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Il circolo (vizioso) degli interessi, un macigno da 80 miliardi l’anno

Il circolo (vizioso) degli interessi, un macigno da 80 miliardi l’anno

Sergio Bocconi – Corriere della Sera

Peccato originale, Moloch, Dna. In qualsiasi modo lo si voglia definire il debito pubblico italiano nasce e cresce con il Paese: quando il ministro delle Finanze Pietro Bastogi parla alla Camera il 29 aprile 1861 dice parole che oggi potrebbero essere definite di «stringente attualità»: «Perché l’Italia meriti il credito di tutta l’Europa deve cominciare a rispettare i debiti contratti…». Inizia così la lunga marcia del debito pubblico italiano che Quintino Sella riporta in sostanziale pareggio nel 1876.

Cent’anni dopo siamo ancora «virtuosi»: nel 1975 il debito ha già fatto un primo balzo ma è ancora pari al 56% del Pil. A pagare in parte le «spese» è chi incassa interessi reali negativi di sette punti. Ed è il caso di sottolineare il costo del debito perché in futuro, cioè in questi ultimi dieci anni, sarà invece questo un autentico macigno per l’Italia, soprattutto in presenza di una crescita del Pil nominale pari a zero e negativa in termini reali. Circa 80 miliardi di media l’anno che contribuiscono a depotenziare qualsiasi politica economica.

Sono interessanti a questo proposito le analisi condotte da esperti come Roberto Artoni (che ha scritto «Il debito pubblico in Italia dall’unità ad oggi») professore ordinario di Scienza delle finanze alla Bocconi. Perché è nell’equilibrio fragile fra le varie componenti macroeconomiche che si viene formando il disequilibrio che farà esplodere il debito pubblico italiano. Nel 1970 la situazione della finanza pubblica è «normale»: la spesa è pari al 33% del Pil e il debito al 37,1%. Seguono dieci anni di governi Rumor, Colombo, Andreotti, Moro, Cossiga, Forlani, nei quali «turbolenze» sociali, rallentamento dell’economia, costituzione di un welfare in parte «elettorale» e alta inflazione conducono un primo ribaltamento della situazione. Nel 1980 la spesa è così aumentata di otto punti al 40,8% del Pil mentre le entrate, cioè il gettito fiscale, cresce della metà. Il debito è 56,1%, il peso degli interessi passa dall’1,3 al 4,4% ma con i prezzi che aumentano al 21,1% l’anno i tassi reali sono negativi del 5,8%.

Iniziano gli anni del craxismo e la spesa si impenna ulteriormente portandosi nel 1985 al 50% del Pil. Sono però anche anni caratterizzati da un’inversione di tendenza nelle politiche monetarie internazionali che si inaspriscono a partire dall’America reaganiana. Nell’85 in Italia, (nonostante il buon andamento dell’economia) il debito sul Pil «vola» all’80,5% ed è importante osservare che se il totale della spesa pubblica cresce di cinque punti, gli interessi raddoppiano all’8,4% del Pil con tassi reali che adesso favoriscono i sottoscrittori dei titoli di Stato perché sono positivi e pari al 4,5%. Il macigno pesa.

Il trend prosegue negli anni successivi e il debito che nel ‘90 è al 94% nel 1992 supera la soglia del 100%: siamo al 105%. Cambiano i governi, da Andreotti ad Amato e Ciampi, scatta l’adesione al trattato di Maastricht (che entra in vigore nel novembre del ‘93) e cadono anche i tassi e il loro peso relativo su spesa e Pil. Nel ‘92-93 cominciano anche le privatizzazioni che vedono Romano Prodi prima alla guida dell’Iri e poi nel ‘96 all’esecutivo. Le cessioni di banche e aziende di Stato con lo smantellamento delle partecipazioni statali «fruttano» complessivamente 127-130 miliardi. Grazie dunque al combinato disposto di aumento delle entrate, riduzione delle spese, ritorno all’avanzo primario e un forte calo del peso degli interessi (che passano dal 10,1% nel ‘95 al 3,2% nel Duemila) il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo scende dal 121% del ‘94 al 108 del 2001. Per toccare il «minimo» nel 2007 al 103,3% quando al governo c’è di nuovo Prodi.

