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Cosa fare dopo Cernobbio

Cosa fare dopo Cernobbio

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il governo greco, soprattutto il ministro Yannis Varoufakis, ha dato prova di grande abilità nell’utilizzare il forum di Cernobbio per suscitare simpatie, proprio mentre è impegnato in un “gioco ad ultimatum” con le istituzione europee ed il Fondo monetario in cui rimette in ballo anche le riparazioni che la Repubblica Ellenica dovrebbe ricevere da Germania ed Austria per vicende inerenti la seconda guerra mondiale (vedi Formiche.net del 3 marzo) . Dal canto suo, il governo italiano, in particolare il ministro Pier Carlo Padoan, ha fatto bene nel frenare i fin troppo facili entusiasmi suscitati da alcuni barlumi di ripresa e della possibile fine della deflazione, evidenziati da alcuni indicatori mentre altri mostrano che la produzione industriale continua a crollare.

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La trattativa che mette  “sotto scacco” l’euro

La trattativa che mette “sotto scacco” l’euro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La “tragedia greca” era basata sulle unità aristoteliche di tempo e di luogo; l’azione era molto rapida e anche l’intreccio più complesso (si pensi a Edipo Re di Sofocle) si dipanava in meno di novanta minuti. Lo stilema venne rotto, al di della Manica, dal teatro elisabettiano e in Francia da quella mirabile Illusion Comique di Corneille che restò un unicum ed è anche oggi è poco rappresentata.

Questi ricordi non possono non venire in mente se si segue l’estenuante ultimo negoziato tra Grecia e Unione europea. Si tratta, abbiamo detto su queste pagine, di un gioco plurimo a più livelli in cui tutti i partecipanti cercano di raggiungere simultaneamente un equilibrio tra “reputazione” con i loro partner e “popolarità” con i loro sostenitori interni. È un equilibrio di Nash (proprio quello del film A Beautfiful Mind di circa tre lustri fa), ossia un profilo di strategie (una per ciascun giocatore) rispetto al quale nessun giocatore ha interesse a essere l’unico a cambiare. Grazie a Nash sappiamo che se ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé, il risultato cui si giunge non è che la situazione ottimale di un giocatore sia ottimale anche per tutti gli altri (l’ottimo paretiano dei testi universitari di un tempo) e si abbia il volterriano “migliore dei mondi possibili”. Dato che nel suo schema non c’è una mano invisibile è possibile che, se ogni giocatore fa unicamente il proprio interesse personale, si giunga a un’allocazione inefficiente delle risorse.

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Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Davide Giacalone – Libero

Back to Mammì. Che sarebbe anche una buona cosa, se non fosse fuori tempo massimo e fuori dalla realtà. In verità il film che Matteo Renzi vorrebbe far trasmettere alla Rai, a reti unificate, è: Back to Fanfani.

Quella che a Renzi sembra una novità è la proposta che il ministro Mammì (il mio amico Oscar, con cui ho lavorato, in una stagione di cui conservo un orgoglioso ricordo) fece nel 1987: sottrarre la Rai all’«ossessione dell’audience» (così la definì) e far sì che una delle tre reti fosse senza pubblicità. Fininvest, che era il nome di allora di Mediaset, avrebbe dovuto rinunciare a una delle sue tre reti. Tale proposta venne bocciata subito. Non dai sostenitori di Fininvest, ma da quelli della Rai. Non dagli amici di Silvio Berlusconi, ma da quelli di Biagio Agnes. In prima fila c’era lui, Uolter Veltroni, che disse: una televisione senza pubblicità non è una televisione. Sì, è lo stesso Uolter che poi sostenne non dovesse «interrompersi un’emozione», cioè non dovesse esserci la pubblicità nei film. Ma che volete, della coerenza ha sempre coltivato la variante africana.

