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Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Paolo Russo – La Stampa

Il caro-casa non conosce stagioni. Finito con l’estate il balletto sulla Tasi, ecco con l’autunno arrivare la stangatina sull’immondizia. Che secondo la Uil politiche territoriali, che ha elaborato per La Stampa i dati sulla tassa rifiuti, sommata proprio alla Tasi e alle addizionali comunali Irpef – ovunque in salita – si sarebbe già portata via, a chi li ha presi, gli 80 euro messi dal Governo in busta paga. Presentata sotto la nuova sigla Tari, la tassa sull’immondizia nel 2014 continua infatti a lievitare in larga parte d’Italia, nonostante già lo scorso anno siano stati registrati veri e propri maxi-aumenti.

Le rilevazioni della Uil dicono che la tassa rifiuti scenderà di poco quest’anno a Cagliari (-2,9%) e Napoli (-2,8), rimarrà sostanzialmente stabile a Milano e Venezia, ma è ancora una volta in salita a Roma (+3,8%), Torino (+8,8) Genova (8,2), Trieste (+16,3), Bologna (11,1) e Alessandria (+3,3). In valori assoluti l’aumento maggiore sarà pagato da chi abita a Trieste, dove per una famiglia con 4 componenti che abita in un appartamento di 80 metri quadri, quest’anno si pagheranno oltre 44 euro in più, che portano l’assegno da versare per lo smaltimento dei rifiuti alla bella cifra di 318 euro, mentre a Genova la stessa famiglia pagherà 24 euro di sovrapprezzo arrivare a un totale di 321, a Bologna 22 euro ma con un esborso complessivo di soli 221 euro, mentre a Torino per i rifiuti se ne andranno quasi 20 euro in più, per un totale di 245. Pur con un aumento contenuto a poco meno di 13 euro, tra le dieci città esaminate dall’indagine è Alessandria a detenere il record del caro-immondizia, con un versamento che si attesta addirittura oltre i quattrocento euro (sempre per la famiglia di riferimento considerata dai tecnici della Uil). Questo stando alle medie, ma la tassa varierà parecchio in base al principio «più inquini e più paghi», che in molte delibere comunali si traduce in prelievo maggiore per chi ha attività che producono molti rifiuti, tipo ristoranti e pizzerie, mentre in alcune città, come Torino, si è scelto di fare un po’ di sconto a chi fa la differenziata.

Quasi ovunque per la Tari si è versato un acconto tra giugno e luglio, che spesso non conteneva gli aumenti deliberati in queste settimane e che renderanno quindi più salato il saldo, da versare tra ottobre e dicembre a seconda del Comune. Se confrontato con il versamento dello scorso anno quello della Tari 2014 sembrerà tuttavia meno salato ai più. Non fatevi ingannare, è solo un’illusione. Lo scorso anno infatti la tassa sui rifiuti, allora battezzata Tares, comprendeva anche un sovrapprezzo di 30 centesimi a metro quadro, che non andava a finanziare lo smaltimento dei rifiuti ma quei servizi indivisibili per i quali ora paghiamo la Tasi. In pratica quei trenta centesimi li stiamo pagando da un’altra parte.

Per capire quanto i Comuni stiano aumentando il prelievo, per un servizio di smaltimento dei rifiuti che in tante città lascia a desiderare, il confronto più corretto andrebbe fatto con il 2012, quando lo scioglilingua fiscale aveva deciso di battezzare in due modi diversi (Tarsu o Tia la tassa sull’immondizia), ma senza comprendere nel pacchetto di quella imposta una quota per pagare gli altri servizi resi dai Comuni ai loro cittadini e, soprattutto, senza il vincolo, introdotto dalla legge soltanto in seguito, di coprire per intero il costo dello smaltimento rifiuti: il dettaglio che più di ogni altro rende salato l’appuntamento con la Tasi. Ecco allora la tassa lievitare in soli due anni del 98% a Cagliari (si paga insomma quasi il doppio), del 50% a Genova, del 27,2 a Milano e del 13,9 a Torino. A Roma l’aumento è stato contenuto al 3,8%. Ma quella della Capitale è tutta un’altra storia, visto che l’Ama, l’azienda partecipata che dovrebbe tenere pulita la città, fattura servizi per un valore complessivo di 752 milioni ma poi incassa più di un miliardo, per coprire i costi di un carrozzone che fino ad oggi ha prodotto più dirigenti ben pagati che pulizia nelle strade.

La responsabilità flessibile

La responsabilità flessibile

Piero Ignazi – La Repubblica

Un primo ministro in maniche di camicia che, dalla sede del governo, polemizza aspramente con una importante organizzazione degli interessi; e anche, il segretario del partito di sinistra che attacca frontalmente il proprio sindacato di riferimento. La durezza dello scontro è inedita per le forme; quanto ai contenuti nel passato s’era visto anche di peggio, ma si trattava di partiti moderati e conservatori, non di partiti aderenti alla famiglia socialista. Entrambi i contendenti hanno perso la misura, la segretaria della Cgil paragonando il capo del governo alla Thatcher, e Renzi accusando il sindacato di non aver fatto nulla per i più disagiati in questi anni. Ed entrambi i contendenti hanno ragioni e torti.

