About

Posts by :

Il “Jolly” da 25 miliardi in mano ad Atene

Il “Jolly” da 25 miliardi in mano ad Atene

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La conclusione della riunione dell’Ecofin del 20 febbraio ha lasciato molte bocche amare, poiché appare difficile che nell’arco di quattro mesi, pur con il supporto dell’Ocse, il Governo della Repubblica ellenica riesca a preparare un programma di riassetto strutturale tale da convincere i partner dell’Eurogruppo. Appare ancora più difficile che i lineamenti di tale piano siamo pronti e consegnati a Bruxelles nel corso della giornata di oggi e discussi (e approvati) domani da un’altra riunione collegiale.

C’è, senza dubbio, grande attesa per quali saranno i contenuti nella lettera che entro stasera dovrebbe arrivare alla Commissione europea e all’Eurogruppo. C’è anche – occorre dirlo – una buona dose di scetticismo, almeno negli editoriali dei quotidiani economici e nelle dichiarazioni di esponenti grandi e piccoli delle istituzioni europee. L’impressione generale è che si è solamente guadagnato tempo per evitare una probabile uscita della Grecia dell’eurozona e il caos sui mercati finanziari mondiali che ciò causerebbe. La settimana scorsa – com’è noto – si è mossa anche Washington, spesso negli ultimi tempi poco attenta ai problemi europei (a ragione di quelli in altre parti del mondo) per incidere soprattutto su Atene affinché si giungesse a un accordo.

Ma se ci fossero informazioni nuove e tali da cambiare le carte in tavola? Un dato nuovo, e non irrilevante, è stato portato all’attenzione di un gruppo ristretto di economisti e specialisti di finanza, il 18 febbraio a Londra in una riunione riservata (ma non troppo) tenuta nei piani alti della torre di Morgan Stanley a Londra. Sono i calcoli di Paul B. Kazarian, economista e finanziere Usa di origine armena, che ha lavorato a lungo per Goldman Sachs prima di creare una propria finanziaria a Providence, Rhode Island, (Japonica Partners con cui ha assestato un paio di colpi fortunati). Ora, cinquantanovenne, è ricchissimo e ha un portafoglio gonfio di bonds greci (quelle che la Banca centrale europea considera quasi-spazzatura) nella convinzione che gli porteranno un’enorme guadagno. A suo avviso, il debito “netto” greco è notevolmente inferiore a quanto indicato nelle cifre ufficiali e il Paese ha tutti i numeri per rimettersi in cammino.

La materia è molto tecnica. Quindi, va spiegata con ordine. Il debito sovrano greco è stimato in 318 miliardi di euro, applicando metodologie e procedure Eurostat che sono essenzialmente le stesse di quelle applicate da Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Ocse. Kazarian sostiene che se ciò che in ballo è il fallimento della Repubblica ellenica, al fine di valutare la consistenza effettiva del debito e il suo peso sull’economia occorre impiegare strumenti di contabilità aziendale, per l’appunto gli International accounting standard (Ias), in vigore da diversi anni negli Usa e in Europa.

Gli Ias hanno due colonne: il dare e l’avere. Nella colonna del dare, soprattutto, tengono conto del valore attuale dell’indebitamento. I numerosi riassetti del debito greco effettuati dal 2010 fanno sì che il valore attuale dell’indebitamento sia inferiore al debito nominale computato da Eurostat e altri. Sino a questo punto, il ragionamento di Kazarian tiene: è confermato indirettamente dal fatto che – come notato su queste pagine – il servizio del debito incide sul Pil greco meno di quanto non incidano i servizi del debito di Italia, Spagna e Portogallo sui relativi prodotti nazionali.

La colonna dell’avere contiene stime del valore del patrimonio pubblico greco: dai beni demaniali, alle partecipazioni statali, a beni culturali (quali il Partenone). Ritengo che non si debba tenere conto della colonna dell’avere, sarebbe come se nella contabilità dell’indebitamento italiano si computassero i 3800 miliardi di euro di risparmi delle famiglie e anche il valore del Colosseo e del Duomo di Milano. Se ci sofferma però sul dare, il peso del debito greco scende di 20-25 miliardi di euro. E un percorso di riassetto strutturale appare maggiormente fattibile.

Le imprese non incassano e Renzi si dà del buffone

Le imprese non incassano e Renzi si dà del buffone

Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano

Alla fine al monte Senario non c`è andato nessuno e ai “Servi di Maria”, nel senso dei frati a cui appartiene il relativo convento, non è restato altro che continuare a pregare, lavorare e distillare il liquore “Gemma d’Abeto” come fanno dal 1865. Può sembrare strano, ma il tema di cui si parla è il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione. Breve antefatto. È il 13 marzo 2014 e Matteo Renzi è comodamente assiso sulle poltroncine di Porta a Porta. Bruno Vespa lo titilla sui soldi che lo Stato deve alle imprese, gli propone un suo contratto con gli italiani. Il premier rifiuta, ma s’abbandona alla promessa circostanziata: “Se entro la fine dell’estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei (nel senso di Vespa, ndr) andrà a piedi da Firenze a Monte Senario”. E se lei perde? Chiede speranzoso il conduttore. “So dove mi mandano gli italiani…”, toscaneggia l’ex sindaco: “Il minimo che mi aspetto è che mi chiamino buffone”.

