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Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Francesco Forte – Il Giornale

In luglio la produzione industriale italiana ha avuto un calo dell’1% sul giugno e un calo dell’1,6% sul luglio 2013 che ha portato a zero la sua crescita per i primi 7 mesi del 2014. Ora si teme che il terzo trimestre possa avere ancora segno negativo e che il Pil 2014 abbia la crescita zero. Gli 80 euro in busta paga, che hanno dato ai lavoratori a basso reddito un miglioramento piccolo in sé ma per loro significativo, non sono serviti a dare una scossa al Pil. Altri sono i fattori che servono. Pesa la persistente crisi dell’edilizia, privata dovuta alle troppe tasse e di quella pubblica dovuta ai troppi vincoli. E pesa l’inadeguata performance delle nostre imprese nel commercio estero, dovuta sia alle tropo tasse sul lavoro e sia alla rigidità dei contratti di lavoro, aggravata dalle sanzioni alla Russia e dai problemi nel Medio Oriente. Infine c’è una carenza di investimenti delle industrie, dovuta alla loro scarsa convenienza.

Le nostre imprese sono oberate da una fiscalità eccessiva, che riguarda soprattutto il costo del lavoro tramite l’anomalia dell’Irap, un’imposta diretta che colpisce con una aliquota fra il 4 e il 5% il costo del lavoro al lordo dei contributi sociali con un gravame sulle retribuzioni lorde di circa il 6%. Con questo aggravio la tassazione dei profitti che con l’imposta sulle società (inclusi gli interessi passivi tassabili) si aggira sul 32%, raddoppia. E arriva al 70% nelle imprese ad alta intensità di lavoro. Dunque occorre agire sull’Irap con una riduzione che la azzeri, in tre anni, per imprese e lavoro autonomo. Servono 16-17 miliardi (l’operazione 80 euro è costata 8 miliardi).

L’analisi dei dati sulla produzione industriale a luglio 2014 fa capire che le tasse eccessive hanno una grossa colpa del brutto risultato netto. L’industria estrattiva, che riguarda soprattutto i materiali per l’edilizia, ha avuto una diminuzione del 7,8%. La fabbricazione di apparecchiature elettriche e di quelle per uso domestico non elettriche, due altri settori importanti nell’edilizia, è scesa addirittura del 13,9%. Sono andate male anche l’industria del legno (-3,0) e quella tessile e dell’abbigliamento e della pelle e accessori (-5,9%). Per la prima c’è, come spiegazione, la flessione della domanda interna connessa alla crisi edilizia e di quella estera per i mobili made in Italy; per la seconda gioca negativamente la riduzione di competitività della nostra produzione. Sono scese del 2,1 % la metallurgia e del 2,8% la produzione di macchinari e attrezzature, in espansione le produzioni elettroniche (+4,8%), quelle di farmaceutici (+3,0), di mezzi di trasporto (+2,9) e di prodotti chimici (+0,5). Gran parte di questi settori che vanno bene sono ad alto contenuto tecnologico e a bassa intensità di lavoro. Fa eccezione l’industria dell’auto, che è in espansione perché funziona la terapia Marchionne di contratti di lavoro aziendali di produttività e di innovazione organizzativa.

Per trovare la copertura per il taglio dell’Irap, bisogna operare sulla spesa. Dal blog del commissario Carlo Cottarelli rilevo che per l’acquisto di beni e servizi le pubbliche amministrazioni pagano prezzi spesso superiori a quelli praticati dalla Consip, la società che li dovrebbe gestire, a cui esse non si rivolgono, usando abili espedienti. Ci sono 2.671 società partecipate dai Comuni che hanno solo amministratori e zero addetti o meno addetti che amministratori. Il consumo per abitante per illuminazione pubblica dei nostri comuni è più che doppio di quello tedesco e inglese. Così dal satellite risulta che l’Italia è, di notte, la parte più luminosa del pianeta.  

Lavoro, Italia ultima nell’Unione europea per efficienza

Lavoro, Italia ultima nell’Unione europea per efficienza

Repubblica.it

Mentre in Senato ci si appresta ad affrontare il nodo dell’articolo 18 all’interno della discussione sul Jobs Act, alcuni dati mostrano che il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum.

Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

L’indicatore dell’efficienza è in realtà un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, rileva ImpresaLavoro, “siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro”.


E l’Italia è ancora ultima per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo penultimi (davanti alla sola Romania) per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non a criteri poco trasparenza (amicizia, parentela, raccomandazione) e finiamo in coda anche con riferimento alla capacità di attrarre talenti (quart’ultimi) e di trattenere talenti (23mi su 28).