Le ragioni del capo del governo, e il merito del suo intervento, stanno nella natura “provocatoria” del messaggio, cioè nel provocare il maggiore sindacato italiano a maggiore disponibilità e maggiore inventiva. Senza un cambio di passo anche la Cgil come tutti gli altri sindacati italiani ed europei rischia l’irrilevanza. La parabola dei sindacati americani, un tempo potentissimi, rappresenta un monito per quelli europei. Persino in Scandinavia stanno perdendo terreno tanto in adesioni quanto nella stima e nella considerazione dell’opinione pubblica. Per il semplice fatto che tutti sono stati presi in contropiede dalle trasformazioni economiche post-fordiste. Non hanno avuto la flessibilità di adattarsi ai diversi rapporti di lavoro che proliferano dovunque (e ai nuovi rapporti di forza tra capitale e lavoro). Non hanno saputo reagire per tempo e con efficacia alla miriade di nuove forme di occupazione. E di conseguenza si sono, quasi inevitabilmente, rinserrati nel territorio che meglio conoscevano e più facilmente difendevano.

È però del tutto fuori misura tacciare i sindacati di indifferenza per gli “ultimi”. Chiunque conosca dall’interno quelle organizzazioni sa quanta generosità e dedizione vi circoli. Ma non è questione di cuore o di buona volontà. Si tratta di attuare un cambio di marcia e guardare al mondo del lavoro in un’ottica più ampia, individuando quali innovazioni siano necessarie e quali residui debbano essere abbandonati (e cosa debba essere difeso con le unghie e con i denti). Perché, quando tutto cambia, e la crisi non ha fatto altro che accelerare drammaticamente processi già in atto, le vecchie conquiste rischiano di essere zavorre che impediscono di acciuffare quelle nuove. Se ha ragione il capo del governo ad insistere nell’innovazione — il suo marchio di fabbrica, peraltro — ha ragione anche il sindacato nel chiedere che si tenga conto delle tante protezioni sociali che mancano ai lavoratori a incominciare dal sussidio di disoccupazione o salario di cittadinanza che sia. Il sindacato si poneva come rappresentante di diritti universali perché il proletariato di un tempo si percepiva, ed era visto, come il terzo stato della rivoluzione francese: “tutto” come diceva l’abate Sieyès. Contrariamente a coloro che li hanno inviati ad occuparsi solo dei loro associati (quante ditini alzati a riprovarli per invadenze nel passato), i sindacati devono sentire di nuovo una responsabilità generale per il “mondo del lavoro” includendo, ovviamente, in questo campo anche chi il lavoro non ce l’ha, l’ha perso, non l’ha mai trovato e rischia di non averlo per molto.

Quando Renzi racconta delle vite spezzate dei non-occupati sentirà certo il dovere etico di rimboccarsi ancora di più le maniche per trovare soluzione a quelle disperazioni. Ma è sicuro che la via più efficace sia quella di alzare al calor bianco la polemica con il sindacato più importante? Vero è che il capo del governo non ha mostrato alcuna deferenza nei confronti dei salotti buoni e delle gerarchie confindustriali (del resto è quello che ci si aspetta da un leader di sinistra). Per decenni l’Italia ha adottato una sua modalità di concertazione che ha prodotto risultati importanti. Per perseguire un obiettivo di carattere generale, ma in certa misura contrario agli interessi della sua organizzazione, un leader di grande prestigio ed autorevolezza come Bruno Trentin, dopo aver firmato l’accordo del ‘93, si dimise. La concertazione si è ossificata ed ha perso valore. Non per questo deve essere sostituita da duelli rusticani, anzi. La crisi drammatica che viviamo non necessita di capri espiatori (e semmai, ben altri ce ne sarebbero pensando a quanto ancora prosperano i tanti topi nel formaggio, come diceva Paolo Sylos Labini). Necessita semmai di una nuova modalità di relazioni tra governo e rappresentanti di interessi nella quale ciascuno contribuisca alle necessarie innovazioni. Esibizioni gladiatorie dall’una e dall’altra parte rendono tutto più difficile.

Draghi, i governi e i passi falsi

Draghi, i governi e i passi falsi

Eugenio Scalfari – La Repubblica

Sui giornali di tutta Europa ieri mattina campeggiava nelle prime pagine l’asta della Bce che sperava di collocare almeno 100 se non addirittura 150 miliardi di prestiti alle banche, ma ne aveva erogati soltanto 83. La richiesta di liquidità del sistema bancario per quattro anni di durata e a bassissimo tasso di interesse (lo 0,15 per cento) era stata circa metà del previsto. Draghi aveva dunque sbagliato diagnosi e ricetta per sconfiggere la deflazione?

