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Sindacati pagati dagli iscritti

Sindacati pagati dagli iscritti

Cesare Maffi – Italia Oggi

Non è piaciuta ai sindacalisti la riduzione di distacchi, aspettative e permessi retribuiti. Si sono sprecate le accuse di populismo, di demagogia, perfino di incremento di spesa a seguito del provvedimento con il quale la ministra Marianna Madia, in applicazione dell’articolo 7 del decreto-legge n. 90 sulla pubblica amministrazione (convertito dalla legge 114), ha invitato le organizzazioni sindacali a comunicare quali distacchi intendano revocare.

Invece la novità è altamente positiva, per più motivi.

C’è una ragione di risparmi, evidente. Se un insegnante torna a insegnare anziché continuare a svolgere attività sindacale, non ci sarà più bisogno di assumere un supplente in sua sostituzione. Quand’anche i sindacalisti che rientrano al lavoro avessero poco lavoro da svolgere, un risparmio ci sarebbe quando quel posto fosse cassato dall’organico per superfluità. Similmente il discorso vale per i permessi retribuiti.

C’è un aspetto politico da non trascurare. Matteo Renzi è riuscito dove avevano tentato, senza troppi successi, ministri del passato di vario orientamento. Ha dimostrato di non aver timore reverenziale verso le centrali sindacali. Già si era avvertita la sua allergia alla concertazione. Anche taluni toni quasi sprezzanti indicano la sua mancata subordinazione alla Triplice. Semmai, pur se il passo avanti è importante e meritevole, non è sufficiente.

Il vero obiettivo sarebbe far tabula rasa dei privilegi concessi ai sindacalisti dallo statuto dei lavoratori (non per nulla, poco dopo l’approvazione, vi fu chi parlò piuttosto di «statuto dei sindacalisti». Il principio dovrebbe essere di non mettere a carico della collettività i costi dei sindacati. L’attività sindacale andrebbe pagata dai tesserati, non già indiscriminatamente da tutti i dipendenti, compresi i non aderenti, nel caso delle imprese private, o da tutti i contribuenti, nel caso del comparto pubblico. Posto che la riforma del lavoro è ricorrentemente annunciata (anche se da ultimo attenzione e polemiche si sono concentrate sull’articolo 18), inserirvi anche la revisione delle spese sostenute per i sindacati non sarebbe un fuor d’opera. In parte, si è fatto con i partiti. I sindacati non dovrebbero rimanere esenti.

Municipalizzate, il bene pubblico lo fa il privato

Municipalizzate, il bene pubblico lo fa il privato

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il disastro delle Municipalizzate si conosceva. I numeri venuti fuori dallo studio del commissario alla spending review Cottarelli sono però peggiori del peggior incubo. Il sogno delle nostre Regioni, delle nostre Province, dei nostri Comuni di farsi le loro piccole Iri presenta un conto che non possiamo più permetterci. Questa è allora la volta buona per sciogliere l’equivoco su chi deve garantire i servizi essenziali: l’alibi perfetto con cui il pubblico si è messo a fare l’imprenditore pur non avendone le competenze. Il motivo è chiaro: controllando le aziende dei trasporti, dei rifiuti, degli acquedotti e dell’energia la politica ha costruito clientele con cui ha campato per decenni. Gestione clientelare ed efficienza sono però inconciliabili. E il risultato è questa immensa dispersione di risorse. Adesso le solite anime belle obietteranno che certi servizi devono restare pubblici. Abbiamo visto come è andata con il referendum sull’acqua. Se però continuiamo a seguire queste sirene qui tra un po’ non resterà più nulla né di queste aziende pubbliche, né degli enti locali che le controllano e neppure di uno Stato sommerso dai debiti. La migliore garanzia per assicurarci questi servizi, facendoli diventare persino più efficienti, è dunque l’affidamento ai privati. In un mercato regolato da norme e che imponga a chi espleterà i servizi di garantire uno standard adeguato sia dove è più facile guadagnare sia dove lo è di meno. Il successo del privato può essere il successo del pubblico. Chi insiste con una certa demagogia fa il gioco di chi ci sta strozzando di debiti. Anche suoi.

