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Quelli che sputano nel piatto in cui mangiano

Quelli che sputano nel piatto in cui mangiano

Davide Giacalone – Libero

Da Atene a Londra, da Madrid a Varsavia, l’Unione europea mette in scena il proprio paradosso. Realtà e rappresentazione, però, si muovono in direzioni opposte. Ciascuno sperando di potere nascondere le proprie responsabilità, o di scaricarle su altri. A 100 anni dalla prima guerra mondiale sarà bene essere severi e non smarrire la ragionevolezza.

La crisi greca, sperando che non generi una tragedia, sarà ricordata come il trionfo della stupidità. stato sciocco e presuntuoso pensare che conti scassati s’aggiustassero con il tempo, il che non vale solo per gli ellenici. Sappiamo tutti bene che i soldi prestati non potranno essere restituiti (nei tempi stabiliti) e che il solo modo per evitare che si traducano in una bancarotta (la terza) è prestarne altri. Ai greci si chiede una sola cosa: non di restituire, ma di dire che intendono farlo. Ma è quello che il governo in carica non si sente di dire, perché il contrario di quel che ha raccontato agli elettori. Un gruppo d’incoscienti, che ha messo un esibizionista a guidare l’economia. Dovesse andare male non è che cadrà il loro governo, è che c’è il rischio crolli la democrazia greca. Il popolo, più saggiamente, per più del 70% esclude di volere uscire dall’euro. Fanno di conto meglio di chi li governa.

Il Regno Unito si prepara al referendum sulla permanenza nell’Ue, previsto per il 2017. Nella recente campagna elettorale s’è fortemente agitato il tema dell’immigrazione. Eppure neanche troppi anni fa, quando giovani mettevamo piede a Londra, eravamo colpiti da una società multietnica (i giornalai, di cui resto cliente in ogni pizzo del mondo, erano tutti indiani), quale noi non eravamo. La comunità degli affari guarda con sospetto al referendum: buona l’idea, se serve a trattare con Bruxelles, ma mica si vorrà fare sul serio? Significherebbe perdere la sede di banche e industrie, la ricchezza finanziaria della City, e farei conti con un debito (pubblico e privato) enorme.

La Spagna ha trovato nell’Europa la spalla cui appoggiarsi per uscire da un passato di dittatura e miseria. In questi anni ha ricevuto aiuti rilevantissimi, per superare la crisi successiva allo scoppio della bolla immobiliare, in grado di sgretolare le banche. Grazie a questa politica ha un tasso di crescita che noi ce lo sogniamo. Eppure chi governa è in difficoltà. Anche nella Catalogna che ha bocciato il referendum separatista vincono le forze euroscettiche. La Polonia sarebbe, senza l’Europa, quel che la geografia e la storia le hanno più volte ricordato di essere: un confine esterno dell’espansionismo russo. Zarista, comunista o nazionalista che sia. Talora quel confine li ha risucchiati, facendoli sparire dal mondo libero. Eppure forze euroscettiche vincono le elezioni, pur ribadendo che il gigante russo deve essere tenuto a distanza. Come? Da chi? Dagli Usa? Diano uno sguardo all’Ucraina.

Eccolo il paradosso: sentimenti, ragionevolezza e interessi spingono verso l’integrazione europea, perdendo per strada solo rigurgiti di sangue e terra che servirono, in passato, a seppellire sotto la terra tanto sangue innocente; eppure le urne si aprono e mostrano uno spettacolo diverso. Come è possibile? Lo è per l’ignavia e la viltà delle classi dirigenti. Sia sul fronte esterno, nel non sapere raccontare che l’integrazione monetaria (Uem) comporta integrazione di bilanci e debiti, mentre l’integrazione normativa (Ue) non può spingersi fino a stabilire quanto devono essere lunghe le zucchine. Sia sul fronte interno, nello scaricare sull’Europa, trasformata in concetto mitico e arcigno, l’obbligo di cambiare per non recedere e scivolare.

Mario Draghi ha ragione da vendere, quando dice che senza riforme coordinate l’area dell’euro produrrà conflitti e perderà occasioni, ma le classi dirigenti la raccontano ai propri popoli come fosse un giogo, anziché una ciambella di salvataggio. Il paradosso è ancora più grosso se si pensa che le classi dirigenti produttive, quelle che esportano fuori dall’Ue, questa musica l’hanno capita benissimo e la ballano con coerenza. Cento anni fa era già in corso un conflitto mondiale le cui cause reali e materiali a me sembrano meno rilevanti degli scontri che oggi possono scatenarsi. Il fatto che se ne parli senza che nessuno sia al fronte è già un successo dell’Unione che c’è e quale è. Ma non è affatto il caso di sopravvalutarne la tenuta.

