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La cosa giusta che non facciamo

La cosa giusta che non facciamo

Lucrezia Reichlin – Corriere della Sera

La tragedia era annunciata ma nonostante in molti l’avessimo vista arrivare, il treno è andato dritto contro il muro. La Francia ha dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3% fino al 2017, l’Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all’obiettivo dell’inflazione al 2% a cui è vincolata dal suo mandato.

La Germania è in surplus commerciale eccessivo. Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date. Come in un film al rallentatore, tra accuse reciproche, in un gioco in cui l’attribuzione della responsabilità della crisi è sempre e regolarmente dell’«altro», si è finiti sull’orlo di un suicidio collettivo. Le voci sono ormai cacofoniche, si ha l’impressione che manchi il direttore di orchestra. La Bce bacchetta i governi del Sud e del Nord: i primi per le mancate riforme, i secondi, in particolare la Germania, perché non si fanno motore di una ripresa della domanda attraverso un’espansione di bilancio. I governi francese e italiano si lamentano di un rallentamento inaspettato (inaspettato?) dell’economia.

I tedeschi accusano i Paesi che non hanno seguito la via del rigore e delle riforme di non rispettare i patti. Ma, per una ragione o per l’altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola. Un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell’Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un’economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale.

I vincoli politici per seguire questo percorso ci sono e sono comprensibili. Il tema posto dai tedeschi sulla necessità di darsi istituzioni in cui gli interessi dei creditori siano protetti e dove non si creino incentivi per i debitori ad allentare i vincoli di bilancio nei tempi buoni, è un tema chiave e non può che rimanere centrale in una Unione monetaria senza integrazione delle politiche di bilancio. Il nostro Paese in particolare manca, per buone ragioni, di credibilità. Il Trattato e il patto di Stabilità sono stati costruiti in modo da rispondere a questa esigenza. Ora però, nella loro interpretazione più conservatrice, impediscono all’Unione nel suo insieme di fare la cosa giusta. I trattati non si cambiano in cinque minuti e sono il frutto di un compromesso faticoso, ma, o all’interno delle vecchie regole o dandosene delle nuove, dobbiamo uscire dall’eccezionalità di un’Unione in cui la politica della banca centrale è limitata da vincoli dettati da interpretazioni di parte del Trattato. E questo mentre l’approccio alle politiche di bilancio è sordo alla congiuntura economica e si basa su regole eccessivamente punitive e quindi poco credibili. È il legame tra l’eccessivo rigore dei vincoli e la loro mancanza di plausibilità a renderci, tutti, inadempienti.

Famolo à la francese

Famolo à la francese

Davide Giacalone – Libero

Famolo à la francese. È il ruggito che s’ode per ogni dove, da destra a sinistra, in un’Italia generosamente pronta a farsi del male con le proprie mani. L’annuncio governativo che conferma il perdurante sfondamento del deficit è, per i francesi, un segno di resa non di attacco, una sconfitta non un’orgogliosa impennata. Tagliano la spesa pubblica per 50 miliardi in tre anni e quella continua a crescergli. Un film dell’orrore.

I francesi divorziano dalla dottrina del rigore e spezzano l’asse con i tedeschi? Scordatevelo. Pierre Moscovici, ex ministro delle finanze francesi e ora commissario europeo, ha annunciato l’avvio di una procedura d’infrazione, a carico del suo Paese (e non poteva fare diversamente), ma ha anche detto che per tutta la durata del mandato non si parlerà di eurobond. È questo è inaccettabile, oltre che la conferma del lato oscuro dell’asse Berlino-Parigi. La realtà è che il sistema francese è più in crisi di quello italiano, e mentre le nostre imprese manifatturiere ancora camminano le loro arrancano. Hanno un sistema più forte dal lato delle grandi imprese, molto protette dallo Stato, ma questo non li rende più elastici, bensì meno. Il governo francese rende noto che più di tanto non può fare senza cadere ed essere massacrato all’interno. Posto che potrebbe comunque accadere. È un segnale d’impotenza, non un’inversione di marcia.

Ciò avviene nel mentre le scelte della Banca centrale europea ottengono la discesa del valore dell’euro. A lungo reclamata e oggi non declamata. È la seconda volta che la Bce coglie nel segno, avendo già operato con successo per la discesa dei tassi d’interesse e la riduzione della voragine spread. Il fatto è che la Bce non può fare il resto, non può sostituirsi ai governi, non può e non deve usurpare la politica. È alla politica che spetta il compito di piantarla di vivere l’euro e l’Unione europea come vincoli, decidendosi a trasferirvi maggiore sovranità, quindi più politica e più democrazia. Avvertendone, altrimenti, l’insostenibilità. Se si praticasse seriamente la prima opzione (più saggia e promettente), si tratterebbe non di chiedere deroghe sui conti, non di avere spazi per far continuare una politica depressiva di sottrazione di ricchezza alla produzione e al consumo, per consegnarla alla fornace della spesa corrente improduttiva, ma di rifare i conti e rivalutare i pesi di ciascuno. Noi italiani siamo un pessimo esempio di gestione del debito pubblico, ma un buon esempio di debito aggregato (pubblico + privato) in relazione al patrimonio. Il nostro debito pubblico, così com’è, ci affonda. Il nostro debito aggregato è fra i meglio sostenibili, ben più di quello francese. Questo è far politica, questo è portare la politica nelle sedi decisionali, anche per evitare che il ragionierismo conceda ad altri vantaggi indebiti.

