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Al lavoro non serve una riforma annacquata

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

La Carta sociale europea, non proprio un testo sacro della scuola austriaca, indica «il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio». E poco più avanti fissa «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Non si parla dunque di reintegro, non si parla delle regole previste dall’articolo 18. La Carta sociale europea è quindi in violazione dei diritti fondamentali del lavoratori? Oppure, come è più probabile, sull’obbligo di reintegro si è incancrenita da anni in Italia un’astratta discussione ideologica che ha fatto perdere di vista quello che è diritto e quello che è tutela giuridica, quello che è un valore assoluto e quello che è norma storica legata a determinati assetti della produzione e del rapporto tra Stato, impresa e lavoro?

Verrebbe da dire che l’aspro confronto nella direzione del Pd di ieri è stato ancora una volta ostaggio di quella ideologia del passato. Ma in realtà si è trattato per gran parte di un dibattito pretestuoso che, utilizzando una questione seria come la riforma del mercato del lavoro, ha avuto per oggetto la sfida sulla leadership di Matteo Renzi nel suo partito. In questo senso il premier può forse essere soddisfatto del voto ottenuto, con i 130 favorevoli e i soli 20 contrari. Ma quello che conta qui è altro. È dare all’Italia una buona e vera riforma del mercato del lavoro, per dare una spinta agli investimenti e alla creazione di posti di lavoro.

Non serve una riforma tanto per farla. Serve, finalmente, una incisiva rivoluzione delle regole del lavoro, per dare certezza alle imprese ed equità ai lavoratori. La “vittoria” politica di Renzi, se c’è stata, rischia allora di avere un costo, che è quello di un annacquamento della riforma, a cominciare proprio dall’articolo 18. Fino a domenica scorsa la posizione di Renzi sembrava molto chiara: il reintegro deve restare solo per i casi di provata discriminazione. In tutte le altre situazioni meglio l’indennizzo monetario crescente con gli anni di durata del rapporto di lavoro. Ieri, invece, il reintegro è rispuntato per i casi di licenziamento disciplinare, riallargando il perimetro del 18, ma soprattutto ripristinando quell’incertezza nell’intervento del giudice che disincentiva l’impresa dall’usare il contratto a tempo indeterminato. È vero che nel dispositivo finale votato dalla direzione si parla di fissare le fattispecie relative ai licenziamenti disciplinari, ma qui si rischia di entrare in una vicenda già vissuta all’epoca della legge Fornero, quando l’intervento sull’articolo 18 fu progressivamente svuotato e reso di fatto inefficace.

Non serve una riforma che nasce per cambiare tutto ma che poi cambia poco. Tanto più che anche sul lato delle regole in entrata, finora, non c’è stata chiarezza. Se si arriverà, alla fine, a un impercettibile miglioramento sui contratti a tempo indeterminato al costo di un irrigidimento significativo delle altre forme contrattuali più flessibili, allora il risultato per la creazione di posti di lavoro sarà negativo. È esattamente l’errore che fu fatto con la legge Fornero. Ripeterlo sarebbe un assurdo. Tanto più che il governo Renzi, al suo esordio, ha dimostrato piena consapevolezza del problema, eliminando gli irrigidimenti introdotti dalla Fornero sui contratti a tempo determinato. La precarietà non si riduce introducendo nuovi vincoli per tutti – così si alimenta solo il lavoro nero – ma rendendo davvero più conveniente il contratto a tempo indeterminato e, magari, prevedendo i giusti controlli contro gli abusi – che ci sono – sulle forme contrattuali più flessibili.

Sono cose che il presidente del Consiglio conosce bene. Le ha affermate lui stesso in queste settimane, con tutta l’oratoria e la capacità di convincimento di cui è capace. Finora ha dimostrato un grande coraggio nell’affermare e nel portare avanti un cambiamento netto nel modo con cui a sinistra si guarda al rapporto tra capitale e lavoro. Ancora ieri non ha avuto timore nello sbattere in faccia ai suoi oppositori la realtà che gli imprenditori sono lavoratori e non “padroni”. Perciò la sua riforma non può adesso smarrirsi nelle mediazioni e nelle contraddizioni. D’Alema, il suo avversario di ieri, a suo tempo lo fece, e dopo 15 anni siamo ancora qui a parlare di articolo 18. Renzi ci faccia il regalo di non doverne discutere tra altri 15.

