About

Posts by :

Secchi d’acqua su un incendio troppo grande

Secchi d’acqua su un incendio troppo grande

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il nome è decisamente ottimistico, com’è nello stile della comunicazione del nostro premier, ma lo Sblocca Italia porta in dote molte cose buone (e qualche regalo sotto banco ai soliti noti). Benissimo il recupero dei fondi Ue non spesi, il taglio della burocrazia, i commissari su alcune grandi opere, la proroga dell’ecobonus, la riscrittura del nostro codice degli appalti: un groviglio normativo in cui è sin troppo facile nascondere la corruzione. Resta invece inspiegabile, per non dire scabrosa, la proroga delle concessioni autostradali a gruppi che hanno investito pochissimo sulla rete viaria, facendo giganteschi guadagni privati sulle strade costruite con i soldi pubblici di tutti noi. Deludente anche la limitazione ai soli sgravi fiscali per gli investimenti sulla banda larga. Le buone intenzioni del provvedimento comunque ci sono tutte, così come in quello sulla Giustizia che purtroppo per ora si ferma al Civile. Se l’ottimo è nemico del bene, accontentiamoci! Dove non possiamo accontentarci è però sui nodi veri che strozzano la ripresa. Da tempo in recessione e adesso anche in deflazione, non possiamo più prenderci in giro: senza un allentamento dei vincoli Ue e una diversa politica monetaria della Bce, tornare alla crescita è impossibile. Possiamo farne cento di Sblocca Italia, e fare indigestione di queste più o meno utili aspirine, ma l’incendio è troppo vasto per domarlo da soli. Soprattutto se si è rinunciato da anni a tenere l’estintore della moneta per affidarlo alla Banca centrale e ai suoi ottusi burocrati. Draghi, che promette ma poi resta ancora immobile, compreso.  

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Non bastano i treni a far ripartire il paese

Tito Boeri – La Repubblica

Il tempismo, sul piano della comunicazione, è perfetto. Nel giorno in cui l’Istat certifica il ritorno dopo 50 anni alla deflazione e con un mercato del lavoro sempre più in sofferenza il governo vara un decreto dal titolo molto promettente: sblocca-Italia. Interviene in ritardo rispetto allo scadenziario che lo prevedeva per metà luglio, ma proprio per questo permette al governo di reagire ai dati sui consumi degli italiani dopo l’introduzione del bonus di 80 euro, dati che confermano l’impressione che lo sgravio non abbia avuto gli effetti sperati di stimolo della domanda. Se si va al di là dei titoli e dei relativi cinguettii telematici, affiorano però non pochi dubbi sull’efficacia delle misure varate ieri e, a dispetto delle rivoluzioni annunciate, in molte di loro si respira l’odore stantio del déjà vu.

Di sblocco sulla carta ci sono quasi solo i cantieri delle opere su rotaia. Il bonus edilizia viene semmai bloccato, non rinnovato nel 2015 almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Le 1617 mail ricevute dai Comuni con segnalazioni di ritardi in piccole opere dovranno aspettare. Non ci sono fondi per le misure contro il dissesto idrogeologico. Non è la prima volta che un governo italiano si affida ai trasporti e soprattutto alle Ferrovie dello Stato (che continuano a non assicurare la pulizia dei treni su gran parte delle tratte) per rilanciare un’economia che non riesce a ripartire. I fallimenti del passato, quando peraltro c’erano ben più risorse da destinare a queste opere, non sembrano essere stati metabolizzati.

Sono lastricate le strade di Palazzo Chigi di comunicati in cui si annunciano miliardate di opere pubbliche di immediata attuazione, a partire dalla faraonica legge obiettivo del 2001 per arrivare al “decreto del fare” (e disfare) lasciato in testamento da Letta. Il fatto stesso che si peschi una volta di più dall’elenco annunciato da Berlusconi a Porta a Porta, attuato solo in minima parte (attorno al 10 per cento) in 15 anni, certifica che non basta decretare per avviare i lavori. E anche questa volta, quando si studiano i singoli dossier, ci si accorge che gran parte delle opere non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016. Non è questo tipicamente l’orizzonte delle misure congiunturali che vogliono evitare una nuova prolungata recessione agli italiani.