Ebbene: come e perché in meno di dieci anni si torna al 134%? L’avanzo primario è pari in media al 2%, la spesa, al netto delle cessioni pubbliche, resta intorno al 50% del Pil e anche le entrate non registrano rilevanti variazioni. Ma mentre il Pil cresce zero in termini nominali e ha segno meno in termini reali, gli interessi rappresentano in media sempre il 5% circa del Pil. Il debito, nonostante i tassi bassi e lo spread relativamente contenuto, costa. Tanto.

Diciamoci la verità, sul debito pubblico ci eravamo distratti

Diciamoci la verità, sul debito pubblico ci eravamo distratti

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Nelle 192 pagine delle sue previsioni autunnali la Commissione europea descrive per il 2015 uno scenario di crescita appena positiva e di inflazione quasi a zero per i Paesi della Unione nel suo complesso. È un quadro molto peggiorato rispetto a quello descritto solo sei mesi fa nei documenti di primavera della stessa Commissione. Per l’Italia c’è la conferma di dati negativi sul Prodotto interno lordo (Pil) che dovrebbe attestarsi su un meno 0,4 per cento nel 2014 per poi tornare a un piccolo segno più (0,6 per cento) nel 2015. Per il nostro Paese, però, a differenza che per altri partner europei, il rinvio al futuro di una ripresa più decisa ha implicazioni particolarmente pesanti per la finanza pubblica.

Senza una crescita più robusta peggiora il deficit, non casualmente proiettato dalla Commissione al 3 per cento per il 2014 e al 2,7 per cento per il 2015 nel caso in cui siano attuate le misure della legge di Stabilità annunciate dal governo. A preoccupare Bruxelles, non è però tanto il deficit italiano (Francia e Spagna sono messe peggio di noi), ma il dato sul debito pubblico. Nel 2013 – ricorda la Commissione – è solo grazie alla recente revisione dei conti nazionali che il debito italiano è sceso al 127,9 per cento del Pil. Già nel 2014, invece, senza la crescita e dovendo – finalmente – onorare parzialmente il rimborso dei debiti della Pubblica amministrazione, è previsto in risalita sopra al 130 per cento del Pil (al 132,2 per cento) per poi toccare il 133,8 per cento a fine 2015, e stabilizzarsi lì intorno negli anni successivi.

Le note preoccupate della Commissione ricordano una verità: se è vero che (vedi il Giappone) si può convivere senza andare in default con un grande debito pubblico, è però altrettanto vero che una grande massa di debito pubblico pesa sulle spalle di qualsiasi economia. Nel caso dell’Italia l’onere comincia con gli 80 miliardi di euro di interessi che ogni anno lo Stato deve versare ai suoi creditori. Rispetto a prima della crisi, oggi una gran parte di questo debito è nelle mani di italiani e di banche italiane. Ma il risultato (tasse più alte per pagare gli interessi di un debito che non scende mai e anzi continua a crescere) è una partita di giro di cui si fatica a vedere la ragione ultima se non l’estrema ratio di un Paese che vuole solo galleggiare senza pensare al futuro.

Il peso del debito pubblico va però oltre l’onere degli interessi sull’indebitamento passato e si estende alla necessità di trovare acquirenti ai tassi prevalenti sul mercato per un enorme ammontare delle quote in scadenza. Il conto è presto fatto: se la rapida ripresa dell’economia americana – ipotesi tutt’altro che campata per aria – portasse con sé un aumento di un punto percentuale dei tassi di mercato, nei prossimi 12 mesi lo Stato italiano dovrebbe pagare 3,2 miliardi di euro in più sui 323 miliardi di euro di debito in scadenza da rinnovare. L’analogo della risicata spending review di quest’anno. Sostenere un debito pubblico grande come quello italiano è una scommessa rischiosa sull’evoluzione dei tassi e delle condizioni del credito nel mondo su cui l’Italia è per ora assicurata dall’impegno della Bce a difendere l’euro. Fino a quando, rimane da vedere. Certo, il,peso del debito pubblico è oggi meno evidente. È meno evidente perché lo spread, la differenza nel costo del debito italiano rispetto al debito tedesco, oscilla intorno ai 150 punti, cioè 400 punti base in meno della fine del 2011. Ma – lo dice la Commissione nelle poche righe finali della sua scheda sull’Italia – il problema resta.