Per evitare la ‘Grexit’ gli Stati aiutino Atene a ripagare Fmi e Bce

Per evitare la ‘Grexit’ gli Stati aiutino Atene a ripagare Fmi e Bce

Giuseppe Pennisi – Avvenire

C’è ancora una via d’uscita dalla ‘trappola’ del debito greco? Trappola che potenzialmente coinvolge tutti, perché dopo l’eventuale default, Unione europea e Unione monetaria non sarebbero più le stesse. Su un punto cruciale, in ogni caso, i giuristi non sono d’accordo: può uno Stato restare nell’Unione se esce da un’area valutaria comune (l’Eurozona) in cui è entrato liberamente accettandone le regole, tra cui quella dell’irreversibilità? Anni fa un parere dell’ufficio legale Bce concluse che uscita volontaria o meno dall’euro voleva anche dire addio alla Ue (mercato unico, politica agricola, fondi strutturali). Oggi tale interpretazione è messa in dubbio da numerosi giuristi.

Proviamo però a fare due conti. All’ultima rilevazione della Banca per i regolamenti internazionali (Bri), il debito pubblico greco ammontava a circa 323 miliardi di euro, pari al 177% del Pil. Di questi, il 15% è detenuto dal settore privato, il 10% dal Fmi e il 6% dalla Bce. Il 60% del totale, pari a 195 miliardi di euro, è in mano agli altri governi dell’eurozona. Inoltre: 142 miliardi sono arrivati alla Grecia attraverso l’Efsf, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (ossia il ‘Fondo salva-stati’), 53 miliardi sono invece il frutto di prestiti bilaterali ricevuti dagli altri Stati UE. Oggi i più esposti sono la Germania (60 miliardi), la Francia (46 miliardi), l’Italia (40 mi-liardi), la Spagna (27 miliardi) e l’Olanda (12 miliardi). Una famiglia di quattro persone deve pertanto ricevere dalla Grecia circa 4700 euro se tedesca, 4500 se francese, 3800 se italiana.

I crediti del Fmi e della Bce, va ricordato, sono ‘iperprivilegiati’, poiché su tale privilegio si regge l’intera impalcatura finanziaria internazionale. Il Fmi , in particolare, deve ricevere da Atene 1,5 miliardi di euro in giugno, in quattro rate (5,12, 16 e 19 giugno). Se Atene non onorerà questo debito, non sarà possibile trovare una via d’uscita e la pratica passerebbe di fatto agli avvocati.

Si potrebbe tentare di evitare il peggio se anzitutto gli Stati creditori aiutassero la Grecia a far fronte alle scadenze nei confronti di Fmi e Bce. I creditori dovrenbbero inoltre accettare una dilazione ulteriore dei pagamenti a loro dovuti, con Atene, però, disposta a un monitoraggio molto stretto sulle riforme (dovrebbe in pratica accettare una nuove missione dei creditori in residenza in Grecia per tutto il tempo necessario).

La “tattica” (e i costi) per  mantenere Atene nell’euro

La “tattica” (e i costi) per mantenere Atene nell’euro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Alla vigilia del Consiglio europeo di Riga, in particolare degli incontri con Merkel e Hollande, Tsipras ha ostentato ottimismo e un “accordo di reciproco vantaggio” i cui contenuti sono ancora da definire. Varoufakis è stato ancora più dettagliato: “La rottura delle trattative è fuori dal nostro orizzonte”, ha dichiarato, specificando anche che il nodo più difficile sono le pensioni. “Ci chiedono casse in pareggio con il 27% di disoccupazione”, si è lamentato il ministro delle Finanze di Atene. Né Tsipras, né Varoufakis hanno dato l’impressione di contare sull’appoggio di Renzi come mediatore o “pontiere”; si sono resi conto che nel consesso europeo il Presidente del Consiglio italiano ha problemi (da ultima gli è giunta la vera e propria “mazzata”, anche se piccola, sul reverse charge relativo all’Iva) e non è in una posizione di chiedere comprensione per altri dato che ne deve chiedere per se stesso.

