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Pil con le attività illegali? Meglio il benessere equo

Pil con le attività illegali? Meglio il benessere equo

Antonio Marzano – Avvenire

La decisione dell’Istat d’inserire nel calcolo del Pil le attività illegali corrisponde a un indirizzo formulato dall’Eurostat e può essere considerato un tentativo più completo di rappresentare il volume dell’attività, misurato appunto dal Pil, che si svolge nel Paese. Ho tuttavia alcune pacate perplessità per quanto riguarda tali inclusioni.

Dal mio punto di vista, se proprio la si vuole considerare ai fini statistici, bisognerebbe tener conto che questa attività nuoce ai protagonisti dell’economia legale e andrebbe quindi valutata al netto del danno. Se così si facesse, dubito che il valore “netto” delle attività illegali sarebbe, non dico positivo, ma veramente significativo. La seconda considerazione è che piuttosto nel Pil bisognerebbe avere più considerazione del Terzo Settore che interessa all’incirca 11 milioni di persone in Europa. Avrei anche una terza considerazione da fare. Il Pil viene normalmente considerato a prezzi costanti. Questo viene fatto affinché l’inflazione, appunto l’aumento dei prezzi, gonfi apparentemente il Pil medesimo. Ma nel caso di un Paese come l’Italia che si sforza di essere competitiva attraverso la migliore qualità del prodotto, l’aumento dei prezzi non è solo di natura inflazionistica, ma spesso riflette proprio la qualità del prodotto. Calcolare tutto a prezzi costanti potrebbe significare ignorare il miglioramento della qualità del prodotto. Dal punto di vista metodologico non è facile la distinzione, ma uno sforzo in questo senso migliorerebbe la rappresentazione della realtà produttiva del nostro Paese.

Un’ultima considerazione. Da tempo si sostiene che il Pil, per quanto importante, non sia un adeguato misuratore della qualità della vita. Per questo il Cnel, congiuntamente all’Istat, ha proposto d’integrare il Pil con gli indicatori della qualità della vita, approntando il BES (benessere equo e sostenibile). Questa è la strada da percorrere, infatti le attività illegali non migliorano certo la qualità della nostra vita.

Tagli e ritagli

Tagli e ritagli

Davide Giacalone – Libero

Andò per tagliare e fu tagliato. Mentre la revisione della spesa pubblica è annunciata come sempre più consistente, ma diventa sempre più cieca e inconsistente. Una gara tipo “Miracolo a Milano” al contrario, con un “meno uno” al posto del “più uno”. Gara a rilancio, ma che parte inceppata. Ieri si sarebbe dovuta avviare la consultazione ministero per ministero, in modo da mettere a punto i tagli e passare alle forbici, ma Matteo Renzi ha preferito rinviare tutto e adottare un sistema che replica pari pari il verso antico: relazione di ciascun ministero, con quel che pensa di potere risparmiare. Poi si vedrà. Ciò non capita per caso. E’ la conseguenza degli errori commessi.

Il siluramento di Carlo Cottarelli è un passaggio che non ha nulla di personale, ma sostanza tutta politica. Bisogna studiarlo bene, per capire quello che accadrà. La sua sorte personale non desta preoccupazioni: all’inizio gli fecero un contratto triennale (cosa che qui criticammo, dato che si trattava di una missione a scopo, non a tempo), poi s’è chiesto al Fondo monetario internazionale di riprenderselo, come se fosse stato in aspettativa. Sono tutti pronti a dire che ha svolto un buon lavoro, purché non pretenda di farlo valere e si tolga silente dai piedi. Lo ha chiarito il ministro più politico e rappresentativo, Maria Elena Boschi: “se ne andrà dopo la legge di stabilità e se volesse andarsene prima ce ne faremo una ragione e troveremo altri”. Delle comparse, a quel punto. Qual è il motivo per cui il lavoro di Cottarelli infastidisce? Non perché ci sia un primato della politica, dacché l’incarico glielo diede e confermò il governo, quindi la politica, ma perché individuare il tessuto morto da tagliare significa seppellire interessi reali e immediati, che reagiscono. Mentre annunciare tagli sempre più consistenti genera vago dissenso e spaesato consenso. Tutto macro e niente micro, vale dire tutto fumo e niente arrosto.

