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Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il consiglio della Bce che si riunisce oggi non dovrà solo decidere se lasciare il tasso d’interesse di riferimento allo 0,05% l’anno (come appare scontato), ma anche se e in che modo verranno adottate le ‘misure non convenzionali’ (principalmente gli Abs, in quanto gli Omt appaiono accantonati, mentre una seconda asta per gli T-ltro è in calendario a fine anno). In effetti, Draghi spera di avere creato, con pazienza e perseveranza, il consenso perché nel ‘bazooka’ monetario, come lui stesso lo ha chiamato, venga messa polvere da sparo e – soprattutto – ne venga autorizzato l’uso. In una recente conversazione a Roma, Fabrizio Saccomanni, che ha lavorato a lungo su questi temi sia come direttore generale della Banca d’Italia sia come ministro dell’Economia e delle Finanze, ha sostenuto che la Germania e altri Paesi non consentiranno mai e poi mai al presidente della Bce di acquistare le munizioni e ancor meno di sparare. Quindi il ‘bazooka’ è scarico e potrebbe restare tale.

Ma riuscirebbe una manovra monetaria ‘non convenzionale’ a rivitalizzare un’economia europea stagnante (più in Italia che altrove) e travagliata da uno spread di malessere sociale uguale (se non peggiore) rispetto a quello monetario dell’estate-autunno 2011? Il recente stress test al sistema bancario ha documentato casi di cattiva gestione (e di carente vigilanza da parte delle autorità nazionali), ma non di mancanza di liquidità. Che a fare difetto sia la domanda di impieghi lo confermano conversazioni con alti dirigenti e amministratori anche di banche stressate: vorrebbero aumentare gli impieghi alla grande (è la loro ragion d’essere), ma trovano solo piccoli e medi clienti. Lo ribadiscono studi recenti: un lavoro (inedito) di Cinzia Balzan e Francesco Zen (ambedue dell’ateneo di Padova) e di Enrico Geretto (Università di Udine) propone un modello del sistema bancario italiano basato sull’’appetito di rischio’.

La conclusione è che le banche italiane sono sottoesposte, ossia hanno poco ‘appetito di rischio’ anche in quanto dopo sette anni di crisi, le imprese hanno ragionevolmente dato la priorità al sopravvivere e non alla progettazione di nuovi investimenti. In parallelo, un lavoro (anch’esso inedito) dell’Università di Leicester studia 141 banche dell’Unione europea nel 2004-2010 e conclude che la crisi finanziaria internazionale ha reso gli istituti meno efficienti e, quindi, meno pronti ad aiutare clienti nell’allestimento di piani finanziari. Infine, c’è lo spettro del ‘contagio’ che rende tutti più prudenti, come confermano studi del Cepr. Come si spiegano allora i successi della politica monetaria americana? Gli Stati Uniti non hanno solo la freccia monetaria nel loro arco, ma utilizzano pure il bilancio e il cambio.

Quel disastro statalista che suona da lezione per l’economia europea

Quel disastro statalista che suona da lezione per l’economia europea

Carlo Lottieri – Il Giornale

Le notizie (preoccupanti) riguardanti l’economia giapponese hanno fatto crollare l’indice della Borsa di Tokio e aperto una fase politica nuova. È possibile che per il premier Abe non ci siano più molte chance e che presto il Giappone volti pagina. Sono però vent’anni che quella che era la seconda economia globale è in difficoltà. Il Paese del Sol Levante adotta da tempo tassi di interesse bassissimi, talora anche nulli, e utilizza il ricorso al debito pubblico con spregiudicatezza. Lo sfascio giapponese è allora interessante perché noi ci troviamo in una situazione simile, con la Bce che adotta una strategia di espansione monetaria (tassi egualmente vicini a zero) e un debito nazionale che ormai è pari al 134% del Pil.

In questo quadro, quanto ci viene da Tokio conferma le tesi di studiosi come Mises e Hayek, e spiega in che modo una società di successo, che negli Anni ’70 sembrava minacciare il primato americano (fino a innescare spinte protezioniste negli Usa), debba fare i conti con un processo di impoverimento. La spesa pubblica abnorme, che ha generato un debito folle, e un troppo facile accesso al credito indirizzano chiunque verso cattivi investimenti: ciò produce fasi di espansione artificiosa, a cui fanno seguito aggiustamenti talora assai dolorosi. In qualche modo, l’interventismo che genera deficit e la politica monetaria espansiva sono due pilastri del keynesismo: e le difficoltà del Giappone sono la conseguenza di un’economia in cui il ruolo del privato si restringe e la moneta è manipolata dalla Banca centrale.

Ma la situazione dell’Europa e in particolare dell’Italia è simile, così che sul disastro di quella che era un’ economia potentissima bisognerebbe riflettere attentamente. Ogni società cresce se quanti producono ricevono indicazioni corrette dall’ambiente in cui operano. Per ragioni diverse ma convergenti, la dilazione del settore pubblico estranea a logiche economiche e tassi che non riflettono le vere esigenze dell’economia, finiscono per indurre anche i soggetti privati a comportamenti poco responsabili. Esaltato dagli economisti della sinistra nostrana, il Giappone è allora oggi in ginocchio perché i suoi responsabili politici hanno intralciato il libero mercato e hanno distorto i prezzi. Le conseguenze le vediamo. In effetti, lo statalismo impedisce ai prezzi di trasmettere le informazioni corrette: come constatammo bene quando, in assenza di ticket, i farmaci erano gratuiti e assistemmo a un sovraconsumo irragionevole. Lo si è visto anche nella crisi Usa dei sub-prime, quando interessi artificiosamente bassi hanno spinto ad acquistare una casa pure quanti erano privi di adeguati redditi. La crisi giapponese mostra dove conduce lo statalismo. C’è da sperare che qualcuno, da noi, apprenda la lezione.