Sotto ai dati contabili, detta legge l’algebra impietosa del debito. Al di là delle occasionali revisioni contabili, un Paese può rientrare dal suo accumulo passato senza tirare la cinghia degli avanzi di bilancio solo se cresce rapidamente: lo hanno fatto la maggior parte dei Paesi europei nel secondo Dopoguerra e, negli anni Novanta, i Paesi scandinavi, ma godendo di favorevoli condizioni di ripresa globale. Per l’Italia di oggi diventa allora urgente affiancare al graduale riequilibrio di bilancio e alle riforme per promuovere la crescita, le privatizzazioni, già contabilizzate da Bruxelles per uno 0,5 per cento del Pil e per ora assenti dall’agenda politica. Privatizzazioni che – vale la pena di ricordarlo – potrebbero essere un’altra occasione per riattivare la crescita e non solo per fare cassa.

Sulla cattiva way

Sulla cattiva way

Davide Giacalone – Libero

La quotazione di Rai Way è depauperazione di patrimonio pubblico e incentivo allo spreco. L’esatto contrario di quel che il governo dovrebbe fare e consentire che si faccia. L’azionista è la Rai, quindi lo Stato, che avrebbe il dovere di fermarla. Invece non solo è prevista per il prossimo 19 novembre, ma i mezzi di comunicazioni pubblicano le veline dei dati finanziari senza capire quel che significa l’operazione. O, dopo averlo capito, tacendolo.

Fra i tanti taglietti di spesa pubblica, che non sono una strategia di riduzione ma solo il tentativo (inadeguato) di far quadrare i conti, ci sono anche 150 milioni in meno di trasferimenti dallo Stato alla Rai. In un Paese in cui si volesse far scendere la spesa pubblica la conseguenza di quel taglio dovrebbe essere un taglio, almeno pari, delle spese della televisione pubblica. Invece no, perché i vertici Rai rimediano andando a prendere circa 300 milioni, il doppio, dal mercato, vendendo poco più del 30% della società che ha in pancia gli impianti di trasmissione. Non a caso il presidente di Rai Way altri non è che il Cfo, il responsabile della finanza, di Rai.

Al mercato raccontano che l’operazione sarà coronata dal successo, perché gli investitori affronteranno un rischio molto basso. Come mai? Perché Rai Way ha una redditività pari al 50% del fatturato e un fatturato che discende per l’83% dalla Rai. A questo si aggiunga che non è escluso, anzi esplicitamente considerato, che ai futuri azionisti sarà distribuito il 100% dell’utile. In altre parole: gli azionisti avranno una redditività dell’investimento che dipende dai soldi che la Rai (dello Stato) continuerà a spendere, senza che nulla resti alla società stessa. Ciò vuol dire che si quota un pezzo di una società che è dello Stato, allo scopo di rimediare a un taglio di trasferimenti operato dallo Stato, sistemando così un paio di bilanci (non andranno oltre uno e mezzo, perché i soldi che ci sono si spendono con gran facilità), talché, fra due anni, saranno con lo stesso problema e con meno patrimonio. Non stiamo parlando di una società privata, governata da viziosi, ma di una società dello Stato, di un patrimonio collettivo, affidata a galleggiatori temporanei.

Non è finita, perché inebriati dall’imminente sbarco in Borsa i vertici della società già annunciano che potrebbero comprare gli impianti di Wind. Mirabile capolavoro, tenuto presente che lo Stato (s)vendette gli impianti di Telecom Italia, con la peggiore privatizzazione della storia universale, per poi avere un’impresa di Stato, l’Enel, che tornò nel mercato delle telecomunicazioni, da cui lo Stato era appena uscito. Dettaglio: per tornarci, in posizione marginale, spese più di quello che si era incassato vendendo l’operatore dominante. Dopo di che, comunque, l’operazione fu un fallimento, quindi ri(s)venduta a privati. E ora l’idea è quella di ricomprare gli impianti che furono comprati e (s)venduti. Possibile che nessuno salti sulla sedia e si metta a urlare?

Non è escluso, dicono, che in futuro si comprino anche gli impianti di Ei Towers, vale a dire quelli che servono le reti Mediaset. Operazione da macchina del tempo, perché aveva un senso farla trenta anni addietro. Ma non si fece, perché era contraria la Rai. Credo fossero contrari anche quelli di Fininvest (il nome di allora), ma non ebbero neanche bisogno di dirlo. Oggi a cosa serve, la santa alleanza, a fermare i concorrenti? Tranquilli: entrano dalla voragine digitale. Perché certi costumi no, ma il resto del mondo è cambiato.