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Opinione pubblica ed egualitarismo nell’età di Facebook

Opinione pubblica ed egualitarismo nell’età di Facebook

Carlo Lottieri

Un dato fondamentale del nostro tempo è la crisi dell’editoria periodica per come la conoscevamo. Si tratta di una crisi profonda che riguarda quasi tutti i quotidiani (dopo che i settimanali sono quasi scomparsi da anni) e che va ben al di là dei pur massicci licenziamenti di redattori e del crollo verticale delle vendite. Il cambiamento del costume e il fatto che si vedano sempre meno quotidiani spuntare dai tasche dei soprabiti sono accompagnati da una serie di conseguenze molto importanti.
I motivi della crisi sono numerosi, ma certamente uno dei principali è l’imporsi di internet (dove è possibile reperire, gratuitamente, una gran massa di informazioni e commenti), insieme al successo dei social network. La trasformazione è profonda e ha ricadute rilevanti sull’economia, sulla vita sociale, sulla politica. Se il giornalismo è stata una delle attività cruciali del ventesimo secolo (veniva dalla carta stampata, ad esempio, Benito Mussolini e ha ruotato a lungo attorno al giornalismo molta parte della vita politica), oggi questo universo sembra progressivamente sprofondare, insieme alla stessa idea degli opinion leader.
Con la disfatta del giornalismo sembra infatti ridursi sempre di più lo spazio di chi storicamente s’incaricava di offrire un punto di vista “ragionato” e aiutava, in tal modo, l’emergere di un’opinione pubblica sufficientemente consapevole. Per decenni “The Times”, “Le Figaro” o il “Corriere della Sera” hanno permesso ogni mattina di avere un’interpretazione dei fatti e della società con cui confrontarsi. L’idea era che l’analisi giornalistica e la riflessione sviluppata nei fondi e nei commenti aiutassero ad affrontare i problemi con razionalità e spirito critico.
Nell’età della rete, però, quanto scrivono gli opinionisti di larga fama sembra interessare sempre meno. Se il giornalismo si basava sull’autorevolezza di alcune testate e di taluni autori, nell’epoca della rete sembra che viga l’eguale dignità dei differenti punti di vista. Ognuno – in Twitter, in Facebook o altrove – dice la propria e al più cerca le opinioni degli amici, per confrontarsi e dialogare. Tutto progressivamente si appiattisce e delinea alla fine uno scenario in cui possono imporsi senza problemi le teorie economiche o scientifiche meno difendibili.
In fondo, il vecchio giornalismo nasceva dalla modestia di una società borghese colta che non si riteneva in grado di dire la propria su tutto, non pretendeva di sapere ogni cosa anche senza avere visto niente, confidava nella qualità di alcuni quotidiani e professionisti. Per citare solo un caso, i “montanelliani” erano persone che in primo luogo conoscevano i propri limiti e poi, in seconda battuta, apprezzavano l’arguzia e l’intelligenza dello scrittore toscano.
Il protagonismo generalizzato dei nostri tempi sembra “liberante” e in parte lo è, ma comporta pure problemi. È certamente positivo nei social network si abbiano confronti e discussioni, e che sia possibile per chiunque esprimere la propria opinione, ma se questo toglie tempo e spazio ad analisi non superficiali è facile che la conseguenza principale sia il venir meno di ogni ostacolo di fronte a quanti vogliono affermare demagogia e complottismo.
Durante il secolo ormai alle spalle spesso i giornali sono stati confezionati male, utilizzati a fini politici, piegati agli interessi di questo o quel gruppo. La barriera che si poneva dinanzi a quanti volevano esprimersi e comunicare ha avuto più volte effetti deprecabili. Era però in qualche modo positiva l’idea (più un ideale che un fatto, ma un ideale comunque non banale…) che il pulpito della comunicazione fosse almeno in parte esclusivo, riservato a pochi, da utilizzarsi con grande cura.
Non ha alcun senso ritenere che siamo sempre e in ogni occasione eguali, perché non posso pensare che quanto so in tema di cellule staminali abbia lo stesso valore di quanto conosce chi questi temi li studia da una vita. Non basta dare un microfono in mano a chiunque perché si possa assistere al costituirsi di un’opinione pubblica improntata a ragionevolezza e buon senso.
Non c’è alcun dubbio che in passato molti opinion leader siano stati poco onesti e inadeguati. È difficile pensare che la totale assenza di opinion leader sia però la soluzione al problema.
Crisi: nel periodo 2008-2014 spesa pubblica è aumentata di 45,5 miliardi (+3,3% del Pil)