Una volta di più si annunciano queste misure a costo zero, come se destinassero nuove risorse alle infrastrutture senza sottrarle ad altri interventi. Ma come può un governo che chiede un consenso attorno ad un’operazione politicamente costosa come la spending review, come può un esecutivo che dovrà racimolare nella legge di Stabilità qualcosa come 16 miliardi di tagli alla spesa nel 2015, dire agli italiani che ci sono tutti questi miliardi piovuti dal cielo? È fin troppo evidente a tutti che le risorse che verranno destinate a queste opere, anche quelle che vengono da fondi europei, verranno sottratte a destinazioni alternative. È dovere di un governo spiegare perché queste opere sono più importanti di altre cose che si potevano fare con questi soldi. A partire dalle stesse opere infrastrutturali alternative che potevano essere avviate (perché, ad esempio, il terzo valico Milano-Genova e non il raccordo Fiumicino-alta velocità verso Firenze?). Le analisi costibenefici delle singole opere servono proprio a questo, ma non ce n’è traccia. Offrono le stesse valutazioni che ogni imprenditore compie quando deve decidere se fare o meno un investimento. Perché i contribuenti italiani, al pari degli azionisti privati, non devono avere il diritto di sapere come vengono utilizzati i loro soldi rispetto a diversi scenari e opzioni alternative?

La dimensione del dispositivo entrato in Consiglio dei ministri (125 pagine e, come ormai è prassi, non c’è un testo in uscita) e i commi e sottocommi dei diversi articoli danno l’impressione di burocrazie ministeriali tutt’altro che rottamate. Se il decreto avesse mantenuto l’obiettivo della semplificazione normativa, avremmo un precedente cui appellarci sul piano del metodo. Speriamo che dietro al formalismo non si celino troppi giochi di potere: homo homini lupus . E l’impressione è che almeno al ministero dei Trasporti siano ancora le alte burocrazie a governare.

Forse sarebbe stato più saggio ieri limitarsi alle misure sulla giustizia civile, che hanno potenzialmente un rilievo economico molto importante se sapranno davvero intervenire sugli arretrati, e rinviare le altre misure alla prima legge di Stabilità del Governo Renzi, nella quale confluiranno anche le norme sulle società partecipate. Ci dirà qual è la strategia di politica economica di questo governo.

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Lucio Cillis – La Repubblica

Lo spettro che si aggirava sul Paese, ieri si è materializzato. L’Italia è caduta in deflazione. Come non accadeva da esattamente 55 anni. Era infatti il settembre del 1959 quando fu registrato un segno negativo dell’1,1% sull’andamento tendenziale dei prezzi. Ma quella era la vigilia del boom economico. Mentre oggi la tenaglia della crisi stringe anche sulla recessione accompagnata da una disoccupazione che arriva al 12,6% con quasi mille posti di lavoro bruciati ogni giorno a luglio.

Ma non basta: il tasso di disoccupazione della fascia compresa tra i 15 e i 24 anni, resta il più duro da digerire e risolvere in breve tempo, visto che la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro in questa forbice di età sfiora ormai il 43%.

Sono dati pesantissimi e molto preoccupanti sui quali, secondo il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. «Occorre – dice riflettere per trovare la capacità di ricreare lavoro. E questo può venire solo dalle imprese…». L’inflazione vira verso una contrazione dei prezzi che rispetto all’agosto del 2013, sono diminuiti dello 0,1%. I dati dell’Istat certificano che l’indice al lordo dei tabacchi, è cresciuto rispetto al mese di luglio dello 0,2% e mette per la prima volta il segno meno dal 1959. Il crollo dei listini, secondo la stima provvisoria, è dovuta alla flessione anno su anno dei prezzi dei beni energetici, in particolare di quelli non regolamentati che dal più 0,4% di luglio passano al segno meno (dell’1,2%), e al parallelo rallentamento della crescita tendenziale dei prezzi dei servizi. Andamenti, questi, solo in parte controbilanciati da una frenata nella discesa dei prezzi degli alimentari non lavorati passati a meno 1,7% dal meno 2,9% messo a segno a luglio.

