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Di fronte al fanatismo, l’Occidente riscopra le sue radici – Editoriale di Carlo Lottieri

Di fronte al fanatismo, l’Occidente riscopra le sue radici – Editoriale di Carlo Lottieri

Carlo Lottieri

Succede ormai con periodicità. Era già accaduto al tempo dello scandalo sollevato dal romanzo di Salman Rushdie (Versetti satanici, 1989) e poi per il film Submission di Theo van Gogh (2004) e di seguito in altre circostanze. Di tanto in tanto il mondo musulmano sembra esplodere d’ira dinanzi a forme espressive – letterarie, satiriche, cinematografiche – dell’Occidente e reagisce, come nel caso delle vignette di Charlie Hébdo di qualche mese fa, scatenando una violenza inaudita.
Quando in Occidente si manifestano tesi critiche verso l’Islam e si avversano taluni aspetti di quella cultura, gli stessi rapporti tra mondo musulmano e società occidentale vanno in crisi. In tale contesto, la nostra società sembra incapace di trovare un equilibrio, talora mostrandosi perfino disponibile a non difendere la propria identità e le garanzie che, da noi, tutelano la libertà dei singoli.
Come allora si dovrebbe reagire a questo attacco tanto duro? Sicuramente non esistono risposte semplici. Qualunque analisi seria e responsabile, però, chiede che si distingua in maniera assai netta ciò che è legittimo sotto il profilo del diritto (l’ordine giuridico) e ciò che invece è opportuno in una prospettiva etica (l’ordine morale). Dal punto di vista del diritto, gli occidentali devono continuare a proteggere la libertà d’espressione di tutti: una libertà che non si estrinseca solo e in primo luogo nella facoltà d’affermare ciò che piace a tutti e che è largamente condiviso. Entro una società aperta e liberale hanno piena cittadinanza anche quelle tesi che taluni, e magari anche molti, giudicheranno assurde e insostenibili. Ogni religione deve vedere riconosciuto la piena facoltà di esprimersi e definire la frontiera che distingue il giusto e l’ingiusto, la santità e il peccato; e la stessa libertà va attribuita ai romanzieri, ai giornalisti, ai registi e così via. L’Europa farebbe un terribile errore se, per non suscitare tensioni con certe frange dell’Islam, abbandonasse la propria tradizione e amputasse la libertà di espressione. Quello che disegnavano e scrivevano gli autori di Charlie Hébdo barbaramente uccisi era legittimo al di là dei contenuti stessi.
Bisogna però distinguere tra una vera tolleranza e un’ideologia di Stato che pretende d’imporre a tutti una sorta di “religione laica” che di liberale ha ben poco e che sotto certi punti di vista finisce proprio per alimentare una reazione fanatica anti-europea. Specialmente in Paesi come la Francia, ma in parte anche da noi, ha preso piede un repubblicanesimo che avversa le culture religiose in quanto tali e che vorrebbe imporre un modello unico di società e di esistenza. Trionfa insomma un “politicamente corretto” che non sembra lasciare spazio al pluralismo anche se si presenta in abiti democratici. Tutto questo ha poco a che fare con la tradizione liberale, e se va difesa la libertà dei giornali satirici, allo stesso modo va salvaguardata la libertà delle famiglie cristiane, musulmane o di altro credo. Proibire a uno studente, come si fa in Francia, di portare a scuola una piccola croce appesa al collo o un qualsiasi altro simbolo religioso non è una scelta di libertà, ma semmai di segno opposto.
Una società libera è tale se ognuno rispetta chi è diverso da sé. Più di tutti devono però essere disposti a esercitare questo rispetto quanti dispongono del potere, che non hanno alcun titolo per considerare i loro valori come necessariamente giusti e universali, e quindi da imporsi agli altri. Il subdolo dispotismo del laicismo statale “alla francese” è, in qualche modo, il più prezioso alleato degli integralisti e dei fanatici islamisti.
Dobbiamo ammettere che da questo punto di vista l’Europa è assai deficitaria e che gli orientamenti prevalenti sembrano proprio rafforzare l’imposizione di una metafisica pubblica, di fatto in lotta con le religioni. La sacralità dei nostri Stati (che si autorappresentano come perpetui, indivisibili e sovrani) deve essere contestata, se si vuole costruire una società davvero plurale. Ed è importante comprendere come il laicismo imposto dal moderno welfare State sia cosa assai diversa dalla libertà individuale, la quale deve permettere a chiunque di fare le proprie scelte in ambito educativo, sanitario, previdenziale e via dicendo. Chiamando in causa taluni dibattiti della filosofia politica degli ultimi anni, bisogna allora prendere sul serio il pluralismo di un autore come Chandran Kukathas (autore de L’arcipelago liberale), che connette libero mercato e comunità volontarie.
C’è invece troppo “kemalismo” e troppa statualità nelle società europee, in cui gli apparati pubblici poggiano su una religione civile à la Rousseau che riduce gli spazi di libertà ed entra in tensione con le fedi. Ma è difficile costruire una convivenza serena se lo Stato non lascia che ogni cultura (cristiana, musulmana, ebraica, laica ecc.) non è libera di operare nei vari ambiti: fermo l’obbligo per tutti di non ledere i diritti altrui, dalla libera iniziativa imprenditoriale alla piena espressione delle proprie idee.
Nessuno è tenuto ad apprezzare fino in fondo un periodico tanto irriverente come Charlie Hébdo ed era facile prevedere che quelle vignette avrebbero buttato benzina sul fuoco. Ma il linguaggio del periodico francese non può essere considerato un crimine entro una società libera. Comprimere ancor più le nostre libertà, per giunta, non produrrebbe grandi risultati e in questo senso le piazze arabe in rivolta devono farci riflettere. Non per indurci a rattrappire ulteriormente i nostri spazi di libertà, ma semmai per dare basi più solide a quel pluralismo culturale e a quella tolleranza religiosa che – in tante occasioni – le logiche di Stato e il moralismo del “politicamente corretto” imposto per legge finiscono di fatto per minare nelle loro fondamenta.
Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Davide Giacalone – Libero