Fu bocciata, dicevo. Poi fu approvata un’elaborazione successiva, che lasciava ai duopolisti tre reti (aprendo il mercato ad altri, però), tutte con pubblicità. E fu approvata con il consenso anche della sinistra democristiana e del Partito comunista (senza offesa, si chiamava così). Quando Mammì fece la sua prima mossa, comunque, la cosa aveva un senso. Intanto perché la Rai aveva tre reti, mentre oggi ne ha quindici. Poi perché non esistevano ancora né Tele+ né Stream, successivamente confluite in Sky. Soprattutto perché eravamo in epoca analogica, mentre oggi c’è il digitale. La domanda è: allora perché, oggi, il grande innovatore recupera un reperto archeologico? Risposta: perché punta ancora più indietro, alla Rai di Amintore Fanfani ed Ettore Bernabei. Alla Rai di governo. Si preparino le gemelle Kessler.

Renzi conta di arrivare al monocolore Rai cambiando il meccanismo di nomina dei consiglieri d’amministrazione. L’idea è che i consiglieri restino sette, come oggi, ma quattro siano eletti dal Parlamento, in seduta congiunta, due dal governo e uno dai dipendenti della Rai. Peccato che: a. le occasioni per le sedute congiunte sono regolate dalla Costituzione, sicché si dovrebbe modificarla (anche in questo), o scimmiottarla puerilmente; b. il Parlamento di cui parla Renzi è quello che stanno riformando, quindi al Senato ci sarebbero i rappresentanti delle Regioni, ma pochi, mentre la Camera sarebbe abitata da tanti di un solo partito, che è anche lo stesso al governo. Detta in modo più chiaro: chi vince le elezioni elegge sei consiglieri su sette. In più il governo nomina il direttore generale (mentre oggi lo elegge il consiglio d’amministrazione). Il potere assoluto. Manco Fanfani ci aveva pensato. Con un tocco di cogestione jugoslava, incarnata dal consigliere delle maestranze, in larga parte reclutate mediante accurata selezione partitica, quindi a vasta presenza di nostalgici a pugno chiuso e bocca aperta. Il maresciallo Tito ne sarebbe compiaciuto.

Renzi è una volpe. Conosce i suoi polli e per questo se li pappa. Infatti veste la sua proposta in questo modo: basta con la Rai dei partiti. Evviva, applausi, tripudio. Peccato che la lottizzazione (copyright Alberto Ronchey) nasce nel 1975, con la riforma che segnò la nascita della sinistra catodica, nonché la fine dell’era censoria e democristianocentrica. In quella in cui i figliuoli di Amintore guidano la sinistra si arriva a tali forme di simpatico sincretismo.

E che si deve fare, allora, conservare la lottizzazione come strumento di pluralismo? Il cielo me ne guardi. Il fatto è che siamo nel mondo digitale, quello che alla Leopolda si ricordava agli altri, salvo scordarsene in proprio. In questo mondo l’offerta è infinita. Il palinsesto te lo costruisci da solo. I più giovani neanche sanno cos’è il consumo televisivo dei propri avi. Dirigere la Rai, quindi, vuol dire controllare quel pezzo di opinione pubblica che s’è assopito davanti alle televisioni generaliste e commerciali, quali la Rai è. Significa puntare alla manipolazione del consenso di quel pezzo arretrato. Lo schermo, e torno a citare il piccolo grande Oscar, concepito come «balcone di piazza Venezia». La soluzione c’è, per non finire a quel modo: venderli. La Rai e il balcone.

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Davide Giacalone – Libero

Ecco l’ennesima riforma della scuola. E per l’ennesima volta parla d’insegnanti e non d’insegnamento. Per l’ennesima sarà negletto il solo diritto che andrebbe tutelato: quello degli studenti alla conoscenza. Sparito il decreto, annunciato a settembre e confermato a febbraio, il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge. La carriera procederà per scatti d’anzianità, come è sempre stato, mentre il peso della meritocrazia resta indeterminato e posticipato. I presidi potranno scegliere chi far insegnare, ma non dalle liste del loro istituto, bensì da quelle degli assunti ope legis. Che razza di scelta è? Le valutazioni saranno autoreferenziali e prive di oggettività, quindi non saranno valutazioni. Gli insegnanti avranno a disposizione 500 euro per la loro riqualificazione culturale.