Dicono al governo: non abbiamo mai proposto di fare tagli lineari. Falso, lo ha anticipato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al Sole 24 Ore. Ha anche quantificato: 3% per ciascun ministero. Ribattono: ma sarà ciascun ministro a decidere quali, quindi sono tagli mirati. Tanto mirati che il primo colpo, ieri, ha fatto cilecca. Bubbole, comunque, perché al netto del fatto che se il ministro non ne fosse capace ciò vorrebbe dire che s’è messo un incapace su quella sedia, sarà Palazzo Chigi, nel caso, a fare le veci del ministro. E questi sono esattamente tagli lineari, così come li impostò Giulio Tremonti, a sua volta copiando dal ministro dell’economia inglese, a quel tempo, Gordon Brown: si parte dai saldi per indurre la riduzione della spesa. La politica, se esistesse e se ne fosse capace, eserciterebbe il suo potere nello stabilire dove e quanto tagliare, non nel fissare l’entità dei tagli necessari per poi dire: fate vobis et favorite miki.

Ma non basta, perché sappiamo già che in certe amministrazioni non si potrà tagliare. Come nella scuola, sul cui bilancio si abbatterà la valanga delle assunzioni annunciate. Peccato che: a. abbiamo già troppi insegnanti per alunno; b. assumendone 150mila con un turn over di circa 30mila l’anno il primo docente nuovo lo vedremo fra otto anni; c. nel frattempo la riforma non cambierà la didattica, visto che ne mancano i nuovi protagonisti; d. la spesa per la scuola crescerà senza che cresca di un tallero la spesa per dare istruzione ai ragazzi. Si potrebbe rimediare con il digitale, ma anche quello viene continuamente rinviato. Assieme ai tagli lineari, quindi, ci becchiamo anche gli aumenti lineari. A tutto giovamento della burocrazia e del posto improduttivo.

I tagli possono basarsi su maggiori efficienze e minori sprechi, nel qual caso non esiste altra strada che farsi guidare da chi conosce la struttura della spesa, coprendogli le spalle dai pesanti attacchi che arriveranno. L’esatto contrario di quel che hanno fatto con Cottarelli. Oppure, e sono quelli più interessanti e promettenti, possono essere generati da riforme, da cambiamenti profondi dell’agire pubblico. Sono, in questo caso, più che tagli una vera e propria riqualificazione della spesa pubblica, con cui, naturalmente, si può anche ridurla aumentandone la qualità. Questo è il lavoro serio e alto della politica. Il resto è ragionerismo praticato da gente che non conosce la ragioneria. Con i risultati che si videro e si vedono.  

La squadra di Juncker è di rigore

La squadra di Juncker è di rigore

Gaetano Pedullà – La Notizia

Non è ancora iniziata e la festa è già finita. A illuderci più di tutti era stato Draghi, che sfidando il veto della Merkel è riuscito a infilare un po’ di liquidità nel sistema finanziario europeo, allentando quel rigore che sta strangolando famiglie e imprese. Pure la locomotiva tedesca d’altronde fatica a marciare e dunque un cambio di passo per liberare risorse e far ripartire l’economia ci stava. Ieri si aspettava solo la conferma, con l’indicazione della squadra del commissario europeo Jean-Claude Juncker. Cartina di tornasole era la casella strategica dell’economia, dove a fatica è approdato il francese Pierre Moscovici, per capirci una colomba in materia di vincoli e freni allo sviluppo. Subito accanto, però, il presidente gli ha messo il finlandese rigorista Jyrki Katainen, un signore che nel pieno della crisi dei conti pubblici in Grecia chiese il Partenone a garanzia dei prestiti europei. Dunque non aspettiamoci nulla da Bruxelles. E prepariamoci a pagare per i nostri peccati, a partire dal fiscal compact e dagli altri impegni che politici miopi ci hanno fatto a prendere. Dovremo svenarci e non avremo sconti. Fin quando con questo rigore ci moriremo.  

Partite Iva sostenute dalle società di capitali

Partite Iva sostenute dalle società di capitali

Adriano Moraglio – Il Sole 24 Ore

Nel mese di luglio sono state aperte 42.180 nuove partite Iva, l’1,1% in più rispetto allo stesso mese dello scorso anno, ma l’incremento è dipeso solo dalla spinta arrivata dalle società di capitali (+16,7%). Lo ha reso noto ieri il Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia, sulla base dell’Osservatorio sulle partite Iva. Tutte le altre forme giuridiche hanno fatto segnare un calo, più marcato per le società di persone (-7,9%) e più contenuto per le persone fisiche (-2,3%).