Tra cataclismi e scontri sociali

Tra cataclismi e scontri sociali

Stefano Biasioli – Segretario Generale Confedir

“Piove, governo ladro”.
Da 2 mesi a questa parte, non piove ma diluvia. Esondano fiumi e fiumiciattoli; la terra smotta e distrugge case e persone. Bombe d’acqua su bombe d’acqua. Acquazzoni mai visti, per durata ed intensità. Lo sappiamo. Da decenni a questa parte, governi su governi, amministrazioni regionali e locali hanno fatto strage del territorio: in montagna, in collina, in pianura. Non solo non hanno programmato ed attuato la doverosa manutenzione dei corsi d’acqua (fiumi, torrenti, rii, lagune, laghi) ma hanno consentito di costruire in zone a rischio di alluvione. Hanno permesso la costruzione di case sul greto dei torrenti (Genova e dintorni) e sopra risorgive (Caldogno-Vi; Ospedale di San Bonifacio-Vr). Poche citazioni, per tutte. Il discorso è identico per l’intero Paese: Nord, Centro e Sud.
Pur di costruire, pur di muovere soldi (bianchi e neri) le amministrazioni pubbliche hanno concesso di tutto, fino a pochi anni fa. Ma ora è tardi. Il cambiamento del clima e le piogge “equatoriali” di questi mesi hanno fatto il resto. Il Po era stranamente alto in Agosto; immaginatevi ora, con i suoi affluenti di destra e di sinistra strapieni. Dora Riparia, Dora Baltea, Ticino, Adda, Oglio, Mincio……A memoria, ce li facevano imparare. Ora le cronache televisive ce li mostrano “arrabbiati, tumultuosi, pieni di materiale vario…..che arriva da Nord”. Conosciamo la litania: “Non ci sono soldi per pulire i corsi dei fiumi…”. Abbiamo sprecato tanto, nei tempi del consociativismo catto-comunista, del craxismo, del berlusconismo, del prodismo. Abbiamo sprecato e violentato la natura.
Ora ne vediamo le conseguenze. Il mio povero nonno Angelo (famoso ispettore forestale veronese, quello che ha rimboscato l’alta Val d’Illasi) ripeteva a me bambino (tenendomi sulle ginocchia):”Stefanino, ricordati che la natura va rispettata. Se non lo fai, si vendica…per rimettere in ordine le cose…”. Non ci si difende dalle esondazioni con i soli muraglioni, ma soprattutto pulendo i corsi d’acqua. Non si evita l’acqua alta con il faraonico Mose (80 maxi-paratie meccaniche) ma pulendo, ciclicamente i canali di Venezia. E cosi’ via. Una sola cosa avrebbe dovuto fare il governo Renzi, invece di impigliarsi sull’articolo 18. Avrebbe dovuto finanziare un “Piano Fanfani” (i piu’ vecchi se lo ricordano!) non per l’INA-casa ma per la sistemazione del dissesto idrogeologico in un paese, il nostro, che dovrebbe vivere di turismo e di cultura. Non l’ha fatto, Matteo. E la natura gli si ritorce contro, con una continuità mai vista prima. E siamo solo in autunno. Cosa succederà, se nevica in modo altrettanto pesante ? “Matteo, il boy-scout, porta sfiga”. Dopo la cacciata di Mazzarri, questo motto si sta diffondendo.
Ritorna il sessantotto.
Le cronache di questi giorni sono piene di notizie su cortei e scontri. Allo sciopero sociale organizzato dalla CGIL e dai Cobas si sono sovrapposti, in tutta Italia (in almeno 50 città) scontri con la polizia, da parte di esponenti della cosiddetta frangia antagonista: no-global, centri sociali, studenti. “Scontri sociali” li hanno definiti. Decine di feriti, soprattutto tra le forze dell’ordine. Non spetta a Noi fare la cronaca dettagliata dei fatti e dei fattacci. Ci sia permessa una riflessione veneta, da estendere pero’ al paese. 44 anni fa, a Padova, tutto incomincio’ dalle parti della Facoltà di Lettere e di Scienze politiche. Dal regno di Toni Negri e dintorni. Il 14 novembre 2014 l’episodio più grave è avvenuto a due passi dalla Facoltà di Lettere. Il passato ritorna. La novità, caso mai, è racchiusa da un particolare: gli scontri sono avvenuti perché gli autonomi volevano occupare la sede del PD.
Ovvie le dichiarazioni ufficiali. “Solidarietà alle forze dell’ordine….Non ci faremo intimidire…” (Massimo Berrin, Segretario Provinciale PD)…”Nella confusione fratricida della sinistra, ci rimettono la polizia e la città…”(Maurizio Sala, assessore di Bitonci)….”Hanno vinto loro, i professionisti del disordine” (Gessica Stellato, M5S). E’ già nato un leader: Zeno Rocca, 23 anni, veronese, attivista del centro sociale Pedro, iscritto a Legge. Un cambio generazionale, forse. Quello che si è visto a Padova, Milano, Roma, Napoli, Pisa, Palermo è forse qualcosa di nuovo. Qualcosa che rimanda, per alcuni aspetti, al sessantotto. In strada c’erano le sigle degli studenti, medi ed universitari; c’erano gli antagonisti (centri sociali ed anti TAV ), c’era l’Adl Cobas e Cobas scuola: il sindacato forte nei centri della logistica e delle spedizioni, nelle cooperative sociali e nei servizi. Quelli che il pubblico ha regalato al privato. In altre parole: c’erano gli antagonisti; c’erano i precari; c’era il precariato spinto. I nomi degli antagonisti? Pedro, Bios, Collettivo di Scienze Politiche, Gramigna, Rivolta, Sale Docks, Bocciodromo, Arcadia, Django, Casa dei Beni comuni. Uno o piu’ di uno, per ogni provincia veneta.
“Una giornata di sciopero sociale”, ha detto uno che se ne intende: Beppe Caccia, protagonista nei movimenti sociali di 20-30 anni fa. “L’assenza di prospettive e di speranza ha riunito i disperati nelle piazze”. “Padova,città aperta”, ha detto uno di loro. Padova come laboratorio per riunire le varie forme di lotta e di rivendicazione sociale.  Ecco, ci siamo. La prolungata crisi economica, il precariato spinto, la disoccupazione hanno – alla fine- portato alla coagulazione di forze eterogenee. Che non si accontenteranno delle sceneggiate televisive del premier fiorentino ma chiederanno, chiedono già da ora, risposte certe, diritti, lavoro, reddito. “Botte: governo ladro!”. Chi non ha lavoro ha perso la pazienza. Non siamo convinti che Renzi capisca. Non siamo convinti che questo Governo, questa politica, questi sindacati siano in grado di dare una seria prospettiva al Paese.
L’impossibile impresa di semplificare l’Italia

