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Gli studi che bocciano la strategia  di Renzi

Gli studi che bocciano la strategia di Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

È difficile comprendere perché il Governo Renzi – o, d’altronde, qualsiasi esecutivo deputato a governare l’Italia in questi anni – non ponga il nodo dell’aumento della produttività al centro delle proprie riflessioni e della propria azione. Oppure, quanto meno, come parametro essenziale per valutare le politiche istituzionali ed economiche settoriali. I documenti Istat sono chiarissimi, in particolare il Rapporto Annuale 2015 pubblicato meno di un mese fa: la produttività (comunque la si voglia definire) non cresce dal 1999 e dall’inizio della crisi nel 2007-2008 abbiamo perso un quarto del valore aggiunto nel manifatturiero, con la probabilità di non poterci ben presto più fregiare della palma di essere la seconda potenza industriale dell’Unione europea.

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Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Roberto Petrini – La Repubblica

Conto alla rovescia per il tax­Day sulla casa. Martedì 19,7 milioni di proprietari di prima casa e 25 milioni di proprietari di altri immobili saranno chiamati a pagare rispettivamente l’acconto Tasi e la prima rata dell’Imu. Un doppio prelievo fiscale che vale almeno 12 miliardi (9,7 di Imu e 2,3 di Tasi). La data rischia di essere un vero e proprio «martedì nero»: tra acconti e saldi Irpef, Ires e Irap e altro i contribuenti saranno chiamati a versare altri 38 miliardi.

Il costo medio della Tasi, secondo il consueto rapporto della Uil servizio politiche territoriali, sarà di 180 euro medi (90 euro da versare con l’acconto), ma se si prendono a riferimento le città capoluogo l’importo sale a 230 euro medi (115 euro per l’acconto), con punte di 403 euro. Cifre decisamente più alte per quanto riguarda l’acconto Imu sulle seconde case: il costo medio in questo caso è di 866 euro di cui 433 euro da pagare con l’accconto di giugno, con punte di 2.028 euro a Roma (1.014 euro l’acconto) e 1.828 euro a Milano (914 euro di acconto). Tra le città in cui l’acconto Tasi prima casa sarà «mini», la classifica vede in prima fila Asti (10 euro), seguita da Ascoli Piceno (23 euro) e da Crotone con 26 euro.

Le sorprese tuttavia non sono finite. Quest’anno non dovrebbe verificarsi il caos del 2014 quando si rimase nell’incertezza dell’aliquota in attesa delle delibere: si pagherà infatti con l’aliquota approvata dai Comuni per l’anno 2014.Tuttavia questo sollievo potrebbe essere solo apparente, perché i Municipi hanno tempo fino al 31 luglio per approvare i bilanci e le relative delibere Tasi- Imu: di conseguenza in sede di saldo, il 16 dicembre, potrebbe arrivare la «stangata» dell’aumento. Ad oggi infatti, secondo uno studio dell’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti, solo il 16,5 per cento dei Comuni ha deliberato le nuove aliquote, il restante 83,5 per cento potrebbe riservare una sgradevole scoperta al contribuente. In pochissimi casi, a parte la virtuosa Valle d’Aosta che raggiunge un 81 per cento, nelle regioni italiane si trovano percentuali superiori al 20 per cento. Al Sud le delibere non raggiungono il 10 per cento. «Dove non c’è delibera non si possono dormire sonni tranquilli», dice Mirco Mion, presidente dell’Agefis.

La pressione fiscale sulla casa è comunque in crescita: secondo una rilevazione del Centro studi ImpresaLavoro il totale delle imposte che gravano sugli immobili sono cresciute rapidamente negli ultimi quattro anni, passando dai 38 del 2011 agli oltre 50 nel 2014. Si attende per il prossimo anno la più volte annunciata local tax: «Cambierà il nome, ma non la sostanza delle cose, bisogna rivedere le addizionali comunali Irpef, avverte Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil.

Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero

Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero

Davide Giacalone – Libero

Ingannevole e intollerabile. Un Paese ricco abitato da poveri. Queste le caratteristiche del ritratto fiscale, come ogni anno desumibile dalle dichiarazioni dei redditi. Un profilo deformato dal satanismo fiscale, in una gara di disonestà fra l’esattore e l’esatto, il cui esito è l’impoverimento collettivo.