Da notare che anche la cosiddetta inflazione core, o “di fondo”, ritenuta un termometro efficace dello stato dell’economia e delle prospettive, calcolata al netto degli alimentari non lavorati e dei beni energetici, scende anch’essa: dallo 0,6% di luglio allo 0,5%. Ma nel corso dei prossimi mesi, secondo quanto lo stesso istituto di statistica anticipa nelle sue analisi, i dati macroeconomici non potranno che peggiorare: con ogni probabilità, la ripresa non arriverà nemmeno nel corso del terzo trimestre. Anzi, le previsioni dell’Istat sottolineano addirittura il rischio di un ulteriore arretramento dello 0,2% del Prodotto interno lordo o, comunque, di una sostanziale stagnazione del quadro macroeconomico.

Sono dati questi, che fanno riflettere per le conseguenze in Italia ma che dovrebbero aprire un nuovo scontro in Europa dove, però, si è levata per prima la voce del ministro delle Finanze tedesco, il falco Wolfgang Schauble secondo cui «la Bce non ha più munizioni per combattere la deflazione». E questo nonostante il dato sull’inflazione, reso noto a livello europeo ieri, si sia collocato a quota +0,3%. Un livello pericolosamente vicino al baratro della deflazione e molto lontano dal target europeo fissato al 2%. La parola, ora passerà alla riunione di metà settimana della Bce e alle mosse di Mario Draghi.

La scossa degli investimenti

La scossa degli investimenti

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

Il bonus da 80 euro non ha portato la scossa auspicata all’economia italiana, ma vendite al dettaglio in caduta del 2,6% rispetto all’anno scorso, nuovo balzo della disoccupazione (12,6%) e l’Italia in deflazione dopo oltre mezzo secolo. Non eravamo d’accordo con quella scelta e lo abbiamo detto subito. Il Paese esige serietà: la stessa somma poteva, da sola, consentire di cancellare il conto dell’Irap sul costo del lavoro privato. Un segnale così forte avrebbe tutelato gli investimenti in essere nazionali e esteri, probabilmente ne avrebbe attratti di nuovi, di certo avrebbe segnalato al mondo che stavamo cambiando per davvero.

La fiducia delle famiglie italiane non si “ricostruisce” con 80 euro in più in busta paga, ma dando un lavoro a chi l’ha perso e una prospettiva ai nostri giovani. Il mondo “brucia”, l’Europa ha le sue colpe gravi, ma noi non ci dobbiamo mettere del nostro e dobbiamo fare in casa le cose giuste. In gioco ci sono il futuro del Paese e la dignità delle persone, guai a dimenticarcelo.

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

Paul Krugman – Il Sole 24 Ore

Un nuovo studio dell’istituto economico tedesco Iw mette a confronto le percezioni della disuguaglianza nelle nazioni avanzate: uno dei dati più significativi è che gli americani tendono, molto più degli europei, a pensare di vivere in una società di classe media, nonostante il reddito da quella parte dell’Atlantico sia distribuito molto meno equamente che in Europa. Mettendo a confronto Stati Uniti e Francia, per esempio, esce fuori che i francesi pensano di vivere in una società gerarchica, piramidale, quando in realtà la maggioranza di loro appartiene alla classe media. Gli americani hanno la convinzione opposta. Come sottolineano gli autori della ricerca, anche altri dati indicano che gli americani sottovalutano enormemente la disuguaglianza presente nella loro società, e quando gli si chiede di scegliere un modello di distribuzione ideale della ricchezza, rispondono che gli piace la Svezia. 