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l’essenza della riforma, ma ha gettato un po’ d’acqua sull’articolo 18. Ora c’è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai “conservatori”.

Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D’Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.

Non perché evocare la “dama di ferro” sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D’Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l’uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l’annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l’art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.

Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un’opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi.

Per sedurre l’elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose. Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all’art. 18 non ha preso forma alcun partito “thatcheriano”.

Col Tfr in busta paga mezzo stipendio l’anno in più per le famiglie

Col Tfr in busta paga mezzo stipendio l’anno in più per le famiglie

Marco Sodano – La Stampa

Il governo pensa di anticipare parte del Tfr in busta paga: quanto può valere?
Il Tfr (il trattamento di fine rapporto) accumulato equivale alla retribuzione annua divisa per 13,5. Si tratta, insomma, di una mensilità. Si è parlato di anticipare il 50% del Tfr maturato per un periodo di un anno almeno (valutando anche l’ipotesi di estendere l’anticipo per tre anni), mentre non è ancora chiaro se il governo ha intenzione di metterlo in busta spalmato sulle tredici mensilità oppure in una volta sola. Comunque sia, si tratta di una cifra che equivale grosso modo a metà dello stipendio.

Le imprese non sembrano entusiaste: perché?
Perché parte di quel denaro lo custodiscono loro e dovrebbero sborsarlo subito. Nelle pmi sotto i cinquanta dipendenti, il Tfr di chi non ha scelto un fondo pensione dopo la riforma del 2006 (ovvero la maggior parte dei lavoratori italiani) resta in azienda. Le imprese usano questo denaro per finanziarsi. L’ammontare totale annuo accumulato dagli italiani vale circa 24 miliardi (su 326 miliardi di retribuzioni). Di questi il 40% matura nelle pmi, 10,8 miliardi. Tornando all’ipotesi di mettere in busta metà della liquidazione, nelle casse – già esauste – delle piccole imprese si creerebbe un buco da 5 miliardi e mezzo. Così, se il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi è freddo e parla di «manovra molto complessa», le piccole imprese parlano di misura «impensabile. Per i lavoratori – ricorda il presidente di Rete Imprese Merletti – il Tfr è salario differito, per le imprese debito a lunga scadenza. Non si possono chiamare le imprese ad indebitarsi per sostenere i consumi dei propri dipendenti». Tanto più in un momento in cui ottenere credito è sempre meno facile.

Il premier ha parlato di usare i soldi della Bce per garantire il credito, però.
Vero: la liquidità garantita dalla Banca centrale europea deve andare alle imprese per definizione, un impiego del genere rispetterebbe lo spirito delle iniezioni decise dall’Eurotower. Bisognerà poi vedere, però, se il credito verrà concesso alle singole imprese, che andranno a chiedere il denaro in banca: visto com’è andata negli ultimi anni è legittimo che gli imprenditori abbiano qualche dubbio sugli strumenti che dovrebbero sconfiggere il credit crunch. Fino ad oggi hanno fallito tutti, nonostante ci abbiano provato in mezzo mondo.

Non è la prima volta che si parla di un anticipo del Tfr. Poi non se ne fece nulla: perché?
Nell’agosto del 2011 fu l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti sondò questa possibilità. Alla fine fu scartata perché troppo complicata: come fare con chi versa il Tfr in un fondo complementare per irrobustire la pensione? E gli Statali? Nel pubblico impiego chi è stato assunto prima del 2001 non riceve il Tfr ma il Tfs (trattamento di fine servizio): l’80% dell’ultima retribuzione moltiplicato per gli anni di servizio. Fino al pensionamento non è possibile sapere quanti soldi ha diritto di ricevere ogni lavoratore.