I numeri non mentono mai. Tutto sta a non truccarli, non darli a vanvera e non fraintenderli. Non interessa, qui, far polemica sulle previsioni sbagliate, né è saggio usare i problemi reali come randelli per risse politiche. Ma la realtà va conosciuta e da quella si deve partire per proporre soluzioni. Ebbene: dai giornali è sparita la previsione di crescita, elaborata dal Centro studi Confindustria, per il primo trimestre 2015: +0,2%. Cancellata. Il quotidiano degli industriali, Il Sole 24 Ore, la riporta in modo surreale: «si consolida la ripresa nel primo trimestre». Ci stiamo nascondendo la realtà, o proviamo a mistificarla. Ed è grave.

Il 28 gennaio scorso, quindi appena ieri, lo stesso Centro studi prende una crescita del prodotto interno lordo, nell’anno in corso, al 2,1. Magari! Cuor contento il ciel l’aiuta, ma quel numero ci sembrò stupefacente. In tutti i sensi. ll Centro insisteva, anche perché, sostenevano, per il primo trimestre è “acquisita” una crescita della produzione industriale dello 0,5%. Dunque: se quella la si considerava una fondata speranza, ora si deve parlare di sicura delusione, visto che a gennaio la produzione ha fatto ­0,7 e si spera che febbraio segni un +0,4, che non compensa. E, come abbiamo già documentato, le proiezioni più serie ci danno sì con il pil in crescita, ma sempre meno della metà dell’Eurozona. Il problema è grosso, quindi.

Guardando dentro quella, pur millimetrica, crescita ci si accorge che discende tutta dalle esportazioni. E, fra quelle, deriva dalla crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+49,3 in un anno, calcolato a febbraio). Ergo: a determinare la (troppo piccola) crescita è la capacità dei nostri esportatori, ma quella c’era anche prima, c’era anche mentre restavamo in recessione, a far la differenza è la svalutazione dell’euro sul dollaro e la diminuzione dei costi energetici. Tutta roba che non dipende da noi.