Quali sono le ragioni di questa differenza? Io, come molti altri, sono del parere che l’eccezione americana riguardo alla distribuzione del reddito (la nostra peculiare diffidenza e ostilità verso il welfare e i programmi anti povertà) sia strettamente legata alla nostra storia razziale. Tuttavia questo non spiega direttamente perché abbiamo una percezione cosi distorta della disuguaglianza effettiva: la gente potrebbe essere contraria ad aiutare “quelli là”, ma non per questo essere inconsapevole di quanto siano ricchi i ricchi. E’ possibile, tuttavia, che ci sia un effetto indiretto: la divisione razziale rende più forti le formazioni di destra, di ogni tipo, e queste formazioni a loro volta producono propaganda in gran quantità che ignora e minimizza il problema della disuguaglianza.

I sentimenti anti-keynesiani
In un articolo per il Washington Post, Matt O’Brien recentemente ha sottolineato che l’Europa sta andando peggio che ai tempi della Grande depressione. Nel frattempo, il presidente francese François Hollande (che con la sua mancanza di spina dorsale e la sua disponibilità a bersi le fandonie rigoriste ha condannato al fallimento la sua presidenza e forse anche il progetto europeo) incomincia finalmente a suggerire, molto timidamente, che forse ancora più austerità non è la risposta giusta.

L’economista di Oxford Simon Wren Lewis è del parere che l’abbraccio entusiasta delle politiche rigoriste nel Vecchio continente sia dovuto a una contingenza storica: in sostanza, la crisi greca ha rafforzato le posizioni degli austeriani in un momento critico. Secondo me la spiegazione non è così semplice. La mia idea è che in Europa esistevano forti sentimenti anti-keynesiani anche prima della crisi greca e che la macroeconomia così come la intendono gli economisti anglosassoni non ha mai avuto davvero cittadinanza nei corridoi del potere europei. Qualunque sia la spiegazione, sta di fatto che ci troviamo di fronte, come sottolinea O’Brien, a una delle più grandi catastrofi della storia economica.

Salta il taglio delle partecipate locali

Salta il taglio delle partecipate locali

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Salta l’operazione in due tappe per il disboscamento della giungla delle partecipate. Tutto il piano di riorganizzazione delle municipalizzate scatterà con la prossima legge di stabilità. In extremis, infatti, sono usciti dalla versione finale dello Sblocca-Italia i primi interventi per incentivare la quotazione in Borsa e la privatizzazione di aziende in house di trasporto locale e rifiuti in cambio di un allungamento della concessione fino a 22 anno e sei mesi. Ed è stata congelata per qualche settimana la cancellazione delle 1.250 municipalizzate che risultano non operative ma con i loro dirigenti ancora in carica. 

In due fasi potrebbe invece essere sviluppato l’intervento per utilizzare una parte della dote Inail destinata a investimenti immobiliari pubblici per l’immediato completamento di opere di pubblica utilità. Il decreto varato ieri prevede che vengano impiegati già nel 2o14 2oo milioni (fino ieri senza “mission” precisa) a disposizione dell’ente e altri 6-7oo nel biennio successivo. La prossima “stabilità” potrebbe rendere permanente questa misura facendo salire a quasi 3 miliardi nei prossimi tre anni la dote Inail spendibile per opere di pubblica utilità. 

Tornando alle partecipate, il rinvio del primo pacchetto sarebbe dovuto alla necessità di calibrare meglio con i Comuni l’operazione e di valutare tutte le soluzioni per scogliere il nodo del personale delle società oggetto di chiusura. «La parte municipalizzate sarà affrontata organicamente nella legge di stabilità», ha detto il sottosegretario alla presidenza, Graziano Delrio, confermando il rinvio delle prime misure preparate per lo Sblocca-Italia. La partita insomma resta complessa. Con i Comuni che vogliono dire la loro nell’affinamento del piano tracciato nelle scorse settimane dal commissario per la spending review, Carlo Cottarelli, e con i sindacati pronti a dare battaglia sulla questione del personale. Di qui la rinuncia all’operazione in due tappe. A questo punto nella “stabilità”, che prevederà i nuovi dispositivi per favorire le cessioni e gli accorpamenti delle partecipate non di pubblica utilità o pesantemente in perdita, confluiranno anche le misure messe a punto per il Dl varato ieri.

