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Il Pil “oscuro” vale 52 miliardi

Il Pil “oscuro” vale 52 miliardi

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

C’è un Pil buono, che misura gli investimenti virtuosi in Ricerca e Sviluppo. Nei dieci big europei vale 206 miliardi di euro e consente di raggranellare l’1,8% in più di ricchezza nazionale. Ma c’è anche un Pil cattivo, stimato in circa 52 miliardi, che per la prima volta considera le attività illegali: droga, prostituzione e contrabbando di alcol e sigarette. Con un contributo alla crescita dello 0,44 per cento. Da settembre le due facce della medaglia sono state incluse nel calcolo della ricchezza nazionale, con l’entrata in vigore delle nuove regole di contabilità europee del Sec 2010, sulla scia della revisione degli standard internazionali. Una boccata di ossigeno per i conti pubblici in tempi difficili, con l’obiettivo di una maggiore comparabilità dei dati. In attesa della prima comunicazione di Eurostat sul nuovo Pil prevista per venerdì 17 ottobre, Il Sole 24 Ore ha compiuto un viaggio virtuale tra gli Istituti nazionali di statistica delle 10 maggiori economie europee.

La palma per gli investimenti in R&S va alla Svezia: qui le spese per l’innovazione fanno crescere il Pil del 3,7%. Al polo opposto la Polonia, dove ci si deve accontentare di un magro 0,6 per cento. In termini assoluti primeggia però la Germania, con 54,7 miliardi di spinta dall’hi-tech, seguita dalla Francia. L’Italia è al quarto posto, con 20,5 miliardi, con un guadagno dell’1,3 per cento. «Sulla contabilizzazione delle spese di R&S – spiega Gian Paolo Oneto, direttore centrale della contabilità nazionale dell’Istat – la comparabilità tra i Paesi Ue è completa. È invece più difficile riuscire a intercettare la portata economica delle attività illegali, anche perché ognuno ha le proprie specificità di status legale di alcune di esse. Il ruolo di Eurostat sarà decisivo per arrivare a una maggiore convergenza dei sistemi di misurazione». Le stime fornite dai vari Paesi presentano infatti ordini di grandezza ancora difficili da comparare.

La forbice va dallo 0,9% del Pil di Italia e Spagna allo 0,1% di Francia e Germania. Roma e Madrid seguono alla lettera le regole di Sec 2010, mentre Parigi e Berlino si fermano al mercato degli stupefacenti. Così in Italia, dove le attività fuorilegge valgono 15,5 miliardi, la commercializzazione della droga vale da sola 10,5 miliardi, mentre la prostituzione pesa sui nuovi conti per 3,5 miliardi, e il contrabbando contribuisce per 300 milioni. In Spagna l’economia illegale frutta 9,4 miliardi all’anno e il commercio di droga, tra hashish, cocaina, eroina, ecstasy, amfetamine e Lsd, vale da solo mezzo punto di Pil. «Per quanto ci riguarda – spiega Oneto – il lavoro più complesso ha riguardato le stime sulla prostituzione: al contrario del mercato della droga dove ci sono forme di contrasto estremamente organizzate, qui abbiamo meno informazioni e abbiamo proceduto con le stime dal lato dell’offerta, ovvero del numero di prestazioni e dei prezzi medi. I dati forniti dalle associazioni private di assistenza che si occupano di questi fenomeni hanno avuto un ruolo importante». In termini assoluti al secondo posto dopo l’Italia c’è la Gran Bretagna con un impatto di 10,7 miliardi.

In Francia, come sottolinea Eric Dubois, direttore delle analisi economiche dell’Insee, il mercato degli stupefacenti vale circa 2 miliardi. Nel Paese, invece, la prostituzione è legale, ma non lo sfruttamento. «I ricavi derivanti dalla prostituzione esercitata in un contesto legale ma non dichiarati – precisa Dubois – sono già inclusi nel Pil da tempo e confluiscono nelle stime sul sommerso. Riteniamo invece che la prostituzione clandestina non debba essere considerata nel calcolo perché coinvolge in genere immigrati clandestini che operano in reti criminali». Anche in Germania, sottolineano dall’Ufficio di statistica, la prostituzione non è proibita e le stime sull’impatto di questo mercato sono già incluse nel Pil, mentre il contrabbando di alcol e sigarette «non ha un impatto economico dati i prezzi relativamente bassi». Resta il mercato della droga che vale 1,52 miliardi. In Olanda a trainare il Pil “cattivo” è il valore aggiunto del mercato della cannabis che “regala” 1 miliardo di ricchezza in più su un tolale di 2,6 miliardi derivanti dalle attività illegali. Qui l’eroina pesa il triplo dell’ecstasy: 317 contro 103 milioni.

Non era espressamente richiesto dal Sec 2010, ma alcuni Uffici di statistica, come quelli italiano e francese, hanno approfittato della revisione per aggiornare le stime sull’economia sommersa. Roma ha aggiornato al ribasso la previsione: da una forbice finora compresa tra il 16,3 e il 17,5% all’11,5%, che resta comunque il livello più alto tra i dieci Paesi considerati. In Francia, invece, la zona d’ombra rappresenta il 3,4% del Pil e frutta un bottino di 68,1 miliardi. In Belgio l’economia nascosta è stata inclusa per la prima volta nel calcolo della ricchezza nazionale e vale 696 milioni, lo 0,2%, la percentuale più bassa dei top 10. In Germania, Olanda e Spagna, il dato viene stimato ma resta top secret. Qui la strada per l’armonizzazione delle regole resta in salita.