E i lavoratori? È un affare ricevere il Tfr in anticipo?
Dal 2007 – grazie a una riforma molto discussa – i lavoratori possono scegliere di non accumulare più il Tfr in azienda e di farlo confluire nei fondi pensione. Questo perché il passaggio dal sistema pensionistico retributivo (pensione calcolata sull’ultimo stipendio) a quello contributivo (calcolata su quanto accantonato nel corso della vita lavorativa), è diventato chiaro che chi è al lavoro adesso avrà pensioni molto più basse di quelle attuali: ai fondi toccherà il compito di integrare gli assegni. Un po’ di denaro disponibile subito fa comodo: ma bisogna avere ben chiaro che quei soldi non ci saranno più al momento del pensionamento. Insomma: non sono soldi in più, sono soldi in anticipo. Finiremmo con lo spendere oggi le ricchezze di cui dovremmo disporre domani: è lo stesso meccanismo del tanto vituperato debito.

Ma questi soldi in più come sarebbero tassati?
Anche qui per ora non è chiaro il meccanismo pensato dal governo: al ministero chiariscono che «non c’è ancora un piano». Sul Tfr si paga un’aliquota fiscale agevolata, più bassa di quella normale pagata sul reddito (sullo stipendio). Sull’anticipo si rischia di pagare di più: non è un affare. Tra l’altro non sarebbe neppure corretto pagare su questo denaro – che è frutto di un accumulo a scopo previdenziale – la parte di tasse che va alla previdenza.

Trattamento di fine futuro

Trattamento di fine futuro

Massimo Gramellini – La Stampa

Sono completamente d’accordo a metà con l’Annunciatore di Firenze, quando gigioneggia di inserire la cara vecchia liquidazione in busta paga. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe persino apprezzabile il tentativo di trasformare il lavoratore in un adulto. Per decenni lo si è trattato come un irresponsabile che andava protetto da se stesso. Non gli si potevano dare tutte le spettanze nel timore che le divorasse, arrivando nudo alla meta, solitamente micragnosa, della pensione. Sminuzzando il Tfr in rate mensili, si affida al beneficiario lo scettro del proprio destino: toccherà a lui, non più al datore di lavoro o allo Stato Mamma, decidere la destinazione dei suoi soldi.

Purtroppo la realtà non è fatta della stessa sostanza degli annunci. Intanto il Tfr è un denaro che esiste solo come promessa: nel momento in cui lo si trasformasse in moneta sonante, per pagarlo i datori di lavoro sarebbero costretti a indebitarsi. Quanto allo Stato, passerebbe da Mamma a Matrigna: l’astuto Annunciatore si è dimenticato di dire che in busta paga la liquidazione soggiacerebbe a un’aliquota fiscale più alta. L’imprenditore ci perde, lo Stato ci guadagna. E il lavoratore? Incamera qualche euro da gettare nell’idrovora boccheggiante dei consumi, ma smarrisce l’idea di futuro con cui erano cresciute le generazioni precedenti. La liquidazione era un tesoretto intorno a cui coltivare speranze e progetti per il tempo a venire. Il suo sbriciolamento rischia di diventare l’ennesimo sintomo di un mondo che si sente a fine corsa e preferisce un uovo sodo oggi a una gallina di fine rapporto domani.

Un’ombra sul futuro del governo

Un’ombra sul futuro del governo

Federico Geremicca – La Stampa

Alla fine il dado è tratto, il Partito democratico decide di seppellire quasi per intero e quasi per tutti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la prima conseguenza è che da ieri quella sorta di pace armata che regnava da mesi all’interno del Pd si è definitivamente tramutata in guerra aperta. Il durissimo intervento svolto davanti alla Direzione da Massimo D’Alema, la gelida distanza dal segretario assunta da Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani (tutti e tre hanno votato contro la relazione del segretario) ne sono la spia più evidente. «Non è un voto contro il governo», è stato assicurato dagli oppositori di Renzi (la vecchia guardia, come usa dire il premier) ma pochi son disposti a crederlo: a cominciare proprio dal presidente del Consiglio.