Il Nord è l’area territoriale che conta la percentuale più alta di nuove aperture (42,1%), seguito da Sud e Isole (34,7%) e dal Centro (23,2). Su base regionale, gli incrementi più rilevanti hanno riguardato la Calabria (+13,5%), la Campania (+10,5%) e l’Abruzzo (+9,3%), mentre le flessioni più forti si sono avute in Valle d’Aosta (-24,7%) e nelle Province di Bolzano (-19%) e di Trento (-8%). Inoltre, è il commercio a confermarsi al primo posto per numero di aperture (il 24% del totale), seguito dalle attività professionali (12,8) e dalle costruzioni (9,2%).

Rispetto al luglio 2013, tra i settori principali si nota un rilevante aumento nella sanità (+44,1%) cui seguono, con valori meno eclatanti, gli incrementi nelle comunicazioni (+5,4%) e nella ristorazione (+4,9%). Le flessioni più consistenti hanno riguardato le attività finanziarie (-26%), quelle artistiche (-9,4%) e l`agricoltura (-7,9%). Relativamente alle persone fisiche, il 50,1% è rappresentato da giovani fino ai 35 anni e il 33,6% da soggetti nella fascia tra i 36 e i 50 anni. Rispetto a un anno fa, a luglio, tutte le classi di età hanno registrato cali.

Italia in chiaro e scuro, ma l’industria si muove

Italia in chiaro e scuro, ma l’industria si muove

Beda Romano – Il Sole 24 Ore

È un quadro sullo stato di salute della competitività dell’industria europea piuttosto negativo, ma ricco nonostante tutto di spunti positivi quello che la Commissione pubblicherà oggi a Bruxelles. La situazione italiana è peggiore di quella di molti altri stati membri. Eppure il paese sta mostrando una straordinaria capacità di adattarsi dinanzi alle difficoltà del momento, rese ancora più difficili da noti ostacoli normativi, istituzionali e sociali.

«I dati aggregati dimostrano una ripresa delle esportazioni e un aumento della produttività nella maggioranza dei paesi membri», si legge in un rapporto annuale che verrà presentato oggi dal commissario all’Industria, Ferdinando Nelli Feroci. «Tuttavia, i dati positivi a livello di Unione europea nascondono considerevoli differenze tra stati membri e tra settori in termini di risultati e politiche». Il rapporto, ieri ancora in lavorazione, offre uno spaccato interessante.

Sul fronte italiano è facile mettere l’accento sulle debolezze e sui ritardi. Molti dati sono noti, ma restano impressionanti. L’industria italiana ha perso oltre 500mila posti di lavoro tra il 2007 e il 2012. L’unico paese ad avere aumentato l’occupazione in questo settore è stata la Germania. L’Italia appartiene a un insieme di stati membri caratterizzati da una competitività elevata ma in stagnazione o in calo (allo stesso gruppo appartengono tra gli altri la Francia e la Gran Bretagna).

Il quadro italiano è in chiaroscuro. Dal 2007, il numero di imprese manifatturiere è sceso del 19%. La competitività dei costi è diminuita di due punti percentuali, aumentando il divario già cresciuto di 35 punti percentuali tra il 1997 e il 2007. «La bassa crescita della produttività – scrive la Commissione – è dovuta principalmente a una allocazione inefficiente delle risorse». Il paese registra un calo dell’efficienza del capitale, a parità di investimenti rispetto agli altri stati membri.

Secondo la Commissione, una delle ragioni è da ricercare in riforme del mercato del lavoro che hanno aumentato la flessibilità mantenendo tuttavia rigidità nei meccanismi salariali. La spiegazione è certamente convincente, ma chi conosce il paese sa anche che famiglie e imprese usano spesso il denaro a propria disposizione in forme più o meno eclatanti di clientelismo e familismo, e non solo in tangenti versate alle autorità nazionali e locali.

Al netto di questi dati negativi, segnati da un ambiente economico poco liberalizzato l’esecutivo comunitario nota aspetti positivi in un momento in cui l’Italia dibatte nervosamente della modernizzazione della sua economia. Sul fronte energetico, l’industria ha fatto molti progressi, riducendo il proprio impatto ambientale tra il 2007 e il 2012 del 3,5% all’anno. Sul versante dell’export, le imprese italiane si stanno concentrando sempre di più su mercati extra-europei e prodotti basati su tecnologia medio-alta.

«L’industria italiana sta aggredendo il problema della competitività dei costi cavalcando l’innovazione e la qualità in prodotti maturi», scrive la Commissione. Peraltro, la riforma del 2013 della funzione pubblica ha portato per le società a risparmi per 8,99 miliardi di euro in costi amministrativi. Tuttavia, secondo Bruxelles, gli sforzi sono ostacolati da un divisione poco chiara delle responsabilità tra stato e regioni e dall’uso di decreti-legge che non consentono misure mirate di semplificazione.