Ripeto: lasciamo da parte le polemiche di cortile, inutili, ciò che conta è che qui non è ancora successo niente che possa smentire una previsione di crescita annua che non solo è troppo bassa, ma è destinata ad aumentare il nostro svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi europei, Germania in primis. Gerhard Schroeder, che di quelle riforme tedesche fu l’autore politico, oggi punta il dito su quel che ripetiamo da tempo: il problema non è la Grecia, ma la Francia e l’Italia.

Si chiede: «cosa può succedere se queste due importanti nazioni non aumentano la loro capacità produttiva e non sanno migliorare la loro competitività?». Lascia in sospeso l’interrogativo, ma è chiaro che teme il risorgere di tensioni ingovernabili, fin qui anestetizzate dall’opera della Bce. Ebbene, i dati che sono stati nascosti dimostrano proprio quello: non stiamo aumentando e non stiamo migliorando. Per riuscirci dobbiamo approfittare dei bassi tassi d’interesse, che aiutano a lenire il dolore sociale di riforme che tolgano sicurezze e diritti acquisiti, aprendo a meritocrazia e competizione. Ma è una parentesi breve. Approfittarne significa tagliare la spesa pubblica corrente e aumentare quella per investimenti. Il contrario di quel che si è fin qui fatto, visto che si sono tagliati i secondi. E il contrario di quel che ci si propone di fare, assumendo nuovi dipendenti pubblici senza concorso e selezione.

Significa usare la vendita di patrimonio pubblico per abbattere il debito, mentre oggi se ne usano i proventi per tenere sotto controllo il deficit. Significa restringere il perimetro dello Stato, laddove ancora lo si allarga. Significa diminuire stabilmente la pressione fiscale e stabilizzare la normativa, mentre ancora cresce e il satanismo erariale raggiunge vette inimmaginabili, con il contribuente minacciato di indagini se solo osa mettere nella dichiarazione le spese mediche. Questa, e altra, è la roba che ci tiene inchiodati. E non serve a un accidente occultare i numeri sgraditi, o limitarsi a commentare: finalmente si rivede il segno positivo. In un’afosa giornata d’agosto anche chi precipita da un grattacielo sente un po’ d’aria circolare. Meglio che se la goda in fretta.

La privatizzazione “sicula” del sale

La privatizzazione “sicula” del sale

Davide Giacalone – Libero

La Sicilia è terra di sale. Ma non nella zucca di chi l’amministra. Quella che segue è la storia brutta di come quel che si sarebbe dovuto privatizzare, la Italkali, si rischia di perderlo, incassando 3 milioni al posto di 20. Sembra la trasposizione demenziale di una poesia (L’omu di sali) di Renzino Barbera: «Sali, poi sali e poi sali / E sulu muntagni di sali / (…)/ di picciuli… un pizzicu sulu». La Italkali gestisce l’estrazione e la commercializzazione del sale minerale siciliano. Ogni anno totalizza ricavi per 90 milioni. Le azioni sono intestate in maggioranza (51%) alla Regione siciliana e per la rimanente parte a un socio privato. Nel 1999, come riporta il giornale online Live Sicilia, se ne decide, saggiamente, la dismissione. Non c’è ragione per cui la Regione debba fare quel mestiere. Ce ne sono molte per privatizzare. Ma vendere non deve significare regalare, come, invece, sta accadendo. Capita, difatti, che il processo di vendita, avviato allora, non è mai stato portato a compimento.

Si fece tura gara per scegliere l’advisor, e la vinse Meliorbanca. ll lavoro di valutazione e vendita s’interrompe più volte, tanto: che fretta c’è? Ma dal 2012 sembra essere in dirittura finale. Solo che, a novembre, Rosario Crocetta è eletto presidente della Regione, promettendo una stagione di radicali rinnovamenti e, manco a dirlo, di trionfi anti­maliosi. Invece si ferma tutto. Siccome corre l’anno 2015, e sono scaduti tutti i tennini di legge, il socio privato sostiene che quello pubblico è “decaduto”, quindi può essere liquidato al valore nominale delle azioni che ancora gli sono intestate.