L’Italia è in cima alla classifica europea per il prelievo fiscale sui redditi da lavoro (implicit tax rate). Al secondo per quello sui redditi d’impresa. Al quarto, ma stiamo risalendo, per la tassazione ricorrente sul patrimonio immobiliare. Ha un senso che chi tassa molto il patrimonio tassi meno i redditi, e viceversa, ma noi primeggiamo nel tassare tutto, portando il prelievo fiscale al 43,4% del prodotto interno lordo, nel mentre la spesa per investimenti è crollata, in tre anni, del 27%. In sei anni, dal 2009 al 2014, le entrate fiscali sono cresciute di 55 miliardi. La media europea del peso fiscale sui ricavi d’impresa (total tax rate) è del 41,8%. Lasciamo nel mondo dei sogni (nostri), il Regno Unito, dove è del 33,7, ma in Germania arriva al 48,8, mentre da noi ha toccato la vetta del 65,4%.

Intollerabile quel che emerge dalle dichiarazioni dei redditi, perché nel mentre si continua a sentir dire che dovrebbe aumentare la pressione fiscale sui ricchi, lasciando perdere le fasce meno abbienti, questa è la realtà (messa bene in luce da Alberto Brambilla e Paolo Novati): lo 0.19% dei contribuenti versa il 6.9% dell’intero gettito Irpef; l’1,2 il 16,3; il 4,01 il 32.6. A questi signori si dovrebbe fare un monumento, invece li si continua a tartassare con la scusa che sono “ricchi”. In realtà non lo sono affatto. Sono solo onesti. Intanto poco più di 10 milioni di italiani, il 25,23% dei contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi (circa 41 milioni), non versa praticamente nulla: 55 euro. Già solo per pagare le loro spese sanitarie si deve ricorrere ai soldi altrui. Mettete questi numeri in relazione con la retorica del dagli­al­ricco e arrivate alla conclusione: intollerabile. Ma anche ingannevole. Perché l’Irpef è solo l’imposta sui redditi, mica il complesso delle pretese fiscali dello Stato. Martedì 16 si pagano le tasse sulla casa, che sono patrimoniali variamente mascherate. Quest’anno si batterà il record: per la prima volta si sfonda il tetto dei 50 miliardi. Il calcolo fatto dal centro studi ImpresaLavoro è impressionante: nel 2011 gravavano, sulla casa, tasse per 38 miliardi, quattro anni dopo siamo sopra 50. Non so quanti sono in grado di ricordare il balletto delle sigle: Ici, Imu, Tarsu, Tares, Tari e Tasi. Ogni volta si prometteva che non ci sarebbero stati aggravi, se non addirittura sgravi, il risultato è quello appena descritto.

Già, però abbiamo avuto le semplificazioni. Quali? Le dichiarazioni precompilate si sono rivelate, come qui anticipato, precomplicate. Siamo giunti al punto che quelle già firmate e inviate potevano essere modificate e rispedite, dato che la fonte degli errori era l’amministrazione pubblica. L’introduzione della certificazione unica ha creato un caos pericoloso, anche perché il programma per poterla fare correttamente è stato distribuito pochi giorni prima della scadenza, risultato: ritardi, errori, certificazioni non regolari. Per ciascuna difformità il contribuente dovrebbe pagare 100 euro di multa, salvo l’aggravio d’imposta e relativa maggiorazione. Stanno provando a eliminare almeno la multa, visto che è proprio l’Agenzia a perdonare sé stessa. Per le tasse locali dovevano arrivare i bollettini precompilati, che non solo mancano, nella grande maggioranza dei casi, ma neanche è stata fissata l’aliquota da pagarsi, per cui martedì siamo tenuti a pagare quanto pagammo l’anno scorso, salvo attendere che ci facciano sapere a quanto ammonta la differenza da versare poi. Alla faccia delle semplificazioni.

Il satanismo fiscale, inoltre, ha affondato l’ipotesi di far aumentare la liquidità nelle tasche delle famiglie, quindi la propensione alla spesa, mediante anticipazione in busta paga del Trattamento fine rapporto. Ha aderito all’idea solo lo 0,056% dei lavoratori, mentre il 60% dichiarava di non volerlo fare perché avrebbe comportato un consistente svantaggio fiscale. Ed è così.