Non ci crederete, ma potranno comprare libri, come anche andare al teatro o ai concerti. C’è lo sgravio fiscale per chi manda i figli alla scuola privata, che è un principio giusto. Ma molto limitato. ll resto è sindacalese. A settembre il governo annunciò che sarebbero stati assunti 150mila insegnanti. A febbraio erano 120 mila. Ora sono diventati 100mila, ma da quando la riforma sarà a regime (quando?). Dietro queste assunzioni non c’è alcuna idea della didattica, ma solo problemi di quattrini. Ma la cosa impressionante è che a sentir queste cose sembrerebbe che in Italia manchino gli insegnanti, invece ce ne sono più che altrove. Gli studenti (dati 2013) sono 7.862.470, gli insegnanti in organico 625.878, i posti di sostegno 97.636 e i dirigenti scolastici 1.584. Da noi il numero di alunni per insegnante è costantemente inferiore alla media dell’Unione europea. Abbiamo più insegnanti degli altri per ciascun alunno. Se ne mancano sempre è perché  l’organizzazione è penosa. Cambiano quella? No, assumono gente. Bandiscono concorsi? No, li prendono dalle graduatorie a esaurimento (nostro e dei nostri soldi).

Quelle graduatorie sono un’infamia. Una colpa dello Stato, che ha illuso chi ne fa parte. Un peso per la scuola, perché dentro c’è un fritto misto con gente che ha fatto concorsi e altra che ha fatto corsi abilitativi aventi valore concorsuale. Un gargarismo burocratico. Assumere senza concorso, nella scuola come nella giustizia come in altri uffici pubblici, non solo viola il diritto dei cittadini che devono avere un servizio, ma anche di quelli che vorrebbero concorrere e non trovano concorsi. Il precariato non è una condizione sociale, ma il frutto dell’illegalità. Una volta assunti continueranno a fare carriera con scatti di anzianità, che favoriscono la letargia culturale, umiliano i bravi insegnanti e mandano al macero le promesse di meritocrazia. Più che cambiare verso, qui si fa il verso al passato peggiore. Ricordate che nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% del personale ha più di 40 anni, con il 39,3% che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle Ocse che a quelle Ue. Nelle graduatorie ci sono coetanei.

Dice Matteo Renzi: servono più insegnanti per tenere aperte le scuole di pomeriggio. Deve averle prese per circoli ricreativi. Gli insegnantí servono per insegnare, e se assumi quelli che hai di già è ovvio che non cambi di un capello la didattica. Ad esempio: chiedere la scuola digitale è inutile se ti ritrovi con insegnanti analogici e libri di testo a quintalate, scaricati sulle spalle dei ragazzi solo per fare una marchetta agli editori. In Italia le famiglie, con minori, dotate di computer arrivano all’84%; quelle che hanno anche accesso a internet al 79%; il 52% dei bimbi ha già usato il computer a 3 anni; e il 32, entro i 6 anni, lo usa tutti i giorni. Nel mondo in cui tutti usano il digitale, dov’è l’oasi d’arretratezza analogica? Nella scuola. Il che falsa anche i conti, perché è vero che la spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. Ma si dimentica di aggiungere che sommando la spesa sopportata dalle famiglie andiamo sopra. Conquistando record di spreco. La valutazione degli insegnanti verrà fatta all’interno dell’istituto. Quindi il cambiamento consiste nel non cambiare. Se stessimo parlando seriamente, invece, il servizio di valutazione andrebbe affidato a privati, così. in caso di cattivo funzionamento, cambi il fornitore, non la legge. Così puoi rescindere un contratto, mentre qui non licenzi nessuno. La valutazione, del resto: a. non serve a nulla se non è standardizzata e paragonabile, pertanto nazionale; b. non si concentra sui risultati, quindi sugli studenti e quel che hanno imparato; c. non è finalizzata ai premi di carriera e alla destinazione dei soldi.