Il calo dei redditi gela i consumi

Il calo dei redditi gela i consumi

Marzio Bartoloni – Il Sole 24 Ore

Il miracolo non c’è stato. I consumi sono praticamente fermi: si spende meno e solo per il necessario con il reddito disponibile che è tornato quello di 30 anni fa. L’effetto Renzi con il bonus da 80 euro che si era sentito in primavera si è affievolito e non ha lasciato il segno. Anche perché gli italiani – che rinunciano sempre di più alle spese extra (dai viaggi al pasto fuori casa fino alla salute e all’abbigliamento) – ne subiscono uno nuovo: l’«effetto Tasi», il tributo che tra i tanti preoccupa di più per l’incertezza che lo contraddistingue.

L’ultimo bollettino di guerra sullo stato di salute dell’economia delle famiglie italiane è contenuto nella nota di aggiornamento del Rapporto consumi diffuso ieri da Confcommercio. Uno stillicidio di numeri negativi. L’anno scorso la spesa delle famiglie ha registrato una flessione del 2,5%, con una contrazione del 7,6% in otto anni, durante i quali il reddito disponibile reale pro capite è sceso del 13,1%, pari a un ammontare di 2.590 euro a testa. Quest’anno secondo la Confcommercio l’andamento sarà praticamente piatto: la chiusura dei consumi dovrebbe attestarsi su un fragile +0,2%, mentre il prossimo anno se si dovessero confermare le previsioni la crescita raggiungerà uno striminzito +0,7% (a fronte di +1% di Pil).

La fotografia attuale dei consumi oltre che a risentire della profonda crisi che ha investito il Paese negli ultimi anni ha radici anche più profone. In poco più di 20 anni i consumi degli italiani sono infattti cresciuti complessivamente soltanto del 12,3% e questa crescita è dovuta esclusivamente alla dinamica positiva dei servizi. Fenomeno che i commercianti indicano come «la terziarizzazione dei consumi», vale a dire che le famiglie sono costrette sempre di più a privilegiare i servizi rispetto ai beni. I primi, infatti, coprono ormai il 53% della spesa totale (dal 41,8% del 1992), mentre i secondi sono precipitati dal 58,2 al 47%. La prova più evidente di questo spostamento riguarda la fruizione a esempio di servizi come la telefonia cellulare o internet che hanno preso il posto di consumi una volta privilegiati come l’abbigliamento o l’alimentazione.

Non solo: secondo la nota di Confcommercio i consumi cosiddetti “obbligati” (dalla casa alla benzina, dall’assicurazione alla sanità) coprono ormai il 41% del totale: per la casa, spesa obbligata per antonomasia, si è passati dal 17,1% al 23,9% del totale. Alla fine quindi la cifra che ogni famiglia ha a disposizione per tutto il resto, e su cui ha pertanto libertà di scelta, si è ridotta: l’indice delle possibilità effettive di consumo è infatti crollato a 10.900 euro dai 14.300 del 1992. Un terremoto che ha cambiato il modo in cui apriamo e chiudiamo il portafogli. Nel 2013 gli italiani hanno rinunciato soprattutto ai pastifuori casa (-4,1%) e in particolare per l’alimentazione domestica (-4,6%), ai viaggi e alle vacanze (-3,8%), alla cura del sé e alla salute (-3,5%). Con un vero tracollo della spesa per l’abbigliamento e le calzature (-6,3%). E anche quest’anno, anche se più affievoliti, resteranno i segni meno.

Il dato di partenza resta quello della difficoltà di arrivare a fine mese: il reddito disponibile delle famiglie italiane è infatti fermo ai livelli di 30 anni fa. Nel 2014 il reddito è pari a 17.400 euro (come il 2013), mentre nel 1986 era a 17.200 euro. Su tutto poi pesa la fiducia dei consumatori schizzata in alto in primavera grazie all’avvento del Governo Renzi e ai suoi annunci culminati nel bonus 80 euro, ma che ora si è affievolita «producendo solo modesti effetti sui comportamenti di spesa tra aprile e luglio», sottolinea l’Uffico studi di Confcommercio. I consumatori sono infatti tornati a guardare al futuro con preoccupazione: troppe le incertezze, a cominciare da quelle relative alle tasse, Tasi in prima fila. Ora se agli annunci non seguiranno «azioni coerenti» questo clima di fiducia «non si consoliderà». Il presidente di Confcommercio Sangalli dà però ancora credito al premier: «La priorità assoluta in Italia resta la riduzione delle tasse. Sono convinto che Renzi ce la farà ad estendere il bonus degli 80 euro». 