Con una perdita, per l’erario siculo, di poco meno del 90% del valore. Mettiamo pure, per benevola concessione logica, che tutto questo si debba a semplice incuria, inettitudine e dimenticanza. Mettiamolo pure. Se ne dedurrebbe che la corruzione è assai più conveniente della scimunitaggine. Che se la cosa fosse stato un affare losco si sarebbe potuto immaginare di pagare un prezzo corruttivo, che so?, fino al 10%. Mentre ora il 10% è il totale dell’incasso. Morale immorale, ovviamente, ma pur sempre meno irrazionale di quel che accade.

La cosa è talmente macroscopica che pure da dentro il Partito democratico si levano voci di aperto dissenso, con Antonello Cracolici (vecchio giovane comunista isolano), consigliere regionale (anzi no, scusate, in Trinacria si chiamano “onorevoli”), che presenta un’interrogazione per bloccare la “svendita”. Che, però, manco una svendita è: trattasi di regalo. Prova a sostenere: l’avvio della vendita non aveva valore, i termini previsti dalla legge nazionale non si applicano in Sicilia, che è autonoma, e, comunque, vanno intesi come ordinatori, cioè privi di valore effettivo. E si tonra a Barbera: «Restu tra ‘u suli e lu sali». E ci resto all’infinito. Dice Cracolici: sono favorevole alle dismissioni, ma al valore reale, di mercato, dando íl diritto di prelazione al socio privato, ma mica facendosi scippare. Giusto. Ma si cominciò nel secolo scorso.

La cosa curiosa è che la notizia è rimbalzata anche sui quotidiani nazionali, senza che mai si capisse come fa un socio a “decadere”. Il dettaglio è che se effettivamente decade, e a quelle condizioni, il danno erariale imputabile ai decadenti è dato dalla differenza fra il valore e il liquidabile. Frai 16 e i 17 milioni. Come se abbondassero, in quelle casse. Alla prossima manifestazione di precari da blandire e prendere in giro, provino a spiegare loro perché i soldi si buttano dalla finestra. Con in cortile, a raccoglierli, tutto fuorché un bisognoso. Storie di ordinaria follia, nell’isola disperata e dimentica di sé. Dove in cima ai cortei contro il pizzo ci stanno quelli che prendono il pizzo. A guidare quelli contro la mafia, ci stanno quelli che avversarono Borsellino e Falcone. A capeggiare gli industriali contro l’onorata società ci sono quelli inquisiti per connivenza con i disonorati associati. E nessuno s’azzardi a citare Pirandello, o l’abusato Gattopardo (Tomasi di Lampedusa), perché queste non sono storie di verità indistinguibili o di cambiamenti conservativi. Qui è la principessa incapacità che convola a nozze con il re Furto. Semmai, ancora Barbera; «Chi vita scipita, ‘nto sale».