Per Renzi si tratta di una vittoria strategicamente rilevantissima, e il risultato così insistentemente cercato è stato alla fine ottenuto: ma i prezzi che rischia di pagare in sede di governo sono, al momento, difficilmente prevedibili. I gruppi dell’opposizione interna si sono divisi all’atto del voto (contrari i «civatiani», spaccati tra no e astensione i bersaniani e i dalemiani) ma è credibile che possano tornare ad unirsi quando la parola passerà ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. A Palazzo Madama, come è noto, i numeri sono quelli che sono e assicurano a Renzi una maggioranza assai risicata: a conti fatti – e come temuto e ipotizzato già da giorni – la vita del governo rischia di esser appesa alle decisioni che assumerà Silvio Berlusconi. Sosterrà la riforma del lavoro su cui tanto investe Matteo Renzi? E se decidesse di sì, in cambio di cosa permetterà la sopravvivenza dell’esecutivo?

Non è un bell’affare per il governo del giovane ex sindaco di Firenze, ma tutto lascia pensare che si tratti di un rischio attentamente e a lungo calcolato. Chi può volere, infatti, una crisi di governo e magari elezioni anticipate in tempi brevi? Non Berlusconi, a quel che è dato intuire. E ancor meno le minoranze interne, che rischierebbero di pagare la «sfida» al segretario con una vera e propria decimazione dei propri parlamentari. È per questo che Matteo Renzi non temeva – anche se non la cercava – la prova di forza sull’articolo 18. Ma nei bizantini rituali della politica italiana, non esistono solo rotture clamorose e voti anticipati: esiste anche – praticatissimo – il lento logoramento, rischio per il premier ancor maggiore…

Dunque, la sordina messa ai toni eccessivamente polemici non ha permesso al segretario-presidente di aggirare le obiezioni e le vere e proprie contrarietà delle opposizioni interne. Arrivare in Direzione con aperture capaci di allentare le tensioni, era stato il consiglio fornito a Renzi dal Capo dello Stato durante un colloquio svoltosi in mattinata al Quirinale. Il Presidente della Repubblica, che appena una settimana fa era sceso in campo chiedendo alle forze politiche «coraggio» in materia di riforma del lavoro, aveva infatti chiesto al premier di compiere un ultimo tentativo per recuperare l’unità del partito: Renzi ha obbedito (più nei toni che nella sostanza, in verità) ma lo sforzo – come il voto ha poi dimostrato – non ha prodotto il risultato sperato.

Era del resto impossibile immaginare che la separazione del Pd da uno dei punti cardine della propria azione politica (la tradizionale e secondo alcuni superata «difesa dei diritti» in materia di lavoro) potesse avvenire senza traumi, a maggior ragione in un clima avvelenato da avvertimenti, minacce reciproche e bracci di ferro annunciati e praticati. Per il premier, però, l’abolizione quasi definitiva dell’articolo 18 era ormai diventata qualcosa di più di una semplice riforma, assumendo l’altissimo valore simbolico – in qualche modo come la fine del bicameralismo paritario – della sua capacità di cambiare dalle fondamenta non solo lo Stato ma il suo stesso partito. Il risultato è raggiunto. A quale prezzo lo si capirà nelle prossime settimane…

Bandiere senza idee

Bandiere senza idee

Giuseppe Turani – La Nazione

Siamo alle solite. Il sindacato si avvicina a una scadenza importante (la riforma del lavoro) e subito accadono due cose. La prima è che si dividono; la seconda è che, con un riflesso quasi pavloviano, l’ala più combattiva ( la Cgil) annuncia che sarà sciopero contro i cambiamenti. Due fatti che non testimoniamo una maturità del nostro sindacalismo. Persino in una situazione difficile come questa che stiamo vivendo, le tre famiglie sindacali italiane non riescono a trovare un terreno comune di intervento sensato. Viene il sospetto che si tratti quasi di una lotta fra clan. Nessuno vuole andare all’unificazione perché perderebbe il controllo della propria area: oggi ci sono tre segretari generali e tre gruppi dirigenti. Se ci fosse l’unità, avremmo un solo segretario e un solo gruppo dirigente. Meglio continuare così: ognuno ha il proprio pezzettino di gloria e privilegi. E c’è il sospetto che abbiano come prima preoccupazione quella di autoperpetuarsi: esattamente come la politica.