L’impossibile impresa di semplificare l’Italia

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Semplificare, semplificare, semplificare. Da anni non sentiamo parlare, da parte di chi sta al governo, che di «semplificazioni». Dal berlusconiano ministero «per la semplificazione normativa» al montiano decreto «semplifica Italia», al renziano dicastero per la «Semplificazione e la pubblica amministrazione». Ma quando i poderosi apparati semplificatori passano dalle parole ai fatti la musica è, ahinoi, assai diversa. Prendete lo «sblocca Italia», un provvedimento appena approvato dal parlamento, che nonostante il proposito di rendere la vita più facile per la realizzazione delle opere pubbliche contiene un guazzabuglio di norme scritte talvolta in modo così astruso da risultare incomprensibili, ne abbiamo la certezza, perfino ai mandarini che devono averle scritte.

Prova ne sia un fatto che in qualunque altro Paese europeo avrebbe dell’incredibile. Lo stesso giorno che la legge di conversione dello «sblocca Italia» viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale , l’11 novembre, ecco che compare sempre sulla medesima Gazzetta un decreto legge intitolato «Nuove norme per le bonifiche dei siti inquinati» che modifica due norme dello stesso «sblocca Italia» reperibile qualche pagina prima. Inutile leggerlo, se non siete ipertecnici: non ci capirete un’acca.

Ma quello che c’è dentro qui importa poco. È il fatto in sé: ricorda da vicino quello che accadde a Natale del 2006, quando si stava approvando la prima legge finanziaria del secondo governo di Romano Prodi. Un altro guazzabuglio condensato in un unico articolo di quasi 1.400 commi, nel quale si scoprì una norma che mirava a tagliare le unghie alla Corte dei conti.

Quando lo seppe, il giorno prima dell’approvazione, Prodi intimò di toglierla dal testo. Ma era stata scritta in modo talmente indecifrabile che la cercarono tutta la notte ma non riuscirono a trovarla. E il giorno dopo, mentre il Parlamento votava la finanziaria con dentro quella irreperibile norma avvelenata, il governo fu costretto a fare in fretta e furia un decreto legge per abrogarla. Pagò il funzionario che era stato inutilmente incaricato di scovarla, rispedito dal Tesoro agli uffici di provenienza. L’autore del comma incriminato era un senatore, Pietro Fuda, eletto in Calabria nella lista appoggiata dai movimenti dei consumatori. In quel momento, per ironia della sorte, aveva l’incarico di presidente della commissione parlamentare per la Semplificazione normativa.