Crisi: nel periodo 2008-2014 spesa pubblica è aumentata di 45,5 miliardi (+3,3% del Pil)

NOTA

Durante la crisi la spesa pubblica in Italia è cresciuta in rapporto al Pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti di 3,3 punti percentuali superiore sia alla media dei paesi dell’Unione Europea (+1,6%) che a quelli della sola Area Euro (+2,6%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro. Il nostro Paese non è l’unico ad aver aumentato la spesa pubblica in questo periodo anche se tra le grandi economie continentali solo la Francia fa peggio di noi e vede crescere la sua spesa pubblica del 4,2%. Meglio di noi vanno sia la Spagna (+2,5%) sia la Germania, sostanzialmente stabile con un +0,4%. Chi taglia in maniera abbastanza decisa il peso dello Stato sull’economia è invece il Regno Unito che vede la sua spesa pubblica scendere di 2,2 punti di Pil.

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In valori assoluti questo significa che la nostra spesa pubblica è passata dai 780 miliardi di euro del 2008 agli 826 miliardi del 2014, un balzo in avanti di 45,5 miliardi. Ovviamente questa valutazione rischia di essere fuorviante perché non tiene in debito conto l’andamento dell’inflazione e quello del Pil, risultando quindi un valore meramente indicativo.

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Molto più interessante, invece, è capire quali settori abbiano contributo a questi scostamenti perché, come è facilmente intuibile, negli anni della crisi la spesa pubblica si è sensibilmente modificata: vi sono settori che hanno subito tagli più o meno pesanti ed altri che, al contrario, non sono riusciti a contenere dinamiche di crescita. Questi dati sono stati resi recentemente disponibili per tutti i Paesi europei con un aggiornamento fino al 2013. L’analisi di ImpresaLavoro prende in esame alcune funzioni quali: Difesa (spese militari), Cultura, Istruzione, Protezione Sociale.

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Rispetto al 2008 in proporzione al proprio Pil l’Italia spende lo 0,1% in meno per spese militari, passando dall’1,3% all’1,2% del proprio prodotto interno lordo. Tutta l’Area Euro ha subito in questi anni una riduzione di questa tipologia di spesa: tra i grandi paesi solo Francia e Germania hanno visto aumentare l’incidenza della spesa per la funzione “Difesa” sul Pil dello 0,1%. Il taglio più elevato arriva dal Regno Unito che spendeva comunque per questa funzione una cifra nettamente superiore a quella italiana (2,5% del Pil contro 1,3%).

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La spesa per l’ordine pubblico e la sicurezza passa in Italia dall’1,8% al 2% del Pil, facendo segnare un incremento più elevato dei Paesi dell’area euro e di tutte le grandi economie continentali. Anche per questa funzione il taglio più consistente arriva dal Regno Unito che, nonostante un calo dello 0,3% dell’incidenza sul Pil per questa funzione, continua a spendere comunque il 2,2%, più di Italia, Francia, Germania e Spagna.

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La spesa per la funzione ambiente rimane stabile, pesando sul nostro Pil per lo 0,9%, in linea con quanto avviene nell’Eurozona. Diminuisce la spesa per questa funzione in Regno Unito e Spagna, mentre aumenta in Germania e Francia.

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La spesa per la funzione “Salute” cresce in Italia durante la crisi dello 0,2% del Pil, passando dal 7% al 7,2%. L’impegno degli Stati per questa funzione è in aumento in tutta l’eurozona (+0,5%),con l’eccezione della Spagna che non aumenta l’incidenza sul Prodotto Interno Lordo della sanità pubblica. È interessante notare come il Regno Unito, pur impegnato in questi anni in un taglio della spesa pubblica di pressoché tutte le funzioni, aumenti quanto spende per la sanità statale: l’incidenza sul Pil passa dal 7,2 al 7,6%.

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Durante la crisi l’Italia ha tagliato la sua spesa per la cultura passando dallo 0,8% allo 0,7% del Pil e oggi è tra i grandi paesi europei quella che spende meno per questa funzione così come tracciata da Eurostat. Nonostante i tagli effettuati in questo periodo spendono più di noi sia la Spagna (1,1%) che il Regno Unito (0,8%). Stabile la spesa per questa funzione in Germania (0,8%) mentre cresce dall’1,3% all’1,5% del Pil in Francia.