Distacchi sindacali dimezzati, in ballo 1.400 dipendenti

Distacchi sindacali dimezzati, in ballo 1.400 dipendenti

Matteo Barbero – Italia Oggi

Sono almeno 1.400 i dipendenti pubblici che dal 1° settembre dovranno rientrare in servizio dal distacco sindacale. È uno degli effetti del taglio delle prerogative sindacali previsto dal decreto Madia sulla p.a. e reso operativo dalla circolare n. 5/2014 diramata la scorsa settimana dalla Funzione pubblica (si veda ItaliaOggi del 23 agosto 2014). L’art. 7 del dl 90/2014 ha previsto che, a partire da settembre, i contingenti complessivi dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali già attribuiti al personale delle p.a. siano ridotti del 50% per ciascuna associazione sindacale. Per i distacchi, in particolare, la riduzione è operata con arrotondamento dell’eventuale frazione residua all’unità superiore e non trova, comunque, applicazione qualora l’associazione sindacale sia titolare di un solo distacco sindacale. Entro il prossimo 31 agosto, tutte le associazioni sindacali rappresentative dovranno comunicare la revoca dei distacchi sindacali non più spettanti alle amministrazioni, che a loro volta lo comunicheranno alla Funzione pubblica al fine di consentire le opportune verifiche a consuntivo. Secondo i dati forniti dagli stessi sindacati, i distacchi in essere oscillano tra i 2.700 e i 2.800, la metà dei quali fra pochi giorni dovrà cessare.

Queste cifre, però, si riferiscono alle c.d. unità di lavoro equivalenti, per cui i lavoratori interessati alla misura possono essere in numero maggiore. I risparmi attesi per le casse pubbliche, sempre stando alle fonti sindacali, non dovrebbero superare i 25 milioni di euro. Sebbene si tratti di piccoli numeri, nelle unità operative interessate indubbiamente si pone un problema organizzativo non trascurabile. Non a caso, la circolare n. 5/2014 dedica particolare attenzione al rientro dei dirigenti sindacali oggetto dell’atto di revoca. Questo, infatti, dovrà avvenire nel rispetto dell’art. 18 del CCNQ 7 agosto 1998, nonché delle altre norme di tutela dei dirigenti sindacali previste dagli ordinamenti di settore per il personale in regime di diritto pubblico.  

Sfiduciati

Sfiduciati

Davide Giacalone – Libero

L’immagine della locomotiva, riferita alla Germania, fa deragliare molti ragionamenti. In qualche caso, negli ultimi anni, oltre a non trascinare nessuno la Germania è stata trainata. Tenerlo presente aiuta a capire i dati sul calo della fiducia (indice Ifo), da parte delle aziende tedesche: è il quarto ribasso consecutivo e, per giunta, ci si aspettava il calo di un punto (a 107 da 108 di luglio), invece è stato di un 1,7 (106,3). Posto ciò, e prima di guardare dentro al problema, meglio non dimenticare che il prodotto interno lordo tedesco è previsto in crescita di un punto e mezzo, alla fine del 2014, avendo perso mezzo punto rispetto alle previsioni di inizio anno. Noi, invece, abbiamo perso di più (0,6-0,7), rispetto alle previsioni del governo, e chiuderemo a zero o a zero più un nulla, in quel caso festeggiando il non avere chiuso in negativo. Così, giusto perché non sfuggano le differenze, ingigantite dai dati del passato prossimo.

Torniamo alla locomotiva. La Germania sarebbe effettivamente tale se i suoi consumi interni trascinassero le esportazioni di altri paesi europei. Ma non è così. Il modello tedesco, negli ultimi anni, s’è retto su tre pilastri: a. riforme del mercato interno, per rilanciare la competitività; b. basso costo per l’accesso ai capitali; c. esportazioni verso aree extra Unione europea (in questo incorporando importanti componenti made in Italy). La prima cosa è un loro merito (ed è una nostra colpa stare ancora qui a chiacchierare anziché adeguarci). La seconda è stata un coltellata alla schiena degli altri europei, noi per primi, in parte responsabili del loro disordine finanziario, in parte inchiodati da come l’euro è stato concepito e fin qui realizzato. La terza è un legittimo successo, salvo che ora il mondo s’è fatto meno ospitale, sicché le tensioni rendono meno floridi i commerci. A questo aggiungete che il nuovo governo, che ha sempre Angela Merkel come cancelliere, ma una composizione politica che ora comprende i socialdemocratici, ha deciso di indebolire il primo pilastro, puntando all’aumento dei salari minimi. Mettete assieme queste cose e vi spiegherete perché le aziende tedesche nutrono qualche preoccupazione.