Alcune baggianate sulla legge Madia

Alcune baggianate sulla legge Madia

Stefano Biasoli – Segretario Generale Confedir

Siamo costretti oggi a ricordare nuovamente gli effetti deleteri prodotti dall’art. 6 della Legge MADIA (114/2014), il cui titolo pare chiarissimo:”Divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza”. Il titolo di questo articolo conferma, anzi esplicita, la volontà della Madia di rottamare i pensionati pubblici e privati , negando loro la possibilità di svolgere incarichi professionali e dirigenziali per la P.A., con 2 sole eccezioni: componenti di giunte degli enti territoriali o simili, incarichi e collaborazioni della durata di un anno, gratuite e non rinnovabili. Tutto chiaro? Tutto legittimo? No, certamente no. Ma procediamo con ordine.
Premessa legislativa. Dalla legge 135/2012 alla legge 114 /2014.
Con  la legge 135/2012 (art.5, c.9) era stato introdotto il divieto, per le amministrazioni pubbliche, di attribuire incarichi di STUDIO e CONSULENZA a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse amministrazioni e collocati in quiescenza, che avessero svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza. La disposizione allargava, di fatto, il fronte dell’intervento, meno restrittivo, proposto in passato con una disposizione della legge n. 724/1994 (Legge Finanziaria) che si limitava ad indicare che i destinatari erano solamente i dipendenti cessati per pensionamento di anzianità e non di vecchiaia.
La norma del 2012 estendeva, invece, il divieto a tutti i dipendenti collocati in quiescenza, senza alcuna distinzione. Nella relazione tecnica del Senato era infatti chiaramente scritto che “la disposizione è intesa ad introdurre una forma specifica di incompatibilità nell’affidamento delle consulenze da parte delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/01…”. La legge n. 114/2014 (come risulta dal testo coordinato in G.U. 190/2014, Supp.Ordinario n°70) ha aggravato le regole di incompatibilità per i pensionati, come risulta dalla premessa del presente articolo.
Per chiarire meglio il tutto, riportiamo innanzitutto integralmente il testo dell’art.5 della legge 135/2012: … (“ E’ fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza *a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati in quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza *”.)
Ecco invece la formulazione nel nuovo disposto dell’articolo 6 della legge 114/2014 che prevede che all’ “ articolo 5, comma 9, della legge 135/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, le parole da “a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse”  fino alla fine del comma sono sostituite dalle seguenti: * – “a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.- Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all’articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125. Incarichi e collaborazioni sono consentiti, esclusivamente a titolo gratuito e per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati dall’organo competente dell’amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell’ambito della propria autonomia”. “c.2. Le disposizioni dell’art.5,c.9 della legge 135/2012, come modificato dal c.1, si applicano agli incarichi conferiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”, ossia dal 18/08/14.
Dalla cronistoria alle sue conseguenze
Se sappiamo leggere e capire norme contorte e bizantine, sovrapposte le une alle altre, la nuova disposizione porta questi, pesanti, effetti.
1) L’incompatibilità si allarga dai pensionati pubblici a quelli privati;
2) L’incompatibilità diviene assoluta.
3) Infatti si estende dal divieto di “incarichi di studio e consulenze” ex legge 135/2012 agli
4) Incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni, con l’eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti titolari degli organi elettivi degli enti ex art.2,c.2 bis, della legge 125/2013. Comunque sia,
5) Incarichi e collaborazioni sono consentiti solo per un anno e gratuitamente;
6) L’incompatibilità vale anche anche per gli organi costituzionali, che “devono adeguarsi nell’ambito della propria autonomia” (?).
7) L’incompatibilità crea situazioni di discriminazione assoluta nei confronti di molti professionisti pensionati, che stavano intrattenendo rapporti con le amministrazioni pubbliche.
Dal danno teorico al danno reale. Alcuni esempi.
A) Ex dipendente pubblico o privato, con pensione maturata entro il 31/12/12 (40 anni contributivi, con le regole Fornero, soggetto oggi con eta’ inferiore a 65 anni), attualmente possessore di P.IVA e con molteplici rapporti con la P.A. Si può trattare di Segretari comunali e provinciali, di Avvocati, di Ingegneri, di Amministrativisti, di Medici, di Professionisti laureati – già pensionati- che attualmente hanno in corso contratti pluriennali con la P.A.: come professionisti esterni, come consulenti ma anche – nel SSN- come direttori generali, direttori sanitari, direttori amministrativi e direttori del sociale. Ne conosciamo molti, in Veneto e non solo. Ebbene, tutti costoro se ne andranno a casa. Chiediamo: perché? Per far posto a giovani privi dei titoli necessari per compiti simili? Pensate che nessuno di costoro reagirà?
B) Pensionato con Cassa Professionale Autonoma (es. ENPAM, ENPAF, ENPAP etc), con più di 65 anni, con P.IVA: e con attività di consulenza di vario tipo per varie strutture pubbliche. Si pensi ai medici INAIL, ai controllori dell’INPS etc. Si pensi ai medici ed ai professionisti della della protezione civile….
C) Pensionato di ogni genere e grado, con carica di consigliere comunale, provinciale, regionale; con presenza in Enti pubblici: IPAB, consorzi vari, partecipate. Presenza, quindi, come consigliere e non come membro di giunte, ossia di esecutivi. Adesso, non lo potrà piu’ fare, se non per un anno e gratuitamente.
Considerazioni logiche
Il furore rottamatorio di Renzi e della Madia si è spinto oltre il lecito. Per cercare di dare lavoro ai giovani (proposito encomiabile, ma da declinare correttamente) si è deciso di varare una legislazione antidemocratica, indegna anche della Russia di Lenin e di Stalin. Qui ci si dimentica che siamo nella U.E., che impone la libera circolazione di professionalità e di professionisti, pensionati o no che siano. Non succederà che pensionati francesi od ucraini prendano il posto di quelli italiani, nei rapporti con la P.A.?
Ancora. Mentre si amplia lo spoil system nella P.A. fino al 30% degli organici (articolo 11 della legge 114/2014), ossia mentre si impone l’invasione delle scelte discrezionali della politica nelle nomine dei dirigenti pubblici, nel contempo si cacciano a casa i consulenti, i dirigenti ed i direttivi (pensionati con P.IVA) che possono, senza problemi, testimoniare e documentare le scorrettezze e le illegalità spesso connesse a tali “nomine politiche”.
Ancora. C’è da chiedersi se le norme valgano per tutti o se, ancora una volta, ci saranno figli e figliastri. Siamo in Italia, le leggi valgono per tutti, tranne che per i “soliti noti”. E che non ci venga a dire che siamo prevenuti. Infatti, in 2 soli mesi, il Governo ha (illegittimamente) fatto due eccezioni. Ha nominato il 75enne pluripensionato Tiziano Treu a Commissario dell’INPS, con una prebenda superiore ai 200.000 euro. Non contento, lo stesso Governo ha concesso a Giovanni Valentini, giornalista pensionato, la responsabilità di un ente pubblico (un’Agenzia o giu’ di li’) e non certamente senza un compenso. Due atti governativi illegittimi, che qualcuno – nei dintorni di palazzo Chigi – ha giustificato sostenendo che l’articolo 6 della legge Madia non vale per le nomine governative. Cosi’ hanno riportato alcune cronache giornalistiche. Stranamente né Report né Striscia la notizia hanno indagato su questo. Perché?
Ancora. È ricominciata la corsa al Quirinale. Girano i nomi di tanti papabili, il 90% di loro è pensionato. Insomma. Il nuovo Presidente della Repubblica non avrà prebende personali, per colpa della Madia? O, ancora una volta, Qualcuno eccepirà? Intanto, dal 19/08/14 i “pensionati normali” sono già stati esclusi dagli incarichi dirigenziali pubblici.
Per questo e per molto altro, ancora una volta, saremo costretti – noi pensionati lesi – a ricorrere alla magistratura, italiana ed europea. Caro Renzi, Ella è all’interno di una favola di Esopo. Quella della tartaruga e della lepre. Noi, professionisti pensionati, siamo la tartaruga. Siamo lenti, ma pensanti e tanto, tanto, testardi.
Il fisco pesa sulle costruzioni