Nessuno, che sia serio e abbia sale in zucca, crede che questa sia una materia semplice o che si possa cambiarla con un tocco di bacchetta magica. Ma nessuno, che non sia un propagandista da tre palle un soldo, può sostenere che si siano fatti passi in avanti. Il cappio è invariato: la pressione fiscale quale variabile dipendente dalla spesa pubblica, che nonostante i tagli, il drastico abbattimento degli investimenti e i bassi tassi d’interesse che dobbiamo alla Banca centrale europea, continua a camminare per i fatti suoi. Questo è il quadro in cui si deve inserire l’idea del governo Renzi di tornare al capitalismo di Stato, che nell’illusione di far crescere il pil mantiene altissima una pressione fiscale che lo asfissia.

Tasse sul mattone

Tasse sul mattone

NOTA

Alla vigilia del pagamento della prima rata annuale dell’IMU-TASI, va ricordato che il peso delle tasse sul mattone ha sfondato la quota record di 50 miliardi di euro, di cui 38 a carico delle famiglie. È quanto emerge da un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale il totale delle imposte gravanti a vario titolo sugli immobili in Italia (a carico sia dei soggetti privati sia di professionisti e imprese) è cresciuto rapidamente in questi ultimi quattro anni, passando dai 38 miliardi del 2011 agli oltre 50 del 2014. Sulle sole famiglie, il rincaro complessivo è stato nel periodo di 7,2 miliardi (da 31 a 38,2), con una crescente incidenza delle imposte di tipo patrimoniale (da 16,1 a 27,5).
Tale aumento è dovuto in particolare a tre ragioni: l’introduzione anticipata dell’Imu a partire dal 2012 in sostituzione dell’Ici e di una parte dell’Irpef prelevata sugli immobili; la sostituzione della Tarsu con la Tares, divenuta successivamente Tari, con un ricarico finale complessivo pari a circa 2 miliardi annui; l’introduzione della Tasi (2014), per un gettito complessivo di 4,6 miliardi, destinato a sostituirsi alla mancata riscossione dell’Imu sulle abitazioni principali, sostanzialmente abolita dal 2013. Risulta quindi evidente che con l’introduzione anticipata dell’Imu la composizione stessa del prelievo fiscale sugli immobili si sia notevolmente modificata, con una quota ben più elevata (a partire dal 2012) della componente di tipo patrimoniale, non collegata quindi alla produzione di reddito immobiliare ma esclusivamente dalla proprietà o dal possesso delle abitazioni.
Se si considera la sola componente riferita alla tassa di proprietà sugli immobili (nel caso italiano dunque l’IMU ex ICI), nel periodo 2011-2013 il prelievo nel nostro Paese è così salito a 9,9 miliardi (+107,4%): si tratta dell’incremento più rilevante nel campione di 34 paesi per i quali esistono i dati Eurostat e OCSE. La nuova IMU ha poi portato l’entità del gettito dallo 0,6% del PIL dell’ultimo anno di ICI con esenzione dell’abitazione di residenza (era lo 0,7% fino al 2007) prima all’1,4% e poi all’1,2%: un aumento che colloca l’Italia al sesto posto nella classifica europea dopo Regno Unito (3,2%), Francia (2,5%), Islanda (1,7%), Danimarca (1,4%) e Belgio (1,3%), e prima della Spagna (1,1%) e di altri 19 paesi tra cui la Germania (0,4%).
Le tasse universitarie sono cresciute del 51% e non valgono la spesa

Le tasse universitarie sono cresciute del 51% e non valgono la spesa

Davide Giacalone – Libero

Le tasse universitarie crescono tanto e in fretta, ma il problema principale è che sono tasse, senza alcun rapporto fra quel che si paga e la qualità degli studi che si fanno. A tutti è nota la differenza fra una zucchina e il caviale, né avrebbe senso paragonare il prezzo della prima al secondo. Questo non senso, invece, è pienamente vigente nelle scuole e nelle università italiane, ove le pur esistenti differenze qualitative non si riflettono né in differenze di valore dei titoli di studio, né in quattrini necessari per arrivarci.

L’Unione degli universitari ha eseguito un’operazione imprecisa, ma significativa, dividendo, in ciascuna università, il gettito da tasse per il numero degli iscritti. È imprecisa, perché fra quelli c’è chi è esonerato dal pagamento e chi, invece, paga più della media, essendo alto il reddito familiare. È significativa perché dimostra come le tasse siano cresciute del 5% in un anno e del 51% in dieci. E stiamo parlando di anni a bassa inflazione, quando non negativa. Andando oltre la media si scoprono cose ragguardevoli: le tasse sono cresciute del 189% a Lecce, del 135 a Varese e 132 a Trento.