Quel modello, comunque, non era una locomotiva per l’economia Ue. Noi italiani siamo stati vicini alla caldaia, a spalare carbone e consentire al ciuf-ciuf di non ansimare. Lo abbiamo fatto pagando il denaro assai più dei tedeschi. E lo abbiamo fatto finanziando gli europei in grave crisi e, con questo, alleggerendo le banche tedesche dai non pochi errori (e orrori) commessi. Il frutto di questi squilibri lo si sente nel cappio che il debito pubblico stringe attorno al nostro collo, costandoci il doppio del deficit consentito. E lo si vede anche nella bilancia commerciale tedesca, patologicamente e irregolarmente in avanzo. A far da controprova che la locomotiva era un vagone letto.

Nel corso di questa estate si sono lette tante cose, circa le ricette economiche da adottare. L’ingrediente più diffuso è stato la novità. C’è bisogno di idee nuove, s’è detto e scritto. Le ricette nuove sono sempre interessanti, se non pretendono di venderti un cecio con sentore di tamarindo quale pasto completo e sofisticato. Però la cucina ha una sua tradizione di ragionevolezza, destinata al nutrimento con soddisfazione. Supporre che i banchieri centrali o i mumble-mumble economici possano trasformare i debiti in ricchezza e la nullafacenza in produttività, non è da ottimisti, ma da illusi. Noi italiani abbiamo bisogno di cose semplici, benché non facili: lavorare di più, più numerosi, con meno tangente fiscale, avendo meno mantenuti sulle spalle. Rozzo? Certo, ma anche un panino al salame può esserlo, restando più convincente del citato cecio. In Europa, invece, ci si deve decidere: o si sta tutti ai parametri, nel qual caso i tedeschi paghino per i loro sforamenti; oppure ci si decide a ricordarsi che siamo l’area più ricca e produttiva del mondo, sicché si potrebbe provare ad accompagnare la politica, e la democrazia, alla moneta comune.

Non c’è modo che questi problemi si risolvano da soli. Mentre è da sciocchi supporre che qualcuno li risolva per noi.

Due regole non scritte

Due regole non scritte

Antonio Polito – Corriere della Sera

Appena sabato scorso Arnaud Montebourg aveva detto a Le Monde che «l’Europa deve fare come Matteo Renzi» e liberarsi dell’«ossessione tedesca per l’austerità». Non gli ha portato bene. Tre giorni dopo è stato licenziato da François Hollande, aprendo a Parigi una crisi di governo di inusitata gravità, solo cinque mesi dopo la nascita dell’esecutivo guidato da Manuel Valls (un altro che è stato spesso paragonato a Renzi).

Naturalmente il ministro dell’Economia francese non è stato punito perché troppo renziano. Anzi, se si vuol stare al paragone con l’Italia, il Don Chisciotte della sinistra d’Oltralpe assomiglia più a un Fassina o a un Bertinotti vecchia maniera. Ma la sua cacciata conferma due leggi della politica europea da cui neanche la Francia si è mai allontanata, e che faremmo bene a tenere sempre a mente anche noi italiani. 
La prima è che delle «due sinistre» quella che non fa i conti con la realtà, che si illude e illude gli elettori di poter tornare all’età dell’oro socialdemocratica facendo deficit e mettendo tasse, è destinata a perdere. Seppure su scala minore, la crisi di Parigi ricorda lo scontro con cui alla fine degli anni Novanta il Cancelliere Schröder si liberò del ministro Lafontaine a Berlino. La rottura della Spd con la sinistra interna diede il via alla stagione di riforme che salvarono la Germania dal declino economico, e aprirono la strada all’era Merkel. Hollande, allo stesso modo, vuole riaffermare la sua autorità sul partito e sul governo proprio mentre è impegnato in un programma di riforme liberali della stagnante economia francese.

La seconda legge che esce confermata dalla punizione di Montebourg è che Parigi, chiunque sia al governo, non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania. La Francia non ha alcun interesse a diventare il capofila dei deboli. Sia perché la sua missione politica è quella di stare nel cuore dell’Europa, sia perché i mercati la premiano finché resta attaccata a Berlino, con tassi di interesse bassi quando non addirittura negativi, nonostante deficit alti e crescita zero. Perché mai Hollande dovrebbe dunque trasformare la sua retorica anti-austerità in un vero e proprio scontro con la Merkel, come il ministro ribelle lo invitava a fare?