Poi c’è la questione dello sciopero (forse della sola Cgil). Che senso abbia uno sciopero in un momento in cui i senza lavoro sono quasi sei milioni (contando anche i cassaintegrati) non si sa. Probabilmente uno solo: dare una prova di forza, portando in piazza alcune migliaia di persone. A che cosa serve tutto ciò? A niente. Questo è un momento in cui servirebbe uno sforzo comune, servirebbero delle idee, non gente che urla in piazza e sventola bandiere rosse. Ma le idee non ci sono. Il mondo del lavoro non riesce a trovare nemmeno al suo interno una piattaforma condivisa per fare fronte alle difficoltà del momento. Ma la Cgil si vuole presentare al paese come rappresentante del mondo del lavoro, cosa smentita dal fatto che altri sindacati se ne staranno a casa. Insomma, il momento è grave, ma il sindacato non riesce ad avere una presenza significativa. Riesce solo (una parte) a andare in piazza a urlare slogan invecchiati. A questo si deve aggiungere che il sindacato rappresenta nella società italiana un’area grigia: non ci sono bilanci, ci sono molti precari, non si applica il famoso articolo 18, e persino il numero degli iscritti varia a seconda delle occasioni. La politica non attraversa un buon momento, ma il sindacato dà quasi l’impressione di essere alla fine della sua storia e del suo ruolo.

La svolta del leader

La svolta del leader

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Renzi stavolta è stato meglio di Renzi. Concreto, deciso, quando serviva tattico e conciliante. Decisamente poco renziano. Quasi che, giunto al primo snodo veramente decisivo della sua esperienza a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio si sia rassegnato all’inellutabilità del salto da molti reclamato: passare dalle parole ai fatti. Stavolta o mai più. La battaglia che ingaggia con la «ditta» Pd è quindi durissima, a tratti anche bella da entrambe le parti, e Renzi la combatte, e per il momento la vince, per distacco. Lo fa a modo suo, buttando la un profluvio di parole a volte apparentemente inutili per alzare la polvere come i tori che restando immobili si preparano alla carica, ma al momento giusto mostra il ramoscello d’ulivo, sia con la ditta sia con i sindacati, confermando la sua duttilità tattica già esibita nel corso di altre trattative importanti.

Ma più che la tattica, a dargli ragione è la forza che finalmente trova nell’andare oltre le slide e gli slogan, forse anche contro qualche sondaggio, evenienza per lui davvero insolita. La forza di chi sa di essere al ‘angolo e non avere altra via di fuga che il contrattacco. Un passaggio di maturazione politico-esistenziale decisivo, l’unica strada per passare da politico-bruco a statista-farfalla, raccogliendo la sfida lanciata, prima che dai sindacati o dalla ditta, dal suo amico Dario Nardella, quando un mese fa gli aveva saggiamente consigliato di intraprendere l’inevitabile strada della necessaria impopolarità pur di realizzare le riforme e ambire, per il momento solo ambire, a scolpire il proprio nome nella pietra della storia repubblicana.

Prendendosi sulle spalle il rischio di una riforma organica su uno degli argomenti finora tabù per molti governi anche di destra (quanti rimpianti avrà adesso Berlusconi!) il premier evidenzia il desiderio di passare all’età adulta della politica. La decisione con la quale riuscirà a reggere la barra del partito e del governo anche nel difficile passaggio parlamentare sarà la miglior cartina di tornasole per valutare il senso stesso della sua capacità riformatrice. Una direzione che per adesso Renzi pare aver imboccato e che il positivo risultato della direzione (80 per cento per lui) potrebbe confortarlo per le altre sfide che attendono il governo. Anche se lui per primo sa che i gruppi parlamentari del Pd sono una bestia brutta e inaffidabile, di cui è bene non fidarsi. Il pessimo spettacolo delle settimane scorse sulla mancata elezione dei giudici costituzionali sono solo l’ultimo esempio.