Infine, sapete da cosa deriva la forte posizione di Rai Way, nel mercato degli impianti di trasmissione? Certamente dagli investimenti Rai e dall’alto valore dei suoi tecnici. Ma anche dal fatto che la Rai ha costantemente violato le regole nazionali ed europee relative all’uso e all’occupazione delle frequenze. Compreso il fatto che interi settori, come la radio digitale (Dab), non sono mai decollati dato che continuava ad occupare spazi che il piano di ripartizione destinava ad altri usi e ad altre imprese.

È largamente probabile che alcuni degli attuali governanti neanche conoscano la metà di queste storie. Come è probabile che qualcuno, nel 2017, dirà che la quotazione fu una scemenza distruttiva di valore, capace solo di rendere meno interessante l’operazione che andrebbe, invece, fatta: la vendita della Rai. Mi limito ad avvertire che sarà un filino tardi.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Anni di tagli alla spesa pubblica non compensano il calo del Pil. È la rozza sintesi della lunga crisi italiana, che si avvita su se stessa nel titanico sforzo di rientrare nei fatidici “parametri europei”. Solo la risalita del Pil potrebbe invertire le tendenza. Ma se il Pil non risale? Noi inesperti di economia ci permettiamo di domandarsi dove sta scritto che la produzione di beni e di ricchezza sia soggetta sempre e comunque a riprendere la sua corsa verso “le magnifiche sorti e progressive”. Nella Ginestra Leopardi usò quella fortunata espressione come amaro dileggio del cieco ottimismo umano. Liquidarlo come gufo – specie oggi che Leopardi è diventato ‘quasi pop’ anche grazie al bel film di Martone – non è un’operazione agevole.

Si vorrebbe tutti essere speranzosi e di buon umore, ma il sospetto che l’uscita dalla crisi si fondi su una sorta di ‘pensiero magico’, secondo il quale se oggi piove domani è automatico che ci sia il sole, è piuttosto forte. Nel frattempo, sempre da inesperti che si inchinano all’alto magistero di chi sa bene come funzionano le cose, qualcuno a Strasburgo o nelle varie capitali europee si sta chiedendo che fare se perfino in Germania il buon vecchio Pil si rifiuta, come un somaro recalcitrante, di rimettersi in moto. Esiste un piano B?

Ecco perché il Tfr in busta costa caro al lavoratore

Ecco perché il Tfr in busta costa caro al lavoratore

Paolo Baroni – La Stampa

Il Tfr un busta paga può certo far comodo, soprattutto ai redditi più bassi, ma è anche vero che rischia di creare un grosso buco nelle pensioni future, come ha denunciato lunedì Bankitalia. Quanto grosso? Proviamo a mettere assieme due conti.

Ipotizzando un salario netto di 1.650 euro (30 mila euro lordi/anno ) scegliendo di dirottare il Tfr in busta paga, secondo i calcoli dell’economista Stefano Patriarca pubblicati su lavoce.info, in 4 anni si incassano 9.232 euro, in pratica 164 euro in più al mese per 14 mensilità. Di contro, però, con 35 anni di anzianità il nostro lavoratore tipo, non iscritto alla previdenza complementare, a fine carriera oltre a maturare una pensione pari a 1.511 euro mensili dovrebbe rinunciare a circa 15 mila euro di liquidazione incassando 90.247 euro anziché i 105.227.

Nel caso di un lavoratore iscritto alla previdenza complementare l’impatto dell’operazione-Tfr, anziché sulla liquidazione, sarebbe sull’assegno integrativo. Ed anche in questo caso la perdita è evidente. Un lavoratore che non prende il Tfr in busta paga e dirotta sul fondo integrativo Tfr contributi dell’azienda e suoi contributi, dopo 35 anni ottiene un assegno mensile pari a 752 euro (346 con 20 anni di contributi). Chi prende il Tfr in busta paga per 4 anni rinuncia a circa 100 euro al mese di pensione integrativa: percepirà infatti un assegno di 651 euro al mese anziché di 752 (da sommare sempre alla pensione principale da 1.511 euro/mese).