Ecco, il 21 settembre è arrivato e Vespa e Renzi non sono riusciti a mettersi d’accordo su chi aveva vinto e chi perso. Geniale la soluzione svelata dall’uomo della Rai via Twitter il 22 settembre scorso: “Matteo Renzi ha accettato sportivamente di salire con me e altre persone in data da destinarsi al santuario di Monte Senario. Entrambi siamo infatti convinti di aver vinto la scommessa”. La carovana, però, non è ancora partita: entrambi forse sono convinti di aver già fatto la scampagnata. La vita, nell’anno secondo dell’era renziana, è soprattutto una questione di opinioni e pure i frati dovranno farsene una ragione. Resta una domanda: è lecito per gli italiani, col permesso dell’interessato, definire Renzi “buffone”? Insomma, li ha pagati o no questi debiti della Pubblica amministrazione?

I numeri, si sa, sono un po’ freddi, ma lasciano poco spazio a quel tipo di dibattito in cui ci si mette d’accordo sul fatto di non essere d’accordo. Tradotto: la risposta è no, non li ha pagati tutti. Per affermarlo basta prendere per buoni i numeri presenti sul sito del ministero del Tesoro. La cifra da cui partire è la stima fornita da Banca d’Italia sui debiti di Stato e enti locali: 91 miliardi al 31 dicembre 2012, oltre la metà dei quali considerati un picco anomalo dovuto a enormi ritardi nei pagamenti delle fatture (invece di 30 giorni la P.A. pagava a 170 e a volte non lo faceva proprio). Com’è la situazione oggi? A dati aggiornati al 30 gennaio 2015, i soldi stanziati per pagare il dovuto maturato entro il 2012 – che risalgono quasi tutti ai governi di Monti e Letta – sono complessivamente 56 miliardi. Questa cifra, però, esiste solo sulla carta: le risorse effettivamente messe a disposizione degli enti debitori (ministeri, Asl, regioni, enti locali e chi più ne ha più ne metta) ammontano a 42,81 miliardi, vale a dire il 76% dello stanziamento.

E non è finita. Non tutti i soldi esistenti sono già finiti nelle tasche delle imprese: di quei quasi 43 miliardi sono stati pagati davvero 36,483 miliardi, cioè i1 65% del totale ( a ottobre si era fermi a 32,5 miliardi). Ne mancano insomma almeno una ventina persino rispetto a quanto pianificato dal governo. Nel dettaglio, lo Stato centrale ha pagato 5,7 miliardi su sette totali stanziati; le regioni 21,6 su 33; province e comuni 9 su 16,1 miliardi. I settori più colpiti sono quello della sanità e dell’edilizia: recentemente l’associazione dei costruttori (Ance) ha parlato di 10 miliardi di debiti ancora da pagare alle imprese del settore. Poi c’è l’operazione lanciata dal governo Renzi nell’aprile 2014: la certificazione dei crediti maturati entro il 31 dicembre 2013 con apposito modulo sul sito del Tesoro scontabili in banca grazie a una garanzia statale e, in alcuni casi, all’intervento di Cdp. Anche qui la situazione è in chiaroscuro: a fine 2014 risultano registrate alla piattaforma di certificazione dei crediti 20.945 imprese che hanno presentato 91.423 istanze di certificazione per un valore di quasi 9,8 miliardi di euro. Non tutte le istanze digitali, però, risultano già evase dagli enti debitori: esiste, sempre sul sito del Tesoro, una lista di “istanze senza risposta” che ne elenca a migliaia per cifre superiori al miliardo di euro.

Ecco il riassunto di un report realizzato da Impresalavoro su dati Eurostat: “Meno della metà di quanto dovuto è stato pagato: i debiti commerciali maturati dalla P.A. nel 2013 ammontano a 74,2 miliardi di euro, quindi rimangono fuori dall’intervento del governo altri 37,7 miliardi”. La brutta notizia è questa: “Sbaglia, in ogni caso, chi pensa che questi interventi contribuiscano a ridurre sensibilmente lo stock di debito complessivo che lo Stato ha nei confronti delle imprese private. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza: liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo”. Già nel 2014, dice il report, “stimiamo che nel 2014 siano già stati consegnati alla P. A. beni e servizi per un valore di circa 158 miliardi di euro e che, in forza dei tempi medi di pagamento, lo stock complessivo del debito rimane fermo a circa 75 miliardi”. Insomma, se il pubblico non comincia a rispettare i tempi di pagamento delle fatture, il traffico a Monte Senario – almeno quello mentale – aumenterà esponenzialmente.

Con criteri di contabilità diversi il debito pubblico della Grecia potrebbe risultare ben più basso

Con criteri di contabilità diversi il debito pubblico della Grecia potrebbe risultare ben più basso

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Nel gioco a due livelli in cui è impegnata Atene, le misure previste riguardano da un lato un maggiore impegno nella lotta all’evasione e nella produttività dell’amministrazione (‘credibilità’ rispetto ai partner dell’eurogruppo), dall’altro nell’aumento delle pensioni più basse (‘popolarità’ di fronte ai propri elettori). Un vero e proprio esercizio di equilibrio giacché Tsipras aveva fatto ben altre promesse in campagna elettorale.