Ci sono in giro troppi keynesiani immaginari, magari pronti a citare l’esempio del 1929. Ma allora lo Stato era smilzo, ora è obeso. Allora era saggio praticare il deficit spending (spesa in deficit), mentre noi, da lustri, pratichiamo il deficit burning, nel senso che contraiamo debiti per bruciare denaro in spesa corrente. Certo che non bisogna rassegnarsi all’ottusa politica del rigore, ma questo deve significare grande rigore nelle politiche nazionali di bilancio e spinta allo sviluppo nelle politiche europee. Certo che non ci si deve piegare all’egemonismo teutonico, ma i tedeschi vanno battuti non strappando il non rispetto dei parametri (quindi suicidandosi), bensì nella federalizzazione della spesa per investimenti e del debito. Quella è la condizione cui subordinare la vita dell’euro, non l’opposto, ovvero la possibilità di allargare ciascuno i propri debiti, perché questo consegna tutto il potere ai tedeschi: senza la loro copertura e senza l’euro la Francia, che ha il 54% del debito pubblico collocato all’estero (noi circa il 40), si ritroverebbe massacrata dagli interessi passivi.

C’è anche evidenza empirica: nel 2003-2004 Francia e Germania sfondarono i deficit, i francesi per pagarsi la stabilità del governo e i tedeschi per pagare il costo sociale delle riforme. Guardate i risultati dieci anni dopo e chiedetevi se gli sfondamenti portano bene, quando praticati per salvare il passato anziché propiziare il futuro. Ogni volta che sento dire o leggo: “diciamolo all’Europa”, “ce lo impone l’Europa”, “lo abbiamo promesso all’Europa”, capisco che chi usa quel linguaggio non è cittadino europeo, ma subisce il vincolo di un regno ove è suddito. Supporre che i conti francesi portino forza all’ulteriormente scassare quelli italiani significa ancora di più: avere vocazione alla sudditanza.

L’eroica resistenza del Cnel

L’eroica resistenza del Cnel

Gaetano Pedullà – La Notizia

Cosa non si fa per salvare la poltrona. Se poi con la poltrona c’è un signor stipendio per non produrre assolutamente nulla se non un inutile montagna di carte, allora si può pure sfidare il ridicolo. Esattamente quello che ha fatto ieri il Cnel, sigla che sta per Consiglio nazionale dell’economia e lavoro. L’ente, pensato nella Costituzione come camera di compensazione delle istanze dei diversi soggetti economici, di fatto è stato per decenni il cimitero degli elefanti di sindacati e associazioni di ogni genere. Le sue proposte di legge si contano sul palmo di una mano, ma nel tempo ha bruciato centinaia di milioni, buona parte solo per mantenere il personale e una sede regale nel cuore di Villa Borghese, a Roma. Naturale che un Governo deciso a fare alcune riforme e a tagliare i tanti sprechi di denaro pubblico proponesse di cancellare questo carrozzone.

Dalle parti di Villa Lubin – la sede del Cnel – ovviamente non l’hanno presa bene e prima si sono messi a sparare tutta l’artiglieria per bloccare la soppressione in Parlamento. Poi, visto che di questo Ente in realtà non ne può più nessuno, da ieri hanno cominciato a fornire piombo ai nemici del premier. E qui non si è badato a spararle grosse. Proprio mentre il Governo rischia l’osso del collo per varare una riforma del lavoro che ha nell’abolizione dell’articolo 18 (divieto di licenziamento) uno dei punti qualificanti, il Cnel sforna un rapporto secondo cui licenziare un dipendente a tempo indeterminato in Italia è più facile niente di meno che in Germania. Ora al Consiglio dell’economia ecc. ecc. o non hanno mai parlato con un solo imprenditore oppure non hanno idea dell’immenso contenzioso che scoraggia le imprese a fare nuove assunzioni. Ma chissà quanto c’è costato questo ultimo imperdibile rapporto.