La risposta a questa domanda nella maggior parte dei media era prudente nella forma ma critica nella sostanza: sì, Draghi aveva sbagliato. Ma qual era stato l’errore? Risposta: sopravvalutare il bisogno di liquidità in un’economia senza crescita. Ridotto all’osso: non è la Bce e quindi non è Draghi che può salvare l’Europa e la sua moneta. I fattori sono altri e riguardano l’economia reale, non quella monetaria. I vessilliferi di questa tesi sono da sempre alcuni grandi giornali americani ed europei e in particolare il Financial Times, il Frankfurter Allgemeine, il Wall Street Journal e cioè, per dirlo con chiarezza, la business community della Germania, la City di Londra e Wall Street; banche d’affari, fondi d’investimento speculativi, interessi che vedono l’euro come il fumo negli occhi.

I siti internet ieri avevano invece già cambiato tema e le Borse, che giovedì erano state piuttosto pesanti, ieri erano in eccezionale euforia: la secessione scozzese era stata battuta al referendum, il Regno Unito restava tale, la sterlina saliva ad un tasso di cambio nettamente più forte del dollaro e dell’euro, le critiche a Draghi confinate nelle sezioni economiche. Non c’è di che stupirsi, il circuito mediatico segue l’attualità. Del resto il referendum scozzese aveva sconfitto la tesi della secessione e la sorte dell’Europa era cambiata. Se il risultato fosse stato l’opposto probabilmente l’Europa oggi sarebbe agitata da un’altra tempesta che si aggiungerebbe a quelle già esistenti. Il tema della deflazione, della liquidità, del credito bancario, resta dunque, superato senza danni lo scoglio scozzese, un elemento dominante della situazione. L’Europa supererà la recessione che l’ha colpita e la deflazione che la sta soffocando?

La deflazione dipende da un crollo della domanda, la recessione dal crollo dell’offerta. L’Europa sta soffrendo di entrambi questi fenomeni ed è evidente che questa contemporaneità aggrava la crisi. Fino all’anno scorso si diceva che avevamo purtroppo raggiunto il livello di squilibrio del 1929; adesso si dice giustamente che l’abbiamo superato. Per sconfiggere la deflazione occorre una liquidità che tonifichi il sistema bancario e il volume dei prestiti che esso è in grado di offrire alle imprese. Ma se le imprese non hanno nuovi beni e nuovi servizi da offrire, non chiederanno prestiti alle banche. Il reddito nazionale diminuirà e con esso l’occupazione, i prezzi delle merci e dei servizi e le attese di ulteriori ribassi.

La Banca centrale offre liquidità alle banche ed esorta le autorità europee e i singoli governi nazionali ad effettuare riforme che rendano le imprese più competitive e con maggiore produttività. Le esorta, ma non spetta a lei di manovrare il fisco e influire sull’economia reale. Questo compito è assegnato alla Commissione europea. Sono la Commissione e il Parlamento a dover creare le condizioni di rilancio dell’offerta produttiva e quindi della crescita. Se questo non avviene il disagio sociale aumenta e altrettanto aumentano le diseguaglianze tra i ricchi, il ceto medio, i poveri.

Mi domando se la realtà di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi sia chiara ai governi confederati nell’Unione europea. A mio parere no, non è affatto chiara perché ciascuno di loro pensa a se stesso, al proprio egoismo nazionalistico, al proprio potere politico. Trionfo della politica sull’economia? Questo slogan esprime una volontà di potenza localizzata e sballa un sistema debole e incompleto. La Germania pensa a se stessa e idem la Francia, l’Italia e tutti gli altri. Questo è lepenismo allo stato puro, leghismo a 24 carati ed è ciò che voleva il 45 per cento degli scozzesi. Sembra paradossale sottolineare che il nazionalismo imperante coincide con le varie leghe antieuropee. Sono tutti e due fenomeni negativi che differiscono sulla localizzazione ma hanno la medesima natura: la politica deve dominare l’economia.

Questo è il clima che alimenta i governi autoritari e le dittature che non si accorgono dell’insufficienza degli Stati nazionali o regionali di fronte ai continenti. L’America del Nord è un continente, la Cina, l’Indonesia, la Russia dal Don a Vladivostok è un continente, l’America del sud è un continente. E noi ci battiamo per gli staterelli europei o addirittura per molte regioni inventate come la Padania? È la stessa cosa, lo stesso terrore, la stessa corta vista che ha la sua motivazione nella volontà di potenza dei singoli leader e nell’indifferenza di gran parte dei popoli ad essi politicamente soggetti.

