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Bancomat obbligatorio, flop nei negozi: in regola meno del 50%

Bancomat obbligatorio, flop nei negozi: in regola meno del 50%

Michele Di Branco – Il Messaggero

Avrebbe dovuto essere l’asso nella manica gettato sul tavolo per contribuire a sconfiggere l’evasione fiscale. Ma a poco più di un mese di distanza dalla riforma voluta dal governo Renzi che rende obbligatori i pagamenti elettronici per importi sopra i 30 euro (se richiesto), l’operazione non è affatto decollata. Solo 6-700 mila esercenti, tra quelli chiamati a farlo, si sono dotati del Pos Mobile che consente di accettare le carte di credito e debito operanti sui circuiti internazionali MasterCard, Visa e Maestro. E questo significa che sui 5 milioni di operatori che dovrebbero essere coinvolti nell’operazione appena 2-2,2 milioni sono in regola. Dunque secondo le stime di Confesercenti e Cna siamo ben al di sotto del 50%. E se si scende nella platea dei negozianti al dettaglio la percentuale crolla ancora.

Palazzo Chigi è convinto che la riforma funzionerà. Ma intanto i numeri parlano di un flop. Che è frutto essenzialmente di due problemi: il fatto, non da poco, che non sono previste sanzioni per chi trasgredisce e il fardello dei costi per l’installazione e la gestione dei Pos che affligge in particolare gli esercenti di medio-piccola grandezza. Si può arrivare fino a mille e cinquecento euro di spesa nell’arco di un anno per un’azienda con un volume di transazioni bancomat o carta di credito da 50 mila euro. Vale a dire i 150 euro necessari per l’installazione l’attivazione, più i costi di gestione mensili che possono arrivare fino a 80 euro. E infine il carico finale da circa mille euro delle commissioni sulle transazioni. Di regola, con le banche si negozia un’aliquota dell’1,5-2% in favore di queste ultime sul volume degli incassi. Ma ci sono anche formule, alternative, che prevedono una commissione di 0,25-0,40 euro sulla singola transazione. Proprio i costi sono lo scoglio contro il quale rischia di infrangersi la diffusione della moneta elettronica. Un esempio su tutti: i tabaccai. Per un bollo di 300 euro il guadagno per l’esercente è di un euro, ma se il pagamento avviene con bancomat il costo che il tabaccaio deve sostenere è di 3 euro. L’Abi garantisce che proprio grazie alla diffusione del sistema «i prezzi praticati dagli istituti si ridurranno».
Confesercenti spiega che un’applicazione inflessibile della legge costerebbe 5 miliardi l’anno per le imprese tra oneri di esercizio e commissioni e parla di innovazione «che rischia anche di essere inutile visto che il 70% degli italiani non ha intenzione di cambiare le proprie abitudini di pagamento». Ragionamenti di tenore simile dalle parti della Cna. «È innegabile l’importanza della tracciabilità – afferma Mario Pagani, responsabile del dipartimento delle politiche industriali – ma non si può ignorare l’impatto in termini di costi sulle attività che hanno prodotti di basso valore. Servirebbero incentivi o sgravi fiscali per favorire il passaggio anche culturale alla moneta elettronica e sarebbe anche opportuno alzare la soglia minima almeno a 50 euro per ammortizzare i costi». E dire che la riforma non è piombata affatto in maniera imprevista visto che le novità è prevista da una legge del 2012.

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Eugenio Scalfari invoca la Troika, ancorché nella versione buona (per una politica economica espansiva, e non restrittiva), vuol dire che le cose vanno proprio male per l’economia italiana. Se è vero che il problema è di tutta l’eurozona, l’Italia è comunque il fanalino di coda: basta fare il confronto con Grecia e Spagna, che fino a un anno fa erano messe peggio di noi.

Questo vuol dire che l’Italia, dal governo Monti in poi, ha sbagliato tutto. Con l’aumento stellare della tassazione casa (triplicata); la controriforma del mercato lavoro; la riforma sbagliata delle pensioni; l’aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese, per quanto riguarda Monti e Letta. E con il riformismo confuso, impotente, clientelare, inadeguato del governo Renzi: basti pensare al Jobs act; alla controriforma Madia della Pubblica amministrazione; allo sconquasso dei conti pubblici causato dal “bonus Irpef” di 80 euro; alla Spending review impantanata e alla svendita, senza logica e senza un piano, dei propri gioielli di famiglia (si veda, da ultimo, la cessione del 35% del capitale sociale di Cdp Reti, che contiene il 30% di Snam e il 29% di Terna, al gruppo che controlla le reti energetiche cinesi). Su quest’ultimo punto, del programma di dismissioni del ministro Vittorio Grilli, per un punto di Pil, pari a 16 miliardi, si è persa traccia. Così come restano ad oggi irrealizzati gli 11 miliardi all’anno di dismissioni contenuti nel Def 2014 di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan.

In quasi 3 anni, passati invano, 3 distinti governi, tutti caratterizzati dal fatto di non essere stati eletti dal popolo, non hanno voluto, o non sono stati capaci di fare le cose che si dovevano fare, guarda caso contenute nella lettera che il 26 ottobre 2011 il governo Berlusconi inviò, ricevendo tanti applausi, ai presidenti di Commissione e Consiglio europeo. Misure di modernizzazione e rilancio dell’economia italiana in parte approvate a novembre 2011 con il maxiemendamento alla Legge di stabilità per il 2012 (ultimo atto del governo Berlusconi), ma poi, purtroppo, a causa dei tanti cambi di esecutivo, non attuate (si pensi alla mobilità obbligatoria per il pubblico impiego). Oggi le cose da fare sono chiare a tutti, perfino a Eugenio Scalfari, che invoca la Troika, delegittimando, di fatto, Renzi.