Contrariamente a quanto sembrano provare i giovani dell’Udu, questi dati non mi scandalizzano. È giusto che il costo degli studi sia sostenuto significativamente da chi li frequenta e, quindi, ne trarrà beneficio. Lo scandalo consiste nel chiedere alle famiglie di pagare, ma senza dare uno straccio di dato sui risultati e la qualità. Tasse, appunto, non rette. Obbligo, appunto, non scelta. In gran parte soldi buttati sull’altare di una divinità tarocca: il valore legale del titolo di studio. Quello è il totem da abbattere, se si vuole puntare alla qualità e alla comparabilità.

Sostiene Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu, che «è venuto il momento di operare una riforma complessiva del sistema, che riduca il peso delle tasse, soprattutto per i redditi più bassi, e introduca un criterio forte di progressività». No, si deve fare l’esatto contrario. Quella è la ricetta del socialismo dell’ignoranza. Questo è un sindacalese che fa apparire decrepito anche un giovine. Gli atenei non sono tutti uguali, e ciò deve riflettersi anche sul loro costo. Il diritto allo studio non consiste nel concedere a tutti i redditi di languire in un diplomificio, ma di assicurare ai meritevoli di sopravanzare i somari. La giustizia sociale, nelle università, è assicurata dal prestigio e dalle rette che dipendono dai risultati ottenuti, talché un giovane promettente, ma povero, non solo non lo fanno pagare, ma se lo contendono, perché alzerà la media dei risultati, accrescerà il prestigio dell’ateneo e, quindi, le richieste di denaro che potranno essere fatte a chi voglia frequentarlo.

Le “tasse” producono due negatività. Intanto sono funzione della spesa, non di progetti didattici o investimenti nella qualità. Crescono perché sono diminuiti i finanziamenti governativi, quindi si paga di più senza avere nulla di più. In un sistema più libero e aperto non avrei nulla in contrario a che il rettore metta in cattedra la moglie, ma gli chiederei quanto intende pagarmi se convincessi mio figlio a frequentare quella famiglia di cattedratici. Con le tasse, invece, devo pagare io per potere frequentare il magnifico. Che mi pare una magnifica fregatura.

I fondi pensione soffrono la crisi e finiscono soffocati dal fisco

I fondi pensione soffrono la crisi e finiscono soffocati dal fisco

Davide Giacalone – Libero

Il futuro economico degli odierni lavoratori si regge su due gambe: da una parte la previdenza obbligatoria, dall’altra quella integrativa e facoltativa. La prima è piena di protesi e bulloni, frutto di continue riforme. Che neanche sono finite. L’altra doveva essere più atletica e promettente, ma manifesta qualche cedimento al ginocchio.

Sono in crescita i lavoratori che portano i loro risparmi verso i Piani individuali pensionistici: il 29,4%, 6 milioni e mezzo di persone. Il 5,4% in più rispetto al 2013. E questo è un bene. Potrebbero e dovrebbero (dovremmo) essere più numerosi, ma si tratta già di una fetta significativa. La relazione della Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), però, segnala un dato preoccupante: cresce anche il numero di quelli che interrompono i versamenti, che, in altre parole, non riescono a tenere il passo con quanto avevano programmato di risparmiare e accantonare: erano 1,2 milioni nel 2013, sono diventati 1,4 milioni a marzo 2014, per arrivare a 1,6 alla fine dell’anno scorso.

Effetto della crisi? Certo, ma anche di una pressione fiscale che non molla la presa sugli italiani che producono, risucchiando nella spesa pubblica quel che sarebbe saggio lasciare al risparmio privato. Tanto più se si tiene conto di questi fatti: nel corso del 2014 sono stati raccolti 13 miliardi di euro, 600 milioni in più rispetto al 2013; dei contributi versati, 5,3 miliardi di euro provengono da flussi di trattamento fine rapporto, di cui l’82% confluisce nei fondi pensione negoziali e preesistenti; il rendimento del Tfr così impiegato è stato del 7%, mentre quello lasciato al datore di lavoro (dove prima si trovava obbligatoriamente) ha reso 1,3%. Chi ha dovuto interrompere i versamenti, quindi, subisce un danno notevole, perdendo le occasioni propiziate dalle politiche espansive della Banca centrale europea, dal calo del cambio e del prezzo del petrolio. Danno che si estende, come occasione mancata, all’intero sistema produttivo.