Tenetevi forte, arrivano nuove tasse

Tenetevi forte, arrivano nuove tasse

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Alla vigilia della presentazione della Nota di aggiornamento del Def (il Documento di economia e finanza) con i nuovi dati su pil e deficit, Padoan delinea un quadro preoccupante con investimenti calanti, disoccupazione molto elevata e un andamento dei prezzi che prefigura rischi. In sostanza la crescita «è stata spostata». E la conseguenza immediata è una manovra correttiva ben più pesante di quanto era stato preventivato. Il ministro dell’Economia, intervenendo alla Camera, non riesce a nasconderlo. Parlando alla conferenza interparlamentare sul fiscal compact Padoan spiega che l’Europa oggi si trova in una situazione di «semi stagnazione» e inflazione «decisamente troppo bassa». In questo contesto «tutte le manovre sono più difficili». Il rischio di deflazione «potrebbe essere in aumento». Ma a questo punto la politica economica europea dovrebbe essere aggiornata. Il fiscal compact che è stato concepito in un quadro macroeconomico più favorevole, «dovrebbe tenere conto delle difficoltà e delle circostanze eccezionali soprattutto di alcuni Paesi». Questo strumento, dice Padoan, «va reso più potente e orientato alla crescita». Serve quindi un approccio «nuovo, non solo basato sull’austerità».

Oggi il Consiglio dei ministri esaminerà la Nota di aggiornamento del Def sul quale verrà costruita la prossima legge di Stabilità (che sarà varata entro metà ottobre). Il premier Renzi ha sottolineato che sarà rispettato il vincolo del 3% quale rapporto tra deficit e pil anche se «le motivazioni di quel parametro sono basate su un mondo profondamente diverso». Però il mancato rispetto porterebbe «a un danno reputazionale più grave dei vantaggi che si potrebbero avere». Ormai viene data per scontata anche dallo stesso ministro una nuova revisione a ribasso della stima del pil per quest’anno che dovrebbe collocarsi fra il -0,2 e il -0,3%. Una previsione molto inferiore rispetto alla più ottimistica stima del +0,8% del Def di aprile. La crescita dovrebbe invece tornare positiva dal 2015 (nelle vecchie previsioni l’anno prossimo il Pil cresceva dell’1,3%). Anche il deficit-Pil pur restando sotto il 3%, dovrebbe peggiorare e passare dalla previsione del 2,6% per quest’anno al 2,8% per rimanere sugli stessi livelli il prossimo anno.

Con questo quadro economico diventa indispensabile una manovra da 20 miliardi. Al ministero dell’Economia si stanno mettendo a punto le ipotesi di intervento. Renzi e Padoan continuano a ripetere che non ci saranno nuove tasse. Non potendo aumentare ancora una pressione fiscale che è a livelli record, cercheranno di camuffare la manovra con una operazione di perequazione sociale. Il che vuol dire un taglio delle detrazioni fiscali che è a tutti gli effetti un aumento della pressione fiscale. Si comincerebbe con l’abolizione delle detrazioni al 19%. Tra queste ci sono anche quelle sanitarie. Infatti nel nuovo modello 730 con la dichiarazione precompilata dal Fisco non saranno indicate le spese sanitarie, suscettibili di detrazione.