L’ultimo salvagente rimasto

L’ultimo salvagente rimasto

Giuseppe De Bellis – Il Giornale

Basta, ha detto ieri la Francia. A se stessa, alla Germania, all’Europa. Basta con l’ossessione del rigore. Il governo di Parigi ha annunciato che sforerà ancora il rapporto deficit-Pil, quello che per i trattati europei deve essere massimo al 3%, una percentuale che per noi è diventata un incubo fatto di manovre su manovre, ovvero tasse su tasse. Ecco, la Francia quest’ anno chiuderà al 4,4% e ha rimandato il rientro sotto la soglia al 2017.

È la rottura di un argine che ha tenuto finora, di un fronte rigorista che praticamente tutti (tranne l’Italia di Berlusconi e in parte quella di Renzi) in Europa non avevano il coraggio di contrastare. Lo fa la Francia, che per anni ha fatto da spalla alla Germania della Merkel: ve lo ricordate l’asse franco-tedesco? Parigi ha cambiato idea da un po’ sotto la spinta della crisi e del conseguente calo di popolarità del presidente Hollande, arrivato oggi a un imbarazzante 13%. E sarà di sicuro questa la principale motivazione che spinge la Francia, ma resta il fatto che Parigi ieri ha lanciato una carica di dinamite sull’Europa: un governo tassatore che dice «noi non chiederemo più un solo sforzo ai francesi». La Germania ha reagito all’istante, la Merkel ha minacciosamente detto: «I Paesi facciano i loro compiti». Sprezzante, nervosa, irritata. Non se l’aspettava. Ce l’aspettavamo noi, invece, e da tempo, quando speravamo che il grido di dolore dei Paesi arrivasse dall’ltalia ma né Monti, né Letta si sono sognati di dire quel «basta». Di che cosa avevano paura? E di che cosa dovrebbe avere paura oggi Hollande? Delle dichiarazioni da maestrina della Merkel? Che può accadere? Commissarieranno la Francia? Sarebbe la fine dell’Europa.

Il potere contrattuale è direttamente proporzionale al coraggio. Renzi aveva cominciato le sue trattative con Bruxelles e Berlino, poi s’è fermato. Hollande l’ha superato, forse per disperazione. Ma l’ha fatto. Ci si può aggregare, distruggendo prima le resistenze di sindacati e mezzo Pd: la riforma del lavoro subito per muovere il Paese e dire all’Europa: «Adesso basta anche per noi». È paradossale che Parigi, cioè il governo più di sinistra d’Europa, faccia la cosa più liberale d’Europa: smettere di chiedere ai cittadini di salvare lo Stato. Dev’essere lo Stato a salvare i cittadini. I propri, prima che quelli europei. Forse vale la pena di salvare gli italiani.

Liquidazione in busta, critiche bipartisan

Liquidazione in busta, critiche bipartisan

Stefano Re – Libero

Sindacati, imprenditori, minoranza del Pd, Forza Italia: il fronte che si oppone all’idea del governo di far trovare ai lavoratori una parte di Tfr in busta paga per rilanciare i consumi è ampio e agguerrito. I sindacati sono in rivolta, con Susanna Camusso, segretaria Cgil, preoccupata che la nuova voce in busta paga finisca per essere tassata come le altre. «Nessuno dica che si stanno aumentando i salari dei lavoratori. Quelli sono soldi dei lavoratori, frutto dei contratti e delle contrattazioni e non una elargizione di nessun governo», avverte la leader del sindacato di Corso Italia. Luigi Angeletti è d’accordo: «Capisco l’intenzione di dire che bisogna avere più soldi in tasca», sostiene il capo della Uil, ma la strada giusta consiste nel «continuare a ridurre le tasse sul lavoro». Pure Pier Luigi Bersani, che pure ieri ha assicurato che non sarà da lui che arriveranno colpi bassi al governo, si dice contrario alla proposta. «Sono soldi dei lavoratori», sottolinea l’ex segretario, «e con i lavoratori il governo dovrà parlare se vorrà toccarli».

Considerazioni simili a quelle che fanno molti forzisti. Per Maurizio Gasparri «Renzi finge di non capire che solo abbassando le tasse si rilancia l’economia. Gli 80 euro in busta paga dati ad alcuni non sono serviti a nulla. Lo stesso varrebbe per il Tfr, che anzi rischia di essere tassato come lo stipendio». Maria Stella Gelmini sottolinea invece che le Pmi «vedrebbero ulteriormente stressata la loro liquidità, a fronte di un accesso al credito bancario bloccato». Anche Beppe Grillo, leader del M55, punta il dito sui costi che il provvedimento avrebbe perle aziende: «Togliere il Tfr alle imprese vuol dire metterle in mutande e costringerle a rivolgersi al credito bancario per finanziarsi», scrive sul proprio blog. Ed è proprio sul rapporto con gli istituti di credito che si concentra l’attenzione delle imprese.