Esaminiamo l’ultima serie di dati: alla fine del 2014 il patrimonio delle forme pensionistiche complementari ha raggiunto 131 miliardi, circa il 12% in più rispetto alla fine del 2013, pari all’8,1% del prodotto interno lordo e il 3,3% delle attività finanziarie delle famiglie italiane; gli investimenti dei fondi pensione sono destinati per il 35% al nostro Paese, ma solo il 3% va a finanziare le imprese nazionali. La gran parte di quei soldi, quindi, finisce in titoli del debito pubblico che, come sanno bene i “Bot people”, ora rendono pochissimo. Per andare a cercare rendimenti produttivi i nostri risparmi emigrano. Questa è un’opportunità positiva per quei risparmiatori, ma negativa per l’Italia.

Gli alti rendimenti statali del passato erano in gran parte illusori, visto che venivano continuamente corretti dall’alta inflazione e dalle continue svalutazioni, ma, appunto, rappresentavano pur sempre un’illusione confortante. Se, però, guardiamo ai risultati positivi delle nostre imprese che esportano, le stesse che trovano credito con mille difficoltà e a un prezzo più alto rispetto ai concorrenti, ci rendiamo conto che stiamo sprecando un’occasione: dirigere il flusso del risparmio non più al finanziamento del debito e della spesa pubblica, ma della produzione e dell’impresa privata. La prima via portava risultati apparenti, la seconda può portarne di entusiasmanti. Ma non la si imbocca. Perché? Perché il finanziamento all’impresa resta bancocentrico (e asfittico), gli strumenti finanziari altrove diffusi (ad esempio negli Usa) qui restano sconosciuti e, come non bastasse, il fisco penalizza questo genere d’impieghi.

Ieri riflettevamo sulla Cassa depositi e prestiti e sull’idea, più mormorata che ufficializzata, di farne strumento governativo d’intervento nel sistema produttivo, ma è, quello, un modo antiquato e dirigistico di ragionare. Mentre il risparmio gestito, anche di natura previdenziale, potrebbe trovare ottimi e succosi impieghi proprio scommettendo sui nostri campioni produttivi. Se questo non accade, totalizzando il doppio danno, contro i risparmiatori e contro i produttori, è in gran parte perché i lacci fiscali strangolano il mercato interno. Con il risultato di portare i nostri risparmi, in cerca di guadagni, a finanziare i produttori altrui. E se non è follia masochista questa, altre non riesco a immaginarne.

Dal flop del Tfr in busta paga spuntano 8 miliardi di tasse – Libero

Dal flop del Tfr in busta paga spuntano 8 miliardi di tasse – Libero

Attilio Barbieri – Libero

Il flop del Tfr in busta paga rischia di provocare un nuovo buco nei conti dello Stato. Otto miliardi, euro più, euro meno. Sotto forma di entrate fiscali che verranno a mancare. I lavoratori che hanno chiesto il pagamento mensile del trattamento di fine rapporto maturando sono soltanto 567 su un milione, appena lo 0,05% della platea interessata. Nell’ultima legge di Stabilità il governo aveva previsto un’adesione massiccia, da un minimo del 40 fino al 60 per cento degli aventi diritto.

A provocare il flop è stato soprattutto il deterrente rappresentato dalla tassazione delle somme accreditate in busta paga, equiparate al resto della retribuzione. Ma la scarsissima adesione rischia di costare al fisco addirittura 7,9 miliardi di euro nel lungo termine, mentre nel breve l’equilibrio sarebbe garantito dalle maggiori entrate contributive. A fare i conti è il Centro studi ImpresaLavoro che ha elaborato i dati diffusi dalla Ragioneria Generale dello Stato. «Proprio in virtù della maggiore tassazione applicata sulTfr destinato a finire nelle buste paga dei dipendenti», si legge nel paper dell’istituto, «il governo aveva stimato di raccogliere nel triennio 2015-­2018 oltre 7,9 miliardi di maggiori entrate Irpef accettando però nel contempo di perdere i versamenti contributivi del Tfr per un totale di 8,7 miliardi». Considerati anche i 100 milioni di euro destinati al Fondo pubblico di garanzia come dotazione iniziale e spese residuali che la Ragioneria Generale stima in altri 57 milioni, da qui al 2018 «l’operazione avrebbe determinato nel complesso una spesa di 952 milioni di euro», spiega il centro studi ImpresaLavoro.