L’innovazione può aprire nuove opportunità

L’innovazione può aprire nuove opportunità

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Chiunque lavori con il mondo industriale italiano rileva, in questi ultimi anni, un crescente interesse per la Cina, invocata come investitore risolutivo dei problemi di casa nostra e come mercato capace di risolvere i problemi della nostra domanda interna. Il mercato cinese è per molte categorie merceologiche il primo al mondo, per i numeri della sua popolazione e di una classe media che ormai veleggia verso i 200 milioni di persone (con proiezioni di raddoppio nei prossimi dieci anni). In verità, le nostre imprese hanno colto solo in parte questo potenziale; competitivi nel fashion e in alcuni specifici comparti dell’automazione, abbiamo ancora molto da migliorare (e imparare) nei settori a più alto contenuto di tecnologia. Esportiamo in Cina un terzo di quanto fa la Germania (13 miliardi di dollari) e il 20% in meno della Francia per quanto riguarda i macchinari elettrici. Anche in un’eccellenza “nascosta” come il biomedicale i dati potrebbero essere migliori: esportiamo più di 750 milioni di dollari contro i 2,4 miliardi della Germania e i 5 del Giappone; siamo meglio di Francia e Spagna, ma esportiamo meno della Russia (1,2 miliardi). Vanno meglio le cose nei macchinari per l’agroalimentare: nel 2013 le nostre imprese hanno esportato macchinari per il food processing per oltre 40 milioni di dollari, contro i 130 milioni della Germania, ma più di Francia, Spagna e Regno Unito. È però emblematico che la Germania esporti in Cina oltre 30 milioni di dollari in macchinari per la produzione di spaghetti e prodotti da forno, mentre noi solo 7 milioni.

A qualcuno potrebbe venire in mente che questo deficit di competitività commerciale non sia tutto sommato così penalizzante. Al contrario: la Cina si sta trasformando in modo molto significativo: in particolare, ha un enorme bisogno di aumentare la sua produttività (i costi del lavoro non sono più competitivi con quelli di Indonesia, Thailandia eccetera), di investire in tecnologie ambientali – per far fronte ai gravi danni arrecati in questi decenni all’eco-sistema locale -, deve realizzare un piano energetico in grado di far fronte all’enorme crescita dei consumi interni e molto altro. Si aprono, dunque, nuove prospettive e mercati per il nostro export proprio per l’attenzione che la Cina sta dedicando al tema dell’innovazione.

Se l’Italia vuole allora sperare di poter annoverare il mercato cinese tra quelli di riferimento – e lo deve fare – deve cambiare passo per colmare quel gap di competitività commerciale che caratterizza i nostri settori a più alto contenuto tecnologico. Politica e mondo industriale debbono viaggiare sempre di più a braccetto; fare business in certi settori in Cina (l’energia, per esempio) richiede in primo luogo che il Governo “apra la strada” dal punto di vista politico alle nostre imprese. È necessario, nella logica di focalizzazione degli sforzi, che si individuino le priorità: tecnologie agro-alimentari, aerospazio, ambiente ed energia, design, architettura, sanità e tecnologie per l’automazione industriale. È ugualmente importante che la politica investa sulle università italiane assegnando a quelle meritevoli il ruolo di ambasciatori delle nostre tecnologie: da oltre quarant’anni la Germania ha aperto centri di ricerca e università in partnership con i cinesi e ora molti laureati dell’ex Impero di Mezzo comprano tecnologia tedesca.

Occorre, infine, tener presente che in Cina non funziona la politica dei piccoli progetti; occorre pensare in grande ed essere ambiziosi, facendo leva sulle eccellenze industriali e tecnologiche che il nostro Paese riesce a esprimere. Il Governo cinese ha varato un piano da 400 miliardi di dollari sulle smart grid; l’Italia deve proporsi come partner tecnologico per la progettazione e realizzazione di queste reti intelligenti. Pensando al tema ambientale, deve portare le sue esperienze di trattamento dell’aria e di gestione dei rifiuti per contribuire ad affermare un nuovo modello di urbanizzazione sostenibile, molto importante per i cinesi.

Ce la possiamo fare? Ritengo di sì; negli ultimi mesi il ministero degli Affari esteri, d’intesa con il Miur e sotto la regia del Governo, ha avviato un tavolo con le università italiane per la redazione della strategia nazionale di cooperazione scientifica e tecnologica con la Cina, nella prospettiva di generare ricadute industriali al nostro sistema. Una ripartenza che verrà suggellata il 16 ottobre al Forum dell’Innovazione che si terrà al Politecnico di Milano e vedrà la presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e del primo ministro cinese, Li Keqiang. Occorre, ora, non mollare la presa.

Il tfr di Pantalone

Il tfr di Pantalone

Tito Boeri – La Repubblica

In queste ore il governo sta decidendo se varare l’operazione Trattamento di fine rapporto in busta paga. Nell’ambito di una legge di stabilità che si annuncia di basso profilo (solo 5 miliardi dalla spending review al posto dei 20 annunciati!), questo potrebbe essere l’unico provvedimento di un certo rilievo. Servirebbe per rilanciare i consumi rimpinguando gli 80 euro in busta paga. Il tutto con effetti contenuti sul disavanzo, destinato già ad aumentare fino a sfiorare il vincolo “invalicabile” del 3 per cento. Insomma, sembra la famosa quadratura del cerchio. Purtroppo non è così. Prima di spiegare perché e cosa si può fare in alternativa, bene chiarire quali sono le ipotesi allo studio, scusandoci in anticipo col lettore perché sono molto complicate.

Il Tfr lasciato in azienda è una fonte di finanziamento a basso costo per le imprese. Le aziende maggiormente coinvolte in questa operazione hanno meno di 50 dipendenti e sono quelle che hanno più problemi di accesso al credito. Per evitare di sottrarre loro liquidità, il governo intende chiedere alle banche di versare questi soldi ai lavoratori utilizzando a tal fine i fondi presi a prestito dalla Bce a tassi TL-TRO cioè uLTRavantaggiosi, diventando così creditrici delle imprese, al posto dei lavoratori. Si pensa inoltre di dare ai lavoratori la facoltà di scegliere se incassare questi soldi oppure lasciarli in azienda o presso il fondo istituito presso l’Inps per replicare i rendimenti del Tfr. Non avrebbero invece questa facoltà i lavoratori che hanno dirottato il trattamento di fine rapporto verso la previdenza integrativa.