“Questa performance negativa è frutto certamente dei difetti strutturali del nostro sistema ma i provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno certo aiutato a migliorare la situazione”, commenta Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro. “L’elaborazione del nostro Centro Studi – sottolinea Blasoni – chiarisce come i problemi del nostro mercato del lavoro siano da tempo sempre gli stessi e abbiano subìto un peggioramento piuttosto marcato rispetto al 2011, complice con ogni probabilità l’ulteriore irrigidimento delle regole stabilito dalla cosiddetta Riforma Fornero. Gli alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, e i cronici bassi tassi di attività sono una diretta conseguenza di un sistema tributario e di regole che rendono sempre più difficile assumere e creare occupazione”.

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

ilsole24ore.com

Presto al pettine il nodo del Jobs Act, la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Martedì la commissione Lavoro del Senato esaminerà le proposte di modifica dell’articolo 4, che riguarda lo Statuto e che delega al Governo il riordino delle forme contrattuali. I partiti centristi della maggioranza (e Renzi) vorrebbero inserire le modifiche sui licenziamenti per le imprese che superano i 15 dipendenti, mentre la sinistra Pd chiede di non modificare il perimetro della delega. Obiettivo del Jobs Act, in Aula a palazzo Madama del 23 settembre, è modernizzare il mercato del lavoro, che secondo un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati del World Economic Forum è ultimo per efficienza in Europa (e in particolare nelle modalità di assunzione e licenziamento) e 136mo su 144 censiti nel mondo.

Donne e lavoro, confermato il 93° posto (su 144) 
Nella classifica dell’efficienza il nostro mercato del lavoro si piazza infatti poco sopra a Zimbabwe e Yemen, e viene superato da Sri Lanka e Uruguay. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale, e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore, così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

Efficacia, Italia fanalino di coda in Europa 
La performance del nostro mercato del lavoro è negativa anche per i parametri relativi all’efficacia, che ci vedono tra gli ultimi nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, rileva ImpresaLavoro, «siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario (contrattazione nazionale prevalente su quella decentrata). Siamo anche il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività e per l’alto livello di tassazione sul lavoro.

Ecco perché non è follia dare i soldi Bce alla gente

Ecco perché non è follia dare i soldi Bce alla gente

Giampaolo Rossi – Il Giornale

La moneta al popolo! Detta così, sembra una frase da aizza-folla, da Masaniello degli anni 2000, eppure è un’idea che circola con sempre maggiore frequenza tra gli economisti. L’idea è questa: stampare denaro in grande quantità e darlo direttamente al popolo (cioè ai cittadini, ai consumatori) senza passare per la mediazione delle banche; probabilmente è l’unica maniera affinché il denaro entri direttamente nell’economia reale rivitalizzando produzione e consumi.

Il meccanismo attuale prevede che le Banche centrali (Fed o Bce che siano) immettano denaro nel sistema dandolo alle banche private a tassi irrisori (più vicini allo zero) e affidandosi poi al fatto che siano le banche stesse ad alimentare la politica di credito. Un meccanismo che non funziona: il denaro ricevuto le banche se lo tengono stretto per coprire i loro bilanci disastrati e reintegrare i loro attivi. La tranche di liquidità che nel dicembre del 2011 la Bce iniettò nel mercato portò nei conti delle banche italiane circa 60 miliardi netti ad un tasso dell’1%. A gennaio 2012 le stesse banche acquistarono circa 69 miliardi tra Btp (ad un rendimento medio del 3,5%) e obbligazioni bancarie; a imprese e famiglie non andò nulla. Stessa cosa avvenne con la successiva operazione da 80 miliardi.

Anatole Kaletsky, economista della scuderia di George Soros, ha spiegato che se la grande quantità di denaro creato dalle banche centrali fosse andato ai cittadini sarebbe equivalente a 6.000 dollari a testa per ogni uomo, donna e bambino Usa e 6.500 sterline per ogni inglese». Conti alla mano, se gli oltre 1.000 miliardi di euro che Draghi stampò nel 2012 attraverso le due operazioni Ltro della Bce fossero stati dati direttamente a noi, ogni cittadino europeo si sarebbe messo in tasca più di 3mila euro: una famiglia francese, italiana o spagnola di quattro persone, avrebbe avuto a disposizione 12mila euro per rilanciare i consumi, investire o anche solo ridurre la propria esposizione debitoria (altro che gli 80 euro di Renzi ai suoi elettori).

L’idea percorre la storia dell’economia da decenni: già Milton Friedman, premio Nobel per l’Economia, suggeriva di prendere un elicottero e di lanciare banconote alla popolazione per stimolare le fasi di crisi. Nel 1998, Ben Bernake, allora non ancora presidente Fed ma solo professore universitario, sollecitò la Banca Centrale del Giappone a dare contanti direttamente alle famiglie per affrontare la crisi.