I dati parlano chiaro: per mantenere gli impegni presi con l’Europa nel 2014 mancano tra 29 e 32 miliardi di euro. E per mantenere le promesse che Renzi ha fatto agli italiani bisognerà trovare altri 37 miliardi nel 2015.

IL PIANO BERLUSCONI PER USCIRE DALLA CRISI

1) Attacco al debito pubblico ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia, per una strategia credibile

Innanzitutto, per sopperire alla più grave debolezza italiana e rafforzare la nostra posizione in Europa, si rende necessario, dunque, un intervento straordinario, ma duraturo, di aggressione del debito pubblico. Una riduzione strutturale del debito sovrano dell’ordine di 400 miliardi (circa 20-25 punti di Pil) in 5 anni: 100 miliardi derivano dalla vendita di beni pubblici per 15-20 miliardi all’anno (circa 1 punto di Pil ogni anno); 40-50 miliardi (circa 2,5 punti di Pil) dalla costituzione e

cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi (circa 1,5 punti di Pil) dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute all’estero (5-7 miliardi all’anno); 215-235 miliardi dalla vendita di beni patrimoniali e diritti dello Stato disponibili e non strategici ad una società di diritto privato, che emetterà obbligazioni con warrant. Altro che svendite per fare cassa. Il segnale strategico che si vuol dare con un piano di questo tipo è quello di aumentare l’efficienza, la produttività e la competitività dell’economia italiana; ridurre il peso dello Stato; liberare risorse oggi patologicamente impiegate per il servizio del debito. Vendita del patrimonio pubblico immobiliare, al centro come in periferia, liberalizzazioni e privatizzazioni delle Public utilities, riduzione del peso delle industrie pubbliche, sdemanializzazione nel territorio, emersione del sommerso, per trasformare il capitale morto, come direbbe l’economista peruviano Hernando De Soto, in capitale vivo. E per avere, come vedremo, lo spazio necessario e sufficiente per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, innescando così il circuito virtuoso meno debito-meno tasse-più crescita.

Ma l’attacco stabile e duraturo al debito pubblico, da solo, non basta: per scongiurare l’incertezza e l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati finanziari, ad esso occorre

accompagnare una parallela verticalizzazione delle istituzioni, che preveda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e assicuri una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica italiana. Altro che l’attuale riforma del Senato. Attacco al debito ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia. Un doppio segnale fortissimo. L’operazione nel suo complesso avrebbe in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera rivoluzione: si avvierebbe

finalmente un meccanismo positivo di modernizzazione del paese per essere europei a 360 gradi, che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai mercati, per tirare fuori il paese dalla crisi, dal pessimismo, dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze: debito e cattiva politica. Una grande occasione non solo per l’Italia, maanche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.

2) Riduzione della pressione fiscale

Una volta avviato il piano di riduzione strutturale del debito pubblico, andrebbe parallelamente avviato un grande piano di riduzione della spesa pubblica, destinando le risorse così ottenute alla riduzione, di pari importo, della pressione fiscale. Nel programma elettorale 2013 della coalizione di centrodestra, che 10 milioni di italiani hanno votato, Berlusconi ha proposto di ridurre di 80 miliardi in 5 anni (16 miliardi all’anno) la spesa pubblica corrente (attualmente pari a circa 800 miliardi) e di ridurre di pari importo la pressione fiscale. Con l’ambizioso obiettivo di portare la nostra economia a crescere a un ritmo di almeno il 2%, stimolando così i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Con più gettito e più risorse per gli ammortizzatori sociali. Quindi più benessere. Se si riduce di 16 miliardi all’anno la spesa pubblica, di pari importo andrebbe ridotta la pressione fiscale, con provvedimenti per 8 miliardi all’anno a favore delle famiglie e per altri 8 miliardi all’anno a favore delle imprese. Il tutto per portare, in 5 anni (durata di ogni legislatura) dal 45% al 40% la pressione fiscale in Italia.

3) La politica economica europea

Questa è la vera Spending review: attacco strategico e strutturale al debito pubblico, taglio strutturale della spesa corrente, e pari riduzione della pressione fiscale per le famiglie e per le imprese. Cui aggiungere la richiesta, a livello europeo, non di una generica “maggiore flessibilità”, che non porta a niente, ma di una nuova politica economica nell’intera area dell’euro. A partire dalla reflazione in Germania; le riforme simultanee in tutti gli Stati dell’eurozona; l’accelerazione sulle 4 unioni: bancaria, di bilancio, politica e economica (significa Euro bond, Union bond, Stability

bond, Project bond). Solo in questo modo potranno crearsi le condizioni per consentire alla Banca centrale europea di utilizzare al massimo gli strumenti di politica monetaria previsti dal suo Statuto. Fino al Quantitative easing all’europea, di cui abbiamo tanto bisogno. Anche per deprezzare l’euro di almeno il 20%, in modo tale da far riacquistare competitività all’intera eurozona. E per questa strada “domare” i mercati.

4) Riforma del mercato del lavoro, Tfr in busta paga e pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione

Infine, la riforma del mercato del lavoro. Tutto parte dalla lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto 2011, ove, pur riconoscendo gli sforzi dell’esecutivo Berlusconi sul tema e, in particolare, la giusta direzione in cui andava l’accordo del 28 giugno 2011 tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, si chiedeva l’introduzione di una vera flessibilità nel mercato del lavoro, attraverso “un’ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”, nonché “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

Realizziamo questi due punti, fondamentali per far funzionare veramente il mercato del lavoro, e avremo il plauso non solo dell’Europa e dei mercati, ma soprattutto dei nostri giovani, delle nostre famiglie, delle nostre imprese. A tutto questo andrebbe aggiunto uno stimolo immediato per riportare liquidità (fino a 6 miliardi di euro) nelle casse delle imprese e nelle tasche dei lavoratori, da un lato riassegnando alle aziende con più di 50 dipendenti la quota di Tfr non utilizzata per la previdenza complementare (attualmente accantonata presso l’Inps), dall’altro consentendo a tutti i

lavoratori di poter reclamare, in costanza di rapporto di lavoro e senza doverla giustificare, una anticipazione fino al 100% del proprio Trattamento di fine rapporto. Per quanto riguarda le imprese, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, per i 64 miliardi ad oggi restanti, fornirebbe ulteriore liquidità, di cui mai come oggi c’è bisogno. Insieme al Tfr, una manovra espansiva di politica economica.