Noi europei per uscire dalla crisi che ci attanaglia ormai da cinque anni dobbiamo riformare lo Stato con riforme mirate contro la recessione e la deflazione. La Banca centrale mette una massa monetaria a disposizione ma farà anche di più: sconterà titoli emessi dalle aziende, acquisterà titoli sovrani sul mercato secondario, punterà (e in parte c’è già riuscita) a svalutare il tasso di cambio euro/dollaro per favorire le esportazioni. Ma nel frattempo i governi, seguendo la politica della Commissione di Bruxelles dovranno privilegiare le riforme economiche su tutte le altre. Il nostro presidente del Consiglio vuole fare insieme una quantità di riforme per portare al termine le quali ci vorrebbero almeno due legislature. Chi può credere a programmi di questo genere?

Forse ignorano le cifre che riflettono la realtà, oppure hanno deciso di non tenerne conto. Faccio un esempio (ne ha già parlato il collega Fubini ma merita d’essere sottolineato). Si tratta della disoccupazione tra Italia e Spagna. Le cifre ufficiali dicono che in Italia è al 12 per cento e in Spagna al 24. La Spagna è dunque al doppio di noi calcolato sul numero degli abitanti quale che ne sia l’età. Ma la realtà non è questa. Se calcoliamo sulla popolazione attiva l’occupazione è in tutte e due i paesi del 36 per cento. Se calcoliamo sull’età dai 16 ai 64 anni gli occupati in Spagna sono il 74 per cento e in Italia il 63. Il governo conosce queste cifre? E se ne domanda il perché? La Spagna cresce più di noi. Come mai? Dov’è che stiamo sbagliando? L’ho già detto varie volte perciò non mi ripeterò. Dico soltanto che non è Draghi che sbaglia e neppure le autorità di Bruxelles cui la Spagna ha obbedito passo dopo passo. C’è anche un modo di fare i passi giusti e quelli sbagliati.

Una lotteria delle tasse che deprime il mercato

Una lotteria delle tasse che deprime il mercato

Saverio Fossati – Il Sole 24 Ore

La fiscalità immobiliare è diventata una lotteria, affidata alle mani di amministratori pubblici che probabilmente non considerano gli effetti delle loro decisioni. I continui mutamenti normativi, e la crescente autonomia dei Comuni, stanno creando una situazione di disparità e di incertezza, con effetti pesanti sul mercato immobiliare. Non si tratta, infatti, di considerare solo il generale gravame fiscale sul mattone, che ha già creato una forte diffidenza da parte dei proprietari sulla convenienza di una locazione (e di questa diffidenza sarà vittima anche il bonus, nuovo di zecca, per chi compra case nuove e le affitta per otto anni) ma di rendersi conto che lo stesso tipo di immobile, nello stesso tipo di Comune, paga imposte diverse, senza che ci sia un perché razionalmente comprensibile.

Se già le aliquote Imu si differenziano pesantemente da città a città, ora la Tasi aggiunge al panorama un elemento di disturbo (attraverso le complicazioni cui il contribuente è chiamato a far fronte) e di onerosità. Viene da chiedersi come sia possibile che per una casa affittata il proprietario possa pagare un’aliquota Imu che va dal 10,6 per mille a meno della metà, e che magari debba sopportare tutto il peso della Tasi mentre nel Comune confinante il 30% va a carico dell’inquilino. Costruire in un Comune medio-grande dove le imposte annuali sulla seconda casa locata siano, alla fine, il doppio che in un altro, vuol dire semplicemente creare le condizioni per non avere domanda. Non viene qui messo in discussione il principio dell’autonomia finanziaria, che poi si traduce, in pratica, nello scaricare sul mattone le difficoltà gestionali degli amministratori. Ciò che sorprende è l’incapacità di prevedere che, a parità di condizioni, chi deve costruire, a bocce ferme, lo farà nel Comune più conveniente, perché sarà lì che gli investitori potranno pensare di comprare una casa da mettere a reddito.

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

«Attenzione, l’articolo 18 riguarda 9 milioni di rapporti di lavoro dipendente su 18 milioni, quindi è una protezione che riguarda meno della metà dei dipendenti italiani» ha affermato ieri mattina ai microfoni di Radio24 il giuslavorista e senatore di Scelta Civica, Pietro Ichino. Un dato incontrovertibile. Ma che fotografa un “mondo immobile”, per usare un’espressione cara a Robert Lucas, teorico assertore della capacità della politica economica di mutare quadri apparentemente immutabili.