Tuttavia, un supporto importante (per Tsipras) potrebbe venire da nuove stime sulla consistenza del debito. Secondo l’economista e finanziarie Paul B. Kazarian, che ha lavorato a lungo per Goldman Sachs prima di creare una propria finanziaria con la quale ha acquistato alla grande titoli del debito pubblico greco, se si applicano criteri di contabilità aziendale (gli International Accountin Standards) e non quelli della contabilità economica nazionale il debito ‘netto’ della Grecia risulta notevolmente inferiore ai computi correnti. Pur non condividendo molti punti del documento di Kazarian, occorre ammettere che i numerosi riassetti effettuati dal 2010 fanno sì che il valore attuale del debito sia inferiore al valore nominale: ciò è confermato indirettamente dal fatto che il servizio del debito incide sul Pil greco meno di quanto non incidano i servizi del debito di Italia, Spagna e Portogallo sui relativi prodotti nazionali. A spanne, si può dire che il peso del debito greco sul Pil scende da 318 miliardi di euro a circa 290 dando maggior spazio a tempi per l’aggiustamento strutturale.

Occorre però chiedersi se le misure contemplate nel documento della Grecia sono tali da favorire quella crescita accelerata che rimane l’unico rimedio per risolvere nel lungo periodo i nodi del Paese. Oggi viene pubblicato un documento del centro studi ImpresaLavoro che ha coordinato dieci pensatoi economici europei (ma non ce n’è alcuno greco) secondo cui l’ingrediente essenziale consiste nell’ampliare la libertà d’impresa. A conclusioni analoghe giunge un documento, diramato il 23 febbraio, in cui le banche nazionali di Belgio, Francia, Finlandia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, e la stessa Bce commentano (unitariamente) i primi due anni di applicazione di nuove regole del Fondo monetario sulla vigilanza e analisi economica in Europa.

Popolari, quei tre punti oscuri sul gioco di mano del governo

Popolari, quei tre punti oscuri sul gioco di mano del governo

Renato Brunetta – Il Giornale

Jobs Act e investment compact : siamo tornati all’inglesorum di palazzo Chigi, definito da Guido Rossi ai tempi di D’Alema come «L’unica merchant bank in cui non si parla inglese». Oggi parliamo di Investment compact, balzato agli onori della cronaca per il pasticcio della riforma delle banche popolari. Le «questioni», di metodo e di merito, aperte sono diverse: 1) il ricorso, da parte del governo, allo strumento del decreto legge; 2) il rischio di insider trading e le altre indagini in corso 3) il merito della norma.

Il ricorso al decreto legge
La vicenda del decreto di riforma delle banche popolari rappresenta o rischia di rappresentare una delle pagine più oscure del governo Renzi. È di venerdì 16 gennaio, a chiusura dei mercati, la prima agenzia di stampa che annuncia l’imminente provvedimento. E la prima informazione ufficiale si riferisce, come affermato dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta in Parlamento, a una comunicazione che il presidente del Consiglio fa al suo partito, nel corso della riunione della direzione del Pd alle 17.30. Appare già strano che su una materia tanto sensibile un presidente del Consiglio decida di anticipare i contenuti e l’uso del decreto legge in una riunione di un club privato. Tanto più che inizialmente la riforma doveva essere prevista all’interno del disegno di legge sulla concorrenza ma, invece, improvvisamente, è diventata particolarmente urgente. Il 20 gennaio il consiglio dei ministri dà via libera al decreto che, effettivamente, contiene la norma che impone alle banche popolari con attivo superiore a 8 miliardi di euro la trasformazione in società per azioni. Il governo, quindi, ha avuto la «sfrontatezza» di imporre per decreto una rivoluzione nella governance di un sistema che, negli anni della crisi e del credit crunch , è stato l’unico a ridare fiducia e credito a famiglie e imprese. Imposizione, quella del governo, priva di presupposti di necessità e urgenza, fondamentali, pena l’incostituzionalità del provvedimento, per poter emanare un decreto legge.

Il rischio di insider trading
Un altro aspetto della vicenda sono gli effetti che la notizia della riforma ha avuto sui mercati finanziari, con rialzi a due cifre di tutte le banche coinvolte. Non può, quindi, passare in secondo piano il dubbio di azioni promosse, in maniera consapevole e attenta, a seguito, evidentemente, dell’entrata in possesso di informazioni privilegiate. Ciò che si prefigura davanti ai nostri occhi e agli occhi dei cittadini è, pertanto, l’immagine di un governo che si presta, di fatto, a varie mani: mani che prendono informazioni, mani che cambiano testi all’ultimo momento, mani che scrivono all’ultimo momento, mani invisibili, mani di fata che, in realtà, hanno un ruolo chiave nell’attività dell’esecutivo.

Il merito della norma
Come sottolineato più volte dal governo, anche Fondo monetario internazionale, Commissione europea e Banca d’Italia hanno segnalato i rischi che il mantenimento della forma cooperativa determina per le banche popolari maggiori, quali: 1) la scarsa partecipazione dei soci in assemblea; 2) gli scarsi incentivi al controllo costante sugli amministratori; 3) la difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato e, quindi, di assicurare la sussistenza dei fondi che potrebbero essere necessari per esigenze di rafforzamento patrimoniale. In particolare, in un working paper dal titolo «Reforming the Corporate Governance of Italian Banks» , il Fondo Monetario Internazionale sosteneva la necessità per le banche popolari più grandi di trasformarsi in società per azioni. Le banche popolari nascono con un raggio di azione limitato ad aree geografiche definite, ma oggi la loro struttura attuale pare, agli occhi del Fmi, inadeguata, in quanto questo tipo di istituto di credito opera a livello nazionale e internazionale, e alcune di esse sono addirittura quotate in Borsa. Secondo il paper del Fondo, la riforma delle banche popolari migliorerebbe la governance di tali istituti.