Questo è il piano Berlusconi contro l’autunno nero che verrà. Renzi lo adotti per uscire dalla crisi. Se c’è stato e c’è ancora dialogo sulle riforme istituzionali, per le quali l’apertura di credito del presidente Berlusconi nei confronti del presidente Renzi è stata grande e generosa; e se la riforma elettorale è ancora in discussione (anche se dobbiamo ricordare che la gente non vive né di riforma del Senato né di riforma elettorale), dopo il fallimento della sua strategia di politica economica, Renzi mostri la stessa generosità che con lui ha avuto Berlusconi in tema di riforme costituzionali. Adotti il suo piano. Uno scambio alla luce del sole, per il bene del paese.

SALVATORE ZECCHINI (Board Scientifico): un danno per imprese e cittadini

SALVATORE ZECCHINI (Board Scientifico): un danno per imprese e cittadini

I ritardi di pagamento del settore pubblico alle imprese, segnatamente le piccole e medie, rappresentano uno dei fattori che hanno aggravato la crisi dell’ultimo quinquennio, sia sul piano dell’economia complessiva, sia su quello della vitalità del sistema imprenditoriale italiano. Va ricordato che le PMI rappresentano una grossa componente nella formazione del reddito nazionale e sono particolarmente vulnerabili nell’accesso alle fonti di finanziamento. La crisi, innescata nel 2008 dalle gravi insolvenze nel sistema finanziario americano, nel 2011-12 ha assunto caratteristiche prettamente nazionali per le ripercussioni dei notevoli squilibri accumulati nel debito pubblico italiano. Il settore pubblico ha quindi esercitato effetti negativi sulla condizione finanziaria delle imprese attraverso i due canali dei ritardi di pagamento e del rischio d’insolvenza sul suo debito.
Le imprese ne sono state colpite in termini di aggravio del costo del denaro, ma soprattutto attraverso un notevole razionamento dell’offerta di credito bancario alle tante imprese considerate a rischio. In una situazione di forte carenza di liquidità, particolarmente tra le PMI, pagare il debito pubblico commerciale in arretrato è divenuto quindi un fattore essenziale per la sopravvivenza delle imprese e il sostegno all’economia.
In termini di ritardo nei pagamenti rispetto alle scadenze contrattuali l’Italia si pone in una posizione estrema rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea. Si tratta in media nell’anno trascorso di circa 90 giorni in più rispetto alla data di scadenza, con il risultato che i tempi medi di pagamento hanno raggiunto i 170 giorni.
Sia il governo Monti sia quello attuale, pur consapevoli dell’effetto che l’eliminazione dei ritardi avrebbe nell’accrescere il già elevato peso del debito pubblico, hanno messo in campo misure per alleviare il problema. In ciò l’Italia non è l’unico Paese a presentare gravosi ritardi, ma gli altri due Paesi che condividevano la stessa condizione – la Spagna e la Grecia – hanno reagito più rapidamente e con maggiore determinazione. Entrambi hanno ridotto il peso di questi arretrati con il supporto del sistema bancario e delle istituzioni finanziarie estere. Il nostro Paese invece non ha avuto sostegno dall’estero e ha dovuto trovare la soluzione sulla base delle proprie forze e mettendo in campo nuove garanzie al sistema bancario.
È evidente che gli arretrati di pagamento dei debiti commerciali pesano sull’economia, ma gravano anche sulle tasche dei cittadini. Pesano sull’economia in termini di competitività del sistema, pesano sui cittadini che si trovano a dover sostenere il peso di una tassazione aggiuntiva per coprire la mora sugli arretrati. Va peraltro considerato che le imprese che forniscono beni e servizi al settore pubblico sono consapevoli del problema e quindi caricano sui loro prezzi di vendita il costo aggiuntivo che devono sostenere per finanziare le vendite stesse. Ne consegue un ulteriore gonfiamento della spesa pubblica.
La soluzione del problema oggi va vista sotto due profili: 1) abbattere i tempi medi di pagamento per riportarli in linea con i limiti raccomandati dall’Unione Europea (che sono 60 giorni); 2) riportare gli enti territoriali all’osservanza di una disciplina di bilancio anche nelle loro commesse pubbliche. Il contributo di analisi che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha appena pubblicato è molto utile per far comprendere all’opinione pubblica italiana non solo la dimensione del problema, ma i suoi costi più ampi e rappresenta altresì uno stimolo alle autorità ad accelerare quelle misure annunciate (ma non ancora attuate) attraverso un’attenta gestione delle grandezze di bilancio. Queste misure darebbero un contributo efficace a ravvivare la domanda interna, specialmente gli investimenti fissi, nella strategia di rianimazione di una crescita economica, che appare tutt’ora un miraggio lontano.
Salvatore Zecchini, Università Tor Vergata Roma
I ritardi di pagamento della PA i costi del fenomeno, il confronto con l’Europa