Il fisco pesa sulle costruzioni

Michela Finizio – Il Sole 24 Ore

Le tasse sul mattone sono un disincentivo per l’edilizia. A denunciarlo è una ricerca di Assimpredil-Ance, l’associazione milanese delle imprese di costruzione, che fotografa l’impatto del prelievo fiscale sulle operazioni di sviluppo, dalla fase di acquisizione delle aree alla vendita sul mercato delle unità costruite. Ad esempio, su un’operazione del valore complessivo di oltre 22,5 milioni, il Fisco pesa fino al 32% e, considerando solo il gettito a carico dell’impresa, le imposte dovute nel complesso superano il 76% dell’utile lordo generato.

È quanto emerge dall’indagine dei costruttori, che si propone di analizzare nel dettaglio i “conti” di un investimento, prendendo in esame lo sviluppo di 32 appartamenti, 136 box e un’unità commerciale (periodo 2008-2014). Il campanello di allarme, che ha spinto Assimpredil-Ance a realizzare questa ricerca, è scattato davanti ai dati che fotografano l’aumento della tassazione sul possesso di immobili: siamo passati dai 9,2 miliardi di prelievo del 2010 ai 23,2 miliardi del 2012 «e, nonostante la flessione del 2013 legata alla cancellazione dell’Imu sulla prima casa, nel 2014 toccheremo i 26 miliardi di tasse sul mattone», stima il presidente dell’associazione dei costruttori, Claudio De Albertis. «Manca una qualsiasi strategia nella tassazione immobiliare – aggiunge -. L’unica logica è andare a coprire i tagli che vengono fatti agli enti locali. Sull’unica base imponibile, inoltre, si sommano tasse centrali e locali all’interno di un sistema tributario caotico che maschera delle vere e proprie patrimoniali con imposte in nome dei servizi locali». Dai calcoli sul case-study emerge che, a fronte di utili netti per quasi 4,4 milioni di euro generati dall’impresa, sulla stessa operazione l’Erario incassa un gettito di oltre 7,2 milioni. «Se vado a comprimere così le operazioni di rigenerazione urbana come posso sperare che la rinascita del Paese parta dalle città?» commenta De Albertis. Inoltre, oggi è sempre più difficile vendere l’intero stock di abitazioni realizzate sul mercato: oggi in Italia si contano più di 540mila case in vendita, per il 26% di nuova costruzione.