Con la legge di stabilità dovrebbe anche diventare permanente il meccanismo che lo Sblocca-Italia al momento attiva in via temporanea per destinare una fetta consistente della dote a disposizione dell’Inail per gli investimenti immobiliari al completamento di interventi di pubblica utilità. Si tratterebbe di circa 900 milioni ricavati dagli oltre 1,3 miliardi di risorse per il triennio 2014-2016 solo già in parte programmate dall’Inail per interventi immobiliari. Risorse già disponibili che, se non venissero subito impiegate, rischierebbero di restare senza destinazione. Con il Dl sono subito impiegabili 200 milioni nel 2014 non per la realizzazione di grandi opere ma per un’ampia gamma di interventi di pubblica utilità: dagli ospedali alle scuole. A individuare le opere da finanziare prioritariamente con urgenza con la dote Inail sara un apposito Dpcm. Questo intervento potrebbe essere esteso nel tempo dalla “stabilità” anche tenendo conto dei fondi per interventi immobiliari previsti dal piano triennale Inail 2o15-2017. Tra l’altro dal 2015 l’Inail non dovrebbe più destinare parte degli investimenti indiretti a operazioni per immobili pubblici tramite Invimit, la società del Tesoro, alla quale nel 2014 sono stati “girati” oltre 1,3 miliardi.

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

L’inflazione scende ancora. Dove andrà? Qualcuno argomenta che ora può solo salire; ma anche se cosi fosse non sarebbe un buon motivo per pensare che la politica della Bce sia oggi sufficiente. Non si può infatti sperare in un vero aumento dei prezzi. L’inflazione, a fine anno, potrà forse allontanarsi un po’ dalla temuta quota zero, ma resterà bassa. Troppo bassa per consentire quel riequilibrio delle economie europee che richiede prezzi alti dove la ripresa ha più forza e prezzi più competitivi dove invece l’attività e più lontana dalle potenzialità del paese. È così quasi scontato che le nuove proiezioni della Bce, giovedì prossimo, indicheranno un peggioramento delle previsioni di inflazione: le indicazioni date a giugno per 2014 (+0,7%) e 2015 (+1,1%) non sono raggiungibili. 

Non si può allora dire che le misure della banca centrale stiano avendo effetto. Soprattutto a giudicare dalle aspettative di inflazione, che sono il vero obiettivo della politica monetaria e che, con i dati di agosto e i prossimi di settembre – destinati a essere altrettanto brutti – non potranno che peggiorare. A luglio, la Bce già ammetteva nel suo bollettino che «le aspettative di mercato suggeriscono» che l’inflazione possa tornare «vicino al 2% non prima del 2020». A inizio mese, scegliendo il meno favorevole degli indicatori a disposizione, il presidente Mario Draghi ha detto che le aspettative di inflazione a cinque anni puntano all’1%, e il 22 agosto a Jackson Hole ha ammesso che queste aspettative sono peggiorate. L’obiettivo del 2% a medio termine è lontano. 

Possono bastare allora le prossime operazioni finalizzate ai prestiti alle imprese? Forse no. Innanzitutto lasciano tutta l’iniziativa alle banche (mentre occorre chela Bce sia attiva nell’aumentare la liquidità). Aumenta poi la sensazione che, in assenza di domanda, questi Tltro possano solo favorire la concorrenza sui tassi tra le aziende di credito, in un gioco quasi a somma zero. È troppo poco, e questo poco può segnalare due cose. O la politica della Bce è asimmetrica, teme l’inflazione che sale troppo sopra il 2% ma non quella che scende troppo sotto il 2%, e questo è un errore. Oppure i vincoli politici sono troppo forti, e questo è un male.