Non culliamoci sull’euro e sul petrolio

Non culliamoci sull’euro e sul petrolio

Massimo Blasoni – Panorama

Lo spiraglio di ripresa che si intravede nella crescita della produzione industriale dipende da fattori evidenti. Il basso prezzo del petrolio e l’euro svalutato rispetto al dollaro sono alla base di quel 5,4 per cento in più che le nostre esportazioni hanno fatto registrare a fine 2014, rispetto all’anno precedente. Inoltre iniziano a farsi sentire anche gli effetti del «quantitative easing» (l’acquisto sul mercato di titoli pubblici e privati) varato dalla Banca centrale europea, garanzia di un credito più generoso.
A questi fattori di stimolo esterni non si somma tuttavia l’incisiva azione del governo. Occorre agire per stimolare la domanda interna ma soprattutto rafforzare il nostro sistema produttivo che si trova spesso a sopportare una concorrenza estera che beneficia di costo del lavoro, valori di cambio e fiscalità più favorevoli. Tranne che per il Jobs act che, pur perfettibile, introduce importanti elementi di novità nel mercato del lavoro, non vi sono stati interventi significativi in tema di fiscalità, liberalizzazioni e sburocratizzazione.
La contrazione dell’Irap dispiegherà i suoi effetti solo nel 2016 e gli indicatori internazionali continuano a collocare il nostro tra i peggiori e più onerosi sistemi fiscali al mondo. Per la Banca mondiale (rapporto «Doing business») l’insieme complessivo delle imposte più i contributi sociali pagati da un imprenditore italiano, raggiunge il 65,4 per cento del reddito d’impresa, 16 punti in più della Germania e 31 in più dell’Inghilterra. Quanto agli investimenti, l’andamento della spesa pubblica certificata da Eurostat dimostra che il governo ha applicato la spending review dal lato sbagliato, tagliando gli investimenti e non la spesa corrente. Rispetto al 2009 l’Italia ha ridotto del 30 per cento la spesa pubblica per investimenti, passata così dai 54,2 miliardi del 2009 ai 38,3 miliardi del 2013, riportandoci in termini reali indietro di dieci anni. Nello stesso periodo la spesa pubblica complessiva è, però, cresciuta di 12,8 miliardi: la causa, ovviamente, è da ricercarsi in una spesa corrente che nessun governo, nonostante gli annunci, è riuscito a comprimere.
A tralasciare la burocrazia oppressiva, la carenza delle infrastrutture fisiche ed informatiche, resta infine da ricordare il tema dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Il problema non si è affatto risolto, malgrado gli annunci del premier in tv. Il debito nel corso del 2014 si è riformato e ammonta oggi a oltre 75 miliardi (dati Eurostat e Intrum Justitia) con tempi medi di pagamento vicini ai 130 giorni che obbligano le imprese ad anticipare i crediti presso il sistema bancario. Un’operazione costosa e che pesa sui bilanci delle imprese fornitrici dello Stato per sei miliardi di euro ogni anno, cifra che non ha eguali in Europa. Larga parte di questo cahier de doléances può trovare almeno parziale soluzione agendo tempestivamente. La timida ripresa va sostenuta, pena un’immediata ricaduta.
Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Davide Giacalone – Libero

Imbrogliare e mentire sulla storia nazionale è un antico vizio italiano. Piuttosto che fare i conti con la realtà dei fatti si è ripetutamente preferito travisarli. Prima che José Luis Rodriguez Zapatero, ex capo del governo spagnolo, venga in Italia a raccontarci quel che ci siamo già detti, quindi, vale la pena rimettere in funzione la bussola della storia. Possibilmente senza usare i magneti delle tifoserie per truccarla. La sorte dei governi italiani è stata determinata da influenze o decisioni prese al di là dei nostri confini? Si può rispondere oscillando da un irragionevole «no», a un ecumenico «sì, ma è normale che sia così», fino a un estremo «sì, fu un colpo di Stato». Esercizio inutile. Il nostro dovere è prima di tutto sapere, poi capire. Anche per leggere meglio quel che accadde dopo.

Nella seconda metà del primo decennio del secolo appena iniziato, l’Italia è finita due volte nel mirino di interessi a noi contrapposti. La prima è la più istruttiva e dice molto della seconda: il gas russo. Un pezzo dei governi europei e quello statunitense non hanno mai digerito il rapporto con i russi per la fornitura di gas. Troppo lungo approfondirne qui i passaggi, sta di fatto che i più esposti eravamo noi e i tedeschi. Con una enorme differenza: quando Gerhard Schroder prende la guida del gasdotto Nord Stream AG, designato dai russi di Gazprom, si accendono polemiche in varie parti del mondo occidentale ma l’argomento non viene utilizzato come arma di polemica politica interna tedesca. Anzi: Angela Merkel inaugurerà l’opera. Da noi accadde l’esatto contrario.

Ci torno, prima però è bene ricordare un dettaglio: coincide con quel periodo la pubblicazione della prima foto di Berlusconi con sulle ginocchia una squinzia, ritratti nella casa di Sardegna. Nel 2011, passaggio cui si riferisce Zapatero, molte cose precipitano. Veniamo trascinati (marzo) in una dissennata guerra di Libia, voluta da francesi e inglesi. Poi si scatena la speculazione contro i debiti sovrani (estate). E qui, scusate, ma Zapatero non ci può rivelare altro che succosi particolari, perché la sostanza noi la scrivemmo durante, non dopo: la polemica degli spread, intesi come indici di inaffidabilità governativa, era da trogloditi o da imbroglioni. Lo documentammo e i fatti confermarono.