È bene dunque non farsi troppe illusioni su presunti assi mediterranei tra Parigi e Roma per piegare Berlino. Ogni Paese deve contare sulla sua credibilità prima di ogni altra cosa. La Spagna, per esempio, ha fatto riforme efficaci dell’economia che le hanno consentito a giugno, insieme al Portogallo, di dire di no alla richiesta italiana di maggiore flessibilità nei conti, e che probabilmente le varranno la nomina di Luis de Guindos alla presidenza dell’Eurogruppo (con il francese Moscovici che conquista l’Economia e la nostra Mogherini piazzata alla Politica estera).

Non abbiamo dunque altra strada che trasformare le promesse e gli annunci della stagione Renzi in realtà. Il nostro governo ha ancora un grande capitale di fiducia da spendere in Europa. Ma deve agire. Riforme radicali della giustizia e del mercato del lavoro sono, nelle prossime settimane, l’unica vera arma di cui dispone. E, come i fatti francesi hanno dimostrato, valgono molto più degli applausi di un Montebourg.

Una doccia gelata l’Iva dovuta sugli aiuti

Una doccia gelata l’Iva dovuta sugli aiuti

Giangiacomo Schiavi – Corriere della Sera

Questa è una storia di lutti, di solidarietà, di rinascita. E anche di una doccia gelata. Una storia che coinvolge persone, legami, speranze. E si svolge attorno a una scuola: un investimento sul futuro. Cavezzo, Emilia: il paese più colpito dal terremoto di due anni fa. Qui la ricostruzione di un polo scolastico è diventata un atto di fiducia nel quale si è ritrovata una comunità. C’è voluto un po’ di tempo, ma la buona volontà e il sostegno convinto della Regione Emilia-Romagna, del Comune, dei sindaci, degli insegnanti e dei genitori dei 600 bambini, ha vinto su tutto: burocrazia, divisioni politiche, ostacoli tecnici. Grazie alla sottoscrizione dei lettori del Corriere e del Tg La7 sono state realizzate aule, laboratori, palestra, sala riunioni, un learning garden, l’orto didattico e un piccolo parco, perché con gli alberi si cresce e si educa all’ambiente.
L’avventura della ricostruzione è stata una lezione di tenacia e di umanità. Fra qualche giorno verrà consegnato alla comunità locale un complesso educativo, civile e sociale realizzato grazie a un’innovativa alleanza tra privati e amministrazione pubblica nel paese che nella terribile primavera del 2012 divenne uno dei simboli del cratere sismico: quattro morti, decine di feriti, settemila sfollati, ottocento abitazioni inagibili, un quadro di rovine e disperazione.

Il giardino della conoscenza

Per arrivare a questo, per cucire assieme i precedenti interventi di Regione e Comunità delle Giudicarie e trasformare un campo di mais al confine del paese in un «giardino della conoscenza», sono stati impiegati i quasi tre milioni di euro raccolti da «Un aiuto subito» la sottoscrizione del Corriere e del Tg La7. Ci hanno dato una grossa mano Renzo Piano e gli architetti della sua fondazione: sono stati a Cavezzo, hanno offerto consulenze e progetti, cercando di integrare con le nuove costruzioni quel che era stato fatto nell’emergenza per garantire le lezioni ai bambini. Il progetto, affidato allo studio Carlo Ratti di Torino, utilizza le migliori tecniche di edificabilità e sostenibilità ambientale. Ci piacerebbe farlo diventare la seconda piazza del paese: un luogo di studio, di sport e di civiltà.

Il «prezzo»della beneficienza

È giusto ringraziare tutti, tutti meno lo Stato, la cui presenza si è materializzata solo sotto forma di esoso esattore. Ciò che resta dei fondi se li prende lui. Per aver realizzato un polo scolastico con i soldi dei lettori, dobbiamo pagare una tassa. Una tassa sulla generosità prevista con l’Iva: trecentomila euro. Mentre si prepara la riforma del non profit, nessuno pensa a rimuovere un balzello che pesa sulla beneficienza: oggi in Italia lo deve pagare l’azienda che decide di ristrutturare a sue spese un padiglione d’ospedale e l’associazione che regala un’ambulanza al pronto soccorso. Un’assurdità. Accade ai Rotary, ai Lyons, alle associazioni e alle fondazioni che decidono di farsi carico di opere o lavori destinati alla pubblica utilità. Si paga l’Iva per la biblioteca restaurata dopo l’alluvione di Aulla, per la Casa del volontariato di Milano, per realizzare il centro sportivo di Scampia gestito gratuitamente dai volontari. Si paga l’Iva su tutto, calamità (ovviamente) comprese.