Secondo il centro studi Impresalavoro, la manovra sul Tfr prospettata da Renzi colpirebbe oltre 4 milioni di aziende, quelle da 1 a 49 dipendenti, costando loro la cifra complessiva di 876 milioni di euro sotto forma di interessi passivi per l’anticipazione in banca delle risorse necessarie. A meno che, s’intende, non intervenga un eventuale accordo tra governo e Abi, la cui percorribilità però «è ancora tutta da dimostrare». I conti sono presto fatti: i dati Banca d’Italia, spiega il centro studi, dicono che il tasso effettivo globale medio per il quarto tiirnestre 2014 per operazioni relative al finanziamento di capitale circolante è pari all’8,94% annuo. Questo significa che, se il sistema delle Pmi fosse costretto a recuperare risorse per 9,8 miliardi di euro, cioè la cifra complessiva dei Tfr attualmente accantonati in queste aziende, le imprese finirebbero per sostenere oneri finanziari pari a 876 milioni di euro su base annua. Vi è inoltre da considerare, aggiunge Impresalavoro, il caso delle aziende che, per motivi diversi, possono ritrovarsi ad avere uno scoperto di conto corrente senza afidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca. In questi casi, decisamente più gravi, il costo del finanziamento sarebbe nettamente superiore.

Preoccupato anche il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, per il quale «l’ipotesi di mettere il 50% del Tfr in busta paga, almeno per come sembra formulata sulla base delle indiscrezioni circolate, finirebbe per indebolire ulteriormente il nostro sistema produttivo, accentuando il processo di riduzione occupazionale».

Il governo pare spiazzato dinanzi a queste obiezioni. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, assicura che non saranno presi provvedimenti vincolanti nei confronti delle banche, e questo ovviamente non può tranquillizzare le aziende. «Siamo pienamente consapevoli del fatto che le imprese, in particolare le piccole, soffrono dal punto di vista della liquidità», ha detto il ministro intervistato da Porta ci Porta. «Non possiamo obbligare le banche», ha avvisato, «ma lavoriamo a fronte del fatto che anche nelle banche, come in tutti gli operatori e gli italiani, ci sia l’interesse a rendere dinamica l’economia italiana». L’esecutivo pare insomma intenzionato a esercitare una sorta di moral suasíon nei confronti delle banche, la cui efficacia è tutta da dimostrare.

E sul Tfr in busta paga scoppia la rivolta bipartisan

E sul Tfr in busta paga scoppia la rivolta bipartisan

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Il Tfr in busta paga? È la «politica dell’uovo oggi» mentre «la gallina sta morendo a causa della crisi». Il copyright è di Renata Polverini, deputata di Forza Italia ed ex segretario dell’Ugl. Toni forti ma che spiegano come il nuovo fronte aperto dal premier Matteo Renzi rischi di trasformarsi in un boomerang. La paura di finire politicamente stritolati dalla crisi è tanta. Lo dimostra la premessa alla Nota di aggiornamento del Def del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. «In termini cumulati, la caduta del Pil in Italia è superiore rispetto a quella verificatasi durante la Grande depressione del ’29», scrive.

Il fine giustifica i mezzi, quindi? Per ora, l’unica certezza è che, dopo lo scontro sull’articolo 18, gli avversari di Renzi, come Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani, hanno trovato altre munizioni da sparargli contro. In più, il presidente del Consiglio potrebbe alienarsi le simpatie di coloro che lo hanno sponsorizzato o che, per lo meno, non gli sono pregiudizialmente ostili. È il caso dell’Alleanza delle Cooperative, formata da LegaCoop (la «patria» del ministro Poletti), Confcooperative e Agci. «Così indeboliamo ancora di più le imprese», ha detto Mauro Lusetti, numero uno delle cooperative rosse. I numeri li ha snocciolati il leader di Confcooperative, Maurizio Gardini. «Sono interessate – ha chiosato – oltre il 90% delle imprese cooperative e il 30% delle persone occupate, circa 400mila, perciò parliamo di risorse importanti: 160 milioni». Occorre ricordare che il progetto mirato allo sblocco delle «liquidazioni» è ancora in fase embrionale. Non ci sono certezze sulle modalità e, soprattutto, sulla tassazione che sarà applicata. Né, tantomeno, si sa se gli istituti di credito utilizzeranno i prestiti Tltro della Bce per finanziare le imprese che perderanno questi preziosi accantonamenti. Si sa, però, che per queste ultime sarebbe comunque una tragedia.