L’anomalia della soglia degli 8 miliardi di attivo
Ma attenzione, né il Fondo monetario internazionale né la Banca d’Italia individuavano una soglia oltre la quale far intervenire la riforma. Ci si limitava a riferirsi agli istituti di maggiori dimensioni o quotati in Borsa. Quanto all’idoneità della soglia dimensionale prescelta, individuata dal provvedimento normativo in 8 miliardi di euro di totale attivo, il governo giustifica la sua scelta dimensionale come «equidistante tra il gruppo delle banche popolari quotate e il gruppo delle banche popolari più piccole». Tuttavia, tale soglia non trova riscontro in alcuna normativa esistente, primaria o secondaria, nazionale o internazionale. Sarebbe ben più fondato restringere l’ambito di applicazione della norma solo alle banche popolari quotate ed elevare la soglia a 30 miliardi. Una ulteriore soluzione alternativa potrebbe essere anche quella di prevedere una soglia di 20 miliardi di euro per le banche che, a decorrere dall’anno 2014, hanno effettuato acquisizioni e/o fusioni. Inoltre, sempre per queste banche, andrebbe concesso un termine più ampio per adeguarsi alla nuova disciplina, elevando i diciotto mesi attualmente previsti dalla normativa transitoria a quattro anni. Sul tema delle popolari e sul tema delle riforme, in Europa si discutono dossier da almeno dieci anni. E il tema non è solo italiano, anzi. Non riguarda neanche tanto l’area sud dell’Europa, ma, al contrario, soprattutto l’area nord dell’Europa: quella tedesca e olandese. Il fatto che se ne discuta da almeno dieci anni fa riflettere del perché non si sia ancora deciso in maniera drastica, tranchant, nonostante gli stimoli, gli incentivi, le richieste da parte dell’Unione europea nel merito. Quindi, nulla quaestio sul tema, sul merito del tema, che cioè debolezza, autoreferenzialità, inefficienza siano elementi da trattare e da superare. Il problema è il modo. Noi chiediamo al governo di fare chiarezza in merito alle ombre dell’ insider trading che circondano le vicende che hanno portato all’emanazione del decreto legge di riforma delle banche popolari. Vanno inoltre chiariti quei passaggi che hanno indotto il governo a decidere di procedere su un tema così delicato e complesso con lo strumento del decreto legge, tra l’altro proprio in un lasso di tempo in cui la presidenza della Repubblica era vacante.

In sintesi, il Paese non solo vuole chiarezza, ma anche una buona riforma che non distrugga o porti alla svendita di una cultura economica e finanziaria che è patrimonio del paese. La chiarezza non è certamente venuta da Matteo Renzi, nella sua ultima performance a Porta a Porta , quando si è limitato a dire alcune ovvietà (chi deve pagare paghi, chi è responsabile risponda, ecc.: concetti più degni di Chance, il giardiniere dello strepitoso Peter Sellers). Caro Renzi-Chance, la moglie di Cesare non solo deve essere onesta, ma anche apparire tale.

Il vero nemico è l’esattore, non l’evasore

Il vero nemico è l’esattore, non l’evasore

Nicola Porro – Il Giornale

Di fisco si parla molto. Qualcuno può pensare anche troppo. Ma il punto di vista da cui si parte, per carità sacrosanto, è quasi sempre tecnico. Possiamo dividere in due gli approcci. Il primo è quello microeconomico, per così dire ragionieristico: l’Irap è una tassa assurda perché colpisce anche il costo del lavoro e gli interessi passivi, oppure la progressività delle imposte sulle persone è eccessiva. Un secondo approccio è più macro: la pressione fiscale deprime i consumi, l’aumento delle imposte indirette potrebbe distorcere il mercato.

È molto più difficile assistere ad un dibattito più filosofico sul tema delle imposte. Meno economico e più culturale. In una certa misura la sinistra è stata più abile in questo campo. Ha cercato di dare una giustificazione sociale all’imposizione: le tasse sono belle; grazie ai tributi si sostengono i più deboli; è necessaria una redistribuzione dei redditi. Ecco. Una delle battaglie oggi dovrebbe essere proprio la riscoperta dei fondamenti filosofici e culturali per i quali un liberale non può che essere allergico alla natura stessa dell’imposizione fiscale. La circostanza fortunata per la quale l’eccesso di tasse riduce gli incentivi a produrre e lavorare e dunque ad accrescere la ricchezza di un Paese è solo il risvolto pratico di una critica ben più profonda che dovremmo fare alle tasse in sé. Per farla breve, il fatto che le troppe tasse facciano ammalare un’economia (cosa su cui oggi a parole praticamente tutti concordano) ha il valore di una tacca sul termometro di mercurio: il vero problema è la malattia. E adesso la scopriamo.