I paradossi del fisco

L’Iva, per chi compra o vende, è un obbligo di legge. L’imposta sul valore aggiunto si paga al 22 per cento, ma quando si realizzano opere di valore sociale come le scuole si ottiene uno sconto fino al 10 per cento. In sede di bilancio non è un problema: si tratta di una partita di giro. Chi la carica sulla merce acquistata può scaricarla su quella venduta. Per noi (e certamente per altri benefattori) invece è un extra: non abbiamo partite di giro, si paga e basta. Sono i paradossi della nostra disciplina fiscale: invece di essere agevolato, chi fa del bene viene spesso ostacolato. Non serve una doccia gelata qui: basterebbe un emendamento del governo o del parlamento per annullare un’assurda gabella, restituendola ai terremotati di Cavezzo, ai sindaci impegnati nella ricostruzione, alle insegnanti e ai bambini del polo scolastico. Sarebbe un atto di buon senso e l’inizio di una fattiva collaborazione tra privati e istituzioni, in caso di disastri e calamità. Ma nessuno ci ha pensato.

Le giuste distinzioni

Si dirà che la questione è poca cosa rispetto ai guai che stiamo attraversando. Ma l’insieme di tante piccole cose che non vanno sta diventando un intralcio alle tante spinte positive che ci sono nella società. Perché lo Stato invece di favorire il cittadino o l’azienda che gli fa risparmiare milioni di euro pretende da questi una tassa? In un Paese dove abusi e illegalità devastano l’economia pubblica con ruberie di ogni sorta, perché non si fa qualche distinzione sulla disciplina dell’Iva per chi fa del bene? Non sarebbe un incentivo per tante aziende a investire nella solidarietà? Si obietterà: l’Iva si paga perché lo prevede una normativa comunitaria. Ma l’Iva non è uniforme e la normativa europea stabilisce solo limiti e criteri, dando facoltà poi agli Stati di definire esattamente il quadro giuridico. Qual è la risposta di questo governo?

La fiducia che alimenta la democrazia

Chi fa beneficenza non può essere trattato come il gestore di una slot machine , anzi peggio (i gestori hanno avuto uno sconto milionario sugli arretrati da pagare allo Stato). Noi vorremmo che una ricostruzione nata dal cuore con un gruppo di lavoro straordinario, diventasse un valore condiviso anche dallo Stato, in cui vogliamo avere fiducia. È la fiducia, è l’affidamento nelle lealtà delle istituzioni, che dà benzina alla democrazia, ha scritto Michele Ainis. Ma se lo Stato agisce come un esoso mercante, che fiducia si può avere? Uno Stato che non si pone il problema del bene comune suscita disaffezione, fastidio. E anche ostilità. Sentimenti che, davanti a quanto di buono ogni giorno viene fatto in Italia, tutti noi vorremmo non provare.
(PS: la tassa di trecentomila euro rischia di ridimensionare il progetto per Cavezzo. Ma noi non vogliamo lasciare il lavoro interrotto: andremo avanti comunque. Chiederemo un piccolo aiuto a chi può darlo. E uno più grande a chi ha una maggiore disponibilità. Sul conto «Un aiuto subito» presso Intesa San Paolo abbiamo lasciato per mesi 2.975.076 euro a un modesto tasso di interesse. Fosse lo stesso che ci chiede oggi lo Stato, saremmo a posto. La generosità di Intesa San Paolo ha spesso sostenuto avventurose imprese di Stato con milioni di euro, bruciati inutilmente in pochi mesi. A Cavezzo non ci sono capitani coraggiosi del capitalismo, ma cittadini e studenti. Per la banca dovrebbero essere un valore su cui investire; per lo Stato un’occasione per riflettere: questa storia riguarda tutti, non solo noi).