Recentemente su Foreign Affairs , una delle più importanti riviste di analisi internazionale, gli economisti Mark Blyth e Eric Lonergan hanno rilanciato l’idea: «non serve pompare migliaia di miliardi di dollari di nuovo denaro nel sistema finanziario», generando «un ciclo dannoso di boom e crisi, deformando gli incentivi e distorcendo i prezzi delle attività» ma occorre pensare a qualcosa di «simile ai soldi lanciati dall’elicottero di Friedman». Una soluzione che «nel breve termine, potrebbe far ripartire l’economia; nel lungo termine, ridurre la dipendenza della crescita dal sistema bancario». Insomma, «la moneta al popolo» non è più accolta come una suggestione bizzarra.

Perché fino ad oggi nessuno ha mai avuto il coraggio di rivendicarla? Per due ragioni, una tecnica ed una politica. Quella tecnica attiene alla paura di rischi inflazionistici; problema inesistente in una fase in cui l’economia mondiale scivola verso la deflazione. Stampare denaro, poi, e darlo direttamente ai cittadini significa ridurre il potere delle potentissime lobby bancarie. Questo, forse, è l’ostacolo maggiore perché potrebbe sdoganare ciò che per le oligarchie tecno-finanziarie è un tabù: la «proprietà popolare» della moneta fa passare il principio che il denaro, al momento della sua emissione, non appartiene ai banchieri ma ai cittadini. Una vera rivoluzione.

L’agenda sbagliata del premier

L’agenda sbagliata del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Dice il nostro premier che il suo governo va giudicato fra 1000 giorni, anziché dopo i primi 200, quanti ne sono passati dal suo insediamento a Palazzo Chigi. Ha ovviamente ragione, se si riferisce al corpo elettorale, che potrà esprimersi solo al momento del voto (a proposito: quando si voterà? La legislatura non scade fra 1000 giorni, bensì un anno più in là…). Ma non ha ragione se si riferisce all’opinione pubblica, che ha tutto il diritto di discutere e giudicare il suo governo «passo dopo passo». Un governo si promuove o si boccia con le elezioni politiche, ma si discute e si giudica giorno per giorno. Sette mesi non sono tanti, ma non sono neppure pochissimi per valutare l’azione di un governo. Dopotutto, la domanda che quasi tutti ci facciamo è una sola: Renzi ce la farà a «cambiare verso» all’Italia, interrompendo un regime di stagnazione e recessione che dura da troppo tempo?

È il caso di notare, per cominciare, che un successo di Renzi se lo augurano non solo i renziani, ma anche buona parte degli italiani che non hanno votato Pd nel 2013 (alle Politiche), o non hanno votato Renzi nel 2014 (alle Europee). Nessun governo precedente, della prima o della seconda Repubblica, ha mai goduto di aspettative così diffuse e trasversali agli schieramenti. Nessun premier ha beneficiato di un’apertura di credito così ampia e convinta. Nessun governo, tranne forse il governo di solidarietà nazionale ai tempi del terrorismo, ha mai goduto di un appoggio esterno benevolo come quello che Forza Italia sta fornendo al governo Renzi. Altroché gufi, nessun premier ha avuto mai così tanti tifosi!

Dunque le possibilità di Renzi, sulla carta, sono decisamente buone. Nonostante tutte queste condizioni favorevoli, nelle ultime settimane è cominciato a serpeggiare il dubbio che Renzi possa non farcela o, stando ai critici più severi, che la sua volontà di cambiare l’Italia sia più gattopardesca di quel che era sembrata all’inizio. Come mai? Alcune ragioni sono evidenti: l’inflazione degli annunci (la cosiddetta «annuncite»), il mancato rispetto delle scadenze spavaldamente fissate per le varie riforme epocali (legge elettorale, lavoro, fisco, giustizia, pubblica amministrazione), la litigiosità dei parlamentari del Pd, la natura pasticciata di alcuni provvedimenti, l’incertezza in materia di tasse, compreso il tormentone del rinnovo del bonus di 80 euro, per il quale ancora oggi nessuna legge stabilisce le coperture nel 2015.

C’è una ragione, tuttavia, che a me pare più influente di tutte le altre. Da qualche settimana anche gli osservatori più benevoli cominciano a sospettare che Renzi abbia completamente sbagliato le priorità e, soprattutto, che ormai sia troppo tardi per recuperare. Il ragionamento, in breve, è questo: se vuoi far ripartire la crescita, come tutti i politici affermano di voler fare, devi prendere alcune decisioni impopolari in campo economico-sociale (tagli di spesa pubblica, liberalizzazione del mercato del lavoro); ma quelle decisioni le puoi prendere solo quando il tuo consenso è al massimo, ovvero durante i primi mesi di governo (la cosiddetta luna di miele); e se lasci passare quella finestra di opportunità, tutto diventa più difficile, se non impossibile.