I ritardi di pagamento della PA i costi del fenomeno, il confronto con l’Europa

Abstract: Il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA genera uno stock di debito pari, in Italia, a oltre 70 miliardi di euro, pari a quasi il 5% del PIL.
Sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulta la peggiore d’Europa. I ritardi di pagamento determinano un costo del capitale a carico delle imprese italiane per oltre 6 miliardi di euro all’anno, quasi 30 miliardi nel periodo 20092013.
Sulla singola fornitura, l’incidenza di questi costi è pari, per un’impresa italiana che lavora con la PA, al 4,2%, circa 4 volte ciò che costa a un’impresa francese e a circa 7 volte ciò che costa a un’impresa tedesca.
Scarica gratuitamente il I ritardi di pagamento della PA i costi del fenomeno, il confronto con l’Europa“.
L’opinione di Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Salvatore Zecchini, Membro del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Carlo Lottieri, filosofo, Università degli Studi di Siena
Scarica i grafici e le tabelle del paper
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Privatizzare le nostre imprese non vuol dire svenderle ai cinesi

Privatizzare le nostre imprese non vuol dire svenderle ai cinesi

Daniele Capezzone – Il Tempo

Intendiamoci subito, a scanso di equivoci. Chi scrive è un liberale strafavorevole alle privatizzazioni. Un paio di anni fa ho contribuito anch’io (con Renato Brunetta e altri colleghi) a un gruppo di lavoro che, nel mio partito, ha rilanciato l’idea di un grande fondo a cui conferire beni di vario tipo, in una prospettiva di valorizzazione e vendita. E in Italia bisognerebbe davvero procedere a un arretramento della mano pubblica, ad esempio cominciando da due realtà che invece appaiono intoccabili: da un lato la valanga di immobili di proprietà pubblica e dall’altro le municipalizzate, vero strumento di occupazione militare del territorio e di segmenti di economia.

Altro conto sarebbe invece una sconclusionata svendita dell’argenteria di famiglia, per fare cassa in modo disperato e accettando una progressiva spoliazione e colonizzazione del Paese. Ne scrivo da mesi, e ora purtroppo i fatti si stanno incaricando di confermare le mie peggiori previsioni. Così come all’inizio degli anni Novanta si realizzò (ferma restando la buona fede di tutti, che va sempre presupposta) un’operazione che privò l’Italia di asset importanti nella chimica, nella meccanica, nell’agroalimentare e in alcune banche, allo stesso modo oggi si rischia qualcosa del genere. Una sorta di “Britannia 2”.

La cosa è cominciata in settimana con l’accordo tra Cdp reti (quindi sono in gioco le reti energetiche italiane, incluse Snam e Terna) e il gigante cinese China State Grid, che ne ha rilevato il 35%. Ammetto che almeno è stata mantenuta la quota di controllo. Ma non posso non pormi alcune domande. Perché non è stata fatta un’asta internazionale? Perché è stato scelto proprio quel partner, anche geopoliticamente così discutibile? E soprattutto, perché non se ne è adeguatamnte discusso?

Quali saranno i prossimi passi? Svendite anche di quote di Eni, Enel e Finmeccanica? Ripeto: da liberale non ho nulla contro l’alienazione di quote e ovviamente non ho tabù, ma non comprendo perché si debba dare l’idea di veri e propri saldi di fine stagione (organizzati in fretta e furia, visto che il governo è in grado di tagliare la spesa pubblica). Prepariamoci dunque, nei prossimi mesi, a distinguere due cose ben diverse tra loro: un conto sarebbero positive operazioni di valorizzazione e vendita, altro conto sarebbero invece spoliazioni a danno del Paese. E che tutto ciò avvenga nel quasi totale silenzio della politica (impegnata ogni giormo a discutere di “quisquilie e pinzillacchere”) dà la misura della gravità della situazione italiana.

Ps: Ci vuole coraggio a parlare di “privatizzazione” per la vendita a un soggetto totalmente controllato dallo Stato cinese. O no?    

Le ragioni (rivelate) di un licenziamento: Cottarelli non risulta legato alle lobby ma è preparato e autorevole. Forse troppo

Le ragioni (rivelate) di un licenziamento: Cottarelli non risulta legato alle lobby ma è preparato e autorevole. Forse troppo

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Carlo Cottarelli possiede tre caratteristiche apprezzabili in qualunque Paese impegnato a tirarsi fuori dai guai di una spesa pubblica non soltanto abnorme ma anche per molti aspetti insensata. Ha autorevolezza, che gli deriva dall’essere stato uno dei massimi dirigenti del Fondo monetario internazionale. Ha esperienza, grazie a più di un quarto di secolo trascorso a fare i conti con i conti. Ha soprattutto indipendenza: di tornare da Washington per dare una mano al Paese non gliel’ha ordinato il dottore e non risulta che sia legato a un partito, un singolo politico, una cordata o una lobby. Per giunta, è anche pensionato con un assegno più che dignitoso. E non vorremmo che fosse proprio questa sua terza caratteristica la causa dell’isolamento da lui sperimentato negli ultimi mesi. Progressivo e inesorabile al punto da fargli maturare la decisione estrema, quella di lasciare l’incarico.

È possibile che fra il commissario della spending review, nominato da Enrico Letta, e il premier Matteo Renzi non sia scoppiata la scintilla. Forse i due si stanno semplicemente antipatici. Non stupirebbe. Nelle vicende degli uomini la componente, appunto, umana è sempre fondamentale. Ma guai se quello che è successo fosse il segnale che in un compito delicato quale quello affidato a Cottarelli l’indipendenza rappresenta un handicap anziché una qualità. A un medico che deve fare una diagnosi accurata per una persona che presenta sintomi gravi non si chiede (fortunatamente) per chi vota, se è seguace di una particolare fede religiosa o preferisce il cibo vegetariano. Da lui tutto ci si aspetta, tranne che si mostri pietoso: deve soltanto scoprire la malattia e indicare il modo migliore per curarla. Ecco, il commissario alla spending review non è altro che questo: lo specialista incaricato di individuare gli sprechi, le inefficienze e anche le iniquità della spesa pubblica. Come un medico bravo e responsabile, senza farsi impietosire. E lo è tanto più in una situazione come quella italiana, dove le assurdità di una spesa cresciuta a ritmi frenetici a partire dal 2001, in concomitanza con l’approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione che ha fatto esplodere le uscite regionali senza frenare quelle dello Stato centrale, rimanda a precise responsabilità della politica e dei partiti. Che dunque non sarebbero assolutamente credibili nell’indicare come, dove e quando tagliare.