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Per rendere meglio l’idea spendiamo oggi in valore assoluto 1,8 miliardi in meno di quanto spendevamo nel 2008, mentre la Germania spende 3,2 miliardi in più.

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La crisi ha portato con sé un taglio della spesa per istruzione che passa dal 4,4 al 4,1% del nostro Pil. Nello stesso periodo la Germania operava la scelta inversa, aumentandola dell0 0,4% del Pil e superandoci per incidenza sul Prodotto Interno Lordo del settore relativo all’istruzione. Oggi in Europa spende meno di noi solo la Spagna, mentre fanno meglio sia il Regno Unito (5,5% del Pil nonostante un taglio dello 0,7%) che Francia (5,5%), Germania (4,3%) e la media dei paesi dell’area euro (4,8%).

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Anche qui i valori assoluti spiegano in maniera molto evidente quello che è accaduto: spendiamo per istruzione, oggi, meno di quanto spendevamo nel 2008: 65,5 miliardi contri i 71,2 di allora. Questo significa che mentre noi tagliavamo la spesa per istruzione di 5,7 miliardi, la Germania la aumentava di 20,5.

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Come era prevedibile, la crisi ha portato con sé un aumento sensibile della spesa dedicata alla Protezione Sociale: questa è passata in Italia dal 18,1% al 21% del nostro Pil con una crescita di 2,9 punti percentuali. Un aumento superiore a quanto avvenuto nell’eurozona (+2,2%) anche se in linea con quello della Francia (+2,7%) e inferiore a quello della Spagna (+3,8%). La Germania, la meno colpita dalla crisi tra le grandi economie, ha contenuto la crescita della sua spesa sociale al solo 0,2% del Pil. Tra i grandi paesi europei, oggi, solo la Francia spende più di noi per questa funzione.
Famolo all’irlandese

Famolo all’irlandese

Davide Giacalone – Libero

Come è possibile che un Paese cattolico, come l’Irlanda, voti massicciamente a favore del matrimonio fra omosessuali? Risposta: lo fa proprio perché è un Paese cattolico. Succederebbe la stessa cosa in Italia. Ed è frutto di un cortocircuito logico, propiziato da una profonda confusione culturale e da un’abbondante dose di conformismo falsoprogressista.

Le tre religioni monoteiste coltivano un’idea peccaminosa del sesso. Hanno un’impronta sessista, che si riflette variamente nella preclusione del sacerdozio, nella selezione delle platee nei luoghi di preghiera, nel separare o interdire l’accesso ai luoghi sacri, nel differenziare le coperture corporali. Restiamo a casa nostra, per non allargare troppo il discorso: il sesso cessa d’essere peccaminoso, perde la tinteggiatura lussuriosa e assume la luce procreativa, quando esercitato all’interno del matrimonio. La forza di tale principio, o, se preferite, di tale tabù, è così pervasiva da essersi tradotta in molte leggi civili, che imponevano l’indissolubilità del vincolo e la condanna dell’adulterio. C’è voluto del tempo, per scalfirle. E la leva grazie alla quale s’è divelto quel totem è consistita e consiste nell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, oltre che nella tutela dei diritti individuali. Ma il tabù resta, pur mescolandosi con un malinteso modernismo.

Se, quindi, restiamo convinti che il sesso sia benedetto solo all’interno del matrimonio, e se abbiamo imparato che il matrimonio non deve più essere il contenitore esclusivo, impermeabile e inviolabile, di un tempo, perché mai negarlo agli omosessuali? Non c’è ragione. Ecco perché, proprio in quanto cristiani (i cattolici sono una parte di questa più grande famiglia), si ritiene opportuno non impedire ad altri quel che si considera giusto per sé. L’equivoco deriva dall’opposizione delle gerarchie, specificatamente di quelle cattoliche. Ma, se è per questo, le istituzioni ecclesiastiche sono contrarie anche al matrimonio civile, considerandolo (giustamente, dal loro punto di vista) solo una formalità giuridica, avente valore inferiore al sacramento.