Ora il punto è che la luna di miele pare stia già tramontando. Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato, condotto da Demos & Pi e presentato da Ilvo Diamanti su Repubblica, fra giugno e settembre il Pd ha perso 4 punti, ma la popolarità di Renzi è scesa di ben 14 punti, ossia 10 punti di più. E’ vero che la rilevazione di giugno era drogata dal successo alle Europee, ma resta il fatto che il consenso di Renzi risulta in diminuzione anche rispetto a marzo e a maggio.

La fine della luna di miele, un fatto fisiologico dopo 200 giorni di governo, sembra dare ragione a quanti, da mesi, non si stancano di ripetere che è stato un grandissimo errore dare la precedenza, mediatica e parlamentare, al cambiamento della legge elettorale della Costituzione, e rimandare tutte le riforme economico-sociali più importanti, a partire dal Jobs Act. Il cambiamento delle regole, infatti, produrrà effetti solo fra qualche anno, e comunque non incontra alcun serio ostacolo da parte dell’opinione pubblica, che ha ben altre priorità. Alcune riforme economico-sociali, invece, possono produrre effetti molto più rapidamente, ma richiedono il massimo di consenso dell’opinione pubblica, per vincere le inevitabili resistenze delle mille lobby che temono di perdere i loro privilegi. Secondo questi critici Renzi doveva dare assoluta priorità al mercato del lavoro, ai tagli di spesa e alla riduzione del costo del lavoro per le imprese, lasciando che le riforme delle regole elettorali e istituzionali facessero tranquillamente il loro corso parlamentare, senza ritardare le assai più urgenti e vitali riforme economico-sociali.

Il fatto curioso è che questa mancanza di coraggio (ma forse sarebbe meglio dire: questa mancanza di tempismo) in campo economico-sociale si sta già ritorcendo contro il governo. Renzi ha deciso da tempo di non rispettare l’obiettivo del 2.6% di deficit che egli stesso aveva imprudentemente fissato a primavera, e si appresta a negoziare con l’Europa un’interpretazione flessibile degli impegni assunti. Ma le sue possibilità di riuscire nell’intento, e soprattutto di evitare la reazione negativa dei mercati di fronte all’ennesimo ritardo nel percorso di risanamento dei conti pubblici, sono state enormemente ridotte precisamente dalla scelta, fatta a marzo, di posticipare le riforme difficili, che sono quelle economico-sociali, e di trastullarsi con quelle facili, legge elettorale e svuotamento del Senato, il cui percorso parlamentare è garantito dall’accordo con Silvio Berlusconi.

Si potrebbe pensare, o meglio sperare, che le «riforme strutturali», a partire da quella del mercato del lavoro (cui tuttora mancano i tre tasselli fondamentali: codice semplificato, contratto a tutele crescenti, ammortizzatori sociali universali), siano solo un’ossessione degli studiosi, i detestati «esperti» da cui il nostro suscettibile premier «non accetta lezioni». Sfortunatamente non è così. I mercati finanziari si sono già accorti della nostra lentezza, anche se i politici preferiscono non vedere il segnale che essi ci mandano. Eppure quel segnale è chiaro e forte: fra gennaio e oggi la diminuzione dello spread, che ha coinvolto un po’ tutti i Paesi dell’eurozona, è stata in Italia minore che negli altri Pigs, ossia Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Segno che i mercati percepiscono la differenza fra le velocità con cui i Paesi più indebitati ristrutturano le loro economie.

In concreto, tutto ciò significa che aver rimandato le riforme che contano potrebbe costarci caro. Subito, sotto forma di minore disponibilità dell’Europa a concedere sconti ai soliti inaffidabili italiani. In prospettiva, sotto forma di rischio sui mercati finanziari: se un’altra crisi dovesse scuotere l’euro, l’Italia non ne sarebbe al riparo, perché troppo poco ha fatto e sta facendo per fermare il proprio declino.

Erano tutti meglio di Pittibimbo

Erano tutti meglio di Pittibimbo

Maurizio Belpietro – Libero

Sono trascorsi circa sette mesi da quanto Matteo Renzi ha giurato come presidente del consiglio. Il giorno in cui si presentò al Quirinale dopo aver liquidato Enrico Letta, il debito pubblico era a quota 2.107 miliardi, 61 miliardi in meno di oggi, il tasso di disoccupazione al 12 per cento (ora è al 12,6), il Prodotto interno lordo allo 0,1 per cento in più, mentre adesso allo 0,2 per cento in meno. Tradotto in poche parole, si stava meglio quando si stava peggio, cioè prima che nascesse il governo del cambiamento battezzato dall’ex sindaco di Firenze. A dirla tutta, si stava meglio tre anni fa, cioè prima che il governo legittimamente eletto di Silvio Berlusconi – l’ultimo avallato dagli italiani con un voto – fosse bruscamente mandato a casa da una congiura di Palazzo che lo accusò di essere la sentina di tutti i mali.