Nell’elenco delle detrazioni fiscali, oltre agli sconti fiscali sulle spese sanitarie, ci sono quelli sui mutui e su molte altre voci: dalle palestre alle spese funerarie. Valgono in tutto 5,4 miliardi. Un’ipotesi sul tappeto è di legare lo sconto fiscale al reddito. La detrazione del 19% resterebbe piena fino a una certa soglia (per esempio 30 mila euro), per poi decrescere fino ad annullarsi. Un altro meccanismo, simile, agirebbe invece sulle franchigie, legando anche queste al reddito e ponendo un tetto massimo di detrazione. Allo studio anche un possibile aumento della tassa di successione e dell’Iva sui bene di prima necessità, come il pane (ora al 4%). Non è escluso che venga riproposto lo sfoltimento delle partecipate statali, da quelle in mano al Tesoro alle migliaia di municipalizzate sulle quali finora non si è fatto nulla perché significa mettere a rischio tante poltrone legate alla politica.

Poteri mosci

Poteri mosci

Davide Giacalone – Libero

Tutti conoscono il gioco chiamato mosca cieca: si benda una persona e la si sfida a toccare gli altri, che ci vedono e si spostano liberamente. Provate a immaginare una variante del gioco: si bendano tutti e brancolano a braccia tese. Un caos inconcludente. Quel gioco sciocco è divenuto trastullo collettivo, nella scena pubblica, incrudelito da manate a casaccio e da un linguaggio sempre più greve.

Quali interessi ha scosso Matteo Renzi? Quali fili scoperti ha toccato, per provocare la risentita reazione di poteri forti, dentro e fuori dalle blasonate redazioni? Sono giorni che domande di questo tipo si rincorrono, rimbalzando per ogni dove ci sia gente che si dice informata ed è per lo più sfaccendata. Ciascuno elabora la propria risposta, naturalmente retta da informazioni riservate e sussurrate. A me pare, invece, che sia in pieno svolgimento il gioco del tutti bendati. I poteri forti non ci sono più, tanto è vero che provano a sentirsi tali usando parole e toni che vorrebbero apparire forti. Tanto è vero che ciascuno pensa di farsi il partito proprio, perché sono a malpartito. Dopo avere predicato la competenza si pratica giulivi la dilettanza. Quella che si dimena è l’Italia dei poteri mosci e degli impotenti turgidi. Ciò che provoca scatti di rabbia non sono gli interessi minacciati, ma la minaccia che non si possa continuare a vivere sognando che il passato sia una garanzia per il presente e una promessa per il futuro.

Esisteva il potere forte del capitalismo statale. Aveva aspetti ragguardevoli e riprovevoli, ma esisteva. Per rendervi conto di quanto sia divenuto moscio, quel potere, basterà osservare che mentre il presidente del Consiglio si trovava negli Stati Uniti, a dispetto degli accordi industriali, politici e militari di cui era portatore, la Camera dei Deputati, su proposta del Partito democratico, il di lui partito, è riuscita a votare un ordine del giorno che stabilisce la rimessa in discussione dell’acquisto degli F35, assieme ad altri ordini del giorno, incuranti della coerenza. Voto che è stato subito così letto: ne acquisteremo la metà, o meno. Omessa ogni altra considerazione, a cominciare dal fatto che con la metà di quegli aerei puoi farci la guerra solo se ad aggredirti è il Principato di Monaco, la scena dimostra che non ci sono poteri, né forti né fiacchi, che esercitano alcun controllo e coordinamento fra i calendari istituzionali, gli interessi economici e le prudenze politiche. Si va a naso, ma senza olfatto. Pensare che il disfacimento di quei poteri possa essere compensato dal crescere delle partecipazioni azionarie della Cassa depositi e prestiti è come credere che si possa partecipare alla formula uno della competizione globale con un go kart. Ed è sempre possibile che una qualche procura della Repubblica ti metta sotto inchiesta per eccesso di velocità.