Il Tfr esiste dal 1942 e non è certo la prima volta che un governo accarezza l’idea di cambiarne la destinazione d’uso per sostenere la domanda. Ma questa volta si fa sul serio e proprio a ridosso di una riforma che ha deciso che il Tfr doveva servire per alimentare la previdenza integrativa. Di più, i lavoratori che hanno messo i soldi in fondi pensione, seguendo i suggerimenti degli stessi partiti che oggi appoggiano Renzi, sono trattati peggio. Infatti non viene loro offerta la possibilità, concessa invece agli altri lavoratori, di attingere a questi accantonamenti, in caso di bisogno. Perché li si esclude? Apparentemente per non contraddire troppo la riforma del 2007. Ma ci si dimentica che questa scelta spingerà altri lavoratori a non alimentare col Tfr la previdenza integrativa. La liquidità è un bene prezioso, soprattutto di questi tempi. La prospettiva di investimenti molto liquidi rischia di dissuadere i giovani, destinati ad avere pensioni pubbliche molto più basse di chi si ritira oggi dalla vita attiva, dall’investire nella previdenza integrativa. In un Paese che ha smesso di crescere, la previdenza integrativa è ciò che può tutelare le pensioni future dei giovani. Negli ultimi 13 anni i fondi negoziali hanno offerto un rendimento cumulato nominale del 49% contro il 30% circa offerto dai contributi alle pensioni pubbliche; negli ultimi 3 anni, poi, il rendimento più basso offerto da un fondo pensione negoziale è stato del 4,5% (comparto garantito), mentre i contributi previdenziali sono stati virtualmente capitalizzati a meno dell’1 per cento.

Non pochi lavoratori che hanno sin qui optato per tenere il Tfr in azienda lo hanno fatto perché il trattamento di fine rapporto è un deterrente ai licenziamenti. Un’impresa che deve scegliere chi licenziare presumibilmente opterà per il lavoratore al quale non deve versare la liquidazione, soprattutto se le imprese faticano a finanziarsi. Coinvolgendo un terzo attore, le banche, che dovrebbero ereditare il debito dell’impresa verso il lavoratore, questo deterrente, che risponde alla logica delle compensazioni monetarie a chi perde il lavoro anziché della reintegra che il governo intende abolire, viene a cessare. Il tutto in virtù di un sostegno pubblico, non di un accordo fra una banca e un’impresa privata. Infatti il governo, per invogliare le banche a partecipare a questa operazione, dovrà offrire loro la garanzia che, in caso di fallimento dell’impresa, sarà Pantalone a farsi carico del debito contratto dall’azienda nei confronti dell’istituto di credito. È una garanzia che rischia di essere molto costosa perché saranno soprattutto i lavoratori di imprese che stanno per portare i libri in tribunale a optare per incassare subito il Tfr.

Per queste ed altre ragioni (ricapitolate su lavoce.info) non si vede perché mettere in piedi un’operazione intricata – che coinvolge banche, Bce e Cdp – per modificare nuovamente le norme sulla previdenza integrativa rendendole (credevamo non fosse possibile) ancora più complesse di prima. Il tutto con il rischio di apparire come un governo che non esita a rendere più facili i licenziamenti e ad approfittare delle documentate scarse capacità degli italiani di pianificare i loro risparmi, pur di incassare tasse più alte dal Tfr (il prelievo su rendimenti finanziari dei fondi pensione è dell’11,5% mentre il Tfr in busta paga verrebbe tassato mediamente al 23%). Se, come crediamo, il vero intento dell’esecutivo è quello di sostenere la domanda, bene che sia consapevole del fatto che i soldi dati in busta paga verranno spesi solo se percepiti non come un dono effimero, destinato a essere ripagato un domani con tasse più alte, ma come un aumento permanente del reddito disponibile. Con tutta la buona volontà, è difficile credere che un’architettura così bizantina come quella allo studio possa reggere nel tempo.

Se proprio si vogliono mettere più soldi in busta paga, meglio piuttosto ridurre i contributi dei lavoratori dipendenti all’Inps. Si può, ad esempio, abbassarli di cinque punti, portandoli ai livelli del lavoro parasubordinato. Servirà anche a riequilibrare il sistema previdenziale tra pubblico e privato. Non è un’operazione che aumenti il debito pubblico perché ormai tutti versano in un sistema contributivo in cui minori entrate oggi nelle casse dell’Inps saranno un domani compensate da spese più basse. La Commissione Europea, che ha più volte elogiato il nostro sistema contributivo lamentando semmai il fatto che sia entrato in vigore troppo tardi, potrà accettare un disavanzo oggi più alto che viene automaticamente coperto da minori disavanzi futuri. Tra l’altro, tagliando in modo equo le pensioni più alte per fiscalizzare i contributi dei lavoratori con salari più bassi, come già proposto su queste colonne, si otterrà il duplice effetto di contenere gli effetti temporanei sul deficit e salvaguardare le pensioni più basse. Il tutto in modo sostenibile, dunque credibile, e senza mettere di mezzo la Cassa Depositi e Prestiti.

Fisco, clima da DDR: un milione di italiani ha denunciato i vicini

Fisco, clima da DDR: un milione di italiani ha denunciato i vicini

Andrea Cuomo – Il Giornale

Un milione di spiate dal valore di 164 milioni di euro e spiccioli. È la delazione fiscale, bellezza. Un modo per far trionfare l’onestà, certo. Ma chissà quanti sassolini dalle scarpe si saranno tolti quegli italiani che hanno scritto al sito evasori.info per denunciare il commerciante, l’artigiano, il professionista poco incline alla ricevuta fiscale. Siamo nell’anno di grazia 2014 e se il ristoratore non ti ha portato lo scontrino, soffiandoti il conto nell’orecchio con piglio da cospiratore, le cose sono due: o lo stronchi su TripAdvisor o gli mandi la finanza elettronica. Comunque ti godi l’acre sapore della vendetta senza nemmeno muoverti da casa.