Se dai dati di stock volgiamo lo sguardo ai flussi, quelli che fotografano mese dopo mese con quali contratti si entra nel mercato del lavoro, scopriamo che i rapporti sono molto diversi. E che anche se le cose non cambiassero a lungo andare quei 9 milioni sono destinati a ridursi molto velocemente. Vediamo i dati relativi alle comunicazioni obbligatorie del secondo trimestre dell’anno. Dati buoni nonostante la crisi perché, come ha segnalato l’Isfol a fine agosto, segnalano un aumento delle assunzioni (+3,1% su base annua con circa 2.651.000 avviamenti), centrando il il miglior dato dal secondo trimestre del 2012. Ebbene quelle nuove assunzioni sono avvenute per oltre l’80% con contratti flessibili, per i quali non si applica l’articolo 18. Le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sfiorano appena il 15%, gli apprendistati il 3,1%, tutto il resto è flessibile. Per capire il decrescente peso relativo dell’articolo 18 bisogna poi considerare che solo una parte di quel 15% di assunzioni standard è avvenuta in un’azienda con più di 15 dipendenti, unico ambito in cui oggi vale la tutela reale contro i licenziamenti senza giusta causa. Insomma se oggi l’articolo 18 vale per meno la metà dei dipendenti la sua prospettiva sembra ancor peggiore, a dimostrazione di come il dibattito politico nazionale sia sempre inversamente proporzionale agli effetti pratici che una norma ha sulla vita delle persone.

Detto che il superamento dell’articolo 18 riguarda dunque una minoranza di lavoratori c’è ora da chiedersi se servirà a migliorare la qualità del lavoro, ovvero se il Governo vincerà la scommessa che si è dato con la “strategia Poletti”. Come hanno ben riassunto in un loro scritto su lavoce.info gli analisti Isfol Emiliano Mandrone, Manuel Marocco e Debora Radicchia, la strategia prevede «una prima liberalizzazione del rapporto di lavoro a termine (più quantità) e poi una complessiva semplificazione, con l’introduzione del contratto unico a tutele progressive (più qualità), sperando che la prima tamponi l’emergenza e la seconda sia sostenuta dalla ripresa economica». Prima è arrivato il decreto che ha cancellato le causali e ora dobbiamo aspettare il decreto legislativo che attuerà l’articolo 4 del Jobs Act.

Per sapere se funzionerà bisognerà aspettare e leggere i futuri andamenti del mercato del lavoro, le comunicazioni obbligatorie e, soprattutto, la lettura longitudinale del panel Isfol-Plus che seguirà. I tecnici dicono che già nel primo trimestre di applicazione delle nuove norme si potranno intravvedere segnali concreti, anche se non ancora molto significativi. Dopo 12 mesi si capirà invece meglio se la strategia ha funzionato. In questo caso non vedremo solo più assunzioni con contratto a tempo indeterminato, incoraggiate dal superamento dell’articolo 18. Vedremo anche un rafforzamento del “ruolo di ponte” svolto dai contratti non standard, quando essi assicurano poi una trasformazione a contratti standard. Quel “ponte”, come dimostrano gli analisti Isfol, è stato colpito dalla crisi: se tra il 2005 e il 2006 il 37,5% dei contratti flessibili si trasformava in contratti a tempo indeterminato, tra il 2010 e il 2011 quella percentuale è scesa di 5 punti, al 32,8%.

Il contesto sarà più difficile, perché il mercato del lavoro è diventato in generale più freddo sulle nuove assunzioni, avendo cumulato un calo degli occupati del 4,2% tra il 2008 e il 2013, l’equivalente di un milione di posti in meno. Ma se la “strategia Poletti” riuscirà a centrare l’obiettivo con la «certezza delle non reintegra in caso di licenziamento illegittimo», allora più contratti flessibili potranno essere trasformati in standard e il “ponte” tra quantità e qualità verrà ricostruito.

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Il Sole 24 Ore

Dal salotto di Porta a porta lo scorso marzo il premier Matteo Renzi aveva scommesso con il conduttore: «Il 21 settembre a San Matteo, ultimo giorno d’estate, se abbiamo sbloccato tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Quel giorno è arrivato: Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo, gli imprenditori italiani no. «La tappa del 21 settembre ci vede ancora distanti dal traguardo», nota il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti: all’appello mancano 21,4 miliardi di euro perché al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, pari al 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014. «La promessa non è stata mantenuta», gli fa eco Giuseppe Bertolussi, presidente della Cgia di Mestre: «Lo Stato italiano rimane il peggior pagatore d’Europa». Per la Cgia, in tutto, i fondi resi disponibili nel biennio 2013-2014 ammontano a 56,8 miliardi, ma alle aziende sono stati pagati soltanto 26,1 miliardi, più gli altri 5-6 miliardi che secondo il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sarebbero stati versati dopo il 21 luglio. Insomma: restano da saldare altri 24-25 miliardi.

Debiti commerciali della Pa al 3,3% del Pil
Merletti riconosce gli sforzi compiuti negli ultimi due anni, «che hanno portato a un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma ricorda che «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti commerciali della Pa, pari al 3,3% del Pil.