Tutto questo comporta la capacità di distinguere fra una cattedra e 1’altra, fra una scuola e l’altra. Per farlo, seriamente, si deve abbattere il totem fesso e mendace del valore legale del titolo di studio. Prima di quel giorno vedrete sempre lo stesso film: parole di rinnovamento e richieste di rifinanziamento per approdare a realtà di conservazione e dilapidazione. Che sarà pure una tradizione nazionale, ma è anche un crimine contro gli studenti e un modo per affondare la qualità della produzione futura.

La (non) riforma della Rai targata Renzi

La (non) riforma della Rai targata Renzi

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di ingenuo, ipocrita e – sotto certi aspetti – anche di ridicolo nel riformismo renziano in tema di televisioni. Come ha annunciato la rivoluzione nel campo della televisione pubblica l’attuale premier? La retorica è simil-grillina, perché in definitiva il messaggio che si vuole far passare è che, finalmente, i partiti saranno messi alla porta. Non quindi la lottizzazione “hard” di alcuni decenni fa (con Rai Uno alla Dc, Rai Due al Psi e Rai Tre al Pci) e neppure quella più “soft” dei tempi recenti, caratterizzati da un intreccio più complesso di ruoli e poteri. Tutto questo sarebbe accantonato per veder nascere una nuova Rai con solo sette consiglieri di amministrazione invece che nove, uno dei quali eletti addirittura dai dipendenti.
Una rivoluzione? Macché. Se guardiamo nel dettaglio il governo si riserva la scelta di tre consiglieri e altri tre sono eletti dalle Camere in seduta comune. Il risultato è che governo e maggioranza sono più che sicuri di poter controllare la Rai (esattamente come adesso), lasciando uno spazio pure alla minoranza. Il che non guasta mai. Per giunta si è strutturata la riforma immaginando un peso rilevante – da leader assoluto e vera mente di tutta l’azienda – per un amministratore delegato dotato di ampi poteri in ogni direzione: programmi, scelta degli uomini, gestione del bilancio.
Renzi sa che se, grazie al (facile) controllo della maggioranza del Cda, egli riesce a mettere un uomo di sua assoluta fiducia alla testa della Rai questi gli può assicurare una linea editoriale, e non solo, del tutto schierata dalla sua parte. Il resto è aria fritta. Infatti il progetto parla di una Rai Uno generalista, di una Rai Due dedicata all’innovazione (qualsiasi cosa ciò voglia dire) e di Rai Tre una culturale. Ma il cuore della questione è che la politica non si ritrae affatto e anzi, sotto certi punti di vista, il governo rafforza il proprio controllo sul colosso televisivo pubblico. Un controllo importante per il numero dei dipendenti e per il ruolo propagandistico che la Rai ha sempre svolto e continuerà a svolgere a favore di questo o quello.
Una vera riforma, ovviamente, consisterebbe nel vendere la Rai e nell’aprire a chiunque, italiano o no, il mercato delle televisioni. Ovviamente tutto ciò l’attuale governo non vuole farlo per una serie di ragioni che illustrano assai bene i limiti del preteso “riformismo” renziano.
In primo luogo, l’ex-sindaco della città di Machiavelli non intende assolutamente ridurre la presa sulle risorse (anche umane) e sulla potenza di fuoco della televisione di Stato. Renzi è un politico a tutto tondo, che negli anni passati a Firenze – inizialmente alla guida della Provincia e poi alla testa dei Comune – ha imparato assai bene a gestire il nesso tra risorse finanziarie, voti e controllo sociale. Il suo realismo gli impedisce di essere davvero un riformatore, perché per farlo dovrebbe rinunciare a una parte rilevante dell’artiglieria di cui dispone.
In secondo luogo, manca la minima consapevolezza culturale di cosa voglia dire indirizzarsi verso una società libera. I toni liberali che talvolta possono affiorare nella retorica del premier sono funzionali a obiettivi politici di piccolo cabotaggio – come nel caso delle polemiche con la Cgil – oppure a costruire una retorica in grado di attrarre gli elettori moderati. Ma nulla è più lontano dalla sua cultura che l’idea di un’informazione davvero aperta, senza interferenze statali, senza una programmazione e senza regolazione di Stato.
La riforma della Rai immaginata da Renzi è insomma all’insegna del gattopardismo. E in questo modo stiamo sprecando un’altra opportunità.
L’Italia e il gioco ad ultimatum della Grecia con l’Ue