Fidarsi di un governo che non rispetta gli impegni, infatti, è molto difficile. «Le cooperative a fine 2013 vantavano un credito verso la Pa di 12 miliardi di euro e ne risulta pagato circa il 40%», ha concluso Gardini evidenziando come manchino ancora 7,5 miliardi circa. L’Alleanza delle Coop ha inoltre ricordato come il 10% delle associate nel secondo quadrimestre abbia ricevuto richieste di rientro sui fidi da parte delle banche. E i prestiti continuano a costare parecchio. Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, l’erogazione del Tfr costerebbe alle pmi 9,8 miliardi di euro. Per recuperare queste risorse, ovviamente, ci si dovrebbe rivolgere al mondo del credito che applica tassi medi dell’8,94% annuo con un aggravio di costi di 876 milioni di maggiore spesa per interessi. Insomma, per dare ai lavoratoti al massimo 100 euro in più ogni mese senza confermare il bonusda 80 euro al superamento della soglia di reddito massimo (26 mila euro annui lordi), si può correre il rischio di affossare definitivamente il sistema imprenditoriale come denunciato dal presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.

La mossa, infine, non migliora i rapporti del premier con la sinistra. «Sono soldi dei lavoratori», dicono all’unisono Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani puntualizzando che il Tfr non è un regalo. La leader della Cgil ha messo l’accento sulla libertà di scelta per i lavoratori, anche quella di destinare le risorse alla previdenza integrativa. L’ex segretario Pd, in perenne polemica con Renzi, ha rilevato che «bisogna sempre esser cauti quando ci si mangia oggi le risorse di domani», alludendo alla possibilità di detassare ulteriormente i versamenti ai fondi pensione complementari. Il fatto che non si tratti di pretesti ideologici, ma di problemi concreti rende l’idea di quanto impervia sia la strada di Renzi.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Merkel che dice “dovete fare i compiti” ai paesi europei che non riescono a rispettare il fatidico “3 per cento” sembra la parodia del compagno di scuola secchione che si vanta della propria pagella e la fa pesare agli altri. Ecco qualcosa decisamente “di destra”, non tenere conto delle difficoltà altrui, voler punire la debolezza piuttosto che capirla e soccorrerla; ed ecco qualcosa decisamente “di sinistra”, dire ai primi della classe che il loro alto rendimento non può valere come parametro universale. Semmai, e non sempre, può essere di esempio, a patto che non diventi un’ossessione.

Si capisce che Merkel conosca poco e ami pochissimo l’illustre connazionale Karl Marx, anche grazie all’uso sciagurato e criminale che ne ha fatto la Ddr. Ma il celebre assunto espresso nel finale del Manifesto, “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni’, oltre a essere il nobile succo del pensiero socialista, è anche una utile, pragmatica indicazione per ogni comunità umana, compresa quella europea. Non tutti sono in grado di rendere al meglio (pensarlo sarebbe, questa sì, pura utopia), ma tutti hanno bisogno di sentirsi ugualmente dignitosi e rispettati. Se 1’Europa avesse tenuto presente, insieme ai suoi pedanti numeretti, anche questo principio di umanità e di realismo, oggi staremmo tutti un po’ meno peggio. Essendo, anche, tutti un po’ meno di destra.

La spinta che serve per costruire la fiducia

La spinta che serve per costruire la fiducia

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Non è irrealistico pensare che anche la quota di Tfr destinata alla busta paga rischi di non finire ai consumi, così come sono rimasti “sotto il materasso” gli 80 euro. Complessità fiscali e previdenziali a parte, basta leggere le mail che arrivano al giornale o i messaggi indirizzati a Radio24 per capire come gli italiani abbiano un’idea “sacra” della liquidazione. È un unicum nel panorama dei Paesi occidentali e proprio per questo ha un valore a sé di paracadute per l’imponderabile futuro. Ma ha anche un retrogusto da fine Ottocento, quando i socialisti venivano chiamati “ciucia liter” perché dediti alle riunioni in osteria, politicamente accese e alcolicamente generose. Era il tempo in cui veniva concordato il salario settimanale proprio per evitare che quello giornaliero finisse “scolato” nottetempo tra bicchieri e intemerate rivoluzionarie. Questa idea “di sinistra” del salario – o di una parte di esso – come risparmio differito si è evoluta fino alla famosa “liquidazione”.

Ma il vero rischio di un possibile flop per questa ulteriore iniezione di quasi-salario è nella confusione delle ipotesi diagnostiche: la crisi di domanda è crisi di fiducia, e non sono la stessa cosa. Per rilanciare la fiducia non servono solo più disponibilità per chi già ne abbia (l’operazione Tfr non riguarda naturalmente il grande mondo degli esclusi: disoccupati, poveri, precari) ma condizioni di sistema che modifichino la percezione della realtà e l’idea stessa del futuro. Insomma, non bisogna più avere paura del domani. Ma non bastano 80 o 100 euro a comprare buonumore. L’ottimismo non è in vendita. Nemmeno quello che il premier sparge a piene mani – e con retorica efficace – in ogni contesto, dalla direzione Pd all’assemblea dell’Onu. È uno sforzo comunque lodevole e necessario. Guai ad avere leader piagnoni e disfattisti. Ma non è sufficiente, perché non basta il verbo dell’uomo solo al comando per far cambiare verso a un intero Paese, complesso, stratificato, percorso e pervaso da interessi spesso contrapposti e conflittuali.