Il più lucido in Italia a scrivere di questi argomenti è, ed è stato, Antonio Martino. Vi citiamo solo qualche passaggio di “Stato padrone” (Sperling & Kupfer): «Vi è una relazione inversa tra Fisco e libertà personale. Il fatto che la fiscalità abbia una forma monetaria non dovrebbe trarre in inganno: per poterci procurare i soldi da versare all’erario dobbiamo lavorare». Il principio è semplice: la tassazione equivale da un punto di vista logico alla sottrazione dei propri spazi di libertà. Se per sei mesi l’anno lavoro per procurarmi le risorse da fornire allo Stato sono di fatto un suo schiavo, anche se a mezzo servizio. Questa impostazione comporta molte conseguenze. In modo apodittico, ma chiaro Martino scrive: «Non mi stancherò mai di ripetere che il nostro vero nemico non è l’evasore, ma l’esattore. Se la fiscalità è eccessiva, ciò non è certo dovuto al fatto che gli altri non pagano o pagano poco, ma al livello esorbitante raggiunto dalla spesa pubblica: la causa dell’iperfiscalità è lo statalismo, non l’evasione». Le principali critiche all’eccesso di tasse non sono dunque economiche, ma filosofiche: esse minano la nostra libertà.

Meno salvataggi, più investimenti

Meno salvataggi, più investimenti

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Michele Ferrero è stato un imprenditore senza eguali. E non solo perché ha costruito un gigante mondiale dell’industria dolciaria, grazie solo alle sue intuizioni e alle sue proverbiali doti di laboriosità e tenacia. Ma, anche, perché ha fatto tutto questo rifuggendo dai salotti e salottini del capitalismo relazionale e dalle suggestioni della finanza creativa, optando per una visione dell’impresa che cresce in complicità con i dipendenti e il territorio – offrendo loro, negli anni del conflitto di classe, un Welfare sui generis – e affonda le radici nel rapporto di fiducia tra i suoi prodotti e il consumatore.

Pensavo a questa unicità quando, nei banchi della cattedrale di Alba, partecipando al suo funerale, osservavo che tra le tante personalità venute a rendergli omaggio ci fossero meno imprenditori famosi di quanto sarebbe stato doveroso che fosse. E mi è venuto spontaneo rimuginare le pagine dell’ultimo libro di Giuseppe Berta (La via del Nord, Il Mulino), nel quale lo storico dell’economia dice di aver perso ogni residua speranza che gli imprenditori settentrionali riescano ad adattare il vecchio triangolo industriale all’economia del nuovo millennio. E mi è venuto di pensare che non saprei fare un nome di chi, oggi, potrebbe portare un’azienda dalla dimensione locale a quella mondiale, senza passare né per la Borsa né per acquisizioni, come ha fatto Ferrero. Non è un caso che le esportazioni agroalimentari italiane siano inferiori a quelle tedesche: in questa filiera, come in quasi tutto il manifatturiero, l’Italia, a differenza della Germania, non ha puntato sulle produzioni ad alto valore aggiunto, sull’innovazione dei prodotti e dei processi, sul trasferimento di conoscenze ai lavoratori. E non è un caso che il nostro export copra meno di un terzo del pil, mentre quello tedesco oltre la metà.

Purtroppo la politica industriale italiana degli ultimi anni è consistita esclusivamente nel salvare aziende decotte e posti di lavoro inesistenti, in una forma di patologico accanimento terapeutico. Nonostante che dal 2008 ad oggi siano fallite 82mila imprese (con la perdita di un milione di occupati) e si sia bruciato il 25% della capacità produttiva, nuove Ferrero all’orizzonte non sono spuntate. Anzi, ogni anno sono nate sempre meno imprese (nel 2013 -11,1% rispetto al 2007). Perciò vanno nella giusta direzione le misure dell’Investment Compact che allargano per le start-up le agevolazioni legate al concetto di innovazione, comprendendo anche quella non tecnologica; meno quelle che prevedono la creazione di una società per le ristrutturazioni industriali.

Non ci servono salvataggi ma investimenti massicci (anche pubblici) per colmare i buchi di un capitalismo sempre più a macchia di leopardo, con poche eccellenze di nicchie e troppi vuoti nei settori più strategici. Occorre progettare il riposizionamento del nostro sistema produttivo. Avendo coscienza che, visto il nostro declino, da soli non possiamo farcela. Per fare la rivoluzione industriale abbiamo bisogno della grande finanza mondiale – avendo cura di selezionarla, non tutti gli investitori sono uguali – e di alleanze industriali strategiche e solide in Europa. Possibilmente tenendo conto delle scelte geopolitiche che i grandi nodi dello scacchiere mondiali (Grecia, Libia, Russia-Ucraina) comunque ci imporranno di fare.

RilottizzeRai

RilottizzeRai

Davide Giacalone – Libero

Anziché ascoltare i consiglieri si ascoltino gli elettori. Se Matteo Renzi sta cercando idee per la Rai, un suggerimento lo avrei: dia retta agli italiani. E’ più facile di quel che si crede. Pare sia intenzionato a liberare la Rai dalla lottizzazione e dalle presenze, oltre tutto sempre più dequalificate, dei partiti politici. Bravissimo. Applaudo. Ma come? Semplice: l’11 giugno del 1995, or sono vent’anni, gli italiani furono chiamati a votare, fra gli altri, tre referendum. Due erano proposti dal Pds, il Pd di allora, e chiedevano di cancellare la legge esistente sia per quel che riguardava le concentrazioni che per la raccolta pubblicitaria. Gli italiani risposero di no, bocciando l’iniziativa. Uno, però, proposto dai radicali, proponeva di cancellare la legge che obbligava a mantenere pubblica la Rai, aprendo la via alla privatizzazione. Gli italiani votarono a favore (57% dei partecipanti e 54,90% dei consensi). Quella è la soluzione. Ci si libererebbe anche del canone, e scusate se è poco.