L’Italia e il gioco ad ultimatum della Grecia con l’Ue

Giuseppe Pennisi – Formiche

Lo avevamo previsto, su Formiche.net, dopo le elezioni in Grecia e l’apertura di nuove trattative tra Atene e le istituzioni internazionali. Nel “gioco a due livelli” tra i partner dell’UE si sarebbe prima o poi arrivati ad un “gioco ad ultimatum”. Ricordiamo di cosa si All’inizio degli Anni Ottanta, furono un libro ed alcuni saggi di Piercarlo Padoan (scritti a quattro mani con Paolo Guerrieri, ora senatore del Pd, entrambi professori alla Università Sapienza di Roma) a portare in Europa questa teoria, che allora stava facendo i primi passi negli Usa. Padoan e Guerrieri ne divennero “capi scuola”. In sintesi, nell’eurozona è in corso un gioco a più livelli in cui ciascuno dei partecipanti deve massimizzare obiettivi di “reputazione” e di “popolarità” differenti (e in certi casi divergenti) di fronte alle altre parti in causa. Tutti devono mantenere una buona reputazione rispetto agli altri soci dell’eurozona e presentarsi come convinti assertori della moneta unica. In termini di popolarità, però, ciascun partner risponde alla propria opinione pubblica.

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Una burocrazia troppo lenta e inefficace. Così il «grimaldello» europeo rischia  di lasciare il nostro Paese a bocca asciutta

Una burocrazia troppo lenta e inefficace. Così il «grimaldello» europeo rischia di lasciare il nostro Paese a bocca asciutta

Giuseppe Pennisi – Avvenire

I documenti ufficiali sul “Piano Juncker” – essenzialmente i quelli all’esame del parlamento europeo – affermano che il programma, ancora in costruzione, è un grimaldello: attivare con una leva di 21 miliardi di “garanzie” (non di finanziamenti diretti) di Commissione europea (Ce) e Banca europea per gli investimenti (Bei) un totale di 315 miliardi di euro. Come tutti i grimaldelli, ha virtù o opportunità – apre le 28 scatole dei piani d’investimento degli Stati Ue – ma anche vizi o rischi: mostra quali scatole sono piene e quali vuote e quali potrebbero essere piene se i vincoli del Fiscal Compact non mettessero a repentaglio fondi di contropartita, a valere sui conti dei singoli Stati per arrivare la finanza privata.

Per l’Italia, da un lato, il “grimaldello” minaccia di mostrare che quasi nessuna amministrazione ha ottemperato ai decreti legislativi 102 e 228 del 2011 di adeguamento alla normativa europea, con i quali si richiedeva una programmazione pluriennale per progetti esecutivi  corredati da analisi economica e finanziaria. Di conseguenza, in una gara in cui i progetti non sono allocati per Paese ma scelti da un comitato di investimenti in base alla loro qualità e cantierabilità, rischiamo di restare a bocca asciutta. O quasi. Al tempo stesso, però, il “grimaldello” all’esame del parlamento si pone sul solco di una maggiore “flessibilità” nella lettura dei trattati europei e di accordi intergovernativi quali il Fiscal Compact.

Già a dicembre – a causa del periodo natalizio pochi se ne sono accorti – una comunicazione della commissione chiariva che per investimenti di rilevanza europea i contributi diretti dei paesi al Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (il fulcro del Piano Juncker) non saranno “computati” ai fini della procedura per deficit eccessivo e che la commissione terrà conto dei cofinanziamenti nazionali ai programmi europei nel valutare i progressi verso il pareggio strutturale, consentendo “deviazioni temporanee”, ma solo se l’economia è in recessione e sia rispettato il tetto massimo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Una nuova “comunicazione” ha iniziato il proprio percorso; potrebbe essere emanata prima dell’estate. È possibile un ulteriore ampliamento dell’interpretazione nell’ambito di un approccio coordinato di Bei (al centro del sistema) e banche nazionale di sviluppo e di promozione degli investimenti. In particolare, le “deviazioni” potrebbero diventare pluriennali (dato che tali sono gli investimenti), il tetto del 3% ammorbidito e con esso anche la clausola che ora richiede un “economia in recessione”. È un’opportunità importante per l’Italia, sempre che si sia in grado di allestire un adeguata platea di progetti. Altrimenti l’opportunità verrà colta principalmente da Germania ed Austria che hanno disperato bisogno di infrastrutture (principalmente nel comparto dei trasporti) e progetti pronti. Come ben sa chi si avventura sulle loro autobahn e sui loro treni.