Ma mentre si usava quell’artiglieria per colpire il governo, è arrivata la bomba. Tale fu la costituzione del fondo salva Stati (luglio). Cosa giusta, salvo che francesi e tedeschi vollero e ottennero che ciascuno partecipasse in percentuale del proprio Pil, mentre gli italiani chiesero e non ottennero che si partecipasse in ragione dell’esposizione delle proprie banche con il debito greco. Era chiaro che la prima formula ci avrebbe portato a pagare per salvare le banche francesi e tedesche. Era ragionevole, quindi, che altri volessero fiaccare la forza del governo italiano. Ma non sarebbe stato possibile se in Italia non vi fosse stato un berniniano schieramento di quinte colonne.

Così nacque il governo Monti (novembre). Ciò va ricordato per evitare di supporre che la partita fosse d’antipatia personale, o di supposta impresentabilità. Per questo va anche ricordato che il governo in carica (Berlusconi) era già gravemente crepato. Va ricordato che il centro destra ha votato a favore di tutti i passaggi governativi successivi (salvo poi dissociarsi). Producendosi poi la situazione odierna, con una coalizione di governo che nessuno ha mai votato (spaccato il centro destra e destituito Bersani). E va anche ricordato che se le serate gaudenti non furono la causa di quella crisi, ben altrimenti ricca d’interessi, furono comunque lo strumento utilizzabile. Quindi una colpa.

Burocrazia lenta Renzi intervenga

Burocrazia lenta Renzi intervenga

Massimo Blasoni – Metro

Il rapporto di fiducia tra Stato e aziende si è ormai rotto per eccesso di burocrazia. Ogni giorno si confrontano due realtà diverse e cinconciliabili: da un lato l’imprenditore che avrebbe voglia di costruire e sviluppare il suo business; dall’altro l’amministrazione pubblica che lo frena appigliandosi a una selva di leggi e regolamenti spesso barocchi e inutili.
Un esempio: i giorni di attesa per la concessione di un’autorizzazione edilizia. L’ultimo rapporto annuale di Doing Business (Banca Mondiale) rivela che in Italia sono mediamente 233 contro i 96 in Germania e i 64 in Danimarca.
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Tutte le nubi su Atene

Tutte le nubi su Atene

Giuseppe Pennisi – Formiche

Che cosa aggrava l’ingorgo ellenico di cui nessuno parla…

Secondo le corrispondenze da Bruxelles, Atene e Berlino, sui giornali di questa mattina, il nodo greco starebbe per sbloccarsi. Grandi sorrisi a Berlino (in Germania baci ed abbracci non si usano) tra Cancelliere tedesco e Presidente del Consiglio ellenico.

Una riunione straordinaria dell’Eurogruppo convocata per lunedì 30 marzo dovrebbe sbloccare cinque miliardi di euro di aiuti ed impedire il default; sempre il 30 marzo il Governo di Atene presenterebbe ai partner europei un programma di riassetto strutturale economico “accettabile” (ossia al minimo sindacale) che, almeno per i prossimi mesi, dovrebbe fare sì che il Governo greco adotti le misure essenziale per impedirne un’uscita (o espulsione) dall’unione monetaria.

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Riforma pensioni 2015 – Ecco le “trappole” da evitare su flessibilità e pensioni  d’oro

Riforma pensioni 2015 – Ecco le “trappole” da evitare su flessibilità e pensioni d’oro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Nei ministeri competenti (e all’Inps) si stanno iniziando a predisporre articolati su una nuova riforma della previdenza da inserire nella prossima Legge di stabilità. Le norme consisterebbero essenzialmente in: a) nuovi contributi di solidarietà per quelle che vengono chiamate le “pensioni d’oro”; b) flessibilità in uscita per coloro che desiderano andare in quiescenza prima dell’età ora prevista da quella che viene chiamata “legge Fornero”.