L’effetto perverso per chi non vende. In base ai calcoli dell’ufficio studi Assimpredil-Ance, se l’impresa trovasse acquirenti solamente per il 50% delle unità costruite dovrebbe pagare ancora più tasse a causa delle imposte sull’invenduto. Sui beni merce, infatti, in molte città viene applicata oltre all’Imu anche la Tasi. A Milano, ad esempio, sulle unità senza acquirenti nel 2014 sarebbe prevista un’aliquota Tasi del 2,5 per mille: nella simulazione elaborata da Assimpredil-Ance, se l’invenduto fosse pari al 50% il prelievo Tasi sarebbe di circa 10.750 euro; in caso di nessuna unità venduta salirebbe a 21.500 euro. «Il paradosso è che, in pratica, l’impresa in difficoltà viene penalizzata dal Fisco», sintetizza il presidente dei costruttori milanesi.. A rappresentare il primo deterrente all’attività di sviluppo immobiliare sono i costi legati all’acquisizione delle aree: al momento dell’investimento («quando, cioè, l’impresa si espone di più», sottolinea De Albertis) il costruttore si trova subito a dover affrontare un’imposizione considerevole. Nel caso specifico, ad esempio, a fronte di 9,5 milioni di euro investiti per acquistare i terreni l’impresa è chiamata a pagare subito oltre 1,9 milioni di euro di imposte (tra registro, ipotecaria, catastale, oneri di costruzione e imposta sostitutiva sul mutuo). «Non c’è da meravigliarsi che la propensione all’investimento sia al minimo», commenta De Albertis. I permessi di costruire, infatti, sono in picchiata del 70% rispetto ai periodi pre-crisi, in base agli ultimi dati Istat (2012 sul 2005).

Ad influire, poi, in modo differente in ogni singola operazione immobiliare sono diversi fattori: gli oneri di urbanizzazione sono molto diversi sul territorio, così come le aliquote delle imposte locali; il valore di investimento e i costi di costruzione sono legati alle disponibilità dell’impresa; l’assorbimento delle unità costruite sul mercato dipendono dalla congiuntura. In un mercato immobiliare fermo, affaticato da compravendite ancora al ribasso (-1% su base annua nel secondo trimestre 2014), l’offerta residenziale pesa sui bilanci delle imprese edili che faticano a trovare acquirenti: in media ci sono 15,8 case invendute ogni mille unità abitative presenti sul territorio nazionale (dati Scenari Immobiliari). «È illogico che la tassazione sia legata al valore dell’immobile e prescinda dalla situazione patrimoniale del contribuente o dal reddito che produce l’immobile», conclude il presidente dei costruttori, suggerendo innanzitutto l’eliminazione dell’imposta di registro sulle cessioni di terreni da parte dei privati e del prelievo Imu più Tasi sui beni merce.

In busta paga la crisi non è uguale per tutti

In busta paga la crisi non è uguale per tutti

Francesca Barbieri – Il Sole 24 Ore

Direttore generale, responsabile corporate banking, informatore scientifico del farmaco e capo turno. Sono questi i “vincitori” delle quattro categorie del borsino delle professioni realizzato da Od&M, la società specializzata in Hr consulting di Gi Group, su un campione di oltre 420mila profili retributivi per altrettanti dipendenti del settore privato. L’obiettivo? Individuare in un momento di crisi del mercato del lavoro italiano quali sono le attività che offrono gli stipendi migliori. Nel borsino, però, non si considera solo l’andamento dei cinque “mestieri” meglio retribuiti, ma si mettono sotto la lente anche quelli meno pagati. Il tutto distinto per quattro livelli di inquadramento, dall’apice fino alla base della piramide aziendale: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Sui gradini inferiori alla media si rintracciano le figure It, insieme a quelle tradizionali di staff e ai profili poco specializzati.

I dirigenti
A livello apicale si registra un gap del 62% tra i poli opposti sulla scala retributiva, con uno stipendio medio di 112.340 euro lordi l’anno. I direttori generali guadagnano 133mila euro contro gli 82mila dei responsabili di manutenzione dello stabilimento (ultimi in classifica). Tra le cinque professioni più pagate prevalgono le posizioni di direttore, mentre all’opposto troviamo i responsabili dei sistemi qualità, dell’area tecnica, dello sviluppo software, della manutenzione e il project leader It. Ma considerando il trend degli ultimi 5 anni emerge che le funzioni che hanno visto la crescita più timida sono quelle meglio retribuite, mentre hanno evidenziato una dinamica positiva quelle più in basso, in particolare l’ultima in classifica – il responsabile manutenzione di stabilimento – ha visto aumentare la propria retribuzione di oltre il 10%. Nel 2014, poi, sono cresciuti di più il direttore pubbliche relazioni (+8,8% sul 2013) e il country manager (+6 per cento). «Si tratta dei ruoli più critici nel mercato – commenta Simonetta Cavasin, general manager di Od&M – fortemente focalizzati sui risultati, quindi preziosi per le aziende».

Middle manager e impiegati
Le buste paga dei quadri sono decisamente inferiori rispetto a quelle dei dirigenti e ammontano in media a 54.233 euro, con l’unica eccezione del responsabile corporate banking (84mila euro l’anno) che batte l’ultimo in classica dei top manager. «In generale – commenta Cavasin – a vincere sono le figure manageriali o di responsabilità, mentre quelle meno retribuite riguardano ruoli più operativi, come la segretaria di direzione e gli specialisti formazione». Tra i colletti bianchi guadagna la vetta, un po’ a sorpresa, l’informatore scientifico del farmaco, che intasca il 54% in più della retribuzione media degli impiegati (44mila euro l’anno rispetto a circa 29mila) e il doppio dell’operatore grafico che, all’opposto, risulta il meno pagato. «Gli informatori – commenta Fabio Carinci, presidente della Federazione delle associazioni italiane di categoria – mantengono buoni livelli retributivi, anche se, complice la crisi, negli ultimi anni sono calati di numero e oggi sono circa 12mila». Il mercato comunque si muove. L’agenzia per il lavoro Randstad segnala tra le ricerche aperte quelle di laureati in farmacia e in scienze dell’alimentazione, o comunque in materie sanitarie a indirizzo scientifico. «Gli informatori sono figure specializzate – spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria -fondamentali in primis per l’aggiornamento dei medici sui nuovi prodotti. In generale poi in tutta l’industria farmaceutica gli stipendi sono di buon livello per le figure qualificate che vi operano grazie alla produttività elevata del settore». In generale tra gli impiegati, sull’orizzonte di 5 anni, a crescere di più sono stati i responsabili business development (+13,9%) e commerciale (+13,8%). Figure, queste ultime, spesso impiegate all’interno di piccole aziende in ruoli molto vicini a quelli dirigenziali.