La piattaforma per certificare i crediti sconosciuta ai più
Secondo un sondaggio Ispo-Confartigianato condotto su un campione di Pmi, il 61% non sa dell’esistenza della piattaforma governativa web che consente di certificare i crediti commerciali vantati nei confronti della Pa e farsi scontare le fatture in banca (è in virtù di questo sistema che Renzi e Padoan considerano mantenuta la promessa). Del 39% che la conosce, l’ha utilizzata il 9%, che la promuove con un voto più che sufficiente. Gli altri sono scettici sulla sua efficacia e temono che la certificazione allunghi ancora i tempi di riscossione. In cifre, le registrazioni alla piattaforma all’8 settembre risultano 15.613, aumentate al ritmo di 49 imprese al giorno dal 24 agosto. Le istanze di certificazione sono 56.189, per un importo complessivo di 6 miliardi e un importo medio di 107.762 euro.

Scendono i tempi medi di pagamento
Se sul fronte dei debiti arretrati prevale l’incertezza, va molto meglio la situazione dei tempi di pagamento della Pa. L’indagine Ispo-Confartigianato mette in luce come in media tra gennaio e settembre 2014 gli enti pubblici siano passati da 104 a 88 giorni. A sorpresa, gli enti più “virtuosi” sono le Asl che riescono a saldare le fatture in 75 giorni, rispetto ai 106 rilevati a gennaio. Più lenti i Comuni (89 giorni, contro i 104 di inizio anno). Resta peggiore in generale l’attesa al Sud, dove la pubblica amministrazione impiega 108 giorni per saldare le fatture alle imprese (erano 122 a gennaio).

Ma i 30 giorni restano una chimera
Nonostante l’accelerazione, Confartigianato rileva come la meta dei 30 giorni imposti dalla legge in vigore dal 1° gennaio 2013 resti molto lontana. Appena il 15% degli imprenditori interpellati dichiara di essere stato pagato entro un mese, mentre soltanto l’8% delle imprese sostiene di non aver ancora riscosso il credito. Sale peraltro dal 12 al 19% la quota di imprese che segnala comportamenti anomali da parte della Pa, come la richiesta di ritardare l’emissione delle fatture, la pretesa di remissione, la contestazione pretestuosa dei beni e servizi forniti.

Sotto tiro anche gli altri fabbricati

Sotto tiro anche gli altri fabbricati

Il Sole 24 Ore

Non solo prima casa. In una città su due, la Tasi colpisce anche gli immobili diversi dall’abitazione principale. Come dimostrano le elaborazioni del Caf Acli sulle delibere ufficiali, in più di 3.800 Comuni su 7.405 la nuova imposta sui servizi indivisibili comunali si aggiunge all’Imu sugli immobili locati, i fabbricati produttivi, le aree edificabili, gli edifici rurali strumentali. Le regole locali variano secondo molte sfumature, ma la sostanza è che la Tasi – oltre a essere l’erede dell’Imu sulla prima casa – costituisce spesso una sorta di addizionale impropria dell’Imu: stessa base imponibile, identico limite di prelievo dato dalla somma delle due aliquote e scadenze di versamento parzialmente allineate (acconto Tasi al 16 ottobre per i Comuni che non avevano deliberato a maggio, saldo Tasi e Imu al 16 dicembre per tutti i contribuenti).

L’aliquota media della Tasi sugli “altri immobili” è pari all’1,31 per mille. Lontana dall’1,95 per mille della Tasi sull’abitazione principale, ma pur sempre al di sopra del livello base dell’1 per mille. Oltretutto, in questo caso bisogna considerare che c’è anche un limite generale fissato dalla legge, per cui la somma di Tasi e Imu può superare il 10,6 per mille solo se il Comune sfrutta il margine di aumento straordinario dello 0,8 per mille, con un tetto massimo dell’11,4 per mille. È probabile, quindi, che molti dei Comuni che non hanno istituito la Tasi sugli immobili diversi dalla prima casa avessero già l’Imu al massimo e non abbiano voluto fare una sorta di “scambio” tra i due tributi.

A complicare il quadro c’è il fatto che molti Comuni hanno previsto aliquote differenziate tra le diverse tipologie di “altri immobili”, modulando il prelievo in modo diverso – ad esempio – tra abitazioni locate, case sfitte, negozi, capannoni e così via. Sugli immobili affittati, ad esempio, l’aliquota media è pari all’1,33 per mille, mentre la quota a carico dell’inquilino ammonta al 18,4% e si piazza a metà della forchetta dal 10 e il 30% prevista dalla legge. A quanto pare, molti amministratori locali si sono discostati dalla quota minima – che secondo le previsioni della vigilia avrebbe dovuto essere la più usata – per evitare che l’imposta dovuta si riducesse a pochi spiccioli, finendo così sotto la soglia minima di versamento e diventando quasi impossibile da riscuotere in caso di mancato pagamento. È tutto da dimostrare, però, che l’aumento della quota a carico dell’inquilino sia sufficiente a superare questo difetto di costruzione del tributo: oltretutto, a dover pagare non solo gli inquilini, ma gli occupanti in generale, e quindi anche i comodatari, che detengono un immobili in prestito dai parenti, i titolari di contratti di leasing, le badanti e i conviventi non sposati con il proprietario.