Non lo è, invece, come si dice il governo voglia fare, trasferire al proprietà a una fondazione, cui spetterebbe anche il compito di nominare i consiglieri d’amministrazione. Qualcuno s’incarichi di ricordare ai più giovani che la proprietà della Rai è già stata trasferita, ma finché resta in mani pubbliche è ovvio che la nomina dei vertici resta politica. Si può cancellare la lottizzazione, ovvero la spartizione, facendo in modo che prenda tutto uno. Ma in questo modo non vengono meno le mani politiche sulla Rai, semplicemente la mano diventa una. Che è peggio, non meglio.

Si dirà: ma la fondazione sarebbe di alto valore culturale e indipendente. In quel caso va messo l’antitrust alle scemenze, perché non ho mai visto nascere nulla con l’intento che sia di livello triviale e con vocazione alla sudditanza. Ma lì finisce. Se non è zuppa è pan bagnato. Allora, come si può procedere? Intanto evitando di discutere come se fossimo nello scorso secolo, analogico. Con il digitale tutte le imprese televisive si sono dotate di numerosi canali (altro che tre!). La soglia d’accesso a quel mercato s’è abbassata al punto che anche chi non era editore televisivo (le radio e i giornali, ad esempio) lo è diventato. Ciò comporta che non c’è alcun pericolo venga meno il pluralismo, a presidiare il quale bastano le leggi regolanti il mercato. Ciò non garantisce certo il venir meno del conformismo, ma neanche il cosiddetto (e inesistente) “servizio pubblico” ne è capace. Anzi: ne è uno dei più fantastici contenitori.

La Rai è ricca di impianti e sistemi produttivi. Si vendano, all’asta e prevenendo le concentrazioni. Ci si fanno bei soldi (da destinare al calo del debito) e si rende migliore il mercato. Segnalo, però, che con la quotazione di RaiWay il governo Renzi ha fatto il contrario, finanziando la lottizzazione. Il patrimonio culturale, che è degli italiani, non consiste nella produzione Rai, ma nel suo magazzino, nella sua storia, che è storia d’Italia. Se ne apra l’utilizzo a chi lo chiede. Naturalmente a pagamento.

Può, un Paese, fare a meno del servizio pubblico, esercitato da una società pubblica? Sì, nel mondo digitale può. Eccome. Perché il video non sia precluso alle minoranze basterà regolare quegli accessi e obbligare le emittenti a rendere disponibili gli spazi. Senza remunerazione specifica, perché si tratterebbe di un obbligo derivante da un titolo pubblico (l’autorizzazione a trasmettere). Senza canone, quindi. E senza l’idea bislacca di metterlo nella bolletta elettrica, o di dimezzarlo per poi raddoppiarne o triplicarne i pagamenti dovuti (tutta roma anticipata e poi ritirata dal governo). Il consiglio d’amministrazione in carica, di cui non si ricorda un solo atto degno di nota, scade ad aprile. Se si volesse intervenire sul meccanismo di rinnovo lo si dovrebbe fare per decreto legge. Obbrobrio. Orrido precedente. Al punto che Palazzo Chigi ha smentito d’averlo in mente. E ci mancava solo quello. Più facile e onesto avviare le procedure di vendita, considerando ininfluente chi amministrerà solo per pochi mesi.

Ha detto Renzi: “Vogliamo fare della televisione di Stato la più innovativa azienda di produzione culturale”. Quella era la Rai di Ettore Bernabei, governante Amintore Fanfani. Non starò a ricordare che era la sinistra a ritenerla uno sfregio alla libertà e alla democrazia, mi limiterò ad osservare che cercare in quel passato l’innovazione significa essersi dimenticati con quale sistema si ovviò al monocolore televisivo, a gran richiesta e con il plauso della sinistra: con la lottizzazione.

Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni

Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nell’ultimo mese, una serie di articoli su Formiche.net hanno cercato di fare il punto sulle privatizzazioni. È venuto il momento di arrivare ad alcune conclusioni. Almeno per ora, la materia è in rapida evoluzione e non è detto che non ci siamo svolte improvvise. In una direzione o in un’altra.

Per tre lustri, redigo il capitolo sulle privatizzazioni del Rapporto Annuale sulla Liberalizzazione della Società Italiana pubblicato dall’editore Rubbettino. Mi sono gradualmente convinto che in Italia le privatizzazioni hanno, come la borghesia del noto film di Bunuel, uno ‘charme discreto’: affascinano tutti ma quanto si arriva al dunque viene fatto molto meno di quanto sperato. Oppure – ancora peggio – si nazionalizza più di quanto non si privatizzi. A fine 2014, il più diffuso quotidiano italiano dedicava tre pagine alle privatizzazione in programma per il 2015, iniziato da poche settimane. Dimenticava, però, di dire che i Governi ed i Parlamenti succedutesi dal 2011 hanno portato a termine unicamente la privatizzazione dell’UNICI, l’unione degli ufficiali in congedo, in pratica un circolo ricreativo. È stata, invero, portata in Borsa Fincantieri ma ha ottenuto giusto i fondi (350 milioni) per sostenere il suo piano di sviluppo.