Oggi dopo tre governi tre non decisi dagli elettori, abbiamo sì lo spread più basso, ma abbiamo anche un debito e una disoccupazione più alta. Dopo Monti, Letta e Renzi ci troviamo in pratica al punto di partenza, ovvero alla lettera della Bce. Ricordate quando il governatore uscente Trichet e quello entrante Draghi ci scrissero che dovevamo fare la riforma del lavoro, quella delle pensioni e quella della burocrazia? Bene, ora siamo tornati lì, al nodo delle riforme che non sono state fatte nonostante al governo non ci sia più l’odiato Cavaliere ma il giovane e promettente Renzi.

A cambiare le cose non sono riusciti né il professor gonfiato Mario Monti né lo sgonfiato Enrico Letta, mentre Matteo Renzi neppure ci ha provato. Siamo alle parole, ma se le battute e i giochi di prestigio del presidente del Consiglio affascinano un certo numero di italiani, all’estero non funzionano. Non so se avete presente il video diffuso su YouTube del premier che parla in inglese. Renzi si sforza di apparire simpatico e traduce in un inglese alla Alberto Sordi le sue battute in italiano. Purtroppo nessuno ride, perché nessuno tra i presenti è in grado di capire. Ecco, allo stesso modo ora le promesse del capo del governo che tanto piacciono a una parte degli italiani, risultano incomprensibili alla maggior parte degli stranieri, in particolare a quelli che devono giudicarci.

È per questa ragione che ieri il principe dei falchi, ovvero il super commissario all’economia Katainen ha bacchettato l’Italia facendo capire che non è più tempo di parole. Per gli stranieri le riforme non si fanno sulla carta, si fanno e basta. L’Europa aveva accolto con un certo entusiasmo l’arrivo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Un po’ come la maggioranza degli italiani, a Bruxelles pensavano che un uomo nuovo al comando avrebbe prodotto il cambiamento di cui l’Italia ha bisogno, ma mese dopo mese l’apertura di credito delle cancellerie del Vecchio continente si è chiusa e oggi in tanti anche all’estero guardano con un certo scetticismo alle mosse di Matteo Renzi.

Anni fa, quando imperversava Fausto Bertinotti, Giampaolo Pansa coniò con successo una definizione perfetta per il leader di Rifondazione comunista. Per l’augusto nostro collega il presidente della Camera non era altro che il Parolaio rosso, ossia un politico perfetto per la stampa che poteva fare ad ogni suo discorso un titolo ma imperfetto per il Paese, che ad ogni sua parola retrocedeva. Archiviato Bertinotti, il quale ormai piange sul comunismo versato (e anche sul Prodi giubilato), bisognerebbe aggiornare la definizione, perché dopo il Parolaio rosso siamo nelle mani di un parolaio scudocrociato. Tecnicamente Renzi non è un democristiano, perché non ha un pedigree da militante Dc, ma di fatto lui è un erede della vecchia Balena Bianca (altra invenzione di Giampaolo Pansa). Lo ha spiegato lui stesso m una recente intervista al Sole 24 Ore. Renzi non è per i conflitti, ma per il consenso. Non vuole prendere decisioni impopolari, come invece chiede l’Europa, vuole governare tra gli applausi. Renzi è troppo piacione per essere uno statista. In un certo senso, più che l’erede di De Gasperi o di Fanfani (il più citato da Maria Elena Boschi) è l’erede di Francesco Rutelli. Il quale, non dimentichiamolo, è stato uno dei suoi primi sponsor. Insomma, da Cicciobello a Pittibimbo (questa volta il copyright è di Dagospia), restando sempre nel fantastico mondo dei giocattoli.

Ogni anno sulle famiglie fardello fiscale da 15.330 euro. Con Tasi e Iva peserà di più

Ogni anno sulle famiglie fardello fiscale da 15.330 euro. Con Tasi e Iva peserà di più

Roberto Petrini – La Repubblica

La montagna di tasse e contributi, pari a 15.330 euro l’anno, che grava sulle spalle degli italiani sposta in avanti il cosiddetto «tax freedom day». Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, con una pressione fiscale che per il 2014 è destinata a toccare il record storico del 44 per cento, quest’anno i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco fino alla prima decade di giugno: precisamente l’11 giugno, cioè 161 giorni. Ben 12 giorni in più di quanto avevano fatto nel 1995, quando, però, la pressione fiscale era inferiore di oltre 3 punti percentuali.