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Paolo Natale – Europa

I più attempati tra noi ricorderanno certamente il vecchio slogan degli anni settanta: Lama non l’ama nessuno. Quando il segretario della Cgil si presentava ai comizi, quando faceva capolino nelle università occupate, quando andava nelle fabbriche per calmare gli operai più bellicosi, si sentiva apostrofare così dai gruppi di contestatori più creativi. Allora il sindacato pareva essere, peraltro, una delle poche realtà cui fare riferimento per cambiare il mondo, per cambiare la politica, per riannodare le lotte di fabbrica con il territorio.

Oggi, si sa, non è più così. Ed il sindacato, nelle sue diverse sigle oppure nella sua totalità, non sembra essere apprezzato che da pochi. Se i partiti godono di una fiducia, da parte degli italiani, poco superiore al 10 per cento, le confederazioni sindacali non stanno molto meglio, con giudizi positivi che si fermano intorno a 20-21 punti percentuali. Se gli iscritti, tra lavoratori e pensionati, sono circa 15-16 milioni, pari al 30 per cento dei maggiorenni, questo significa che, paradossalmente, molte delle valutazioni negative arrivano addirittura tra chi aderisce ad uno dei sindacati. E non sono soltanto gli elettori di centro, di destra o non schierati (come molti dei pentastellati) a valutarli male, ma anche quelli che si definiscono di centrosinistra o di sinistra: chi dichiara che voterà Rifondazione o Sel fornisce valutazioni sufficienti ai sindacati soltanto per il 30 per cento, chi voterà Pd per il 25 per cento. Mentre tra gli astensionisti la fiducia è simile a quella per i partiti, un ridotto 5-6 per cento. Una specie di disastro li accomuna nella percezione diffusa della popolazione.

Il giudizio di fondo è evidente: i sindacati si occupano solamente dei propri iscritti, di chi il lavoro ce l’ha ed è occupato nelle aziende medio-grandi. Per tutti gli altri, per chi non ha lavoro, per chi è precario, per chi è in nero e cerca qualcosa di meno provvisorio, le loro azioni paiono inesistenti. Se non contro-producenti. Inutile dire cosa ne pensa la popolazione italiana della strenua difesa dell’articolo 18. Non che piaccia venir licenziati senza giusta causa, è ovvio, ma la percezione generale è che le disposizioni contenute in quell’articolo siano qualcosa di talmente antiquato che oggi non se ne vedono più le ragioni, che allora apparivano al contrario fondamentali per la salvaguardia del proprio impiego.

La stragrande maggioranza dei cittadini è d’accordo che venga dunque riformulato, alla luce delle mutate condizioni di lavoro, dell’attuale stato dell’occupazione, della mobilità reale che sempre più spesso appartiene alla storia personale della vita lavorativa. Quando c’è. Certo non è vero che la colpa della crisi occupazionale è dell’articolo 18, ma è vero che il dibattito che ruota intorno a quell’articolo appare oggi svuotato di senso, tra gli italiani. E anche tra gli stessi elettori del Pd, che ne vedrebbero volentieri un superamento alla luce delle mutate condizioni di lavoro. Una quota vicina al 70 per cento dei votanti Pd vorrebbe una nuova legge sul lavoro, che dopo aver fatto il punto sullo stato attuale, cerchi di diventare un nuovo punto di riferimento per gli anni futuri. Tra la flessibilità e la sicurezza, al passo con i tempi così diversi dagli anni settanta.

La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un comune su tre

La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un comune su tre

Mario Sensini – Corriere della Sera

Il termine è scaduto alla mezzanotte di ieri e i Comuni che non hanno deliberato in tempo le aliquote della nuova Tasi dovranno accontentarsi, a dicembre, di un incasso ridotto. Tutti gli altri sindaci possono sorridere, ed i loro cittadini preoccuparsi. Messe tutte le carte sul tavolo – le delibere comunali – l’imposta destinata a superare l’Imu rischia di essere ben più salata della progenitrice nella maggior parte dei Comuni per molte famiglie italiane, in particolare quelle più povere e quelle con i figli. E più leggera per chi sta meglio. L’Associazione dei Comuni dice che nei municipi dove le aliquote sono state già fissate a maggio, sulla prima casa, si è pagato il 30% in meno, ma i Caf e molti centri studi sono convinti che, alla fine, il conto complessivo sarà più salato dell’Imu 2012, che fu di 4,4 miliardi.