Non sorprende dunque se il Mefop, la società che ci occupa dello sviluppo dei fondi pensione, ha buon gioco a sostenere che la previdenza complementare per un lavoratore è comunque sempre il miglior investimento. Quello che sorprende, forse, è che stiamo parlando di una società controllata dal ministero dell’Economia. E si badi bene: la convenienza, sostengono al Mefop, resta anche a fronte dell’aumento al 20% delle tasse sui fondi pensione. In questo caso i calcoli prendono in considerazione uno stipendio lordo iniziale di 18mila euro che cresce di un 1% medio annuo, una inflazione media annua del 2% ed un rendimento lordo del fondo pensione e del Tfr del 3% annuo: la scelta del Tfr in busta paga assicura 61,88 euro al mese per 14 mensilità, che in 5 anni diventano 4.331. Tenere in azienda questo Tfr per 5 anni prima di andare in pensione genera invece 5.532 euro netti di capitale, mentre investirlo in un fondo pensione ne frutta 6.096. Se la misura di anticipo del Tfr non fosse a termine, come chiede esplicitamente la stessa Banca d’Italia, in 10 anni si otterrebbero invece 8.663 euro in più di stipendio a fronte di 12.859 euro che verrebbero accumulati in azienda e 14.063 capitalizzati nel fondo pensione. Con un reddito di 25 mila euro, si otterrebbero invece 6.015 euro cash, a fronte rispettivamente di 7.602 e 8.467 euro dopo 5 anni di versamenti in azienda o nel fondo pensioni. Che diventano 12.033 di stipendio in più dopo 10 anni, a fronte di 17.692 euro accumulati in azienda e ben 19.532 euro prodotti grazie al fondo pensione.

Se oltre al Tfr si calcolasse anche la contribuzione del datore di lavoro e quella del lavoratore, più aumentano gli anni di contribuzione e ovviamente più la forbice si allarga. Il «top» si tocca con 40 anni di versamenti: il Tfr in busta paga (con 25 mila euro di reddito) varrebbe 57.881 euro (103 euro netti in più al mese) a fronte dei 167.948 che si otterrebbero lasciando il Tfr in azienda ed i 271.678 della previdenza integrativa. Che in base alle attuali regole corrispondono ad una rendita annua di 16.840 euro oppure in 135.800 euro di capitale più una rendita annua di 8.419 euro. Allora, conviene il Tfr in busta paga? Secondo la società del Tesoro assolutamente no.

Con i sindacati un gioco a perdere

Con i sindacati un gioco a perdere

Luca Ricolfi – La Stampa

La nebbia che per settimane ha circondato la Legge di stabilità si sta finalmente diradando. Dopo le slide, i tweet, gli slogan, le promesse in tv di Renzi e dei suoi ministri, un po’ di chiarezza la stanno facendo gli altri. Dove per «altri» intendo soggetti leggermente più inclini a dire la verità, come l’Istat, la Banca d’Italia, la Commissione europea. E la verità che emerge, non detta a chiare lettere ma neppure nascosta, è decisamente deprimente: la manovra del governo non è né buona né cattiva, è semplicemente debole, molto debole. Nulla, nella Legge di stabilità, autorizza a pensare che, grazie ad essa, le cose possano andare in modo sostanzialmente diverso e migliore di come sarebbero andate senza.

Dicendo questo, naturalmente, non mi riferisco agli interessi particolari, che sono invece ben tutelati o colpiti come è sempre successo: i lavoratori dipendenti avranno la conferma del bonus, gli statali l’ennesimo blocco degli scatti stipendiali; le imprese pagheranno un po’ meno Irap e contributi, i risparmiatori pagheranno più tasse; i cittadini avranno peggiori servizi (per la riduzione dei fondi a Regioni, Province, Comuni), ma le mamme avranno il bonus bebè.

Tutto questo è normale, ogni governo si procaccia il consenso come può e come vuole, e la manovra di fine anno (che ora si chiama Legge di stabilità) serve innanzitutto a questo. Quello che non è normale, ed è anzi molto deludente, è che così poco si riesca a intravedere sul piano dell’interesse generale. La manovra è debole non perché favorisce alcuni e danneggia altri, ma perché il futuro che le tabelle della Legge di stabilità ci consegnano pare proprio essere la continuazione del nostro triste presente.