L’allargamento delle forme di matrimonio, per i ministri del culto, equivale alla perdita, erosione e poi quasi vaporizzazione di un monopolio. Tanto da avere abbassato tutti gli ostacoli per l’accesso ai sacramenti, con il risultato di trasformarli in riti e feste. Moltissimi dei ragazzi che accedono, a quelli precedenti il matrimonio, non è che non abbiano idea delle scritture sacre, è che ignorano anche il catechismo. Però si portano dietro il tabù, che generosamente allargano agli omosessuali. Se non fosse per quello sarebbe chiaro che il problema, senza distinzione di sesso e sessualità, non è quello di legiferare aumentando le tipologie dei vincoli di coppia, ma di farlo allargando i diritti individuali. Esempio: devo potere lasciare i miei beni, farmi assistere, delegare decisioni che mi riguardano, anche a persone con cui non necessariamente debba accoppiarmi. Il rapporto sessuale dovrebbe essere affare privato, mentre diventa pubblico ciò che vincola terzi, ma che è saggio regolare sulla base della libertà individuale, non di coppia. Con una granitica eccezione, naturalmente: quando nascono figli, che vanno tutelati con la legge.

L’idea bigotta che il sesso, per non essere peccato, comporti una scelta monogamica e matrimoniale (salvo poi violarla in tutti i modi possibili e immaginabili), frullata con l’idea falso- progressista che a quell’altare debbano potere accedere tutti, ha generato il tabù post moderno delle nozze gay. Dissentire da questo conformismo, che attira superficialità di destra e sinistra, sopra e sotto, espone al rischio d’essere accusati di sessismo e servilità vaticana. Più o meno l’opposto cui conduce il ragionare. Che comporta un impegno, però, sconosciuto al festeggiare.

Le imposte che soffocano la ripresa

Le imposte che soffocano la ripresa

Corrado Sforza Fogliani, presidente Centro studi di Confedilizia – Il Giornale

Il centro studi ImpresaLavoro di Udine, presieduto da Massimo Blasoni, ha presentato i risultati di un’indagine sulla tassazione in Europa e l’indice della libertà fiscale che questa ricerca internazionale ha permesso di elaborare. Grazie al contributo di docenti universitari e ricercatori di dieci Paesi (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera), il centro studi ha esaminato il sistema tributario in Europa e la classifica che ne è risultata ha collocato al primo posto la Svizzera e agli ultimi due la Francia e l’ltalia.

La graduatoria è stata il frutto della combinazione di quattro fattori: il prelievo tributario complessivo; l’imposizione fiscale descritta dall’Itr in relazione al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la semplicità (o complessità) delle procedure burocratiche necessarie all’adempimento degli obblighi tributari;la localizzazione, la responsabilizzazione e la concorrenza dei livelli territoriali del prelievo. Il quadro finale, secondo Blasoni, «descrive un’Europa in cui il fisco appare non asfissiante nelle nuove democrazie post­comuniste e nella piccola Svizzera, mentre i maggiori Paesi (Italia e Francia in primis) derivano la loro difficoltà a crescere soprattutto da una tassazione davvero troppo elevata, conseguente alla sproporzione esistente tra settore pubblico e privato».

La ricerca è disponibile a questi indirizzi, digitando la password «indicefiscale»:

http://impresalavoro.org/indice­liberta­fiscale­2015/
http://irnpresalavoro.org/ranking­liberta-fiscale­in­europa/
http://impresalavoro.org/indice­liberta­fiscale­2015­infografiche/

Illusioni pensionistiche

Illusioni pensionistiche

Davide Giacalone – Libero

Il sistema pensionistico futuro è in equilibrio. Ciò si deve a un lungo processo riformatore, iniziato con la riforma Dini e concluso con la riforma Fornero (15 anni!). Il governo fa bene a proporre la possibilità di pensionamento anticipato, perché in un sistema interamente contributivo ciascuno prenderà in ragione del versato e della speranza di vita. Prima va in pensione e meno versa. Fa male, però, a inoculare illusioni e paure: anticipando la pensione non si perderà «qualcosina», ma molto. Né potrebbe essere diversamente, se non si vuole riscassare un sistema fra i più equilibrati d’Europa. Con un non trascurabile dettaglio: le pensioni saranno basse. Per i giovani la cui carriera lavorativa e discontinua saranno bassissime. Il sistema, pertanto, si regge solo a patto che ciascun lavoratore si rassegni alla miseria o investa nella previdenza integrativa. Cosa resa difficile da una pressione fiscale forsennata.