Il programma strategico di Renzi dell’operazione fiducia confligge e si sfarina con il programma strategico di Renzi dell’ideologia della disintermediazione. Non è vero – o non è ancora vero – che i social network possono sostituire le tante articolazioni sociali. Né è sufficiente, per la storia del Paese, confidare solo nella composizione delle posizioni dei partiti (anche perché, magari, si rischiano mediazioni pasticciate come sembra essere diventata quella sull’articolo 18). Certo, c’è molto da modernizzare anche nei cosiddetti corpi intermedi ed è tempo di ridurne il tasso di corporativismo in nome di un superiore interesse generale. Nè servono liturgie stantie o bizantinismi solo formali se non ci sono contenuti e significati veri. La società italiana è piena di incrostazioni, ma serve un lavoro di fino e paziente per pulire la chiglia, non la scorciatoia di gettare via tutta la barca.

I contenuti esistono e rimangono: la mediazione sociale dà trama e ordito forte alla democrazia partecipativa. E, come dimostra anche la storia del nostro Paese, dà la robustezza necessaria a quella tela per poter reggere anche i peggiori rovesci dell’economia. Perchè tutti, alla fine – come cittadini prima ancora che come capitalisti, imprenditori, lavoratori, professionisti, volontari – condividono l’obiettivo e remano nella stessa direzione. E a muoversi è l’intero Paese. Soprattutto è semplicistico pensare che il valore del consenso sociale sia una commodity, come lo è la musica da scaricare con i-Tunes o come lo è l’attività di trasporto urbano al centro della guerra tra Uber e i tassisti tradizionali. Né è pensabile che la mediazione del consenso sia spazzabile da una App digitale così come è stata spazzata l’epopea delle guide turistiche o quella delle agenzie di viaggio. Certo, oggi si comprano libri senza librerie, vestiti senza boutique, si ordinano cibi, si prenotano babysitter, dogsitter, badanti con un click. Ma non c’è ancora la democrazia on demand. Non ha funzionato (o ha funzionato in minima parte) l’idea – anni ’90 – che un candidato politico fosse “vendibile” come un detersivo; è stato utile introdurre elementi di marketing nella politica, non ridurla a politica-spettacolo.

E così, anche oggi, si rischia di confondere lo strumento con lo scopo. Saranno le rappresentanze, certo riformate, snellite, modernizzate, a usare i social network e le comunità digitali per gestire le loro posizioni di interesse. Alla politica governante spetta la composizione di quegli interessi, la mediazione di alto profilo organizzata sulla rotta del bisogno generale. Che non sempre è quello di un uomo solo al comando che tweetta a 60 milioni di follower. Soprattutto in un Paese che rischia di avere 60 milioni di interessi singoli, tutti diversi e tutti confliggenti. Anche perchè, se così fosse, basterebbe un flash mob innescato con uno dei tanti tweet da Palazzo Chigi: il giorno x spendiamo 50-60-100 euro tutti insieme, la domanda avrà un sussulto, il Pil pure. Può valere, forse, per il Paese virtuale, quello reale ha bisogno di altri stimoli a cominciare da una vera, radicale riforma fiscale.

Ora la partita si sposta a Roma

Ora la partita si sposta a Roma

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Si sapeva che la partita decisiva sulle sorti economiche e politiche dell’area euro si sarebbe dovuta giocare tra Francia e Germania e il momento è arrivato. Di questa partita l’Italia è molto più di uno spettatore interessato. Da dieci anni, da quando entrambi violarono le regole fiscali, i due maggiori paesi europei hanno visto divergere le loro economie e ciò ha reso difficile la gestione della politica economica europea. Diverse politiche di bilancio, austere in Germania e dispersive in Francia, hanno reso problematico un impegno comune nonché un coordinamento con la politica monetaria. Da un anno e mezzo è cresciuta anche la divergenza politica. Sarkozy aveva nascosto la divergenza accettando un ruolo pubblico ancillare alla cancelliera tedesca; Hollande ha fatto della critica alla Germania un elemento di identità politica.

La divaricazione tra Parigi e Berlino minaccia la tenuta della costruzione europea, come dimostra l’imbarazzo in cui è calato il processo di nomina dei nuovi commissari, in un’inedita architettura che vede il socialista francese Moscovici costretto a prendere decisioni sulla politica di bilancio dei paesi euro solo col gradimento di un altro commissario, il vicepresidente Valdis Dombrowskis, un lettone considerato un severo alfiere del rigore. Le elezioni europee avevano già squilibrato il baricentro europeo a svantaggio di Parigi. Ora le vicende attorno alla Commissione Ue dimostrano che il confronto avviene in un momento in cui la Francia è politicamente molto più debole.