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I fatti iniziano a farsi sempre più chiari. Le due anomalie che l’Italia rappresenta, quella di essere l’unico paese dell’eurozona in recessione e quella di incarnare l’unica economia che al terzo anno di tentate riforme non riesce in alcun modo a far ripartire la crescita e il pil, stanno per arrivare al pettine. Mario Draghi ha parlato da Jackson Hole e ha detto chiaramente che senza le riforme che l’Italia rinvia dal 2011, in primis quella per rendere più efficiente il mercato del lavoro, la Bce non potrà fare molto di più di quanto ha già fatto. Un messaggio chiaro a Matteo Renzi che continua a chiedere una flessibilità che nessuno può concedergli a priori. Anche perché il trimestre in corso sarà chiave per l’Italia. Se, anche in conseguenza di una pessima estate climatica e conseguentemente di una fiacca stagione turistica, il pil di luglio-settembre dovesse registrare un nuovo dato negativo, allora la faccenda per Renzi e per il Belpaese si farebbe davvero grave. Non tanto e non solo perché sarebbe già acquisito a quel punto per il 2014 un calo della ricchezza nazionale dello 0,4-0,5%, con tutto quello che significa in termini di occupazione ed entrate fiscali, ma perché l’Italia diventerebbe automaticamente portatrice di una ulteriore anomalia dell’eurozona: l’unica economia a subire l’ennesimo downgrade da parte della agenzie di rating mentre gli altri paesi registrano promozioni nei giudizi. Se, infatti, il pil scendesse ancora nel trimestre in corso per Moody’s&Co.diventerebbe normale capire se il rating dell’Italia possa essere o meno confermato. Un paese in recessione da tre trimestri, con una disoccupazione giovanile monstre e indebolito da una strisciante deflazione è oggettivamente a rischio di downgrade. Ma per l’Italia perdere un notch, questa volta, equivarrebbe a spalancare le porte di Roma all’arrivo della troika.

Lo spartiacque della crisi stavolta corre lungo gli effetti che i dati a consuntivo del pil del terzo trimestre potranno produrre. Un altro quarter a crescita negativa e la secchiata gelata potrebbe investire il governo Renzi e la sua autonomia di manovra.

Del resto, è stato Renzi a precipitarsi nella villa umbra di Draghi per un confronto sulla situazione e per capire che margini di manovra in assenza delle riforme non ne esistono più. Se è presumibile che la troika sia già a Bolzano, allora al Premier non rimane che un’ultima via di fuga dal commissariamento: scongiurare un nuovo trimestre di pil negativo. Ma la confusione nel dibattito politico italiano e l’assenza di un chiaro programma riformista e di un calendario per attuarlo, certamente non aiutano l’Italia a guadagnare punti con le agenzie di rating. E a Renzi di respingere oltre il Brennero la temuta troika.

La partita che l’Italia rischia di perdere

La partita che l’Italia rischia di perdere

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Dal Consiglio dei capi di Stato o di Governo della Ue di sabato dovrebbero arrivare le designazioni sia dei commissari europei sia del presidente del Consiglio sia dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Sembra che il commissario per gli affari economici e monetari sarà francese, che il presidente del Consiglio (di cui Van Rompuy ha dimostrato l’importanza) sarà spagnolo, che l’Alto rappresentante (di cui la Ashton ha dimostrato l’irrilevanza) sarà italiana.

Noi abbiamo sempre sostenuto che l’Italia doveva avere un commissario per l’economia reale sia con un ruolo di coordinamento tra vari altri commissari sia per varare l’industrial compact. Così avremmo pesato davvero nei prossimi cinque anni sia nel governo economico dell’Europa sia nell’attenuare la linea (per necessità) filotedesca della Francia. Cioè quella del rigore senza crescita. Già ora non sono un buon segnale le dimissioni del governo francese per sbarazzarsi del ministro dell’economia che aveva accusato la politica economica francese di sudditanza alla Germania. Anche se Hollande stesso, sia pure garbatamente, ha più volte espresso riserve sulla politica del rigore.

L’urgenza della crescita. Il prossimo quinquennio istituzionale europeo sarà infatti cruciale per il rilancio della crescita perché la crisi occupazionale della Uem da socio-economica potrebbe diventare istituzionale. Sono preoccupazioni espresse nei giorni scorsi sia da Mario Draghi (con il garbo del suo status) sia più duramente dal premio Nobel Joseph Stiglitz che ha paventato un quarto di secolo di crisi europea se non si fanno investimenti infrastrutturali e non si spinge la domanda. Angela Merkel gli ha risposto direttamente (e forse indirettamente anche a Draghi) confermando la politica del rigore e delle sanzioni (da appesantire!) ai Paesi europei che non rispettano i vincoli di bilancio. Su queste premesse un confronto tra governi sarà inevitabile nei Consigli della Ue dove non basta la determinazione perché ci vuole anche potere e competenza. Carature che Draghi ha, ma che non userà certo per l’Italia essendo il suo ruolo nella e per la Uem.