C’è un mood un po’ da Germania dell’Est nell’elaborazione dei dati di evasori.info fatta dall’agenzia AdnKronos. Quel clima plumbeo che ha ispirato narratori e registi, per cui in appartamenti incistati in falansteri da architettura socialista ciascuno diffidava del vicino di casa che avrebbe potuto spiarlo attraverso il muro di cartongesso per poi raccontare alla Stasi, la polizia segreta, che con la moglie si era lamentato della mancanza dei cetriolini sottaceto giù al supermercato di zona. Ma se ci si libera di quel sapore un po’ ferroso da collaboratori del regime, ci si può congratulare con l’erario, che festeggia 164.860.730 euro di evasione fiscale potenzialmente recuperata grazie alle soffiate «spontanee» dei cittadini arrivate entro le ore 16 dello scorso 10 ottobre. I cittadini superonesti, oppure vendicativi, se la prendono soprattutto con i bar (33,2 per cento delle segnalazioni), con i ristoranti (12,2), con negozi di alimentari, bevande e tabacchi (9,6), con servizi per la persona (9,2) e con gli ambulanti (4,4). In termini di valore, però, le evasioni più ingenti sono quelle degli studi legali e notarili (35,8 per cento dell’ammontare totale), seguiti da medici e dentisti (7,4), ristoranti (5,9), bar (5,2), agenzie immobiliari (5,6) e servizi alla persona (5,2).

La ricerca individua anche le categorie meno inclini alla fattura o allo scontrino, che sono, nell’ordine: i servizi finanziari in provincia di Como, le agenzie immobiliari in provincia di Milano, medici e dentisti in provincia di Roma, i loro colleghi napoletani, rivenditori e meccanici di auto e moto in provincia di Roma, pubblicitari sempre in provincia di Roma, ristoranti in provincia di Milano, servizi immobiliari in provincia di Roma e bar in provincia di Roma. Una lista che mostra una maggiore propensione all’evasione nelle grandi città e al Nord. O forse una maggiore talento per la soffiata. Tra i comportamenti denunciati c’è di tutto: il barista che nella frenesia mattutina finge di dimenticarsi lo scontrino del tuo cappuccino&cornetto. Il dentista che per la lunga cura ortodontica di tuo figlio ti propone un doppio binario: una cifra A senza fattura e una cifra A+B con. Il cameriere che scrive il totale a penna sulla tovaglia di carta e si aspetta ovviamente il pagamento cash. E anche un buona mancia, che c’entra. Siamo mica nella Ddr!

Limbo-rating

Limbo-rating

Davide Giacalone – Libero

Siamo entrati nel limbo-rating, fra color che son sospesi. Venerdì doveva arrivare il giudizio di Moody’s sui conti italiani e la sostenibilità del debito, ma lo hanno rimandato. Ci si dorme lo stesso, ma un filo d’inquietudine m’ha preso quando ho sentito che il ministro dell’economia è tranquillo. Considerato che hanno declassato la Finlandia (da tre a due A), far spallucce non aiuta. L’inquietudine è cresciuta quando un rating è arrivato, accolto da un coro festoso: confermato il giudizio sull’Italia. Peccato sia una previsione negativa. L’agenzia canadese Dbrs è la più generosa con l’Italia, considerandoci ancora a livello A, sebbene “A-Low”, ma l’outlook, la previsione per il futuro è infausta. Dice che andremo peggio. La preoccupazione aumenta ancora una volta sentito il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che è sicuro del consenso che la Commissione europea accorderà alla nostra legge di stabilità. Potremmo star sereni, se non fosse che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ci avverte che la legge italiana non può essere già stata bocciata, dato che non è ancora stata scritta. Tradotto: stiamo trattando. E pensare che qualche illuso, lasciatosi affascinare dal dinamismo apparente, gli aveva suggerito di anticiparla all’estate. Macché, ci stiamo attardando, fino all’ultimo istante. Chissà che non sia anche per questo che Moody’s rinvia.

Non divinizzo certo i responsi delle agenzie, dopo avere collezionato dileggi per averne messo in luce conflitti d’interesse, scarsa credibilità e necessità di svincolare le decisioni sugli investimenti da quegli indici. Erano i mesi in cui ogni loro parola era considerata sentenza inappellabile e indicazione politica. Non dai (mitici) “mercati” o dalla speculazione: dalla sinistra. Che persi gli idoli ideologici s’era acconciata ai feticci mercanti. Non cambio giudizio, solo che i dubbi sul futuro sono quelli di cui qui scriviamo costantemente. Ci si trastulla con le parole, mentre i fatti marciano in altra direzione.

Sono mesi che si parla di tagli alla spesa pubblica, sostanza annunciata della legge di stabilità. Carlo Cottarelli ha preparato un piano, che non è stato neanche pubblicato. Il silenzio del commissario alla spending review ha accompagnato il suo ritorno al Fondo monetario internazionale, con una nomina voluta dal governo che gli chiedeva di tacere. Scambio occulto? Macché: baratto palese. Fin troppo. Alla fine, comunque, i tagli reali dovrebbero essere di 4 miliardi, altro che 10, o 20, come si vaneggiò nella calura.

Sono anni che si discute sul modello delle necessarie dismissioni per abbattere il debito pubblico, che intanto cresce per i fatti suoi, mentre i modelli sfilano ignudi di credibilità. Per passare ai fatti c’era il tempo conquistato dalle iniziative della Bce. Cosa siamo riusciti a fare? Abbiamo messo in difficoltà e attaccato la Bce. Ma non basta, perché il governo italiano stima il nostro debito pubblico al 131.6% del prodotto interno lordo, mentre il Fondo monetario internazionale lo colloca al 136.4, salvo correggersi e aggiornarlo al 136.7. Lavorano su dati diversi? Sarebbe davvero curioso.