Per avere la prova di quel che dico c’è un mezzo semplicissimo: controllare che cosa si prevede sul versante fondamentale per il futuro dell’Italia, che è quello dell’occupazione. Ebbene, con 3 milioni di disoccupati e un tasso di occupazione fra i più bassi del mondo sviluppato, il governo prevede che nel 2015 l’occupazione aumenti dello 0,1%, e nel 2016 dello 0,5%, mentre l’Istat, che è un po’ più ottimista del governo, prevede un aumento dello 0,2% nel 2015 e dello 0,7% nel 2016.

Sono in entrambi i casi cifre irrisorie, che non incidono sul tasso di disoccupazione, e prospettano per l’Italia un futuro di stagnazione. Un futuro che, in realtà, potrebbe risultare anche più cupo se si considera che già fra 14 mesi potrebbero scattare gli aumenti dell’Iva e di altre tasse (messi in conto dalle «clausole di salvaguardia» della Legge di Stabilità), e che tutte le previsioni del governo sono state formulate prima che l’Europa ci obbligasse, in barba alle battute polemiche di Renzi, a ripiegare su una manovra meno espansiva.

In questa situazione non stupisce che gli unici a compiacersi delle scelte del governo siano gli industriali (il presidente Squinzi ha detto che «la manovra toglie il freno al Paese»), e che i sindacati siano in difficoltà. Gli industriali apprezzano il fatto che, con la riduzione dell’Irap e l’eliminazione dei contributi per i neoassunti, sia arrivato anche il loro turno: una boccata d’ossigeno per i conti delle imprese, dopo quella che il bonus da 80 euro ha dato ai conti delle famiglie. Così come apprezzano che con il decreto Poletti, e presumibilmente con il Jobs Act, la disciplina dei licenziamenti stia evolvendo in modo più favorevole alle imprese.

I sindacati, invece, soffrono come non mai perché Renzi, con il bonus da 80 euro e la polemica anti-casta, li ha messi in trappola. Vorrebbero marciare contro il governo (e lo faranno, presumo), ma sanno anche che una parte considerevole dei lavoratori dipendenti (la maggioranza?) non li seguirebbe, perché sta con Renzi. E ci sta per due elementari motivi, uno materiale e l’altro estetico: il bonus da 80 euro, che fanno sempre comodo, e il piacere di vedere un premier-ragazzo che fa il bullo con i vecchi tromboni della politica, siano essi parlamentari, sindaci, governatori o sindacalisti.

Di qui lo stallo. Renzi, dei sacrosanti diritti dei lavoratori, e delle gloriose conquiste di quarant’anni di lotte, se ne fa un baffo. Da parte loro i sindacati sembrano pensare solo a quello: sacrosanti diritti e gloriose conquiste. Non paiono rendersi conto che quel che non va bene nella politica di questo governo non è che cancella il mondo incantato dello Statuto dei lavoratori, ma che non ne offre in cambio un altro che funzioni. Il dramma della Legge di stabilità è che essa certifica proprio questo: anche fra qualche anno, nonostante migliaia di atti di legge e la riforma del mercato del lavoro, l’Italia avrà 3 milioni di disoccupati, e più o meno lo stesso numero di occupati di oggi.

Da questo punto di vista Renzi e i sindacati non sono nemici, ma parti in commedia dello stesso gioco infernale. Un gioco in cui sembra che tutto, nel bene e nel male, dipenda dall’articolo 18, mentre le tabelle della Legge di stabilità mostrano che non è così. Le vecchie regole del mercato del lavoro possono avere depresso l’occupazione, ma le fosche previsioni delle tabelle ministeriali svelano che le nuove regole del Jobs Act non basteranno a far «cambiare verso» all’Italia.

Il guaio è che né il governo, né il sindacato, hanno il coraggio di prendere atto che il problema dell’occupazione è un problema di costi, prima ancora che di regole. Il governo teme di non avere i soldi per abbassare veramente e stabilmente il costo del lavoro, e infatti prevede una decontribuzione limitata alle assunzioni del 2015, con un budget decisamente insufficiente (1,9 miliardi nel 2015). Il sindacato teme, e in questo ha perfettamente ragione, che la decontribuzione si limiti ad alleggerire i conti aziendali, senza creare occupazione addizionale. Entrambi appaiono sordi e ciechi di fronte al vero problema: che non è regolare i diritti di chi un lavoro già ce l’ha, ma di occuparsi dei milioni di italiani che un posto di lavoro non ce l’hanno.