Vista l’adesione men che marginale dei lavoratori lo Stato risparmierà sì quasi un miliardo nel triennio. Ma dal primo gennaio 2019 in poi dovrà contabilizzare 8,7 miliardi di entrate contributive al fondo Tesoreria per il Tfr dell’Inps, destinati a trasformarsi in debito nel momento in cui i lavoratori che li hanno versati matureranno il diritto a incassare le relative liquidazioni. «La perdita c’è anche se si vedrà soltanto nel lungo periodo, e rischia di costare molto alle casse dello Stato», osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi  ImpresaLavoro. Il meccanismo dell’operazione «Tfr in busta» era tale per cui con un miliardo messo nel triennio 2015-­2018, lo Stato ne avrebbe risparmiati 7,7 di liquidazioni dal 2019 in poi. Vista l’adesione risibile dei lavoratori questo risparmio non ci sarà. Col rischio che per coprirlo il governo ricorra a nuove imposte.

TFR in busta paga

TFR in busta paga

NOTA

La scarsissima adesione dei lavoratori (0,05%) all’anticipazione del TFR in busta paga, prevista dal Governo Renzi come opportunità per i dipendenti di aziende private a partire dal 2015 e fino al 2018, rischia di costare al fisco fino a 7,9 miliardi di euro nel lungo termine, mentre nel breve l’equilibrio sarebbe garantito dalle maggiori entrate contributive. Lo sostiene una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati della Ragioneria Generale dello Stato.
Il Governo si attendeva un’adesione dei lavoratori compresa tra il 40% (nelle aziende più piccole) e il 60% (nelle aziende più grandi), nonostante l’opzione determini uno svantaggio fiscale concreto costituito da una maggiore tassazione del TFR anticipato in busta paga rispetto a quello accantonato ai fini della “liquidazione” di fine rapporto.
Proprio in virtù di questa maggiore tassazione, il Governo aveva stimato di raccogliere nel 2015­ 2018 oltre 7,9 miliardi di maggiori entrate di tipo fiscale (IRPEF), accettando però nel contempo di perdere i versamenti contributivi del TFR per le aziende più grandi per un totale di 8,7 miliardi.
Considerati anche i 100 milioni di euro di spesa per la dotazione iniziale del Fondo pubblico di garanzia connesso, e altre spese residuali nette stimate per altri 57 milioni, l’operazione nel periodo 2015-­2018 avrebbe determinato nel suo complesso una spesa di 952 milioni di euro.
La risposta dei lavoratori, che almeno per il momento sembrano aver rifiutato in modo compatto la costosa opportunità dell’anticipo in busta paga (si perdono non solo le agevolazioni fiscali ma anche la rivalutazione degli importi), non costituirà dunque un problema per le casse dello Stato nel breve periodo e anzi dovrebbe consentire nell’immediato di liberare risorse.
Ma le minori entrate fiscali sono coperte nel breve da maggiori entrate contributive (il versamento al fondo TFR tesoreria/INPS per le aziende oltre i 50 dipendenti), che a differenza delle prime si trasformeranno in debito per lo Stato nel momento in cui gli interessati matureranno il diritto alla corresponsione delle somme.
«In poche parole quindi, la perdita c’è ma si vedrà solo nel lungo periodo, e rischia di costare molto alle casse dello Stato» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Inoltre l’ipotesi di rendere più conveniente l’anticipo del TFR con un apposito sgravio fiscale, in modo da favorire l’adesione dei lavoratori, determinerebbe da subito una riduzione delle entrate e una perdita di gettito contributivo per la quale andrebbe trovata da subito una nuova copertura. Un’ipotesi che però appare difficilmente percorribile».

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Renzi mette le mani sul tesoro della Cdp

Renzi mette le mani sul tesoro della Cdp

Davide Giacalone – Libero

Cambiano i vertici della Cassa depositi e prestiti (Cdp). L’attenzione collettiva s’appunta sui nomi, che, però, dovrebbero essere funzione della cosa e del cosa sono incaricati di fare. Questa partita è rilevantissima. Di portata storica. Sarà bene non cucinarla e non consentire che sia cucinata come fosse un qualsiasi piatto della mensa governativa.