Del resto, sempre secondo la Cgia, su ogni famiglia italiana grava un carico fiscale medio annuo di quasi 15.330 euro: considerando l’Irpef e le relative addizionali locali, le ritenute, le accise, il bollo auto, il canone Rai, la tassa sui rifiuti e i contributi a carico del lavoratore. Ogni nucleo famigliare versa all’erario, alle Regioni e agli enti locali mediamente 1.277 euro al mese: un importo che, dice la Cgia, corrisponde allo stipendio medio percepito mensilmente da un impiegato. Nel 2013, spiega il presidente del centro studi Giuseppe Bortolussi, grazie all’abolizione dell’Imu sulla prima casa, il prelievo medio annuo era sceso a 15.329 euro: ben 325 euro in meno rispetto a quanto versato nel 2012. Per l’anno in corso, invece, il gettito è destinato ad aumentare ancora a causa dell’introduzione della Tasi e degli effetti legati all’aumento dell’aliquota Iva avvenuto nell’ottobre scorso.

Intanto si avvicina la data del versamento della Tasi. Secondo la Confedilizia sono più di cinquemila, precisamente 5.050, i Comuni che hanno emanato dopo il 31 maggio le delibere relative al pagamento della tassa sugli immobili. Tra le grandi città compaiono Roma, Palermo, Firenze, Trieste. La questione fiscale è nell’agenda del governo. «Per stabilizzare gli 80 euro bisogna evitare l’errore fatto con l’Imu», ha detto il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, a margine del Meeting Confesercenti. «Un intervento spot – ha aggiunto – che non venne bilanciato da un intervento sulla spesa cosicché la tassa è riemersa sotto altro nome».

Solo i fatti salvano l’Europa

Solo i fatti salvano l’Europa

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

In Europa la ripresa non si vede, 27 milioni di disoccupati, invece, sì. Tutte le grandi aree del mondo crescono. Tutte, tranne l’eurozona dove negli ultimi 7 anni gli investimenti sono crollati del 20%. Le previsioni di Bruxelles dicono che nel prossimo decennio la crescita europea media sarà la metà di quella americana: non supererà l’1%. Se questo è vero e, se è vero come è vero che per esempio la sostenibilità del debito italiano passa per un tasso di sviluppo minimo del 2,6%, la vera malattia da curare si chiama sviluppo. La diagnosi è chiara, la terapia meno.

A Milano però i ministri delle Finanze Ue hanno provato a elaborarne una in tre mosse: la politica monetaria, misuratamente espansiva, è essenziale ma non basta. Ci vuole una corretta politica fiscale che permetta di scavare negli spazi flessibili del patto di stabilità senza minarne la credibilità. E ci vogliono le riforme strutturali per rimuovere tutti gli impedimenti che, ostruendo i canali dello sviluppo, scoraggiano il flusso dei capitali interni ed esteri. Messo così, il nuovo teorema europeo dello sviluppo suona bene. Tanto più che presto potrebbe avere il sostegno di un articolato piano di investimenti da circa 300 miliardi: ci lavoreranno da domani Commissione Ue e Banca europea degli investimenti. Per approntare una proposta entro l’anno.

Tante le idee da esplorare. Ma con un distinguo, avverte il commissario Ue Jyrki Katainen: quei 300 miliardi verranno per una quota dai mercati ma per il resto non saranno denaro fresco ma riciclato dai fondi esistenti nel bilancio europeo. Minimi o nulli i contribuiti dei bilanci nazionali perché tutti poveri di risorse, escluso quello tedesco che pare orientato però più a risparmiare che a spendere, nonostante i reiterati appelli di Bruxelles ai paesi in surplus perché investano a sostegno della domanda europea. La liquidità privata invece abbonda anche se, in assenza di riforme, è restia a scommettere su un pianeta sclerotico, poco coeso e strutturalmente poco competitivo. Allora vera svolta a Milano? Il sostanziale immobilismo sugli investimenti comuni non è estraneo alla stagnazione europea. Nella convinzione che solo le riforme strutturali siano il vero volano di una crescita sana e duratura, sia pure con ricadute positive dopo 3-4 anni dalla loro attuazione. Domanda: può l’Europa continuare a convivere ancora tanto a lungo con l’emergenza crescita e disoccupazione facendo al tempo stesso riforme costose per i Governi e i cittadini coinvolti? Finora la risposta dell’ortodossia tedesco-nordica è stata sì per due motivi: la radicata (anche se spesso motivata) sfiducia tra gli Stati membri e tra questi e le istituzioni Ue. La clamorosa mancanza, 7 anni dopo lo scoppio della crisi dell’euro, di una diagnosi comune della crisi e quindi dei rimedi da adottare, cioè di una politica economica condivisa. Il nocciolo dell’equazione impossibile è stato tutto qui.