Le recenti ingerenze del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, sono state in questo senso un segnale molto brutto. Schäuble prima si è sentito in diritto di dare l’interpretazione autentica delle parole di Draghi a ]ackson Hole, dicendo che è stato frainteso. Poi ieri ha detto di non ritenere «che la Bce abbia gli strumenti per combattere la deflazione». Detta da un giornalista, sarebbe una sciocchezza, ma detta da un ministro è una dichiarazione politica: quegli strumenti non vanno usati. Perché? Perché aiutano la politica fiscale. Il punto – se si vuole il problema – è però proprio questo: la politica monetaria può sostenere prezzi e crescita anche, se non soprattutto, aiutando la politica fiscale. Altrimenti gli obiettivi sfuggono e la politica monetaria fallisce.

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il mercato del lavoro resta in grande crisi. Ma laddove si tolgono i vincoli, e si ha più coraggio, qualcosa inizia a muoversi. Nel secondo trimestre di quest’anno l’Istat evidenzia un aumento dei dipendenti a termine del 3,8%, pari a 86mila lavoratori in più rispetto ai 12 mesi prima. Anche il ministero del Lavoro e l’Isfol, analizzando i dati sui rapporti di lavoro attivati, segnalano, negli stessi tre mesi, una crescita dei contratti a termine del 3,9 per cento. Un incremento maggiore, ed è una notizia, riguarda l’apprendistato che dal varo della Testo unico Sacconi (fine 2011) inverte rotta e nel terzo trimestre 2014 cresce addirittura del 16,1% (+12mila contratti circa rispetto al secondo trimestre 2013, +8mila, su base destagionalizzata, rispetto al trimestre precedente). Un incremento concentrato essenzialmente nella classe d’età compresa tra i 20 e i 29 anni. Resta invece in difficoltà l’apprendistato di primo livello per i giovani in età 15-19: dal 2010 il numero di nuovi rapporti risulta più che dimezzato.

Il dato sull’apprendistato è un primo segnale. Ma indicativo di quanto aiutino regolazioni semplici. Le aziende, da sempre, lamentano difficoltà nell’utilizzo di questo strumento carico di troppa burocrazia e di difficile gestione pratica (nonostante gli incentivi e i forti sgravi contributivi previsti). Ebbene, prima il decreto Giovannini, poi ulteriori interventi semplificatori su libretto formativo e formazione pubblica contenuti nel decreto Poletti, hanno colto nel segno e reso un po’ più accessibile l’apprendistato alle aziende. Sul coinvolgimento degli studenti il decreto Carrozza ha lanciato un programma sperimentale per coinvolgere alunni di quarta e quinta superiore. Il provvedimento attuativo è però arrivato ben sette mesi dopo, a ridosso della fine della scuola. A settembre partirà solo una grande azienda, Enel, con circa 150 assunzioni di studenti-apprendisti.

La direzione è quella giusta, ma la burocrazia va combattuta fino in fondo e serve un piano di comunicazione e orientamento ad ampio raggio. È poi importante abbattere le barriere ideologiche semplificando ancor più l’apprendistato a partire dai 14 anni, come chiede una parte della maggioranza capeggiata da Maurizio Sacconi (la misura convince pure il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi). Molto può fare anche «Garanzia giovani» (che è partita in forte sordina) e serve un legame vero tra scuola e lavoro, come sottolineano anche dal Pd, con l’economista del lavoro Carlo Dell’Aringa. È positivo, poi che il nuovo regime di a-causalità fino a 36 mesi dei rapporti a tempo non abbia “colpito” i contratti a tempo indeterminato che fanno segnare la prima variazione positiva (+140/0) da oltre due anni. L’attenzione ora è alla delega lavoro sul «Jobs act»che riparte a settembre. Serve coraggio, magari togliendo il limite del 20% ai contratti a termine e rendendo più flessibili mansioni e recesso nei contratti a tempo indeterminato. Il lavoro ha bisogno della ripresa economica, non c’è dubbio. Ma anche norme semplici, certe e chiare per le imprese possono aiutare.