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

Davide Giacalone – Libero

Dopo un crescendo rossiniano di effetti positivi e preventivi, il Quantitative easing della Banca centrale europea ha debuttato vedendo scendere le Borse e salire gli spread. La spiegazione si trova passando dalla musica alla poesia, perché abbiamo assistito a un leopardiano “sabato dei mercati”: l’attesa della festa rallegrava i cuori, mentre al suo giungere la mente torna al “lavoro usato”, in questo caso al debito e alla crescita. È la Grecia a innescare il fenomeno, ma sarebbe successo comunque, perché quella (benedetta) operazione affronta il problema della crescita continentale, senza risolvere quello degli squilibri nazionali.

I mitici “mercati”, quell’insieme di operatori sempre pronti a evitare i rischi e cogliere le opportunità, curando il proprio conto economico e fregandosene del resto (come è naturale che sia), sanno bene che la Grecia rappresenta la mancata soluzione della eccessiva disomogeneità interna all’eurozona. Se cedi sovranità monetaria, ma fingi di conservare sovranità politica, prima o dopo le contraddizioni scoppiano. Il governo greco sbaglia, perché crede che sia importante rispettare le promesse (impossibili) fatte agli elettori, laddove, invece, conta il risultato finale, la sicurezza del Paese. Sbagliando incorre nella totale illogicità, pensando di sottoporre a referendum le misure necessarie a fronteggiare la crisi (escludendo un referendum sull’euro). Il giorno in cui si votasse quel referendum non si saprebbe più perché s’è eletto un Parlamento.

La piaga greca si chiuderà. Hanno urgente bisogno di soldi, quindi devono correre a stabilire se accettare le condizioni di chi li presta o suicidarsi nell’uscita dall’eurozona. In entrambi i casi (meglio il primo, per quanto amaro) la mattina dopo i mercati rivolgeranno l’attenzione ad altri  dati.

Ecco quello che ci riguarda: quanto cresce ciascun Paese, investito dall’ondata di liquidità? Se sale più della marea allora è in grado di stabilizzare gli effetti positivi ed erodere il debito. Se sale meno, o solo pari, non appena la marea scenderà sarà nuovamente arenato. La Bce non aiuta chi è in difficoltà, ma tutti gli stati membri. Non può fare diversamente. Aiuta noi e gli spagnoli quanto i tedeschi. Anzi, di più i tedeschi, perché detengono una quota maggiore di capitale Bce.

Ciascuna banca centrale nazionale è autorizzata ad acquistare titoli. In Italia arrivano 140 miliardi, ma solo l’8% è garantito dalla Bce. Il problema non è il rischio default, che non corriamo, ma quello dell’anemia, della reattività solo apparente. Se con quei soldi la Germania crescerà più degli altri, alla fine della cura la distanza sarà aumentata. Ecco perché è da incoscienti festeggiare il ritorno del segno positivo, davanti al prodotto interno lordo, facendo finta di non sapere che siamo a meno della metà dell’ eurozona. E quando i greci avranno finito d’essere la principale attrazione della festa, ci si occuperà di cosa la cura ha portato a ciascuno. Da qui a quel giorno tocca a noi fare quel che non stiamo facendo.

Quanto ci costa pagare le tasse

Quanto ci costa pagare le tasse

Massimo Blasoni – Metro

Piove sul bagnato dell’eccessiva tassazione dei cittadini e delle imprese. L’Italia è infatti un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal nostro Centro studi, un’azienda media deve infatti spendere ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.
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