Lo conferma la cronaca recente. Di fronte alle omissioni riformiste di Francia e Italia, la Germania tira dritto: pretende il rispetto dei patti di stabilità e ostenta i dividendi delle sue virtù, a cominciare dal doppio surplus di bilancio e dei conti correnti, che accumula e non redistribuisce perché convinta che sarebbe denaro sprecato, peggio, incentivo ai soliti noti a non fare le riforme. I paesi del sud che hanno già fatto sacrifici pesantissimi e cominciano a raccogliere qualche frutto, Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, a loro volta non sono disposti a vedere risparmiato ad altri il loro calvario. Obtorto collo, l’Italia si adegua, anche perché la dimensione del suo iper-debito non le consente di fare altrimenti. E perché le riforme sono nel conclamato interesse nazionale prima che europeo. La Francia invece a parole ripete che rispetterà le regole, nei fatti le viola e mette l’eurozona di fronte al fatto compiuto. Dietro gli opposti estremismi in campo ci sono non solo divergenti interpretazioni delle ragioni della crisi e delle strade per uscirne. C’è una percezione diversa degli interessi comuni, la stanchezza diffusa verso una Europa avvertita dagli uni come gelido riformatorio, dagli altri come un insensato “bancomat” a disposizione di chi non sta ai patti. Con la Francia di Hollande che ha il paese contro e il consenso al 13%, sono politicamente fattibili riforme notoriamente impopolari e che comunque daranno benefici solo nel medio termine? Davvero la Germania e l’Europa possono correre il rischio di portare Marine Le Pen e il suo Front Nazional al Governo? I dilemmi di Matteo Renzi sono un po’ diversi ma i tempi di attuazione delle sue riforme rischiano di non coincidere con le tabelle di marcia del calendario europeo. Anche la Germania oggi ha bisogno di più crescita, compresa quella degli altri europei. Urge dunque un esercizio di moderazione e di buon senso generale. La svolta di Milano sugli investimenti, ammesso che alla fine non si riveli l’ennesima delusione di una lunga serie, potrebbe esserne il segnale. Anche se, per riconciliare davvero l’Europa restituendole la crescita insieme a un sentimento di fiducia reciproca, di strada da fare e di ostacoli da superare ne restano ancora molti. Forse troppi.

L’Italia non tema la vigilanza

L’Italia non tema la vigilanza

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

I ministri finanziari della Uem e della Ue, nelle recenti riunioni milanesi, hanno prefigurato “nuove” politiche economiche per ricomporre crescita, riforme, rigore e per evitare all’Europa una lunga stagnazione-deflazione. Il ministro dell’economia Padoan, quale presidente di turno di Ecofin, vi ha contribuito non poco malgrado la nostra debole posizione. Per favorire la crescita e l’occupazione sono stati messi al centro gli investimenti (a dimensione prevalentemente europea) e la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro(nei singoli Paesi). Speriamo che si passi presto all’azione.

Finanziamento degli investimenti. Per le politiche europee si è rafforzata la posizione che il rilancio della crescita passa da un partenariato pubblico-privato con un ruolo più importante della Bei che assuma anche maggiori gradi di rischio su varie filiere precisate da proposte franco-tedesche ed italiane. Si tratta dei finanziamenti agli investimenti sia delle imprese sia delle infrastrutture con ampio coinvolgimento del settore privato e creando anche un fondo ad hoc in cui convogliare risorse e potenziando le Casse depositi e prestiti dei vari Paesi. La complementarietà di queste posizioni, la loro natura di interventi a scala prevalentemente europea, che ricadono positivamente sui singoli Paesi membri, è chiara e non è nuova. La novità è invece politica perché in passato è stata proprio la concordia (sotto la guida e la vigilanza tedesca) dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, della Commissione e del Consiglio Europeo che ha consentito l’affermarsi della linea del rigore senza attenzione alla crescita e all’occupazione. Se adesso davvero si darà un forte impulso agli investimenti in infrastrutture (materiali e immateriali, purchè di qualità) raccogliendo risorse finanziarie nel mercato attraverso Enti Pubblici Europei e/o con garanzie pubbliche, allora l’Europa uscirà ben presto dalla crisi. Su queste colonne Beda Romano ha segnalato che anche la Germania dovrebbe aver capito la necessità di questi interventi sia pure come ponte pubblico per ovviare le carenze del mercato. Bisogna inoltre evitare che l’enorme liquidità in circolazione (e che aumenterà con i prefigurati interventi della Bce) crei pericolose bolle finanziarie che darebbero un’altra mazzata all’Europa.