Il sistema resta squilibrato perché squilibratissimo è il passato. Ogni anno lo Stato spende il 16,5% del Pil per pagare le pensioni. È una quota senza paragoni fra le democrazie sviluppate. Contiene, però, due zavorre: a. si trova sotto la voce «pensioni» quel che dovrebbe stare al capitolo «assistenza» (per cui chi dice che la nostra spesa sociale è bassa, rispetto ad altri europei, non sa far di conto); b. all’incirca la metà delle pensioni attuali non è retta da adeguati contributi versati. La differenza è un trasferimento di ricchezza da chi lavora oggi a chi lavorò ieri. Sono regali fatti in nome di «diritti acquisiti» che, talora, sono solo contributi figurativi (come Renzi, del resto, che diventa dirigente d’azienda prima che la Provincia di Firenze cominci a pagare per lui i contributi previdenziali).

L’informazione sui vitalizi parlamentari (che non sono nel conto delle pensioni, ma restano spesa pubblica) è preziosa perché dimostra che non si regalano soldi ai poveri, ma ai privilegiati. Quei numeri servono la soluzione su un piatto d’argento. Se solo si è in grado di capirli. Il valore assoluto dei regali agli ex parlamentari non è tale da risolvere altri problemi, ma il ricondurli alla ragionevolezza contabile ha un valore altissimo. Si chiama: buon esempio. Al contrario, decurtare l’adeguamento all’inflazione per le pensioni più alte è un’ingiustizia che configura un’incostituzionalità. Se le pensioni si dividessero in rette o meno da contributi versati, avrebbe un senso, per le seconde, un adeguamento deflattivo, mentre sarebbe un furto per le prime. Se prendo in ragione di quel che ho versato la mia pensione non è alta o bassa, è mia, sicché punirmi (dopo avermi costretto a versare) è da assatanati. O da incapaci, che avendo ereditato un sistema in equilibrio futuro non sanno dove mettere le mani per riportare un accettabile equilibrio anche per il presente.

Conflitto d’interessi per l’autostrada Veneto-Trentino

Conflitto d’interessi per l’autostrada Veneto-Trentino

Davide Giacalone – Libero

Ogni tanto riemerge il tema del conflitto d’interessi, normalmente targato con nome e cognome. Sarà bene rendersi conto che ci sono anche conflitti d’interesse di tipo istituzionale, che guastano non poco la credibilità italiana nell’attirare e promuovere investimenti. Ce ne ha dato dimostrazione, da ultimo, il ministro Graziano Delrio. Da anni si tenta di completare un’avviata opera autostradale, quella della Valdastico, che dovrebbe collegare il Veneto al Trentino, attraverso la Val d’Adige. La cosa era ritenuta necessaria anche dal governo in carica, tanto che la inserì nello «Sblocca Italia» e la portò al Cipe. Poi, però, le cose si sono fermate, lasciando incompiuti i lavori.

Qui m’interessa l’aspetto istituzionale ed economico. Il blocco è stato causato, ha spiegato il ministro Dehio, dall’opposizione della provincia di Trento. Si dà il caso, però, che quella provincia sia socia dell’autostrada potenzialmente concorrente, quella del Brennero. E si dà il caso che fra quei soci ci sia anche la città di Reggio Emilia, di cui era sindaco e rimane parlamentare Delrio stesso. Quegli enti locali partecipano del processo decisionale, fino a disporre addirittura del veto (il che ha assai dubbia legittimità), relativo a lavori che sarebbero conconenti con le società di cui loro stessi fanno parte. Non riesco a immaginare un più monumentale conflitto d’interessi.

Lavoro, il Jobs Act non basta

Lavoro, il Jobs Act non basta

Massimo Blasoni – Metro

I dati incoraggianti sulle assunzioni e il saldo positivo tra queste e i licenziamenti nel primo trimestre dell’anno, resi noti dall’Inps, non significano purtroppo che il numero complessivo degli occupati stia crescendo. Questi ultimi infatti sono calati di 111.000 unità tra dicembre 2014 e marzo 2015, come impietosamente segnala il rapporto Istat.
L’arcano è presto spiegato. Il dato Inps si riferisce alle comunicazioni obbligatorie delle aziende su assunzioni, cessazioni e trasformazioni relative al solo lavoro dipendente e para subordinato del settore privato. Non si quantifica il numero degli occupati e una persona può avere più contratti nello stesso periodo. Per altro non si tiene conto di lavoratori pubblici e autonomi come invece accade nell’indagine Istat, che fotografa il numero effettivo degli occupati. Il dato Inps sulle assunzioni è poi ovviamente condizionato dai numerosi contratti trasformati in tempo indeterminato sulla scorta dei contributi del Jobs Act.
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