Operai
Sul podio delle tute blu troviamo capo turno (31mila euro), capo squadra produzione e capo squadra manutenzione (29mila euro). All’opposto, invece, le figure meno qualificate, come l’addetto di cucina (21mila euro), il cameriere (20mila euro) e il barista (19mila euro) rispetto a una media di categoria di 23.884 euro. Considerando gli anni dal 2009 in poi, il trend è positivo per quasi tutti i ruoli e in particolare per il capo squadra produzione (+12%) e per il verniciatore (+10 per cento).

Settori e comparti
A livello settoriale, sono le banche e le assicurazioni a offrire i migliori stipendi ai dirigenti (+12% rispetto alla media), mentre il comparto con le retribuzioni più basse è l’edilizia (97mila euro, il 13,5% sotto la media). I quadri guadagnano oltre la media solo nel campo del credito, mentre l’industria premia di più impiegati e operai: sono in particolare la farmaceutica e la chimica a riconoscere compensi superiori rispetto alla media di oltre il 15 per cento.

Il trend dal 2002
Analizzando, infine, la dinamica retributiva rilevata negli anni 2000, gli esperti di Od&M evidenziano l’andamento in tre periodi distinti: dal 2002 al 2007 le retribuzioni sono cresciute ben più dei prezzi al consumo (eccezion fatta per gli impiegati). Dal 2007 al 2011 si è verificata una stagnazione, che ha prodotto un calo di potere d’acquisto significativo: gli operai, per esempio, hanno visto salire la busta paga di appena lo 0,6% in media l’anno, contro un’inflazione cresciuta del 2,2%. Dal 2011 il trend si è invertito: crescita superiore all’inflazione, in primis proprio per le tute blu. «Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014 – conclude Cavasin – le retribuzioni sono salite di poco, ma grazie a un buon incremento avvenuto nel 2012 e a un rallentamento del costo della vita, si è realizzata negli ultimi tre anni una crescita, seppur lieve, del potere d’acquisto, con l’eccezione del middle management».

Oltre le tasse, la difficoltà di scrivere buone regole

Oltre le tasse, la difficoltà di scrivere buone regole

Cristiano Dell’Oste – Il Sole 24 Ore

Facciamo un po’ di storia. Alla fine del 2011 la manovra salva-Italia introduce l’Imu. Negli anni seguenti, le compravendite di abitazioni – già in discesa rispetto alle 877mila del 2006 – arrivano fino alle 407mila del 2013, con un trend ancora in calo quest’anno. Nel frattempo, non si allenta la stretta sui mutui, crollano gli investimenti in nuove costruzioni e aumenta la morosità degli inquilini. Intendiamoci, non è solo colpa delle tasse. Ma è evidente che la pressione fiscale sul mattone, unita alla crisi economica, costringe i proprietari di immobili e le imprese di costruzioni a barcamenarsi in una situazione di equilibrio sempre più precario. Il rischio concreto è quello di avvitarsi in una spirale recessiva sempre più grave, dove la crisi chiama altre tasse, che a loro volta generano altra crisi, e così via all’infinito.

I dati elaborati da Assimpredil, però, consentono anche di sviluppare una riflessione in chiave positiva. Se è vero che le imposte oggi erodono buona parte dell’investimento immobiliare realizzato da un’impresa di costruzioni, è altrettanto vero che questo investimento – se il contesto regolatorio e fiscale fosse ottimizzato – potrebbe tradursi in un gioco a somma positiva: riqualificazione urbana, nessun consumo di suolo, imposte per lo Stato e i Comuni, profitti per i costruttori, nuove abitazioni (o uffici, o negozi) per i privati. Chiedersi perché questo non avvenga, è la domanda chiave.

Deve far riflettere, in questo senso, la leggerenza con cui i parlamentari nelle scorse settimane hanno ipotizzato un emendamento allo “sblocca Italia” – poi liquidato dal ministro delle Infrastrutture – che avrebbe aumentato al 22% l’Iva sugli acquisti dal costruttore. Non proprio il massimo della lungimiranza, in un periodo come questo. Allo stesso modo, deve far riflettere – nel bene e nel male – l’esperienza della detrazione del 65% per il risparmio energetico, che il Ddl di stabilità si propone di prorogare anche per il 2015: dopo anni di tira-e-molla, ci si è resi conto che l’agevolazione si ripaga praticamente da sola, tra incremento dei cantieri, contrasto al lavoro nero e sostegno alle imprese del settore. Eppure, il catalogo dei lavori premiati è quasi identico a quello stilato dalla Finanziaria 2007, e i piani per estenderne l’utilizzo sono sempre rimasti nel cassetto.