Per crescere tagliare più spese

Per crescere tagliare più spese

Stefano Lepri – La Stampa

No, la manovra di bilancio del governo Renzi non è «espansiva». Avrebbe potuto essere nettamene restrittiva se si fosse dato ascolto in pieno alle richieste della Commissione europea uscente, a José Barroso e a Jyrki Katainen. E quando, a ragione, giudichiamo esagerati i loro timori, ricordiamoci che del tutto infondati purtroppo non sono. La capacità dei governi italiani di contrastare la recessione con interventi di bilancio (meno tasse, o investimenti utili) è pesantemente limitata dal fardello di debito pubblico che ci portiamo addosso. Pesa l’eredità di scelte sbagliate dei governi passati; soprattutto negli anni dal 1981 al 1991 e dal 2000 al 2004.

Nel momento attuale, con tassi di interesse bassissimi in tutto il mondo, è lontano il pericolo che il debito italiano diventi instabile; più remoto, appunto, di quanto si ostinino a credere alcuni a Bruxelles e molti a Berlino. Inoltre è poco probabile che si ripeta una crisi interna all’area euro come quella del 2011-2012. Tuttavia, l’Italia deve esercitare prudenza. Sarebbe eccessiva l’austerità impostaci dal «Fiscal Compact» europeo; la Banca d’Italia conferma che ritiene giustificato non rispettarla. Ma, come Ignazio Visco avvertiva venerdì scorso, una manovra apertamente espansiva adottata dalla sola Italia potrebbe «dar luogo a reazioni negative da parte dei mercati».

Così com’è all’esame del Parlamento, la legge di stabilità 2015 è espansiva solo nel senso improprio di accrescere il deficit rispetto alle leggi vigenti (riduce le tasse più di quanto riduca le spese, se si considerano gli 80 euro come sgravio). In senso proprio, si limita a «rallentare il processo di aggiustamento dei conti pubblici»; in assoluto il deficit continua a ridursi, su questo si fonda anche il giudizio dell’Istat. All’interno dei vincoli dati, è possibile aiutare la crescita se si tagliano spese poco produttive sostituendole o con sgravi fiscali efficaci o con investimenti pubblici di qualità. Su questo è legittimo chiedersi se il governo abbia fatto abbastanza; specie dopo che ha accantonato proposte significative sulla spesa, quelle sulle partecipate locali e sulle stazioni appaltanti.

Dalla politica peraltro non vengono alternative valide. La destra, a cui il presidente del Consiglio ha sottratto uno dei cavalli di battaglia, il calo dell’Irap, si mobilita contro le tasse sulla casa: ma a parità di risorse è molto più efficace sulla crescita pagare meno Irap o altri tributi sul reddito. Movimento 5 stelle e Lega Nord vorrebbero uscire dall’euro: però oggi se fossimo fuori il costo del debito sarebbe quasi certamente più alto, non più basso. L’opposizione di sinistra, ossia la Cgil, vorrebbe un piano massiccio di investimenti pubblici finanziato da una patrimoniale. A parte le ben note (anche a tecnici di sinistra) difficoltà di tassare patrimoni diversi dagli immobili, occorre riflettere su un recente sondaggio: in grande maggioranza gli italiani ritengono che per ridurre gli squilibri sociali sia meglio calare le tasse ai poveri che aumentarle ai ricchi.

Costruttive invece sono le obiezioni venute ieri dalla Banca d’Italia, sul limitato valore di alcune misure, sui possibili inconvenienti di altre. Indicano una urgenza di riforme più profonde, piena responsabilità tributaria degli enti locali, maggiori ambizioni di rinnovamento della scuola. Più oltre, nel 2016 e 2017, i conti tornano solo grazie ad una «clausola di salvaguardia» che impone gravosi aumenti di tasse (Iva al 25% e oltre) qualora non si riesca a ridurre le spese. Quella distanza di tempo è il luogo dove si incrociano le grandi variabili del nostro futuro: se cambierà l’Italia, se si romperà la gabbia di sfiducia tra Stati che soffoca l’Europa.