Le valutazioni di Draghi. Nel recente simposio dei banchieri centrali negli Usa, Draghi scegliendo di trattare della “disoccupazione nell’area euro” ha ricollocato la sua funzione di banchiere centrale in quella ben più ampia di una personalità preoccupata della tenuta della Uem stessa. Così noi interpretiamo liberamente il suo intervento. Egli è stato netto sia sui danni pervasivi di una elevata disoccupazione che diventa crescendo sempre più strutturale in molti Paesi sia sull’urgenza di combatterla accettando il rischio di fare troppo piuttosto che troppo poco. Su questo obiettivo primario Draghi articola (garbatamente) le sue proposte di politica economica a tutto campo (monetaria, fiscale, delle riforme strutturali, per gli investimenti) con riferimento sia alle politiche della domanda che a quelle dell’offerta, per l’Eurozona e i singoli Paesi membri.
In premessa Draghi segnala che la Bce ha fatto e farà tutto il possibile per combattere la disoccupazione (che per noi si coniuga con deflazione-stagnazione) dell’Eurozona. Precisa però che la Bce, date le condizioni iniziali della Uem e i vincoli legali, non ha potuto (diversamente dalla Banche centrali di altri Paesi) attuare un acquisto generalizzato di titoli obbligazionari di Stato (e non) creando moneta (quantitative easing) e così supportando la politica fiscale.

Noi dubitiamo che adesso questa scelta sarebbe efficace nella Uem dove la fiducia s’è volatizzata e per questo preferiamo altre politiche economiche proposte da Draghi per rilanciare la Uem e ridurre la disoccupazione. Continuando nella nostra libera sintesi interpretativa (soprattutto per i riferimenti ai Paesi che egli non cita), Draghi rivolge moniti ai Paesi (come Italia e Francia) che non possono fare politiche espansive dati i vincoli di bilancio, invitandoli a riforme strutturali e ad una migliore composizione tra tassazione (da abbassare) e spesa pubblica (da ristrutturare). Rivolge anche moniti ai Paesi (come la Germania) che possono invece fare politiche espansive della domanda che contribuirebbero alla crescita di tutta l’Eurozona.

La governance dell’Eurozona. Draghi rivolge infine raccomandazioni per una governance dell’Eurozona affinché interpreti le regole di bilancio vigenti in modo flessibile così da ridurre i costi delle riforme e aumentare la crescita nei Paesi più deboli (leggasi scambio flessibilità-riforme) e dia corso a un programma di investimenti pubblici. Queste valutazioni chiariscono che il tempo si è fatto davvero breve e che urge la concretezza delle decisioni da combinare però con riforme a medio termine del governo dell’Eurozona. Ciò significa ripartire dai due programmi del novembre e dicembre 2012 per “un’autentica unione economica e monetaria” elaborati rispettivamente dalla Commissione europea e dai quattro presidenti (Van Rompuy, Barroso, Juncker, Draghi). Sulla loro base il Consiglio europeo del dicembre 2012 ha preso delle deliberazioni che si sono però concentrate sulle prescrizioni di bilancio e sull’Unione bancaria. Tenui sono invece le tracce di politiche per gli investimenti e le infrastrutture salvo un accenno a investimenti pubblici produttivi ricompresi nel quadro di bilancio poliennale della Ue e nel rispetto dei vincoli di bilancio per i singoli Stati. Adesso che la situazione si è fatta (ancora) più grave (anche perché allora non c’era deflazione) vanno forzate le tappe ricollocando i citati programmi per la Uem dentro quello del neo-presidente della Commissione Juncker (si veda il nostro articolo del 20 luglio scorso) e sfruttando le possibilità del Trattato di Lisbona sulle cooperazioni rafforzate dell’Eurozona.

Una conclusione: finanziare gli investimenti. Juncker ha prefigurato infatti un programma di investimenti per 300 miliardi nei prossimi 3 anni ponendo una forte enfasi sull’economia reale, sull’industria, sulle infrastrutture e sulla Bei. Juncker e Draghi, che hanno collaborato spesso, potrebbero dare una scossa alla Uem puntando subito ad una emissione di obbligazioni ventennali della Bei per 100 miliardi sottoscritta dalla Bce. Si potrebbero così spingere gli investimenti infrastrutturali e delle imprese per entità che, anche per i moltiplicatori e per i partenariati pubblico-privati, arriverebbero facilmente ai 300 miliardi del piano Juncker. La Bei darebbe la certezza di investimenti veri senza intaccare i bilanci dei Paesi deboli e così superando anche le obiezioni della Germania alla “golden rule” per i singoli Paesi.