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Nel suo articolo del 4 settembre sul Sole, Il rebus della politica industriale, Franco Debenedetti allarga la sua (giusta) diffidenza verso le tentazioni dirigiste dei governi fino a condannare la politica industriale che si regge sul falso presupposto teorico «che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo» e dunque «presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica».

Ma non è su queste basi che sia la letteratura economica (Rodrik, Aghion, Nelson, Chang, Stiglitz e non solo), sia istituzioni come la Commissione europea (Horizon 2020) e l’Ocse hanno negli anni più recenti riproposto un ruolo autentico dello Stato facilitatore, coordinatore e partner degli attori di mercato, con una visione meno ideologica e più pragmatica della politica industriale.

Durante la fase delle grandi privatizzazioni degli anni 90, che chiudevano la storia di un modello di partecipazioni statali degenerato in patologica commistione di economia e sistema dei partiti, il «capitalismo senza capitali» ereditato dalle crisi degli anni 70 ha perso l’occasione per rilanciare le sorti della grande impresa in larga parte dei settori ad alta intensità di capitale fisico, capitale umano, innovazione tecnologica e organizzativa.

Tutti conosciamo e apprezziamo il vivace dinamismo delle micro e piccole imprese (dentro e fuori dai nostri distretti industriali), nonché il successo di un «quarto capitalismo» di medie e medio-piccole imprese private specializzate in nicchie di elevata qualità e dinamismo tecnologico, capaci di esportare e insediarsi con profitto in molte «catene globali del valore». Ma tutto ciò non è bastato e non basta – tanto più oggi nel prolungarsi della grande crisi – a mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie eccellenze scientifiche e i propri vantaggi competitivi, tornando ad alimentare la crescita di quella produttività totale dei fattori che ristagna da più di un decennio.

I governi non hanno certo la preveggenza di quali settori e prodotti potranno meglio contribuire allo sviluppo economico del paese: su questo ha perfettamente ragione Debenedetti, nessuno ha nostalgia degli ambiziosi e falliti «piani di settore», dalla chimica alla siderurgia, all’aeronautica. Ma oltre le ben note e urgenti riforme istituzionali, certamente cruciali per favorire un eco-sistema imprenditoriale decente e moderno (semplificazioni, giustizia, burocrazia, infrastrutture, scuola e apprendistato, lotta contro evasione e corruzione), lo Stato può e deve riscoprire il proprio ruolo di catalizzatore delle migliori energie imprenditoriali del paese.

Compete allo Stato indicare progetti di filiera e allestire strumenti di ricerche coordinate pre-competitive, coinvolgendo nella scelta imprese leader e il loro indotto, (incluse molte affiliate italiane di multinazionali estere che ancora scommettono sulle nostre capacità e competenze), identificate e monitorate con l’apporto essenziale di esperti indipendenti. Come insegna il fallimento di «Industria 2015», è cruciale prevenire i formalismi giuridico-amministrativi, sottrarsi alle ingerenze di burocrazie ministeriali autoreferenziali, imporre tappe forzate di valutazione dei risultati e riservarsi di abbandonare quei progetti che nel tempo si rivelano inadeguati e perdenti nello scenario mondiale (filosofia del pick the loser).

Del resto è quello che vanno praticando da tempo altri paesi a noi vicini (valga l’esempio dei Catapult Centers britannici, dei distretti tecnologici tedeschi, dei pôles de competitivité francesi). Solo così si può valorizzare un patrimonio tecnologico e imprenditoriale altrimenti disperso, promuovere crescita di produttività totale dei fattori, interconnessioni e reti lunghe di imprese innovative, ridurre l’ancora persistente divario fra ricerca accademico-scientifica e innovazione (industria e servizi), dare concrete prospettive di lavoro non precario ai giovani dotati di istruzione elevata e riconosciuti talenti, attrarre investitori nazionali ed esteri. Politiche industriali e politiche per l’innovazione tecnologica e organizzativa sono due facce della stessa medaglia. Anche così si può combattere la cultura paralizzante della rassegnazione a un inarrestabile declino di un paese che merita invece di risalire la china.

Competitività anima della crescita

Competitività anima della crescita

Ferdinando Nelli Feroci – Il Sole 24 Ore

Nell’ambito del cruciale dibattito in corso sul rilancio della crescita e dell’occupazione in Europa, il rafforzamento della competitività delle nostre imprese ha assunto un ruolo decisivo. L’industria, infatti, contribuisce per circa l’80% delle esportazioni europee e per un ammontare simile per quanto riguarda la capacità innovativa del nostro sistema. Senza una forte base industriale è difficile rilanciare la crescita e riassorbire l’elevata disoccupazione. Purtroppo, dal 2008 abbiamo perso circa 3,5 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero e la quota sul Pil Ue generata dall’industria è scesa al 15,1%.