Cdp Reti – che ingloba le partecipazioni di controllo di Terna e Snam già in portafoglio di Cdp – ha fruttato 2,1 miliardi con la cessione del 35% alla State Grid of China, ma serviranno altri passaggi come un dividendo straordinario per far tornare quelle risorse ai soci. Dopo molti tentennamenti, ha varcato la porta di Palazzo Mezzanotte anche RaiWay, essenzialmente però per rendere possibile una riduzione dei contributi pubblici a quella Rai che, come si è visto nel primo di questi articoli, dovrebbe essere “la madre di tutte le privatizzazioni”, secondo un documento dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, organismo internazionale distinto e distante dalle nostre beghe.

Il Governo Renzi ha annunciato privatizzazioni per 11,2 miliardi all’anno fino al 2017, contro gli 8 miliardi fino al 2016, contemplati dal Governo Letta. Tuttavia, oggi è ancora meno chiara di dieci-quindici anni fa quella che gli economisti chiamano la funzione obiettivo delle privatizzazioni: in che misura vengono invocate per ‘fare cassa’ ed alleggerire il debito pubblico ed in che misura per rendere più efficiente il sistema complessivo ed aumentare la produttività multifattoriale. Allora la priorità della riduzione del debito pubblico era chiara ed iscritta nella normativa, tanto che i proventi delle privatizzazione venivano direttamente incanalati in un fondo speciale per alleggerire il fardello del debito. Adesso, anche ove in tre anni si privatizzasse per 33-34 miliardi, si scalfirebbe appena uno stock di debito pubblico attorno a 2.200 miliardi. A maggior ragione, quindi, occorre essere chiari sugli obiettivi. Altrimenti, lo charme discreto diventa come quella catenine d’argento che si regalano per i Battesimi, “così fini, così fini – diceva Petrolini – che non si vedono nemmeno”.

Inoltre, allo charme discreto delle privatizzazioni si contrappongono mani pubbliche sempre più tentacolari. È di questi giorni il ritorno alla grande del Tesoro come azionista del Monte dei Paschi di Siena. Aumentano le voci di una bad bank pubblica per alloggiare (sulle spalle dei contribuenti) le sofferenze di istituti di credito privati. È ormai scontato un intervento pubblico “temporaneo” per l’Ilva. È in fase avanzata il progetto di un fondo per l’ingresso anche esso ‘temporaneo’ nel capitale di aziende in crisi. Lo “charme” rischia di diventare troppo discreto.

Italia inferno fiscale

Italia inferno fiscale

Carlo Lottieri – Il Giornale

Che l’Italia non fosse un paradiso fiscale era chiaro a tutti da tempo. Ora, una ricerca del centro studi ImpresaLavoro (un think tank di recente costituzione presieduto da Massimo Blasoni) giunge addirittura alla conclusione che il nostro Paese sarebbe la maglia nera in Europa: un autentico inferno fiscale che disincentiva a risparmiare, lavorare, investire.

Frutto dell’elaborazione di indagini appositamente condotte da studiosi (o gruppi di studiosi) di dieci Paesi, la ricerca ha esaminato il sistema tributario del Vecchio continente valutando quattro distinti parametri: la tassazione complessiva; la struttura dell’imposizione così come è descritta dall’Itr in rapporto al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la complessità amministrativa delle procedure burocratiche necessarie agli adempimenti tributari; il livello di decentramento e concorrenza tra i governi locali. Il risultato è inequivocabile e colloca al primo posto la Svizzera e, in fondo alla classifica, oltre a noi, anche i cugini francesi.

Nel «pesare» i diversi elementi che definiscono l’indice finale, un rilievo inferiore è stato attribuito alla concorrenza tra ordinamenti fiscali, dal momento che si tratta di un dato che condiziona l’imposizione (dove c’è più competizione territoriale, il prelievo tende a essere minore) e non già di un elemento che descrive l’imposizione stessa. Ma è fuori di dubbio che mettere in concorrenza le amministrazioni locali, come avviene in Svizzera, aiuta a contenere il prelievo. Lasciando da parte il caso elvetico, davvero assai peculiare e comunque esterno all’Unione, lo studio evidenzia come situazioni in qualche misura avvantaggiate siano quelle dei Paesi ex-comunisti: Lituania e Repubblica Ceca, ma perfino Bulgaria e Romania. In vari casi lì si è avuto il coraggio di operare scelte radicali che non disincentivassero le attività economiche (la flat tax , ad esempio) e favorissero una semplificazione del prelievo. Ora i risultati si vedono.

Dallo studio esce anche ridimensionato il luogo comune che tradizionalmente identificava l’Europa settentrionale con i regimi più rapaci. Le vecchie socialdemocrazie scandinave, infatti, hanno ancora un prelievo fiscale elevato, ma hanno saputo fare qualche passo nella giusta direzione. Così la Svezia di oggi è un po’ diversa da quella che obbligava registi e tennisti ad andarsene a Montecarlo e, anche se resta nel gruppo dei Paesi ad alta tassazione, per certi aspetti la sua esperienza può addirittura insegnare come si possa riformare nella giusta direzione una società altamente statizzata. Al di là di questo o quel caso specifico, nell’insieme lo studio mostra come l’Europa intera sia in una grave crisi proprio perché la quota di risorse prelevate dall’apparato pubblico ha raggiunto livelli troppo elevati. In questo senso, l’Italia è all’avanguardia di un processo che, però, sembra davvero risparmiare ben pochi.