Non siamo gli unici a fare i furbi con i conti, è che siamo fra i pochi a farlo da fessi. Il debito pubblico tedesco è all’80% del loro pil, ma fanno finta di non sapere che dovrebbero sommare anche quello della KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau), la Cassa depositi e prestiti di colà. E questo è niente, perché non un antipatizzante della Germania, bensì uno dei loro più validi industriali, Michael Mertin (Jenoptik), calcola che il debito pubblico “se si considera quello totale, includendo le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici e altre passività future del governo, sale al 285% del pil”. E se calcolassimo il debito aggregato, mettendo assieme quello pubblico e quello privato, sia industriale che familiare, in relazione al patrimonio finanziario, scopriremmo che i debiti italiani e quelli tedeschi non hanno significativa differenza di affidabilità. Salvo un dettaglio: la lucidità e continuità della classe dirigente. Politica e non solo.

Non siamo gli unici ad avere conti ballerini, ma proviamo gusto nel vestirli con il tutù e farli danzare al ritmo di discussioni sempre uguali e sempre oziose. Sono lustri che parliamo dell’articolo 18, lo abbiamo anche cambiato, nessuno se ne è accorto e replichiamo sempre la stessa scena. A stupire è che qualcuno ancora ci creda. Moody’s già ci colloca ai margini bassi dell’affidabilità (Baa2). Fra due settimane sarà il turno di Fitch. Prima di Natale arriverà Standard & Poor’s. La sostenibilità del debito è un problema dell’intera area dell’Euro, che si ostina a non federalizzarlo, rendendolo sicuro e meno costoso. Noi abbiamo un problema in più: credere che si possa continuare a perdere tempo.

Miraggio assunzione per 3mila statali

Miraggio assunzione per 3mila statali

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tremila vincitori di concorso che hanno qualche possibilità di essere assunti, anche se i tempi sono tutti da definire. E 84 mila idonei che appaiono in buona parte destinati ad uscire dalle graduatorie. Il governo ha fatto il punto sulla situazione dei concorsi pubblici del passato pubblicando sul sito del Dipartimento della Funzione pubblica i primi risultati di una rilevazione condotta tra le varie amministrazioni, comunque incompleta e destinata ad essere aggiornata con altri dati.

La procedura attivata nasce da un provvedimento di oltre un anno fa, il decreto sulla pubblica amministrazione voluto dal precedente governo. In quel testo era stata prorogata fino al 31 dicembre 2016 la validità delle vigenti graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato. Veniva poi prevista la ricognizione delle graduatorie stesse, in particolare per individuare al loro interno coloro che avessero lavorato come dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato, maturando quindi anzianità. Con l’obiettivo di ridurre il ricorso ai contratti a termine la legge ipotizzava una possibile assunzione a tempo indeterminato di queste persone, sulla base delle disponibilità finanziarie che avrebbero dovuto essere precisate da un decreto (di concerto tra ministero della Pubblica amministrazione ed Economia) da adottare entro il 30 marzo 2014. Ad oggi questo decreto non risulta emanato e dunque tutta l’operazione appare ancora in alto mare.

Cambio di strategia
Se non che nel frattempo il nuovo governo, mosso evidentemente da priorità diverse da quelle che avevano spinto l’allora ministro D’Alia a scegliere questa strada, ha approvato un altro decreto legge di riforma della pubblica amministrazione e poi un disegno di legge che si trova attualmente all’esame del Senato. In quest’ultimo tra i principi per la revisione dei concorsi pubblici vengono indicati: «definizione di limiti assoluti e percentuali, in relazione al numero dei posti banditi, per gli idonei non vincitori; riduzione dei termini di validità delle graduatorie». Insomma in particolare sugli idonei la linea non sembra la stessa che aveva originato la necessità della ricognizione. Nel dettaglio, la gran parte delle posizioni nelle graduatorie si riferiscono al mondo della sanità e delle autonomie locali: quasi 2.200 su 3 mila per quel che riguarda i vincitori, oltre 67 mila su 84 mila tra gli idonei. Tra le amministrazioni centrali, spicca il ministero della Difesa che ha 252 vincitori da assumere e 346 idonei per l’eventuale assunzione. Un numero analogo di idonei (ma non di vincitori da assumere) si trova ai dicasteri dell’Istruzione e dello Sviluppo economico.

Il comparto sanitario
Nel comparto sanitario ci sono, tra gli altri, 170 vincitori da assumere nei servizi di emergenza (118) e 118 nella sola Asl di Bergamo. Quanto agli idonei per l’eventuale assunzione, il singolo ente che ne conta di più è 1’ente per i servizi tecnico amministrativi di area vasta del Centro, con 2.846, mentre gli ospedali riuniti di Ancona ne hanno 1.356 e l’azienda sanita- ria provinciale di Palermo 1.136. Tra gli enti locali attira decisamente l’attenzione il caso di Roma Capitale. Su 1.410 posti banditi, risultano assunti solo 307 vincitori; di conseguenza sono 1.013 quelli che ancora aspettano di vedersi assegnare un posto. E sono stati censiti 2.921 idonei per un’assunzione che si presenta però alquanto remota. Decisamente più contenuti i numeri del Comune di Milano, che ha non ha vincitori ancora da assumere ma 928 idonei potenzialmente candidati.

Imprese, incentivi a ricerca e brevetti

Imprese, incentivi a ricerca e brevetti

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Innovazione come capitolo centrale. Nel pacchetto sviluppo che il governo intende varare con la legge di stabilità il tema della ricerca gioca un ruolo chiave, sia con il recupero del credito d’imposta per gli investimenti sia con la norma che dovrebbe incentivare fiscalmente le spese in brevetti. Nelle ultime settimane si sono susseguite riunioni tecniche tra il ministero dello Sviluppo economico e il ministero dell’Economia, con il primo a proporre misure di politica industriale e il secondo a fare i conti sulle coperture. Due miliardi e mezzo: questa la cifra ritenuta dallo Sviluppo indispensabile per rendere almeno semi strutturale il credito d’imposta per la ricerca con una dote da 500 milioni annui per cinque anni. La copertura, dopo il flop della precedente versione della norma (i fondi della programmazione Ue 2014-2020 previsti dal Dl Destinazione Italia), stavolta dovrebbe essere a portata di mano, magari sacrificando in parte l’entità del beneficio in termini di percentuale di credito d’imposta.