È prioritario invertire il declino. Rimettere in moto la crescita significa trovare ricette giuste per rendere le aziende attori dinamici sui mercati globali. I rapporti sulla Competitività degli stati membri e sulla Competitività dell’industria europea, appena pubblicati, presentano un quadro di luci e ombre. Se da un lato abbiamo Stati membri con elevata competitività di sistema, dall’altra abbiamo paesi che arrancano e che vedono ridursi sempre più la loro presenza sui mercati mondiali. Discorso analogo per i vari comparti produttivi europei, dove a fronte di punti di forza, come il farmaceutico, la chimica, la meccanica, l’industria automobilistica e l’alta gamma, esistono settori in sofferenza e piccole e medie imprese (Pmi) sempre più in difficoltà.

I due rapporti cercano di individuare i punti di forza e di debolezza del panorama industriale Ue e mirano a ispirare le politiche della competitività a livello Ue e dei singoli Stati. I maggiori problemi che abbiamo identificato riguardano la debolezza della domanda interna, la mancanza d’investimenti, alti prezzi dell’energia e un contesto amministrativo-regolamentare talvolta eccessivamente oneroso per le imprese. La chiave del nostro rilancio economico risiede nella ripresa della domanda interna. Al di là del rilancio dei consumi, la crescita della domanda passa attraverso l’aumento degli investimenti, sia pubblici che privati, tra l’altro tra i più colpiti dalla crisi. La ripresa di questi ultimi consentirebbe di innescare il circolo virtuoso della crescita che alimenterebbe sia la domanda che la competitività di tutto il sistema. In questo clima di ritrovata fiducia, anche i privati riprenderebbero ad investire.

Perché questo possa avvenire, è importante garantire un adeguato accesso al credito alle aziende. Senza sufficiente liquidità per investire e innovare, le imprese europee rischiano di perdere non solo la sfida globale ma anche di compromettere la sfida in casa, a fronte di prodotti stranieri più economici e innovativi. Il sistema finanziario deve essere messo nelle condizioni di canalizzare verso le imprese la liquidità di cui dispone. Confido che il lavoro sull’Unione bancaria porti i sui frutti quanto prima su questo fronte così come le recenti iniziative intraprese dalla Banca centrale europea. Dobbiamo anche lavorare per migliorare il rapporto banche-imprese, colmando il deficit informativo delle banche verso le Pmi e viceversa, e rafforzare nuovi canali di finanziamento alternativi, come le obbligazioni per le pmi e un ricorso più strutturato al venture capital e al crowdfunding.

Il rilancio della competitività necessita di un contesto amministrativo più favorevole alle imprese. È fondamentale ridurre le tasse sul lavoro e sui fattori produttivi, ma anche sprechi ed inefficienze. Una Pubblica Amministrazione efficiente è strumentale alla crescita delle aziende, sia in termini economici che occupazionali. Dobbiamo ridurre i tempi di concessione delle licenze, rendere più efficiente il sistema giudiziario e ridurre il fardello burocratico che pesa sui nostri imprenditori.

Inoltre, la bolletta energetica è sempre più cara in Europa, soprattutto se paragonata a quella dei nostri competitor nel mondo. Nella stessa Ue, i prezzi variano notevolmente da un Paese all’altro, riflettendo le differenze nella produzione, nella tassazione e nella ripartizione delle sovvenzioni per le energie rinnovabili. Nonostante un generale aumento dell’efficienza energetica in molti settori industriali, l’aumento dei prezzi di elettricità e gas ha influenzato negativamente i costi di produzione e la competitività delle nostre imprese, specialmente nei settori ad alta intensità energetica.

Oltre a queste difficoltà, esistono fortunatamente segnali positivi. Il nostro sistema industriale ha ancora vantaggi competitivi in numerosi settori ad alta e medio-alta tecnologia con una forza lavoro mediamente più qualificata che altrove. Dobbiamo quindi insistere sui punti di forza e allo stesso tempo investire nella formazione dei nostri giovani, nell’innovazione, nelle infrastrutture e nell’internazionalizzazione. Sono queste le ricette per guadagnare competitività e aumentare la nostra presenza sui mercati mondiali, dove si concentrerà gran parte della crescita nei prossimi anni. In conclusione, per ritornare a crescere.