L’Europa dei burocrati ci ha tradito

L’Europa dei burocrati ci ha tradito

Gaetano Pedullà – La Notizia

Dovrebbero fargli una statua a Renzi. E invece a Bruxelles fanno gli offesi a sentirsi chiamare euroburocrati. Spiegano che se avessero dovuto valutare i conti italiani burocraticamente ci avrebbero bocciato. Dunque, sostengono, la loro è una valutazione politica. Una bella politica quella che ci impone da anni tasse a non finire, che ci ha messo in ginocchio, che ha innescato un ciclo recessivo da cui chissà quando e come ne usciremo. Questa Europa che ha tradito i suoi Paesi, non aprendo l’ombrello quando la Grecia affondava, continuando a tenere la Banca centrale inerte mentre Usa e Giappone stampano moneta e oggi possono dare ai loro giovani prospettive ben diverse da quelle che abbiamo noi qui in Europa. A questi burocrati – perché questo sono e non c’è nulla di male a chiamarli con il loro nome – per la prima volta un governo italiano sta chiedendo rispetto. Abbiamo avuto premier che hanno fatto i camerieri alla Merkel e a Barroso. È chiaro che non sono abituati a vederci con un po’ d’orgoglio nazionale. Renzi poi sarà discutibile e pieno di sé, ma visto cosa hanno portato a casa i suoi ultimi predecessori più buio di mezzanotte non può fare.

Gli Abs per spingere la ripresa? Tokyo ci ha provato ma la Banca del Giappone non sa ancora se è servito a qualcosa

Gli Abs per spingere la ripresa? Tokyo ci ha provato ma la Banca del Giappone non sa ancora se è servito a qualcosa

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il piano di acquisto di titoli Abs (Asset Ibacked securities, ossia titoli ‘cartolarizzati’ basati su attività reali) da parte della Banca centrale europea è in rampa di lancio. Francoforte ha annunciato che lo ‘shopping’ inizierà a novembre, «dopo la pubblicazione della documentazione legale». Gli acquisti verranno eseguiti, per conto della Bce, da quattro società – Amundi Intermédiation, Deutsche Asset & Wealth Management International, Ing Investment Management e State Street Global Advisors – selezionate con gara. Le operazioni verranno effettuate per un anno su «esplicite istruzioni» del Consiglio Bce. Prima di approvare le transazioni, la Bce condurrà l’appropriata ‘due diligence’ e i controlli sui prezzi. L’autorizzazione agli acquisti sarà pubblicata sul sito della Bce ed entrerà in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione.

Sugli Abs ci sono ancora molti comprensibili timori. Non sono strumenti nuovi, dato che esistono da almeno 30 anni (nel 1996, Wiley and Sons, una delle maggiori case editrici di New York, ne pubblicava una voluminosa guida) ma sono considerati uno degli elementi di quella «esuberanza irrazionale» che ha contagiato i mercati negli anni Novanta portando alla crisi scoppiata nel 2007. Ciò spiega le perplessità espresse da componenti degli organi di governo della Bce. Ma sono poche le esperienze di Abs utilizzati da banche centrali per fare uscire le banche e le imprese dalla ‘trappola della liquidità’. Altra ragione che spiega la ritrosia di alcuni Stati membri dell’Eurozona. L’esperienza più lunga (e più pervicace) è quella della Bank of Japan che, dal 1999, ha utilizzato gli Abs, a più riprese e con varie modalità. Non è esperienza facile da studiare, sia perché gran parte degli studi sono in giapponese sia a ragione delle profonde differenze del sistema istituzionale nipponico rispetto a quello europeo.

Nel 2010, in un lavoro per una conferenza internazionale tenuta a Boston, Kazuo Ueda dell’Università di Tokyo (uno degli economisti giapponesi più autorevoli in materia) concludeva che gli Abs non avevano dato nessun contributo di rilievo ai mercati del Paese ed a cenni di ripresa. Più incoraggiante un lavoro pubblicato a marzo su ‘Economics World’ da Yutaka Kurihara di Aichi University a Nagora. Lo studio conclude che gli Abs «hanno contribuito a stabilizzare i mercati finanziari ed a fornire supporto a piccole e medie imprese» (ovviamente in Giappone). In breve hanno avuto un’utile funzione di «ponte». In Europa funzioneranno? Per capirlo serviranno verifiche periodiche.