L’indipendenza è quindi un elemento fondamentale, se dalla spending review ci aspettiamo risultati concreti e non soltanto pirotecnici. Perché mette al riparo da condizionamenti esterni che obbediscono a logiche spesso refrattarie a misure dolorose quanto necessarie. Non è un caso che il primo ad avviare nel nostro Paese la revisione della spesa sia stato, da ministro dell’Economia, l’ex direttore generale della Banca d’Italia Tommaso Padoa-Schioppa. Il quale, pur essendo una figura di primo piano nel secondo breve governo di Romano Prodi, non ha mai voluto rinunciare alla propria indipendenza: rifiutando per esempio la candidatura e un seggio sicuro alle elezioni politiche del 2008. La stessa scelta che aveva fatto dodici anni prima, guarda caso, l’ex governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Allo stesso modo non è un caso che il predecessore di Letta a Palazzo Chigi, l’ex rettore dell’Università Bocconi Mario Monti, avesse scelto per il ruolo successivamente ricoperto da Cottarelli un personaggio de calibro di Piero Giarda. Del quale certo non si può dire che fosse legato a qualche carro o carretto.

Al di là dell’esito della vicenda Cottarelli non è una questione che Renzi possa prendere alla leggera. Magari affidandosi a surrogati del commissario più fedeli e sensibili alle esigenze politiche. Per l’anno prossimo si prevede che la revisione della spesa contribuisca alle coperture con la cifra monstre di 17 miliardi di euro. D’obbligo ricordare che al 2015 mancano appena cinque mesi. E per come si sono messe le cose questa faccenda, già non facile, si presenta seria. Ameno che non ci sia un altro disegno, nel quale la spending review non ha più un posto, oppure è una cosa diversa. Ma in questo caso sarebbe doveroso saperlo. In fretta.

Per risparmiare non serve il commissario

Per risparmiare non serve il commissario

Francesco Forte – Il Giornale

Le dimissioni annunciate di Carlo Cottarelli e pubblicizzate da autorevoli quotidiani non credo creeranno grandi problemi a Renzi. Il compito affidato al commissario era estraneo al suo curriculum di esperto di alto livello di Economia monetaria. Il governo Letta aveva inventato questo incarico privo di precedenti per dilazionare la riduzione selettiva delle spese. Non era in grado di farla perché non voleva toccare le oltre 8mila tra aziende ed enti pubblici in buona parte in perdita o senza utili, in cui i sindacato contano moltissimo, anche perché portano voti per vincere le elezioni. Il governo letta non aveva chiamato a questo compito inedito, che spetterebbe ai ministeri, né un esperto di bilanci e di spese dello Stato, come alla Corte dei Conti, né un economista che avesse vissuto in Italia almeno negli ultimi dieci anni bensì Carlo Cottarelli, che aveva lasciato Bankitalia nel 1988 dopo 10 mesi all’Eni. È di alta caratura ma in un campo diverso, ed è prossimo alla pensione al Fmi. E gli poteva far piacere tornare in Italia. La tesi allora corrente era che non bisognava fare i “tagli lineari” delle spese o degli esoneri fiscali regalati a gruppi di interesse influenti ma uno sfoltimento selettivo di spese chiamata spending review, non “rassegna delle spese” perché il latino è stato sostituito dall’inglese quando si vuole incantare il pubblico.

Cottarelli, a quanto risulta, non ha proposto tagli selettivi negli 8mila enti e imprese. Si è focalizzato su sanità e pensioni, suggerendo per la sanità dei tagli mentre si tratta di adottare i costi standard, procedura che richiede tempo e compete agli specialisti del settore. Per le pensioni ha avuto l’idea di modificare la legge vigente, toccando a quanto pare le pensioni già maturate, il che è contrario ai princìpi dello Stato di diritto. La questione degli “esodati”, invece, sarebbe suscettibile di una analisi selettiva, per accertare quanti contratti di pensionamento anticipato andrebbero annullati perché fatti mente la nuova legge Fornero sulle pensioni veniva approvata e si voleva creare un artificioso diritto a una deroga. Anche le pensioni di invalidità ed altri benefici previdenziali sono suscettibili di “analisi delle spese”. E così pure gli investimenti pubblici in edifici che i governi possono acquistare in leasing con le spese correnti e quelli per cui si potrebbe fare un contratto misto pubblico-privato. La spesa di investimento finanziata dal governo può essere eliminata quotando in Borsa l’impresa pubblica.

Se Cottarelli ha dei dossier sul taglio delle spese oltre a quelle di 7 miliardi giù presentate al governo è bene che lo faccia sapere prima. È agli italiani e agli organi democratici che deve spiegare le sue dimissioni, non è una questione riservata su cui si possa mettere il segreto di Stato. Per ridurre le spese senza bisogno di un alto commissario, il governo può riprendere la spending review del professor Giavazzi, rimasta nel cassetto perché non gradita al Pd e al capitalismo assistito. E può chiedere il sostegno del centrodestra alla riduzione spese su cui Cottarelli dice che c’è un veto della maggioranza attuale. Una riforma del mercato del lavoro fatta dando piena validità dei contratti aziendali e col ritorno alla legge Biagi consentirebbe più crescita, quindi più gettiti con minori tasse.