Prima che i lavori preparatori vadano troppo avanti, potrebbe essere utile fare alcune considerazioni. In primo luogo, non soltanto i teorici della neoeconomia ma studi Ocse, Fmi e Banca mondiale e numerose analisi di centri di ricerca internazionale documentano che nessun Paese reagisce bene a riforme della previdenza che si succedono anno dopo anno; esse generano ansietà e incertezza e riducono la credibilità della politica. Ciò influisce negativamente sulla produttività. Quindi, meglio esaminare a fondo, e con la pazienza e il tempo che ci vogliono, le alternative e approvare, una volta per tutte, un sistema che resti solido per diversi anni.

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Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Carlo Lottieri

Il dibattito di questi giorni suscitato dai recenti scandali legati alla gestione delle grandi opere si sono quasi interamente focalizzati sul coinvolgimento più o meno diretto di questo o quel politico, e al massimo hanno indotto taluni a interrogarsi sul tema (ben più vasto) del rapporto tra vita pubblica, imprese e corruzione.
Pochi hanno però focalizzato la loro attenzione sulla questione delle infrastrutture stesse e sul fatto, in particolare, che in Italia continua a dominare l’idea che trafori, ponti, linee ferroviarie e altre cruciali iniziative dette “di interesse generale” debbano essere progettati, costruiti e poi gestiti dallo Stato. Per contro, quanti si oppongono a questa prospettiva interventista quasi sempre sono animati da un furore ideologico di taglio ambientalista che guarda con ostilità ogni innovazione.
In questo senso, la battaglia scatenata in questi anni contro la Tav è la riprova che molte grandi opere di Staro sono bloccate solo in ragione del prevalere di un ecologismo pregiudizialmente avverso alla modernità e alle esigenze dell’economia. E non si tratta certo di un contrasto tra destra e sinistra, dato che la demagogia ecologista ha contagiato esponenti di ogni schieramento.
C’è però anche dell’altro. In fondo, le tensioni riguardanti le grandi opere sono pure la conseguenza di logiche tecnocratiche che fatalmente creano legittime resistenze. Una realizzazione destinata ad avvantaggiare un gran numero di persone dovrebbe anche destinare ingenti risorse a quanti possono essere danneggiati da quell’opera. Non è accettabile che, come avvenne nel caso dell’aeroporto di Malpensa, si arrechino danni patrimoniali tanto rilevanti senza aver avviato una trattativa con i proprietari di case e terreni, che a seguito della realizzazione dello hub in provincia di Varese hanno visto dimezzato il valore delle loro abitazioni.
La logica delle grandi opere, allora, deve cambiare non solo perché fino a ora le infrastrutture maggiori sono state essenzialmente grandi occasioni di corruzione e spreco. Oltre a ciò, è importante che questo ambito sia consegnato ai privati e al diritto. Bisogna insomma che da decisioni assunte unilateralmente si passi a negoziazioni tra privati che rispettino i diritti e le ragioni altrui. Anche per questo è indispensabile che le opere di grande interesse – si tratti di strade, impianti energetici, ponti o metropolitane – siano realizzate da imprese, e non direttamente dallo Stato.
Quest’ultimo, infatti, ha la tendenza a lanciarsi in imprese economicamente irrazionali, senza tenere in considerazione i diritti delle persone interessate. Tutto questo ovviamente esige non soltanto che si metta da parte il pregiudizio secondo il quale solo lo Stato può realizzare opere di particolare rilievo, ma al tempo stesso è importante che si difendano due diritti: la libertà di iniziativa degli imprenditori, che non possono essere bloccati da una troppo fitta rete di regole e burocrazie, e il diritto di proprietà di quanti possono essere penalizzati da questa o quella costruzione di particolare impatto.
La nostra società ha bisogno di essere all’altezza dei tempi e rinnovarsi di continuo, ma è necessario che siano fissate regole a tutela di tutti e che quanti si lanciano in imprese colossali facciano tutto ciò con i loro soldi e, al tempo stesso, senza subire veti infondati o subire ricatti di vario genere.
Oggi parlare di grandi opere significa evocare corruzione, da un lato, e costi davvero alti per i contribuenti, dall’altro. Significa evocare logiche dirigiste e scelte top-down che suscitano tensioni e ledono diritti. È il momento di voltare pagina.