Progetti e Commissione. Bisogna anche evitare di perdere tempo ad elaborare nuovi progetti essendoci già i programmi di Europa 2020, quelli sulle TransEuropean networks, quelli del quadro finanziario pluriennale 2014-2020. Negli stessi si tratta, in modo diretto o indiretto, di investimenti infrastrutturali europei nell’ordine dei 2.000 miliardi di euro nei prossimi 15-20 anni. È positivo che di questo abbia tenuto conto il neo presidente della Commissione europea Juncker nel suo “programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico” dove si è data una forte rilevanza ai sistemi europei di infrastrutture integrate con un potenziamento dei finanziamenti (via bilancio comunitario, Bei, partenariato pubblico-privato, nuovi strumenti finanziari di impresa) per mobilitare 300 miliardi di investimenti in tre anni. Preoccupa invece che la Vice presidenza della Commissione europea per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la compatitività sia stata affidata a Jyrki Katainen che coordinerà, anche con poteri di veto, l’attività di tutti gli altri commissari con competenze economiche. Prudenza vuole che i giudizi non siano affrettati anche se nel suo breve periodo quale Commissario agli affari economici e finanziari Katainen ha fatto di tutto per rafforzare il plateale rigorismo del suo predecessore Olli Rehn in tal modo facendo di fatto leva sul sostegno dei rigoristi tedeschi. Qui non possiamo tacere il nostro rammarico che a quella carica di vice presidente, il Presidente Renzi non abbia candidato Marco Buti che in un ruolo di coordinamento di altri Commissari non avrebbe probabilmente trovato ostacoli date le sue forti credenziali europee.

Detassazione, rigore, riforme. Qui è stata netta la posizione dell’Eurogruppo (che amplia quella di luglio) sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale sul lavoro anche perché nella Uem si combina con una tassazione totale ben sopra quella della media Ocse. Questo danneggia la ripresa economica e dell’occupazione, i consumi e l’offerta di lavoro, la competitività e la profittabilità delle imprese. La proposta dell’Eurogruppo viene ben collocata in quattro coordinate da declinare sui singoli Paesi. E cioè: quella della semplificazione tributaria e della selezione di componenti del cuneo da ridurre per tipologie di lavoro e per massimizzarne l’effetto; quella delle riforme per l’efficienza dei mercati del lavoro; quella della consenso politico e sociale, da ottenere con la giusta gradualità, per la riallocazione del gravame fiscale; quella del rispetto dei vincoli di bilancio prescritti dal Patto di stabilità e di crescita o aumentando altre imposte o riducendo le spese pubbliche improduttive. Qui l’Italia ha un grosso problema visto che negli anni passati ha continuato ad aumentare la pressione fiscale invece di ridurre gli sprechi pubblici con effetto molto negativo sulla crescita. Riteniamo quindi che una mera riallocazione della pressione fiscale senza tagli agli sprechi avrebbe effetti limitati sulla crescita e la competitività italiana. Così come sappiamo che l’Italia necessita di tante altre riforme su cui regolarmente il Sole 24 Ore si intrattiene e su cui il Governo Renzi deve impegnarsi a fondo lasciando in secondo piano successi pura immagine.

Una conclusione italiana. Ciò detto, visto che l’economia italiana va male, dobbiamo contrattare adesso e subito con le Istituzioni europee margini di flessibilità nel bilancio a fronte di rigorosi impegni contrattuali a fare le riforme sotto il controllo della Ue. Polemiche o dichiarazioni che facciamo da soli non bastano. La Francia sta contrattando il suo rientro del deficit sul Pil sotto il 3% al 2017 con l’impegno a riforme vigilate in base ad un impegno ammissibile a termini giuridico-politici. Non per emulazione politica ma per necessità di sopravvivenza, anche noi dobbiamo contrattare con le Istituzioni Europee più flessibilità sotto la condizione di riforme specifiche vigliate dalla Ue e sotto il vincolo di destinare le risorse a ridurre (subito e non simbolicamente) il cuneo fiscale e contributivo specie per la nuova occupazione giovanile orientata all’innovazione e alla produttività.

Mercato del lavoro bloccato, siamo tra gli ultimi al mondo

Mercato del lavoro bloccato, siamo tra gli ultimi al mondo

Sergio Patti – La Notizia

Ovvio che trovare un impiego in Italia è quasi impossibile. Il nostro mercato del lavoro è ultimo per efficienza in Europa e 136esimo su 144 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93esima posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

Quadro che peggiora
Lo studio evidenzia le difficoltà che il nostro sistema attraversa e dimostra il peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Dati che ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi.

Troppe tasse
E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro. E siamo ancora ultimi per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento: un indicatore determinante, perché evidenzia quanto questi processi siano ostacolati dal sistema delle regole e da disposizioni quali quelle, ad esempio, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.