L’innovazione è in buona parte anche il filo conduttore di quello che dovrebbe costituire un decreto “crescita” collegato alla legge di stabilità. Il provvedimento allo studio conterrà le prime misure che in queste settimane sono state elaborate dal gruppo di lavoro sull’«Industrial compact» coordinato dallo Sviluppo economico, da integrare con alcune proposte più direttamente mirate alla finanza d’impresa. Nel pacchetto dell’«Industrial compact» spicca il «patent box», una defiscalizzazione al 50 per cento dei redditi derivanti da beni riconducibili alla proprietà intellettuale. Anche in questo caso bisognerà fare attenzione alle esigenze di copertura e si valuta, a questo scopo, se limitare la platea delle spese ammissibili ai soli brevetti o estenderla anche a marchi e opere d’ingegno. A completare il pacchetto dovrebbe esserci l’estensione del piano startup. In particolare, si studia un ampliamento della categoria di imprese che possono essere interessate dagli incentivi fiscali per gli investitori. Sempre il Dl collegato alla stabilità dovrebbe fare da cornice a un nuovo intervento a favore dei canali alternativi al credito bancario, come minibond e fondi di credito. Si valuta inoltre l’estensione ad assicurazioni e società di cartolarizzazioni della possibilità di beneficiare del Fondo centrale di garanzia.

Non rappresenterebbe una sorpresa il rifinanziamento della nuova legge Sabatini, più volte annunciato. L’obiettivo è quello di raddoppiare il plafond della Cassa depositi e prestiti destinato a finanziamenti agevolati per l’acquisto o il leasing di beni strumentali. La Cdp potrebbe mettere a disposizione ulteriori 2,5 miliardi ma anche in questo caso è possibile che si restringa il raggio d’azione della misura, forse attraverso l’innalzamento dell’importo unitario minimo dei beni acquistabili. Tra i capitoli aperti, ancora in fase di lavorazione, anche la spinta allo sviluppo dimensionale delle Pmi. L’obiettivo dovrebbe essere favorire lo sviluppo di filiere e la crescita del taglio medio delle aziende mediante facilitazioni fiscali alle aggregazioni.

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La crisi economica europea ha trovato di recente due conferme e una autorevole indicazione su come uscirne. La conferma viene dal rallentamento della Germania e dal Fondo monetario internazionale che chiede investimenti pubblici in infrastrutture. Per questo giornale non si tratta di novità perché da anni ripetiamo che il dogma del rigore fiscale senza politiche espansive europee centrate sugli investimenti, specie in infrastrutture, era sbagliato.

I trinomi dell’Fmi
Con oggi si chiudono a Washington le riunioni annuali di Fmi e Banca mondiale (istituzioni a cui aderiscono 188 Paesi) che hanno celebrato anche il loro 70° anniversario. È stato presentato anche il World economic outlook di ottobre che va letto alla luce di due interventi, cruciali anche per l’Europa, del direttore generale Fmi, Christine Lagarde. Il primo è di prospettiva storica a 70 anni da Bretton Woods, quando Fmi e Banca mondiale furono fondate con il contributo di John Maynard Keynes. Lagarde rende omaggio a questo genio e prospetta tre coppie di alternative di fronte alla quali l’economia mondiale si trova oggi: tra accelerazione e stagnazione; tra stabilità e fragilità; tra solidarietà e isolamenti. Lagarde spiega perché accelerazione, stabilità, solidarietà sono tra loro connesse. A nostro avviso è quella combinazione su cui si è costruita l’Eurozona (e l’Unione europea) che adesso vacilla avendo scelto, sbagliando, la ricombinazione di stagnazione, stabilità, isolamenti. Il secondo intervento riguarda l’attuale urgenza di politiche economiche per rilanciare crescita e occupazione, specie in alcune aree geo-economiche in forte rallentamento. Qui emerge in modo netto la presa di posizione sulla Eurozona per la quale Lagarde segnala i rischi di persistente bassa inflazione (che per noi è deflazione) e di recessione per superare le quali chiede misure monetarie più forti della Bce e misure fiscali dei Paesi sia in surplus che in deficit evitando gli eccessi di rigore, ammorbidendo gli effetti delle necessarie riforme nel mercato del lavoro, favorendo la crescita.

Gli investimenti e le infrastrutture
Alle politiche monetarie e fiscali per la crescita viene aggiunta con forza dall’Fmi quella sulle infrastrutture come strategia cruciale per evitare il rallentamento dell’economia mondiale e la stagnazione in alcune aree. Con riferimento all’Eurozona noi abbiamo trattato su queste colonne di infrastrutture sotto ogni punto di vista: dai metodi di finanziamento (Project bond, Eurobond, partenariato pubblico-privato) alle tipologie di investimenti (reti transeuropee, tecnoscienza, capitale umano e fisico). L’Fmi enfatizza l’urgenza degli investimenti pubblici in infrastrutture sia come leva fondamentale per rilanciare adesso crescita e occupazione, sia perché la quota delle stesse sul Pil è calata in generale, sia perché nei Paesi sviluppati vanno ammodernate e nei Paesi in via di sviluppo vanno costruite. Le condizioni di liquidità attuali sono anche molto favorevoli per costi finanziamento bassi e per l’emissione di titoli di debito in mercati molto liquidi. L’Fmi calcola che un aumento dell’investimento in infrastrutture di un punto percentuale di Pil genera nelle economie avanzate un incremento dello 0,4% di Pil nello stesso anno e dell’1,5% entro quattro anni. La conclusione è che investimenti in infrastrutture ben fatti aumentano la produttività delle economie e si ripagano anche in termini di rapporti del debito pubblico sul Pil.