Annunciando obiettivi di bilancio in violazione degli accordi, Parigi ha alzato il costo politico dello scontro anche per Berlino. Il problema è che sul breve termine Parigi ha ragione, l’economia europea si è fermata e soffre di un grave vuoto di politiche di sostegno alla domanda, ma sul lungo termine le ragioni di Berlino sono più forti. Nessuno vede in questo momento la possibilità di riconciliare due ragioni che si contraddicono in assenza di un’adeguata sintesi politica.

La partita sul breve termine si gioca sugli obiettivi di bilancio dei prossimi anni. Il ministro delle Finanze tedesco Schäuble ha presentato un piano di bilancio che azzera il deficit nel 2015 e fino al 2018, non escludendo un surplus. Prevedendo la crescita all’1,5%, sopra il livello potenziale, Berlino non fa altro che rispettare il Patto di stabilità. La sfida francese è giunta con l’annuncio del ministro Sapin che il disavanzo salirà al 4,4% e non scenderà sotto il 3% fino al 2017. Parigi aveva già mancato l’obiettivo del 3% nonostante una duplice estensione dei termini concessa dalla Commissione. Sapin ritiene che la debolezza dell’economia giustifichi l’allentamento della politica di bilancio. A livello aggregato dell’euro-area, Parigi ha certamente ragione, la debolezza viene sottovalutata da Berlino, ma qui purtroppo di aggregato c’è ben poco.

Se i due paesi avessero presentato le due manovre insieme, come se appartenessero a un bilancio comune, l’effetto netto sarebbe stato positivo e credibile. Un disavanzo sopra il 2% in Francia-Germania sarebbe stato un segnale accettabile per l’euro area. Ma anziché accordarsi, i due governi hanno fatto il contrario. Schäuble ha escluso violentemente che Berlino possa corrispondere alle invocazioni dei partner europei, dell’Fmi e della Bce in favore di una politica espansiva che dimostri che anche Berlino fa la sua parte nel coprire il vuoto di domanda di cui soffre l’euro area. Sapin da parte sua ha tolto credibilità al coordinamento delle politiche di bilancio annunciando una violazione unilaterale dei patti. Sarebbe bastata un po’ di cooperazione politica per ribaltare questo pasticcio che erode le fondamenta dell’euro-area, e rappresentarlo come un successo.

La ragione per cui ciò non avviene è che divergono le visioni di fondo. In questo caso Berlino ha uno straboccante arsenale di motivi per sentirsi nel giusto. Il tasso di crescita dei due paesi dall’inizio dell’euro è stato simile, ma a differenza della Germania, la Francia non ha saputo agganciarsi all’economia globale: ogni anno il saldo commerciale aggiunge lo 0,6% al Pil tedesco, ma sottrae lo 0,2% a quello francese. La crescita francese dipende per l’1,7% dalla domanda interna, (0,8% per la Germania), quindi da consumi, salari e trasferimenti spesso a carico dello Stato. Così si spiega la divergenza sia nei costi del lavoro sia nel debito pubblico che in Francia tende a crescere senza sosta. Schiacciate da costi e tasse, le imprese francesi hanno dovuto aumentare la leva finanziaria per fare investimenti e rimanere profittevoli, ma il risultato è altro debito e una disoccupazione doppia rispetto a quella tedesca. Senza l’allineamento ai tassi tedeschi, lo Stato e le imprese francesi non sopravviverebbero. Questo rende le politiche della Bce l’ultima istanza per tenere insieme l’intera euro area a costo di surrogare la mancanza di intesa politica.

La scelta dell’Italia deve tener conto del cattivo equilibrio tra Parigi e Berlino. Sul breve termine sta prevalendo la tentazione di inseguire la Francia con il rinvio degli impegni di bilancio, ma sul lungo è ancora da dimostrare che ci stiamo allineando alla posizione tedesca. In assenza di intese tra Francia e Germania, grava interamente sull’Italia l’onere di dimostrare che si può intervenire mediante riforme strutturali a tutto campo e con un orizzonte temporale adeguato a sostenere gli investimenti.

Per crescere concentriamo le risorse

Per crescere concentriamo le risorse

Luca Ricolfi – La Stampa

Sulle ragioni per cui l’Italia, quale che sia la congiuntura economica, cresce meno della maggior parte delle altre economie avanzate, il consenso è relativamente ampio. Nessuno nega che vi sia una carenza di domanda effettiva (calo dei consumi, investimenti insufficienti). Nessuno nega che la pressione fiscale sui produttori (Irap, Ires, contributi sociali) soffochi l’economia. Nessuno nega che non aver fatto le riforme modernizzatrici (mercato del lavoro, giustizia civile, pubblica amministrazione) ci stia costando carissimo. Dove cominciano i dissensi è sulle terapie, ossia sul modo di rispondere alla crisi. Qui non mi riferisco, però, alle decine di teorie che circolano fra gli esperti, ma solo a quelle che hanno una plausibilità economico-politica, e inoltre non si basano su ipotetici aiuti esterni (tipo eurobond, interventi della Bce, eccetera). Ebbene, se ci limitiamo alle teorie realistiche, a me pare che esse si riducano a tre.