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Cristina Casadei – Il Sole 24 Ore

Osservati dal punto di vista dell’industria i dati Istat non presentano un quadro drammatico perché nell’industria in senso stretto torna a crescere l’occupazione: +2,8% rispetto a un anno prima, pari a 124,000 unità, sia tra i dipendenti sia tra gli indipendenti. Se ci spostiamo e li guardiamo dal punto di vista dell’agricoltura, ancora una volta, il segno è positivo: il numero di occupati in agricoltura aumenta rispetto a un anno prima (+1,8%, pari a 15.000 unita) e riguarda soltanto i dipendenti (+5,6%, pari a 22.000 unità), a fronte di un calo degli indipendenti. È quando i dati vengono osservati dal punto di vista delle costruzioni e del terziario che la situazione diventa pesantemente drammatica. Prosegue per il quindicesimo trimestre, la flessione degli occupati nelle costruzioni (-3,8%, pari a -61.000 unità), concentrata soprattutto nel CentroNord. L’occupazione si riduce su base annua anche nel terziario (-0,6%, pari a -92.000 unità). La diminuzione, diffusa territorialmente, interessa principalmente gli occupati nel commercio e nei servizi di credito e assicurazioni, mentre si riscontra un aumento nella sanità e nei servizi alle famiglie. 

«I settori più ciclici, come appunto le costruzioni e il terziario, che risentono maggiormente dell’andamento del ciclo economico, sono in forte sofferenza. Però non ci si può aspettare una ripresa dell’occupazione con tassi di crescita vicini allo zero negativo. Se il paese non cresce, l’occupazione non cresce». Il ragionamento del professor Marco Leonardi che insegna Economia Politica alla Statale di Milano è lineare, non è il risultato di complesse equazioni perché la realtà che ci presentano i dati Istat è semplice e allo stesso tempo non consente vie d’uscita simili al passato. «Abbiamo avuto negli anni passati un aumento dell’occupazione in assenza di crescita economica grazie alla diffusione rapida dei contratti a termine – continua Leonardi -. Ormai però abbiamo raggiunto un livello dei contratti a termine fisiologico, in linea con la media europea. Se l’Italia non riprende a crescere, la disoccupazione non scende». Anche l’arma dei contratti a termine appare spuntata. Mentre gli interinali rappresentano numeri ancora piccoli nel nostro paese, comunque non tali da poter incidere visibilmente sugli andamenti. Secondo gli ultimi dati di Assolavoro, fermi a maggio di quest’anno, il monte retributivo dei lavoratori in somministrazione cresce del 9,8% rispetto allo stesso mese del 2013. La variazione congiunturale è pari a -1,5% contro il -2,3% di maggio 2013. Il numero medio mensile di occupati registra un +12% su base annua, i lavoratori occupati sono 278 mila. A maggio, le ore lavorate sono 28,9 milioni circa (+5,8% su base annua), mentre il rapporto fra somministrazione e occupazione totale passa dall’1,14% di maggio 2013 all’1,24% dello stesso mese del 2014.

Sui settori incombono diversi fattori. Di lungo periodo come per esempio «il fatto di essere pur sempre un paese manifatturiero importante – interpreta Leonardi – L’industria italiana, soprattutto quella che esporta, tiene. La crescita del pil è trainata dalla manifattura esportatrice». Poi però ci sono anche fattori strutturali come per esempio «i servizi che funzionano meglio che in altri paesi». Il momento pero è delicato, siamo infatti in una fase in cui «rischiamo di perdere gli elementi di ripresa e di uscita dalla crisi che si potevano intravedere».