Gli squilibri tedeschi
Il World economic outlook (Weo) dell’Fmi si sofferma anche sulla crisi dell’Eurozona e sui problemi dei suoi Stati membri. Il messaggio che più colpisce è quello secco indirizzato alla Germania con la richiesta di aumentare gli investimenti pubblici nelle infrastrutture. Il messaggio si ripete in varie forme nel Weo rilevando che la Germania è l’unico Paese nel quale tra il 2006 e il 2013 sono cresciuti sia il surplus di parte corrente con l’estero (dal 6,3% allo 7,5% del Pil, pari a 274 miliardi di dollari) sia i crediti finanziari netti sull’estero (dal 26,9% al 46,2% del Pil ovvero 1678 miliardi di dollari) mentre gli investimenti interni sono scesi rispetto al risparmio. Così gli investimenti totali sul Pil dal 22,3% nel 2000 sono scesi al 16,9% nel 2013 mentre si prevede una risalita solo al 18,5% nel 2019. All’opposto la quota del risparmio lordo sul Pil è passata nello stesso periodo dal 20,5% al 24% con la previsione di scendere solo al 23,5% nel 2019. La Germania soffre perciò di squilibri macroeconomici che da anni vanno ben oltre i limiti previsti dagli accordi europei per il rapporto tra il surplus di parte corrente sull’estero e il Pil. Purtroppo le istituzioni europee non hanno avuto la forza di richiamare la Germania a più investimenti che avrebbero trainato tutta l’Eurozona. Inoltre si è a lungo taciuto nelle sedi istituzionali sui vantaggi che la crisi stessa ha prodotto per la Germania. Sono critiche che da tempo Marco Fortis avanza, segnalando anche che il crollo della domanda degli altri Paesi dell’Eurozona avrebbe colpito la stessa Germania. È quello che sta accadendo. Infatti le stime di crescita per il 2014 sono state ribassate dall’1,9% all’1,3% e per il 2015 dal 2% all’1,2%, l’export di agosto è crollato del 5,8% rispetto a luglio e la produzione industriale del 4,8% mentre la fiducia delle imprese è in calo da maggio. È dunque in corso un rallentamento marcato.

Una conclusione Euro-tedesca
Al di là dei numeri contano anche le opinioni e tra queste spicca quella di uno tra i più autorevoli economisti tedeschi, Marcel Fratzscher, direttore dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw). Nel suo recente volume “L’illusione tedesca” (presentato dal ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel) si sostiene sia che la prosperità tedesca vacilla per gli errori di politica economica sia che la Germania deve investire di più in infrastrutture e in capitale fisico e umano. Speriamo che questa opinione venga accolta dal governo tedesco, che dovrebbe anche aprirsi alla piena collaborazione con il presidente della Commissione europea per la realizzazione degli investimenti infrastrutturali convenienti per tutta l’Eurozona. Anche per l’Italia, che tuttavia non potrà sottrarsi a riforme radicali capaci di renderci un po’ più “tedeschi”.

Sciopero fiscale contro la tassa rifiuti

Sciopero fiscale contro la tassa rifiuti

Attilio Barbieri – Libero

A Cremona è scoppiata la guerra alla tassa rifiuti, la Tari. Sette imprese su dieci non hanno pagato la tassa più odiata dai piccoli imprenditori. Le categorie produttive avevano annunciato lo sciopero fiscale lo scorso mese di luglio, guadagnandosi anche aperture di pagina sui quotidiani nazionali. Ma in fondo in pochi credevano che commercianti e artigiani sarebbero andati fino in fondo. E invece, secondo un sondaggio condotto su un campione rappresentativo delle categorie coinvolte, il 70 per cento ha deciso di non presentare la dichiarazione Tari. Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato, Cna, Asvicom: l’appello alla disobbedienza fiscale era partito un po’ da tutte le sigle che rappresentano il variegato universo del terziario commerciale. Ieri il quotidiano di Cremona, La Provincia, ha dato conto del sondaggio condotto in settimana fra gli iscritti. La percentuale di quanti hanno detto no alla Tari, è tale da lasciare pochi dubbi.

Inutile il tentativo dell’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Gianluca Galimberti, eletto lo scorso giugno dalla coalizione di centrosinistra, di ammorbidire le posizioni dei piccoli imprenditori. Dal tavolo di confronto aperto quest’estate non è uscito nulla di significativo. Le categorie chiedevano di attutire l’effetto della nuova imposta sui rifiuti, ritoccando le tabelle in vigore. Lo «sconto» proposto da Galimberti è stato giudicato insufficiente se non addirittura irrilevante. La partita non è ancora chiusa. Mercoledì prossimo ci sarà un nuovo confronto, ma come hanno anticipato i rappresentanti di commercianti e artigiani «gli scudi restano alzati».

«La nostra posizione», hanno spiegato le associazioni del terziario, «resta quella di un mese fa, non possiamo lasciarci ammazzare da questa gabella iniqua e pensiamo che il Comune debba attutire l’impatto devastante con maggiore convinzione di quella dimostrata finora». In gioco ci sono cifre consistenti. Le attività coinvolte in provincia di Cremona, sono 1.100. «Abbiamo chiesto a Galimberti di conoscere nel dettaglio tutti i numeri: quanto pagavano i nostri associati di Tarsu, la vecchia tassa sui rifiuti e quanto devono versare ora di Tari», spiega a Libero il presidente di Confcormnercio Cremona, Claudio Pugnoli, «ma tenga conto che gli aumenti arrivano anche al 600%. Il Comune ci ha offerto uno sconto di 100mila euro: spalmandolo sugli associati fa poco più di 90 euro a testa. Vogliamo capire, numeri alla mano, quanto possa incidere. Per alcuni di noi il nuovo tributo comporta rincari nell’ordine delle migliaia di euro. Cifre improponibili, che si fa fatica a pagare».