Permessi e distacchi sindacali dimezzati

Permessi e distacchi sindacali dimezzati

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Scatterà dal 1° settembre il dimezzamento alle prerogative sindacali stabilito dal dl Madia. Entro il 31 agosto tutte le sigle dovranno comunicare alle amministrazioni la revoca dei distacchi «non più spettanti» (sono interessati circa mille lavoratori che quindi tra cinque giorni rientreranno negli uffici). Il taglio del 50%, finalizzato «alla razionalizzazione e alla riduzione della spesa pubblica», interesserà anche i permessi retribuiti. Ma non i permessi sindacali attribuiti alle Rsu (questo perché non sono attribuiti alle singole organizzazioni sindacali). E la riduzione prevista dal dl Madia non si applicherà anche «alle aspettative sindacali non retribuite, ai permessi non retribuiti e ai permessi per la partecipazione a riunioni sindacali su convocazione dell’amministrazione per il solo personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia (ciò in quanto per essi non è previsto alcun contingente).
La titolare di Palazzo Vidoni, Marianna Madia, ha reso nota ieri la circolare che attua la sforbiciata del 50% alle prerogative sindacali nelle pubbliche amministrazioni prevista dall’articolo 7 del dl 90. Per le forze di polizia ad ordinamento civile e per il corpo dei vigili del fuoco si prevede, in sostituzione della riduzione del 50%, che alle riunioni sindacali indette dall’amministrazione «possa partecipare un solo rappresentante per sigla sindacale».
Sul fronte dei distacchi (che nella Pa corrispondono a un’aspettativa retribuita con la sospensione dell’attività lavorativa) la circolare specifica che la riduzione «non si applica nell’ipotesi di attribuzione all’associazione sindacale di un solo distacco». Il contingente complessivo dei distacchi, rideterminato in virtù dell’articolo 7 del dl Madia, potrà essere nuovamente ripartito tra le sigle sindacali con le relative procedure contrattuali e negoziali. In tale ambito, specifica la nota di Palazzo Vidoni, sarà possibile definire, «con invarianza di spesa», forme di utilizzo compensativo tra distacchi e permessi sindacali. 
Il distacco revocato dà diritto al rientro al lavoro (il posto viene infatti accantonato). Si può tuttavia far domanda per essere trasferiti in altra sede della propria amministrazione quando si dimostri di aver svolto attività sindacale e di aver tenuto il domicilio nell’ultimo anno nella sede di richiesta ovvero in altra amministrazione anche di diverso comparto della stessa sede. Una sorta di mobilità, anche interdipartimentale, che va comunque applicata, spiega la Funzione pubblica, «nel rispetto dei principi ai quali si ispira questa disciplina con particolare riferimento ai requisiti e alle competenze professionali richiesti per il trasferimento». Nel solo comparto Scuola per il triennio 2013-2015 sono stati autorizzati 681 distacchi (in 340 torneranno quindi nelle scuole), con un risparmio di oltre 10 milioni annui (nel caso dei docenti si eviteranno le nomine dei supplenti).
La riduzione del 50% si applica anche al monte ore complessivo dei permessi sindacali retribuiti. Nell’anno corrente, sottolinea Palazzo Vidoni, il taglio verrà effettuato secondo il metodo del calcolo «pro-rata». Vale a dire: dal 1° gennaio 2014 al 31 agosto il contingente dei permessi sindacali spetta in misura piena, mentre dal 1° settembre al 31 dicembre, va ridotto nella misura del 50 per cento. Con la conseguenza, pertanto, che dal 1° settembre, qualora in seguito alla riduzione e alla rideterminazione del contingente le associazioni sindacali abbiano esaurito il relativo contingente a disposizione, «le medesime non potranno più essere autorizzate alla fruizione di ulteriori ore di permesso retribuito».
La circolare specifica come nel caso in cui i sindacati abbiano comunque utilizzato prerogative sindacali in misura superiore a quelle spettanti nell’anno dovranno restituire il corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti. In difetto l’amministrazione compenserà l’eccedenza l’anno successivo (fino al completo recupero). Per il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, «non è con il taglio di distacchi e permessi che si risolvono i problemi della Pa. Basta demagogia. Ci aspettiamo ora che il Governo rinnovi i contratti dei pubblici dipendenti fermi scandalosamente da ben sette anni». Il taglio «chiaramente metterà in difficoltà», ma «siamo forti e continueremo ad esercitare la nostra funzione» sottolinea Michele Gentile, responsabile Cgil dei settori pubblici.