Tagli, dare più potere al commissario

Tagli, dare più potere al commissario

Franco Bruni – La Stampa

Il governo Renzi ha avuto finora molto appoggio dall’opinione pubblica. Ma ha almeno due debolezze, in parte nascoste da due corrispondenti forze. Nascosta dal gran successo alle europee è la prima debolezza: un supporto parlamentare ancora fragile. Nascosta dal chiaro impeto strategico del suo presidente è la seconda debolezza. L’insufficiente precisione tecnica, la fretta con cui sorvola sui dettagli dei disegni e delle procedure di riforma del Paese, soprattutto dell’economia. Il caso Cottarelli sembra all’incrocio fra le due debolezze: da un lato i tagli del commissario sono boicottati e sprecati da un Parlamento che offre ancora coperture alle lobby, dall’altro il suo lavoro soffre delle carenze, tecniche e procedurali, con cui ne sono stati decisi il mandato, i poteri, i supporti tecnici, e con cui viene curato il suo collegamento con le decisioni politiche. Un commissario alla revisione della spesa non è indispensabile: ma se c’è deve poter lavorare con efficacia.

Cominciamo dai problemi politici. In Italia gli sprechi della spesa pubblica sono talmente grandi che in parte si possono eliminare alla svelta anche senza progetti di riorganizzazione ben definiti. Quando si buttano i soldi dalle finestre basta chiudere le finestre. Occorre però almeno la forza politica per farlo: disboscare le imprese pubbliche e gli enti locali non è tecnicamente difficile, basta che, diversamente a quel che succede ai suggerimenti di Cottarelli, ci sia una maggioranza pronta a vincere le resistenze del bosco. Il terreno politico-burocratico-parlamentare non è pronto a digerire quella rivoluzione dell’economia che Renzi continua giustamente a promettere incontrando il favore dell’elettorato. Lo mostra la grossolanità con cui i risparmi individuati dal commissario vengono destinati alla spesa prima di essere realizzati, usando, oltretutto, la clausola di salvaguardia che dispone, qualora i risparmi non avvenissero, di procurarsi le risorse proprio con quei tagli lineari per evitare i quali è stato chiamato un commissario. Lo mostrano i passi indietro fatti dal Parlamento sulle pensioni, con gravi e costose deroghe alla riforma Fornero. C’è disordine, troppo: il fatto che sia colpa del Parlamento o anche del governo non cambia molto. Renzi non è sul pezzo, in altre importantissime faccende affaccendato, ha chiarito la sua strategia economica ma non pare in grado di presidiare la disciplina delle singole cose che servono per evitare che si cammini all’incontrario.

Veniamo ora ai problemi tecnico-procedurali. C’è una parte dell’eccesso di spesa pubblica che non si elimina tagliando sprechi clamorosi ma dettagliando bene certe riforme strutturali: sanità, scuola, lavoro, enti locali, ecc.. Il risparmio di spesa è parte della riforma. La quale comprende spesso anche la decisione circa l’impiego dei risparmi che consente. Perché è inutile insistere sul fatto che in Italia la spesa pubblica è eccessiva, senza riconoscere che, soprattutto sul fronte investimenti, ci sono tanti capitoli in cui la spesa è troppo scarsa. La giusta riduzione complessiva della spesa non basta per ridurre le tasse più dannose per la crescita. Per abbassare quelle tasse, come quelle sul lavoro, bisogna alzarne altre, riformare cioè l’insieme della tassazione e, soprattutto, ridurre drasticamente l’evasione. Perciò il lavoro di Cottarelli dovrebbe essere strettamente collegato al disegno e all’attuazione di piani di riforma generale dell’economia, pubblica e privata. Ciò richiede, in primo luogo, che i poteri e gli strumenti del commissario siano rafforzati e meglio definiti. È istruttivo il caso del commissario anticorruzione all’Expo: anche Cantone ha dovuto lamentarsi per evitare di essere scagliato allo sbaraglio senza chiarezza nel mandato e nei poteri. In secondo luogo serve che i piani di riforma generale dell’economia esistano davvero e siano tempificati e cifrati credibilmente, nelle spese, nelle entrate e nei risparmi che comportano. Il commissario alla revisione della spesa può anche contribuire ad accelerare la preparazione di questi piani: come semplice tagliatore di sprechi è sprecato.

Per far buone riforme occorre competenza tecnica, precisione e consapevolezza dell’importanza dei dettagli, abitudine non a improvvisare ma a elaborare e controllare procedure e regole da applicare con regolarità. Sono caratteristiche che non mancano a Carlo Cottarelli. E nemmeno gli manca la convinzione politica che deve firmare le scelte tecniche. Renzi ha ragione quando insiste che la politica e le sue scelte devono essere in prima fila. Ma sbaglia se presenta la scelta politica come un obiettivo privo di dettaglio tecnico, se esagera nel tenere politica e tecnica separate, se si circonda di tecnici ai quali non riconosce l’influenza politica che meritano. Cottarelli ha commissionato a gruppi di esperti diversi rapporti su singoli capitoli della revisione della spesa; non ha avuto l’autorizzazione a diffonderli: una mancata trasparenza che è anche mancanza di rispetto per chi ha lavorato, oltre che con competenza, con passione civile e convinzione politica.

È augurabile che Carlo Cottarelli rimanga e, soprattutto, che la revisione della spesa sia inserita con chiare responsabilità nell’apparato tecnico-politico dedito all’approntamento e all’avvio, concreto e ben contabilizzato, di un piano organico e pluriennale di riforme economiche che è l’unica cosa che l’Europa ci chiede per poter guardare al nostro debito pubblico con minor preoccupazione.