È capitato spesso che incarichi scaduti si siano trascinati in regime di proroga, perché non si procedeva alle nuove nomine. Cattivo costume. Qui, però, siamo di fronte a uno spettacolo opposto: i vertici attuali scadrebbero fra un anno, ma vengono silurati e sostituiti in anticipo. Perché? Troverei meritorio l’avvicendamento, se agli attuali responsabili s’imputassero precise mancanze. Riterrei utile sostituirli anche solo perché hanno parlato troppo, come fossero alla guida di un fondo d’investimento, anziché di un istituto molto particolare, che dovrebbe provvedere al finanziamento degli enti locali, non al perseguimento di una (quale?) politica industriale. Ma è questo il senso della decisione governativa? O vengono mandati via perché non sono stati abbastanza solleciti nel dare attuazione ai non ordini governativi? Ovvero a quelle iniziative che dal governo vengono suggerite, senza neanche potere essere esplicitamente imposte? Ai nuovi dirigenti è assegnata la missione di perseguire più riservatezza o più attivismo? Sembrerebbe la seconda cosa, visto che si tratta di due banchieri, di cui uno proveniente da una banca d’affari. Sembrerebbe, ma dovrebbe essere chiaro. Su un punto di tale rilevanza sarebbe opportuno un apposito dibattito parlamentare.

Per dirne una: la Cdp si colloca al di fuori del perimetro della spesa pubblica, può agire, quindi, senza intaccare il deficit e il debito pubblici, ma resta una Cassa pubblica, posseduta dal ministero dell’Economia e, in posizione largamente minoritaria, dalle fondazioni bancarie; l’abbondante liquidità di cui dispone (capace di generare dividendi per gli azionisti) discende dalla gestione dei flussi generati dalle Poste; per queste ultime è prevista l’imminente quotazione in Borsa. È evidente che i soldi o si valorizzano da una parte o dall’altra, il che sposta, non poco, la loro resa in capo ad azionisti privati (in Borsa) o pubblici. Un chiarimento è necessario, se non vogliamo continuare a quotare lo statalismo, dopo avere abbondantemente quotato il socialismo municipale. Domenica scorsa segnalavamo i casi paralleli di telecomunicazioni e acciaio, due settori prima pubblici, poi privatizzati, quindi nuovamente oggetto d’intervento pubblico. Se la Cdp è destinata a essere lo strumento principe di questa nuova economia pianificata è lecito chiedere che ne siano discussi i contorni, gli strumenti e le finalità.

Ricordo che financo Mussolini, quando imboccò la strada dell’intervento pubblico in economia, lo fece affidandone la gestione a gente come Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli, che non solo non erano partecipi di alcun fascio magico, ma erano antifascisti (e agli oppositori del regime diedero non pochi aiuti). Da quella scelta, lungimirante, nacque sia l’Iri che la Mediobanca, poi affidata a un antifascista di nome Enrico Cuccia (che aveva sposato la figlia di Beneduce, il cui nome è un programma: Idea Nuova Socialista). Lungi da me abbandonarmi all’apologia, ma sarei rattristato assai se quell’esempio fosse considerato troppo liberale e sciocco nel non favorire i propri amici. Sarebbe imbarazzante scoprire che oggi è più facile d’allora mettere le mani sulla e nella Cassa.

Il cambio ai vertici della Cdp non può e non deve essere un problema di nomi ma di politiche. Le scelte non possono e non devono essere per amicizia e colleganza, né di chi governa né di chi lo affianca guidandolo. Qui stiamo parlando della colonna vertebrale stessa di un’Italia produttiva che prova a rimettersi in piedi. Se c’è la gobba, meglio correggerla subito. Se c’è un gobbo, da cui gli attori leggono il copione, meglio individuarlo subito. Rimandare e far tinta di niente significa prepararsi a perdere tempo, quattrini e a far nascere una nuova genia di corsari pronti ad arricchirsi con la spesa pubblica. Sarebbe opaco e pericoloso un governo che si rifiutasse di affrontare il dibattito. Sarebbe inutile e miserevolmente succube un’opposizione che non lo chiedesse.

Il test “di sinistra” che boccia Renzi

Il test “di sinistra” che boccia Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

È auspicabile che la direzione del Partito Democratico, convocata per valutare i risultati elettorali alle regionali, non sia un “regolamento di conti” all’interno del Pd, ma esamini con ponderazione non solamente se la politica del Governo Renzi sia sul percorso che porta a raggiungere i risultati annunciati (soprattutto sul piano economico), ma se sia “di destra” o “di sinistra”. Tema sollevato da numerosi esponenti del Pd medesimo.

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