Tasi, chi vince la gara a chi tartassa di più

Tasi, chi vince la gara a chi tartassa di più

Antonio Rossitto – Panorama

In tempi di renzismo dilagante, anche un balzo indietro di un solo anno appare un tuffo nel Mesozoico. Eppure agli italiani, per capire in quale gorgo ci hanno cacciato i nostri governanti, converrebbe tornare al 28 agosto 2013. «L’abolizione dell’Imu sulle prime case avverrà senza nuove tasse» esultava 1’allora premier, Enrico Letta. Il suo vice, Angelino Alfano, gongolava: «Missione compiuta!». Mai più balzelli, dunque. Un anno più tardi, salito Manco Renzi sulla sella di Palazzo Chigi, tutti sanno com’è finita. L’imposta municipale unica è rinata sotto le mentite spoglie della Tasi: formalmente un obolo da versare in relazione alle prestazioni offerte, nella pratica un nuovo salasso totalmente svincolato dai servigi resi dai Comuni.

Quest’anno, secondo le ultime stime dell’Ufficio studi di Confedilizia, i tributi sugli immobili garantiranno alle idrovore statali un gettito compreso tra i 25 ci 28 miliardi di euro. Più dei 23,7 incassati dal governo Monti nel 2012: l’anno nefasto in cui venne introdotta una sorta di patrimoniale sulla casa. L’Imu, dunque: la manovra «Salva Italia», all’articolo 13, dettagliava che la gabella sarebbe stata applicata «in via sperimentale». Ma in Italia, scriveva Ennio Flaiano, «nulla è più definitivo del provvisorio». Per cui, purtroppo, nessuna sorpresa: il 2014 sarà ricordato dai proprietari come il più vessatorio della storia. Tra la sempiterna Imu, che rimane viva e vegeta per le case di lusso e in affitto, e la novella Tasi. I dati elaborati in esclusiva per Panorama dagli esperti di Confedilizia non lasciano incertezze. Degli 80 (su 117) capoluoghi che hanno deliberato in materia, solo sei hanno scelto di applicare l’aliquota base dell’1 per mille. Ancora meno, appena due, hanno deciso di esentare i propri cittadini dal pagamento: Olbia e Ragusa. Al contrario, 58 città su 80 hanno fissato l’aliquota al massimo: 2,5 per mille. Di questi quasi la metà, ben 26, hanno addirittura approvato l’ulteriore maggiorazione dello 0,8 per cento, concessa a chi prevede qualche sgravio per le abitazioni principali, che fa arrivare l’aliquota complessiva al 3,3 per mille. È vero che i Comuni hanno tempo fino a giovedì 18 settembre per pubblicare le delibere approvate sul sito del ministero delle Finanze. Ma il quadro generale sembra ormai ben tratteggiato. E raffigura lo Stato che si prepara a tirare l’ennesimo manrovescio fiscale allo sgomento cittadino.

La prima simulazione del Centro studi di Confedilizia è stata elaborata per Panorama immaginando un contribuente senza figli. Chi vive in una prima casa di categoria A2, con 800 euro di rendita catastale, sarà stangato con 443 euro in 12 città: tra cui Ancona, Parma, Perugia,Salerno e Torino. Per lo sventurato, più in generale, solo in 31 capoluoghi su 80 è prevista qualche forma di detrazione, spesso risibile. Non è un caso. La Tasi, rispetto all’Imu, prevede una gamma di deduzioni ridotta. Quelle per le famiglie, per esempio. Lo dimostra il secondo conteggio di Confedilizia: stesso appartamento ma con due figli a carico. A Bologna il rincaro è del 40 per cento: da 237 a 333 euro. Mentre le deduzioni calano da 300 a 110 euro. A Firenze, amministrata da Renzi fino allo scorso febbraio e ora dal suo fedelissimo Nardella, la mazzata è simile: da 237 a 323 euro, con uno sgravio crollato da 300 a 120 euro. Batoste anche a Milano nonostante il sindaco, Giuliano Pisapia, assicuri che la Tasi non sarà più cara dell’Imu. Per Confedilizia è vero il contrario: il balzello in due anni è salito da 237 a 2% euro. E la riduzione fiscale precipitata da 300 a 40 euro. Ancora peggio, in molte città, va ai proprietari che affittano il proprio appartamento. A Roma, rivela ancora Confedilizia, una categoria A2, con una rendita di 787 euro, nel 2011 scuciva 578 euro di Ici, progenitrice dell’Imu. Quest’anno il totale sale a 1.508 euro: il 161 per cento in più. Analoga scoppola peri torinesi: da 578 a 1.402 euro. Un rialzo del 142 per cento.