Chi ha svuotato la spending review

Chi ha svuotato la spending review

Tito Boeri – La Repubblica

In un Paese ad alto debito pubblico come il nostro, ogni realistico e sostenibile piano di riduzione delle tasse richiede di essere sostenuto da tagli della spesa pubblica di almeno pari importo. Se si vogliono ridurre le tasse di 30 miliardi, occorre tagliare la spesa di 30 miliardi. Bisogna anche tagliare bene, senza pregiudicare entrate future e senza limitarsi a spostare spese da un esercizio all’altro. È un’operazione politicamente costosa, piena di insidie, ma non ci sono altre strade percorribili. Nessuno sin qui vi è riuscito. Nonostante tanti proclami, la spesa corrente primaria continua a crescere, non solo in rapporto al Pil ma anche in cifre assolute: si avvicina sempre più, inesorabilmente, alla soglia dei 700 miliardi. Il compito affidato a Carlo Cottarelli, la cosiddetta spending review, è perciò in questo momento la priorità numero uno per l’azione politica economica di qualunque governo che voglia rilanciare l’economia italiana, un obiettivo non secondario in un Paese che manifesta a tutti i livelli crescenti segnali di un declino apparentemente inarrestabile. I precedenti di analoghe spending review condotte in Paesi con una struttura decisionale più decentrata della nostra (si pensi al Canada, ma anche alla Spagna che ha già attuato un terzo del suo programma) sono incoraggianti.

Il bonus di 80 euro introdotto nelle buste paga da maggio doveva servire a creare una constituency a favore della spending review, mostrando a tutti quali possano essere i suoi frutti: più si taglia, maggiori le riduzioni delle tasse, che non devono a loro volta essere sostituite da altre tasse. Così non è stato. Il Parlamento, complici ministri distratti o incompetenti e nonostante il parere contrario della Ragioneria dello Stato, ha ben quattro volte aumentato le spese invocando come coperture i risparmi futuri associati alla rassegna della spesa. Lo ha fatto con la Legge di Stabilità per il 2014, il decreto fiscale di gennaio, il decreto legge sulla Pa e, dulcis in fundo, la controriforma delle pensioni passata con il voto di fiducia della Camera l’altro ieri. In altre parole, la spending review è stata svuotata prima ancora che potesse cominciare a dare qualche frutto. I primi tagli serviranno a coprire altre spese anziché a ridurre le tasse. Siamo pienamente nel solco di governi che si limitano a cambiare marginalmente la composizione della spesa senza riuscire a ridurla e che modificano la denominazione delle tasse senza ridurre la pressione fiscale, magari aumentandola.

Vogliamo credere che Renzi capisca la centralità della spending review, sia consapevole dell’opportunità unica che gli è stata concessa dall’investitura popolare col voto alle europee e che, al di là di quelle che saranno le scelte personali di Carlo Cottarelli, voglia imparare dagli errori compiuti. In un Paese senza memoria storica è bene ricordare che ci sono stati, dal 2006 in poi, ben tre tentativi di passare in rassegna la spesa pubblica cercando di ridurla, migliorandone l’efficacia e l’efficienza. La spending review era stata il cavallo di battaglia del ministro Padoa-Schioppa, che l’affidò alla Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ctfp) attiva presso il ministero dell’Economia e delle Finanze tra l’aprile 2007 e il maggio 2008. Purtroppo al cambiamento di governo, il lavoro della Commissione fu bloccato. Rimase solo un voluminoso rapporto, che dopo ripetute pressioni su queste colonne il ministro Tremonti si decise a rendere pubblico. Il secondo tentativo è stato compiuto con il governo Monti con l’affidamento a Enrico Bondi del ruolo di commissario alla spending review. C’è stato in quella stagione anche un provvedimento di legge, il d.l. n. 95 del 6 luglio 2012, che ha ereditato il nome di spending review. Ma si tratta, in realtà, di un provvedimento che ripropone la tecnica dei tagli lineari, dunque non ha nulla a che vedere con una rassegna della spesa che porti a tagli selettivi, incentrati sulle aree di spreco e inefficienza. Il terzo tentativo è quello tuttora in atto con la nomina di Cottarelli a commissario alla spending review da parte del governo Letta e la sua riconferma da parte dell’attuale presidente del Consiglio. Cottarelli, al contrario di Bondi, ha passato al setaccio in nove mesi tutta la spesa corrente primaria, sviluppando proposte su tutto. Un grande passo in avanti che rischia però, come si è detto, di essere svuotato del suo significato, mentre non possiamo più permetterci battute d’arresto.

Il tratto comune di tutti questi tentativi è stata l’idea che si possa affidare un’impresa titanica come la spending review a un uomo solo al comando, a un tecnico per quanto di grande valore o anche a un gruppo di tecnici, senza un forte supporto politico. Questo supporto è fondamentale non solo per vincere le resistenze delle amministrazioni coinvolte e delle lobby locali, ma anche perché solo una parte delle misure contemplate dalla rassegna della spesa è di carattere amministrativo. Molti interventi, quelli che fruttano i miliardi anziché i milioni di risparmi, richiedono misure legislative e alcuni anche modifiche costituzionali, come la revisione del Titolo V per riguadagnare controllo delle spese folli di alcune Regioni. E non si può lasciare fuori nulla, tanto meno comparti come pensioni e sanità, fortemente presidiati da rappresentanze di interesse, che contano per il 40 per cento della spesa complessiva. È un’operazione che richiede anche il coinvolgimento pieno della Ragioneria generale dello Stato e un sistema di incentivi e disincentivi per le amministrazioni decentrate, che penalizzi i dirigenti che non cooperano nell’operazione di contenimento della spesa.