Anche i continui ritocchi alla disciplina dei permessi edilizi – ultimo in ordine di tempo quello dettato dallo “sblocca-Italia”- lasciano qualche perplessità. Da un lato, va detto che servirebbe un intervento organico. Dall’altro, bisogna ricordare che spesso le procedure non si inceppano al livello del Testo unico dell’edilizia, ma negli uffici comunali. Insomma, se il circolo virtuoso non si innesca, non è solo perché non si possono abbassare le tasse. È anche perché scrivere buone regole, abbandonare vecchie abitudini amministrative e disciplinare al meglio i bonus fiscali esistenti si rivela spesso troppo complicato. Una lezione da non dimenticare mentre ci si prepara a scrivere la nuova local tax che sostituirà Imu e Tasi.

Gli e-book come i videogame: l’Ue boccia l’Iva agevolata

Gli e-book come i videogame: l’Ue boccia l’Iva agevolata

Marco Zatterin – La Stampa

Salvo miracoli, i giochi sono chiusi. Una decina di stati dell’Ue resta convinta che un libro di carta e uno elettronico siano due oggetti diversi che richiedono tassazioni differenti. Il tentativo di cucire il consenso unanime necessario per rivedere la rotta risulta fallito, così da gennaio i volumi tradizionali saranno ancora assoggettabili all’Iva ridotta (4%), mentre sugli e-book graverà l’aliquota normale, che in Italia è del 22%. Brutta storia. Perché i prezzi aumenteranno e un’editoria già in difficoltà avrà nuovi problemi di domanda, provocati da una scelta bizzarra che aiuta molti fra i Ventotto a fare i propri interessi più che quelli dei cittadini.

L’ultima chance poteva essere il Consiglio Cultura del 25 novembre, ma le speranze sono ridotte al lumicino. Questa settimana la riunione del Coreper – il conclave dei rappresentanti dei governi che prepara i lavori dei ministri – è finita con un nulla di fatto. Italia e Francia hanno spinto per convincere i partner che «un libro è un libro, comunque lo si serva». Inutile. Per motivi vari – esigenze nazionali e questioni procedurali – Commissione, britannici, nordici e centroeuropei hanno detto «no» a Roma e Parigi, mentre i tedeschi hanno fatto tattica e non si sono pronunciati. Risultato: la bozza di conclusioni per il Consiglio Cultura con l’«invito» ai titolari di cattedra dell’Ecofin perché equiparino letture digitali e cartacee non è stata accolta.

L’oggetto del contendere è la direttiva 112/2006 con cui gli stati dell’Unione intendono delineare dal primo gennaio 2015 un «sistema comune d’imposta sul valore aggiunto». È un dispositivo che nelle intenzioni armonizza l’Iva in modo da limitare al massimo la concorrenza fiscale. Si vuole evitare che si possa scegliere un bene o un servizio in un paese, piuttosto che in un altro, solo per ragioni fiscali. Vuol dire omologare aliquote e criterio di applicazione. E, nel caso degli acquisti online, applicare la tassa del paese dove si consegna e non quella della sede in cui la transazione viene registrata.

La contesa sui libri nasce dalle nozze del nuovo criterio di fatturazione con l’Iva «ridotta». Il testo in discussione prescrive che possano usufruire della minore tassa la «fornitura di libri, gli album, la musica stampata, le mappe, i giornali, non il materiale pubblicitario». Bene, sin qui. Però colpisce ciò che manca, gli ebook che i giuristi della Commissione considerano prodotti elettronici come i videogame, che sono soggetti all’aliquota ordinaria. Se vanno sul Kindle non sono libri, l’essere dietro uno schermo li snatura. «Come se l’uomo dentro la doccia non fosse più un uomo», scherza una fonte Ue. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, si batte da sempre per l’equiparazione delle letture, ma non è agevolato dall’essere presidente dell’Ue sino a fine mese, deve per definizione mediare. Con lui sono i francesi che nel 2012 hanno abbassato d’arbitrio l’Iva sugli e-book al 7%, sfidando l’Ue e rischiando la condanna in Corte. Più Olanda, Grecia e Slovenia. L’alleato insolito è il Lussemburgo, in nome delle tasse basse più che per la diffusione della cultura. La ragione è presto spiegata: Amazon fa capo al Granducato; un libro venduto a un residente italiano è attualmente tassato al 3% lussemburghese, ma da gennaio passerà al nostro 22.

Londra ambisce a una zona «no tax» per i servizi finanziari, poi però accetta l’Iva alta sugli ebook, confortata dal mercato «reale» che comunque tira. In settembre la Corte Ue ha deliberato che il doppio binario Iva è legittimo, perché «dipende dalla percezione del consumatore». L’Associazione italiana Editori teme che l’Iva normalizzata geli un mercato digitale che decolla a fatica: era il 3% del totale nel 2013, è salito al 5% nel 2014. Il governo Renzi studia cosa fare, ma non pensa al momento di imitare lo strappo di Parigi. «Si stronca la diffusione di un media che piace ai giovani», fanno notare a Bruxelles, dove ammettono che al Consiglio Cultura una fumata bianca sarà difficile. È una di quelle cose difficili da spiegare ai cittadini, una direttiva che tassa gli ebook al 22% e non la vendita di navi da guerra. Cose che fanno male all’Europa.