Sugli 8.057 Comuni italiani, quelli che hanno fissato le aliquote Tasi entro la scadenza definitiva sono stati 7.405. Nei poco più di 600 municipi che non hanno voluto o non sono stati in grado di decidere, la Tasi sulla prima casa si pagherà il 16 dicembre in una sola rata, con l’aliquota di base dell’1 per mille (applicata allo stesso imponibile della vecchia Imu: rendita catastale rivalutata del 5% e moltiplicata per 160). Negli altri Comuni la tassa sulla casa di abitazione, dovuta in due rate il 16 ottobre e il 16 dicembre, sarà ben più cara.

Secondo i calcoli del Caf si pagherà l’1,95 per mille, ma è una media di tutti i Comuni, piccoli e grandi: nelle città maggiori il conto sarà di sicuro più salato. Secondo il Servizio Politiche Territoriali della Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu. Tra i capoluoghi di provincia, vale la pena di sottolineare, la Tasi non si paga solo a Olbia e a Ragusa. È tuttavia e soprattutto il meccanismo caotico delle detrazioni, più delle aliquote, a generare gli effetti meno gradevoli. Con l’Imu c’era una detrazione fissa di 200 euro, più 50 euro per ogni figlio a carico, mentre stavolta i sindaci sono stati lasciati liberi di scegliere, potendo applicare una maggiorazione dello 0,8 per mille proprio per finanziare le detrazioni, e si sono sbizzarriti con la fantasia. A conti fatti, però, le agevolazioni sono state drasticamente tagliate.

Solo il 35,9% dei Comuni ha previsto uno sconto. Il 15% ha optato per una detrazione fissa, il 19% le ha legate alla rendita catastale della casa, e solo il 13,3% del totale (appena 869 Comuni) le ha concesse per i figli a carico, e quasi in tutti i casi solo a partire dal terzo o quarto figlio. Uno sparuto gruppo di 37 Comuni ha tarato le agevolazioni sul reddito del proprietario, altri 173 si sono affidati all’Isee. Ma solo 179 hanno tenuto conto dei figli con handicap, e 146 hanno previsto sconti in base all’età dei proprietari. Premiando i più anziani, over 65 e over 70, quando uno degli effetti dell’Imu era quello di spostare il carico fiscale dalle nuove alle vecchie generazioni.

Quel poco di funzione redistributiva della vecchia Imu, in ogni caso, non c’è più. Un esempio di come sono destinate a cambiare le cose lo fa Paolo Conti, direttore generale del Caf Acli. Con la vecchia Imu del 2012 (nel 2013 è stata sospesa, e solo in alcuni Comuni si è pagato una quota minima) su una prima casa con valore catastale di 60 mila euro, tassata all’aliquota massima del 4 per mille, si pagavano 40 euro: 240 d’imposta meno i 200 della detrazione fissa. Se ci fosse stato anche solo un figlio, addirittura niente. In un Comune dove non sono previste detrazioni, e sono i due terzi del totale, con la Tasi al 2 per mille (il tetto massimo è il 2,5), quest’anno si pagheranno 120 euro. Al contrario, una casa di abitazione più lussuosa, con un valore di 150 mila euro, se pagava 400 euro di Imu (600 di imposta meno 200 di detrazione), domani pagherà 300 euro di Tasi.

Nei Comuni che hanno optato per le detrazioni è molto più difficile capire fin d’ora, basandosi sulle carte, come andrà a finire. Anche perché la maggiorazione poteva essere spalmata anche sulle seconde case, i terreni, gli esercizi commerciali, i capannoni industriali, dove la Tasi si somma all’Imu, e dove i sindaci, ad ogni buon conto, non hanno rinunciato a fare cassa. Là dove l’Imu non era già ai livelli massimi, e dunque si potevano alzare le tasse, in tanti ci hanno infilato anche la Tasi: metà dei Comuni ha «arrotondato» con la Tasi l’Imu sulle seconde e terze case, sugli esercizi commerciali e gli studi professionali, sulle aree edificabili, sugli immobili agricoli, sui capannoni industriali. Pochissimi, appena il 5%, hanno assimilato alla prima casa gli immobili concessi in comodato ai figli. La metà dei Comuni, piuttosto, ha imposto la Tasi anche sulle case affittate, colpendo anche gli inquilini. Pagheranno, in media, poco meno del 20%. Molti, tra l’altro, ne sono ignari. Ed è un’altra complicazione, perché inquilini e proprietari dovranno provvedere ciascuno per proprio conto ai calcoli e al pagamento della Tasi. Se l’inquilino non paga la sua quota, riceverà prima o poi una cartella esattoriale, ma dopo esser stata esclusa, ora è prevista la responsabilità solidale dei proprietari, che alla fine potranno esser chiamati a pagare.

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Il presidente di ImpresaLavoro interviene alla rubrica “Fatti e Misfatti” del TgCom24, condotta dal giornalista Paolo Liguori, per un confronto con Francesca Re David, del Comitato Centrale Fiom. Ancora una volta al centro del dibattito la riforma del lavoro, con particolare riferimento all’articolo 18.