Se oggi Renzi vuole essere preso sul serio quando dice di voler tagliare le tasse, andando ben oltre il finanziamento in modo strutturale degli 80 euro, bene che si assuma in prima persona, a tutti gli effetti, la responsabilità di condurre in porto la spending review. È il compito principale di un primo ministro in un Paese indebitato come il nostro. Deve essere lui a risponderne davanti al paese, non un commissario. Non ci interessa leggere i documenti tecnici dei tavoli di lavoro. Ci interessa leggere i provvedimenti che il governo adotterà sulla base di questi materiali. Il vuoto di democrazia è nelle leggi annunciate senza che ci sia un testo, non nei documenti dei tavoli non resi pubblici.

I tecnici servono e vanno scelti i migliori, come Cottarelli, ma solo l’impegno diretto del presidente del Consiglio e quello collegiale dell’esecutivo nel suo complesso può impedire che l’operazione fallisca come in passato. La rassegna della spesa è un’operazione politica, che comporta scelte difficili e dolorose, anche tagli delle retribuzioni nominali, come quelli decisi in Spagna per i professori universitari. Queste scelte competono solo a chi ha ricevuto la fiducia degli elettori.

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Senza tagli alla spesa, o in presenza di un drastico ridimensionamento, la prossima legge di stabilità perderebbe la sua principale fonte di finanziamento, rendendo di fatto impossibile onorare tutti gli impegni in lista di attesa. Si va dalla stabilizzazione del bonus Irpef, ai nuovi capitoli di spesa che sarà necessario affrontare (dal costo delle missioni internazionali al finanziamento di altre spese inderogabili), per finire con gli impegni già contenuti nella legislazione vigente. Dulcis in fundo, la necessità di garantire – come chiede Bruxelles – che il deficit strutturale venga ridotto già dal 2015 in modo da garantire il rispetto dell’obiettivo di medio termine, in sostanza il pareggio di bilancio. La somma dei diversi addendi fa salire l’importo complessivo della manovra d’autunno nei dintorni dei 20 miliardi. E sono almeno 14 miliardi i tagli strutturali alla spesa corrente da realizzare tutti con la prossima legge di stabilità, che salgono a 17 miliardi se si aggiungono gli impegni finanziari già assunti dal governo Letta, quando ancora devono essere realizzati i tagli da 2,6 miliardi inseriti sotto forma di copertura di parte del bonus Irpef per l’anno in corso. La mission che attende il Governo è questa, e la partita si annuncia a dir poco complessa, ora che i dissensi tra il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, Palazzo Chigi e parte del Parlamento sono emersi in tutta la loro evidenza.

Impensabile realizzare interventi di tale portata senza l’apporto decisivo dell’azione complessiva di razionalizzazione della spesa pubblica, che comunque dovrà garantire risparmi strutturali e a regime per non meno di 32 miliardi. Il punto di rottura e il vero banco di prova per la tenuta del governo è proprio qui, su questo terreno, perché va a investire frontalmente scelte politiche (non certo indolori, anche sul fronte del taglio delle agevolazioni fiscali), da adottare e difendere in Parlamento, quando in autunno Camera e Senato saranno chiamate ad approvare un così consistente piano di revisione dei meccanismi stessi che presiedono alla formazione della spesa. Il ruolo di Cottarelli, o di chi sarà chiamato a sostituirlo, è tutt’altro che secondario, e non si limita a un semplice esercizio ricognitivo.

Si tratta – ed è quello che lo stesso Cottarelli si accingeva a fare – di indicare con precisione dove e come far scattare il bisturi dei tagli selettivi. Così da creare di conseguenza gli spazi finanziari per ridurre le tasse sul lavoro. Ma se si esclude – per evidenti ragioni politiche e di consenso – di intervenire in settori nodali come la sanità (materia di intese bilateraili tra governo e Regioni all’interno del Patto della salute), la previdenza (argomento ad alta valenza politico-elettorale), se il disboscamento delle municipalizzate si riduce a una semplice azione di “manutenzione”, dove intervenire? Possibile ipotizzare che si agisca in via esclusiva sul fronte degli acquisti di beni e servizi, settore in cui magna pars è costituita proprio dalle spese sanitarie? Possibile intervenire senza riaprire il dossier dei costi e fabbisogni standard? Se poi – come ha denunciato lo stesso Cottarelli – si prenotano ex ante risparmi ancora da realizzare per finanziare nuova spesa corrente (la cosiddetta «quota 96» per 4mila insegnanti), il vero rischio è che la stessa mission della spending review venga vanificata, aprendo di fatto la strada alla vecchia, abusata prassi dei tagli lineari. Ecco perché il vero nodo è tutto politico, e non sarà agevole districarlo. Sono interrogativi che andranno sciolti in fretta, la cui soluzione va oltre la «questione personale» che sta dietro il caso Cottarelli, come definita ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. L’impegno – fa sapere Delrio – è a continuare sulla spending review «senza nessun problema. È un obiettivo del governo e non dipende dalle persone che la conducono». E il premier Matteo Renzi aggiunge: la spending si farà anche senza Cottarelli.

Il punto è che dal lato del deficit non vi sono margini. In attesa che l’Istat renda noti, il prossimo 6 agosto, i dati relativi al Pil del secondo semestre, al ministero dell’Economia si stanno già facendo i conti con una previsione di crescita che – se andrà bene – risulterà almeno dimezzata rispetto alle stime del Def di aprile (0,8%). Ne consegue che il deficit nominale scivolerà di fatto verso il limite massimo del 3%, contro il 2,6% previsto in primavera. Ogni ulteriore sforamento imporrebbe il ricorso a una manovra correttiva dei saldi di finanza pubblica, che a ottobre con ogni probabilità dovrebbe concretizzarsi in aumenti d’imposta. Ipotesi da scongiurare, per non aggravare ulteriormente gli andamenti attuali dell’economia reale. Scenari che impongono massima vigilanza e determinazione, anche nel caso in cui possa venire in soccorso una minore spesa per interessi grazie al calo dello spread.