La prima è la teoria dello «stimolo». Secondo questo punto di vista, l’economia non si può riprendere senza uno stimolo di almeno 30 miliardi di euro (2 punti di Pil), tendenzialmente sotto forma di riduzioni fiscali alle famiglie e alle imprese. Tali riduzioni andrebbero finanziate in deficit, promettendo all’Europa (e ai mercati finanziari) di fare le riforme e ridurre la spesa pubblica negli anni a venire. La formulazione più chiara ed esplicita di questo punto di vista mi pare quella degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che l’hanno ribadita più volte in varie sedi.

La seconda teoria potremmo chiamarla del «passo dopo passo». Secondo questa visione, se l’Italia dovesse promettere riduzioni della spesa pubblica e riforme strutturali non verrebbe creduta né dai partner europei, né dai mercati finanziari. E se provasse a sostenere la domanda aumentando il deficit dal 3 al 4 o al 5%, verrebbe immediatamente castigata dai mercati finanziari, con conseguente impennata dello spread. Quindi l’unica cosa che si può fare è galleggiare per qualche anno intorno al 3% di deficit pubblico, e nel frattempo cambiare la composizione della domanda, riducendo simultaneamente e gradualmente sia la spesa pubblica sia la pressione fiscale. Questa, nella sostanza, è la posizione del governo e del suo ministro dell’Economia. La formulazione più chiara di questa posizione mi pare quella dovuta all’economista Roberto Perotti (collaboratore del governo), che l’ha recentemente esposta in un bell’articolo sulla rivista on line Lavoce.info.

C’è però anche un terzo modo di vedere le cose, che chiamerò «concentrare le risorse». Secondo questo punto di vista è vero che la teoria dello stimolo non fa i conti con la diffidenza dei mercati finanziari verso l’Italia, ma è altrettanto vero che la linea del passo dopo passo è troppo debole e troppo lenta. È molto improbabile che le riduzioni effettive della spesa pubblica superino gli 8-10 miliardi l’anno, e a questo ritmo sarà già un miracolo se Renzi riuscirà a rinnovare il bonus da 80 euro e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali. Di qui l’idea di non disperdere gli sgravi in mille rivoli. Anziché uno stillicidio di alleggerimenti fiscali o contributivi di cui nessuno si accorge, meglio concentrare le risorse sui settori più dinamici dell’economia italiana, aiutandoli ad aumentare l’occupazione, la competitività, o entrambe. È questa, ad esempio, l’idea lanciata da Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, nell’intervista di ieri a questo giornale, in cui invita Renzi a varare «un provvedimento molto forte di sgravio fiscale per le aziende che nell’ultimo anno sono cresciute nelle esportazioni». Anche se la proposta Farinetti è spudoratamente pro domo sua, perché la catena di vendita dei prodotti Eataly sarebbe fra le prime a beneficiarne, credo che l’idea andrebbe considerata molto seriamente (il fatto che una proposta giovi anche a chi la fa non implica che sia insensata). Quando le risorse sono molto scarse può essere assai miope spalmarle su tutti, anziché indirizzarle verso quei settori o quelle imprese che meglio possono contribuire a far uscire la barca dell’Italia dalle secche in cui si è incagliata. Semmai la domanda è: uscire sì, ma come?

Qui le risposte possono essere almeno due. Se si ritiene che le risorse disponibili vadano usate innanzitutto per aumentare la competitività dell’Italia, l’idea di Farinetti è ottima. Se invece si ritiene che vadano usate per sostenere l’occupazione, la strada potrebbe essere decisamente diversa: anziché sostenere le imprese che nell’ultimo anno (in passato) hanno aumentato il fatturato delle esportazioni, si dovrebbero premiare le imprese che nel prossimo anno (in futuro) aumenteranno il numero di occupati.

Questo secondo modo di concentrare le risorse a me sembra più utile all’Italia, almeno finché la situazione dell’occupazione resterà drammatica come oggi. Come Stampa e come Fondazione David Hume da alcuni mesi, insieme ad altre istituzioni, stiamo lavorando su una proposta che va in questa direzione (nuovi posti di lavoro), e inoltre ha il vantaggio di aumentare il gettito della Pubblica Amministrazione anziché ridurlo. La prossima settimana, su questo giornale, racconteremo di che cosa si tratta.