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

Eugenio Fatigante – Avvenire

Finalmente una buona notizia, Così potrebbe pensare l’ignaro lettore, poco esperto di cose economiche, nel leggere che dopo 55 anni l’Italia è in deflazione (e l’Europa ci si avvicina). Bene, i prezzi scendono, quindi il conto nei negozi e nei supermercati diventa più basso (pur ricordando che si tratta, come sempre, di un indice, quindi di una media, e che ci possono essere anche prodotti i cui prezzi salgono ancora): non capirebbe allora – sempre il nostro ignaro lettore -il perché dei toni tanto preoccupati che si leggono nei commenti davanti a questo fenomeno. 

Cosa c’è che non va nel livello dei prezzi entrato in territorio negativo, e comunque lontano da quel 2% “ideale” che è l’obiettivo fissato dalla Bce di Francoforte? La questione va vista sotto due punti di vista: quello strettamente legato al costo della vita e i suoi riflessi sui conti pubblici. Nel primo campo, come spiegano tutti i manuali di economia la dinamica dei prezzi “versione 2014” diventa negativa perché, in questo caso, non è la conseguenza di un aumento di produttività delle industrie, bensì della bassa domanda di beni e servizi e del calo globale dei consumi. Va poi considerato che, secondo diversi economisti, la presenza di prezzi al ribasso e l’aspettativa di un’ulteriore discesa finiscono per spingere i consumatori, soprattutto per i beni più costosi, a rinviare ancora gli eventuali acquisti nella speranza che il prezzo di quel bene cali ancora. Ma questo è il minimo. L’aspetto più grave è che gli scontrini più bassi (per i consumatori) hanno un rovescio della medaglia; si riducono pure i margini di ricavo di supermercati e negozi e, con essi, quelli delle imprese produttrici. Di conseguenza si hanno meno investimenti, meno posti di lavoro e  salari ridotti. Ecco, allora, che il portafoglio in cui restano più soldi per la spesa, allo stesso tempo si “alleggerisce” – in via generale – per i problemi occupazionali e salariali. Rischiando di innescare una vera spirale deflattiva, che porta a prezzi ancor più bassi. Insomma, il vantaggio della deflazione c’è solo per chi ha l’assoluta certezza del posto di lavoro e anche di un reddito medio-alto.

C’è poi l’altro versante per cui l’inflazione negativa diventa deleteria, anche per la vita delle famiglie: gli effetti sul bilancio dello Stato. Per far comprendere questo “passaggio” basti pensare a 10mila euro chiesti in prestito a un amico, da restituire dopo 2 anni senza interessi. In condizioni normali, con prezzi e salari che salgono, il valore di quei 10mila euro diventa inferiore per chi li rimborsa perché, pur restando sempre 10mila, con quella somma – trascorsi 24 mesi – si possono in realtà comprare meno beni e servizi. Grosso modo lo stesso avviene per gli Stati che hanno un alto debito pubblico (come l’Italia), con la “complicazione” degli interessi. Per questo si afferma che una delle armi per contenere il debito è, oltre al ritorno alla crescita, un “certo livello” d’inflazione, non troppo basso. 

Cerchiamo di farci capire anche qui con un esempio. Ai livelli massimi toccati dai tassi di interesse sui titoli italiani contribuiva anche un alto livello di inflazione: nel pieno della tempesta che ci colpì, nel novembre 201 1, il rendimento del Btp decennale aveva toccato il 7,5%, ma l’inflazione veleggiava al 3% e questo dava una “spinta” anche alle voci in entrata del bilancio. Il rendimento reale (e quindi il costo “vero”del rimborso del debito per lo Stato) era attorno al 4%. Oggi, pur essendo sceso il Brp sotto il 3%, con l’inflazione sottozero il costo resta quasi uguale per il Tesoro. Solo se l’inflazione fosse rimasta attorno al 2%, il costo del servizio del debito si sarebbe tramutato in un reale beneficio per le casse pubbliche (quello “vero”, difatti, si sarebbe ridotto a un 1%). Questo spiega perché la deflazione finisce col penalizzarci ancor più nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica concordati con la Ue. E la cosiddetta “sostenibilità “del debito diventa un problema ancor più grave.