che si intende seguire (pezzo a pezzo, società di partecipazioni, mandato unico a vendere, etc.); 3. l’impegno non derogabile su come usare i soldi incassati. Si aggiunga che vendere non deve servire solo a far cassa, ma anche mercato. Attirando capitali per investire nella creazione di ricchezza. Da questo punto di vista il decreto “competitività”, che modifica il diritto societario e trasforma la capacità di voto delle azioni, per le società quotate, introducendo il “voto plurimo”, serve a blindare gli assetti esistenti, quindi va in direzione opposta. Con quel meccanismo dall’estero investiranno solo in rendite, portandoci via ricchezza, ma non lo faranno in produzione. E’ un tema tecnico e noioso, ma se chi mette soldi non conta per quanti soldi ci mette semplicemente li mette altrove.

Comprare il consenso elettorale con la spesa pubblica è costume deprecabile e non nuovo. Comprare l’omertà sulle reali condizioni dei conti pubblici e sulle conseguenze del loro mancato risanamento, usando soldi derivanti da patrimonio per occultarle, è costume altrettanto immondo. E disperato. Una grossa parte degli italiani amano essere ingannati, sperando che nulla cambi. Ma a pagare il conto è solo l’altra parte, quella che ancora ci consente d’essere la seconda potenza industriale d’Europa. Sono italiani in minoranza e in crescente difficoltà. Fregarli ancora significa suicidare la nostra sovranità economica. Dopo di che quella politica sarà solo la pacchiana rappresentazione di un Parlamento combattente e irrilevante.