In effetti l’entità della nuova tassa è tale da mettere in ginocchio intere categorie di operatori. Secondo un documentato studio prodotto a inizio anno proprio da Confcommercio, un negozio di fiori o una pizzeria al taglio, per i rifiuti prima pagavano 400 euro, ora ne devono sborsare più di 3mila, con un aumento del 650 per cento. E parliamo di attività che impegnano una superficie di 100 metri quadrati, non certo dei supermercati. Di poco inferiore l’aumento percentuale toccato a ristoranti e trattori, con una superficie di 200 metri quadri: il rincaro si limita (si fa per dire!) al 482%. Ben 4.675 euro contro gli 802 della Tarsu. Pesante anche la sorte che tocca a bar e pasticcerie (sempre con una superficie di 100 metri): anziché 401 euro ne dovranno sborsare 1.661 (+314%). Ma le sorprese non finiscono qui. Sempre a guardare le tabelle compilate da Confcommercio, si scopre che all’aumentare della superficie, e presumibilmente del giro d’affari, il rincaro percentuale si attenua. Il costo dei rifiuti per un piccolo supermercato così come un negozio di generi alimentari che impegnino 300 metri quadri, sale da 1.204 a 3.478 euro. L’onere cresce del 188 per cento.

Un albergo senza ristorante, con 200 metri di superficie calpestabile, deve versare 840 euro anziché 386, con un aumento che si ferma al 118 per cento. Va un po’ meglio a edicolanti, farmacisti e tabaccai: di Tarsu pagavano 103 euro, di Tari 183 (+77%). Anche se paragonare gli introiti di un’edicola a quelli di una farmacia, con la crisi nera dei giornali, è un paradosso nel paradosso. Resta il fatto che il nuovo tributo anziché essere progressivo è regressivo: decresce percentualmente all’aumentare della superficie e presumibilmente dei ricavi. Un meccanismo che finisce per punire i titolari delle piccole attività. Alla faccia della perequazione di cui si sono riempiti la bocca i governi negli ultimi cinquant’anni. Il caso di Cremona, comunque, non è l’unico. Anche a Siracusa e Nuoro commercianti e artigiani si preparano a restituire le cartelle Tari ai sindaci. Forse lo sciopero fiscale è soltanto all’inizio.

Tasi, sarà stangata record. È il regalo delle giunte rosse

Tasi, sarà stangata record. È il regalo delle giunte rosse

Cinzia Meoni – Il Giornale

A pochi giorni dalla scadenza, il 16 ottobre, del versamento della prima rata della Tasi (il tributo sui servizi indivisibili, vero e proprio rebus per i contribuenti italiani), la Cgia di Mestre si prende la briga si spulciare tutte le delibere approvata dai capoluoghi di regione italiani su Tasi, Tari (la nuova tassa sui rifiuti) e addizionale Irpef per stabilire che il non proprio invidiabile primato di assoggettare i propri cittadini alle tasse comunali complessivamente più elevate di tutta la Penisola è detenuto da Bologna, Roma e Bari. La classifica, redatta dall’ufficio studi della Cgia calcolando il prelievo subito da una famiglia tipo di 3 persone, mette in luce divergenze abissali tra città e città. Nel caso di un’abitazione di tipo civile A2, ad esempio, a Bologna la stangata ammonta a 1.610 euro, a Genova a 1.488 euro, a Bari a 1.414 euro e Milano, a 1.379 euro. Meglio forse, potendo, trasferirsi ad Aosta dove si pagano in tutto «solo» 551 euro.

Più in dettaglio l’addizionale Irpef quasi dovunque raggiunge l’aliquota massima dello 0,8%. La Tari, invece, colpisce soprattutto a Sud: considerando sempre un’abitazione di tipo civile A2 abitata da tre persone, a Cagliari si pagheranno 653 euro, a Napoli 522 euro mentre a Firenze 217. Per la Tasi infine, solo Aosta, tra i capoluoghi di regione, ha applicato l’aliquota base dell’1 per mille. Ben nove capoluoghi (su 18) hanno deciso direttamente di applicare il valore massimo consentito per le abitazioni principali (3,3 per mille). Veri e propri salassi per i cittadini che, negli ultimi anni, hanno visto crescere esponenzialmente le imposte comunali nonostante servizi non esattamente impeccabili. Tutta colpa, a giudizio di Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, «dei pesantissimi tagli ai trasferimenti che lo Stato centrale ha praticato nei confronti degli enti locali». Negli ultimi cinque anni, come segnala la Cgia, a Roma sono arrivati 667 milioni in meno, a Milano 317,7, a Napoli 199,6, Torino 158,9 e a Genova 110,8.

I contribuenti intanto si preparano ad affrontare il rompicapo della Tasi, l’unica imposta sul valore dell’immobile che si paga a livello locale e forse le tasse più odiate per la poca chiarezza sui termini di pagamento. Per la stragrande maggioranza degli italiani mancano, infatti, pochi giorni alla scadenza prevista per legge per il versamento della prima rata della Tasi (50% del dovuto su base annua). Eppure non tutti i dubbi sono stati risolti. Entro giovedì 16 ottobre dovranno pagare l’acconto sulla Tasi tutti coloro che hanno in proprietà o possiedono a qualunque titolo immobili e aree edificabili nei comuni che hanno deliberato le aliquote entro il 10 settembre (in caso di mancato invio delle deliberazioni entro il termine previsto, il versamento della Tasi è effettuato in un’unica soluzione entro il 16 dicembre 2014, data di scadenza anche per la seconda rata dell’imposta, con l’aliquota minima dell’1 per mille). Il provvedimento riguarda tra l’altro Roma, Milano, Verona, Bari, Firenze e Palermo, ma fortunatamente sul web si può trovare l’elenco completo. Il tributo varia da città a città. La base imponibile è la rendita catastale, rivalutata del 5%, a cui si applicano i moltiplicatori a seconda della tipologia immobile. Le aliquote tuttavia sono stabilite a livello locale entro tetto massimo fissato dalla legge. Il risultato? Iniquo. Per Guglielmo Loy, segretario confederale Uil, con la Tasi, prevista dalla Legge di Stabilità 2014, «pagherà un po’ di più chi prima era esente o pagava cifre basse e pagheranno molto meno i proprietari di quelle abitazioni con rendite catastali elevate».