La morale della favola è la meno edificante si possa immaginare: negli ultimi tre anni gli italiani hanno pagato almeno 78 miliardi di euro di tasse sul patrimonio immobiliare. Imposte che, ha scritto Luca Ricolfi su Panorama, hanno bloccato l’Italia: «Nel giro di un paio d’anni, il possesso di un immobile ha cambiato natura: lino a ieri era un elemento di sicurezza, oggi per molti è diventato un incubo, un fardello di cui ci si vorrebbe liberare prima possibile». Risultato: il prezzo delle case è crollato. E ha causato, calcola l’economista Paolo Savona, un impoverimento di 2 mila miliardi del patrimonio nazionale. «Nessuno dei nostri governanti, tutti guidati dalla “superbia satanica” di cui parlava Giulio Einaudi, ha tenuto conto dell’ovvio: tassare la ricchezza statica ha azzerato i consumi» spiega Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia. «La casa era una riserva di liquidità veloce e sicura. Comprare un appartamento era la rendita sulla vita: qualsiasi accidente capitava, bastava vendere. Una sicurezza psicologica che permetteva di spendere buona parte di quanto si guadagnava. Adesso vale il contrario: avere una casa è un accidente. E l’Italia, di conseguenza, sta andando a catafascio». Ma al danno si aggiunge pure la beffa. Gli enti locali le stanno escogitando tutte per complicare l’esistenza ai cittadini. Delibere astruse, aliquote differenziate, sgravi incalcolabili. Il capolavoro l’hanno fatto a Ferrara. Dove la detrazione, illumina la delibera approvata all’uopo, «si ricava utilizzando la seguente formula: (€ 200 – (Rendita catastale x 0,117) + 5 Coefficiente 0,1176 determinato 1,05 x 160 x (0,4% – 0,33 %)». E giù una tonante pernacchia: l’ennesima per i malcapitati italiani.

Matteo come Cirino Pomicino

Matteo come Cirino Pomicino

Keyser Söze – Panorama

È diventato il grande imbuto del governo Renzi. Quello che il premier indica come l’appuntamento in cui si risolveranno tutti i problemi e tutti i mali. Si tratta della legge di stabilità. A sentire l’inquilino di Palazzo Chigi la questione dei precari della scuola troverà una soluzione lì. Sempre lì si troveranno anche i soldi per rilanciare le grandi opere e, magari, anche il modo per allargare la platea degli 80 euro, totem per eccellenza del verbo renziano. Il rischio è che la prima legge di stabilità renziana sia scritta secondo i codici democristiani di un tempo, secondo la furbizia del gioco delle tre carte che fu la filosofia del ministro andreottiano per eccellenza, Paolo Cirino Pomicino. Anche lui grande estimatore dell’arte del rinvio. «Renzi discepolo di Pomicino» inorridisce l’azzurro Daniele Capezzone «è un’immagine che si attaglia al momento». Un epilogo che molti danno per scontato. Basta dare un’occhiata allo stato della nostra economia. Delle due l’una: o la legge di stabilità diventa il presupposto di quel lungo elenco di riforme che Renzi finora ha solo enunciato, il che significa un provvedimento severo e impopolare; o si trasforma in un grande minestrone, in cui il prestigiatore di Palazzo Chigi mescola le promesse, i sogni, gli impegni presi in una confusa melassa insapore, che serve solo a confondere ancora gli italiani. Inutile dire che l’ipotesi più probabile sia la seconda.

Tutti i protagonisti della politica, estimatori o meno del premier, su un dato si trovano d’accordo: Renzi non persegue una strategia chiara. «O meglio» si infervora Pier Luigi Bersani «non l’ha proprio». «Le sue proposte» ammette Silvio Berlusconi «sono ben al di sotto della tragica crisi che stiamo vivendo». «Invece di elencare una riforma al giorno» dice Sergio Marchionne «basterebbe che si concentrasse solo su tre: lavoro, certezza del diritto, burocrazia». Ma Renzi è nelle condizioni di farlo? Probabilmente no: l’autunno caldo sottoporrà il Pd al richiamo della foresta del sindacato, della piazza. E l’assenza di una strategia economica e di una formula politica definita renderà difficile anche l’aiuto del Cav: se Berlusconi non accetterà di rappresentare una vera alternativa a Renzi, qualcun altro ci proverà visto che l’establishment italiano è affollato di disoccupati di lusso. Corrado Passera docet. E il premier, come reagirà? Rilancerà sul piano dell’immagine, ma nella sostanza rinvierà ancora. In fondo la scuola democristiana è nel suo Dna.