Esisteva il potere forte del capitalismo privato. No, non esistevano grandi capitalisti. Non li abbiamo avuti. Qualche personaggio con corte, qualche arrampicatore prensile, tanto contorno. Il cuore di quel potere, quando esisteva, era Mediobanca. Per essere più precisi, era Enrico Cuccia: idee chiare, disegno strategico, competenza indiscussa, legami internazionali. Quel cuore riuscì a far contare un mondo che di quattrini veramente investiti ne contava pochi. Ma era debole già prima di fermarsi, perché concepito dentro un mondo che già non esisteva più. Da lì in poi troppi avventurieri arraffatori, tanti parlatori disinvolti (quasi non si conobbe la voce di Cuccia), che per considerarli poteri forti occorre spiccata propensione all’esagerazione. La ciliegia sulla torta è un Quirinale che mette nero su bianco di non avere nulla da testimoniare e viene trascinato sul banco dei testimoni. Icona di un’Italia ove il potere è vaniloquio oscillante fra il supplice e l’arrogante.

L’Italia diversa c’è. Eccome. Se ne colgono i numeri in un prodotto interno lordo e in esportazioni che ancora la rendono forte e ricca. Imprenditori e operai che non sentite parlare, perché sono a lavorare. Ma non sono poteri forti, anzi, sono debolissimi. Anzi: non contano nulla. Ci reggono in piedi, ma li trattiamo come estremità dolenti e odorose. Da usare, ma da non esibire. Da tassare, non da ascoltare. Allora: perché tante voci si destano, contro Renzi? Quali interessi sono stati toccati? Magari fosse così! La scena è animata da caratteristi che provano a collocar sé medesimi, per avere ancora un pezzetto di rendita. Poi s’è fatta una certa ed è subito cena.

Sindacati da pensionare

Sindacati da pensionare

Antonio Selvatici – Il Tempo

Si è tranciata la «cinghia di trasmissione» tra il più grande partito di sinistra e le masse operarie. Probabilmente l’ideologia c’entra poco: in realtà la Cgil si è già condannata alla dimenticanza per cause demografiche. Se si guardano i numeri lo strappo tra politica e sindacato di sinistra è lieve perché la parte più importante della Cgil è composta da arzilli pensionati: sono tre milioni gli iscritti alla Cgil- Sindacato Pensionati Italiani. Ma non doveva essere il sindacato dei lavoratori? Quale rappresentatività? Quale lotta per gli interessi delle classi lavoratrici? Per chi sventolano le bandiere rosse? È chiaro che le esigenze, e quindi le conseguenti rivendicazioni di chi è pensionato, non possono coincidere con quelle di chi lavora. Anzi, in alcuni punti contrastano, stridono, si elidono. E allora perché bisogna confrontarsi con un sindacato che è oggi, per sua struttura, scarsamente rappresentativo? Ma all’origine quando sono nati in Inghilterra non si chiamavano trade unions?

La contrattazione è una parte importante delle relazioni sindacali ed il confronto tra le note parti sociali è determinato anche dal peso, vale a dire anche in termini quantitativi degli iscritti, però con un tasso così importante di pensionati iscritti alla Confederazione sembra che fino ad ora il confronto si sia basato molto sulla quantità e meno sulla qualità. Questa volta Matteo Renzi ha ragione quando si svincola e rifiuta di farsi stritolare dalla potenza del sindacato rosso, non per motivi ideologici, ma numerici. Perché un’analisi serena che si basa sui dati porta a dire che i trascorsi della Cgil condannano il sindacato della Susanna Camusso all’oblio: il sindacato tendenzialmente geriatrico è naturalmente destinato alla tomba. Non per ideologia, ma per consunzione. Se sfogliamo la pagina web della Cgil su sfondo rosso appare: «La Confederazione Generale Italiana del Lavoro è un’associazione di rappresentanza dei lavoratori e del lavoro. È la più antica organizzazione sindacale italiana ed è anche la maggiormente rappresentativa, con i suoi circa 6 milioni di iscritti, tra lavoratori, pensionati e giovani che entrano nel mondo del lavoro». Ma i pensionati pesano troppo e, probabilmente, i giovani troppo poco. In una fase storica in cui il lavoro scarseggia e i pensionati abbondano la politica di Matteo Renzi rischia di irritare di più i frequentatori delle bocciofile piuttosto che le tute blu.