Oltre a ciò, lo studio mostra come la crescita dell’Unione (accompagnata per giunta da un processo di espansione verso Est) abbia finito per creare nuovi meccanismi di estrazione e redistribuzione delle risorse. Il lavoro di Petar Ganev evidenzia che oggi il bilancio pubblico di un Paese come la Bulgaria si regga in parte su risorse provenienti da fuori e indirizzate lì da Bruxelles. In altri termini, alla redistribuzione interna si è progressivamente sovrapposta una redistribuzione di marca continentale.

L’esame delle economie europee sembra pure suggerire una solida correlazione tra oneri burocratici ed entità del prelievo. I Paesi a più alta tassazione sono anche quelli in cui la regolazione è particolarmente minuziosa e pervasiva, mentre – ed è comprensibile – le società più liberali tassano meno e regolano meno. Questo però induce a pensare che una larga parte del sistema burocratico (i famosi «lacci e lacciuoli» di cui parlava Guido Carli) sia impossibile da eliminare senza un ridimensionamento di imposte e spesa pubblica. In tal senso, sebbene sia interamente focalizzata sul lato delle entrate, l’indagine del centro studi di Udine aiuta a comprendere come la volontà degli europei di non riformare i propri sistemi di Welfare (costosi e pesanti, oltre che molto inefficienti) ne metta a rischio il futuro. O l’Europa lo comprende alla svelta, o continuerà a declinare.

Prorogando il rinvio

Prorogando il rinvio

Davide Giacalone – Libero

Correre si corre, ma a prorogare e posticipare. Nelle stesse ore in cui l’attuazione della delega fiscale, approvata dal Parlamento un anno fa, veniva ulteriormente posticipata, al punto che della parte più sostanziosa se ne parlerà entro settembre, la Camera votava la fiducia al governo, posta sulla conversione in legge del decreto Milleproroghe. Un mostro che, oramai, accomuna tutti i governi e si ritiene normale esista. Quel decreto, però, scade fra dieci giorni, quindi ora si deve correre al Senato, e il cielo non voglia che non si proroghino i mille ritardi legislativi e governativi. Che non sono figli solo di svogliatezza e complicità, dato che molti devono i natali all’incapacità.

Pensate alla faccenda delle frequenze televisive, che qui abbiamo già raccontato: mentre giornali e pensatori venivano mandati fuori a giocare, discutendo di sconti e regali a questo o a quello, accadeva prima che con un decreto legge si smentisse un decreto legge, togliendo all’Autorità delle comunicazioni un compito che le si era assegnato, poi che si scoprisse non solo lo sgorbio che ne nasceva (come qui avvertito), ma che si pretendeva di far pagare l’affitto a quelli che non erano più gli affittuari (alle emittenti televisive anziché agli esercenti le reti), in una gara a chi commette l’errore più marchiano. Sicché s’è risolta la faccenda prorogando il passato, che almeno un gettito lo assicurava. E di storie come queste “a mille ce n’è nel mio cuore da narrar”, come avvertivano melodiose le “fiabe sonore” della nostra infanzia. Appunto: a mille-proroghe.

Ieri s’è detto, al Consiglio dei ministri, che i tre decreti legislativi in materia fiscale (catasto, fatturazione elettronica e internazionalizzazione delle imprese), non potevano essere discussi perché il ministro dell’economia era assente, impegnato con l’Eurogruppo. Se ne riparlerà fra una decina di giorni. Spero, almeno a testimonianza che l’intelligenza è sopravvissuta, che a qualcuno non sia sfuggita la perfida ironia: si potevano discutere i decreti fiscali alla presenza del ministro competente, ma tenuto all’oscuro di quel che contenevano (il celebre 3% quale esimente per l’avvio del procedimento penale in caso di evasione), ma non si possono discutere con lui assente, benché concordati. Se fosse vera una simile versione si sarebbe potuto procedere diversamente: i decreti venivano posti in discussione e varati, ove non vi fossero state obiezioni; mentre se ne sarebbe rinviata la discussione ove fossero sorti dei dubbi o dei contrasti. Il che risulta piuttosto difficile, visto che la volta scorsa manco s’accorsero di cosa c’era scritto, finché non fu fatto notare dai primi lettori del testo, ovviamente non componenti il Consiglio dei ministri.

Per il governo che corre e s’affretta, la formula qui proposta sarebbe stata più consona. Invece no, hanno rinviato. Come se il varo di un decreto fosse il parto (comunque non rinviabile) cui il futuro babbo intende assistere. La verità è più prosaica: come dimostra il pasticcio dell’imposta sul deposito in banca del denaro contante, che c’era eccome nei documenti preparatori, questi decreti sono il frutto d’insalsicciamenti in cui ciascuno porta il proprio ingrediente, scoprendosi poi che gli uni supponevano fosse un cotechino e gli altri un salame di cioccolata. Un tempo esisteva la regia di Palazzo Chigi, per le stesure definitive. Ora si deve rinviare, per evitare altri scivoloni. Tutto qui.

Peccato che se t’inventi il nome di “certezza del diritto”, per giunta fiscale, e poi metti in scena solo la certezza del rinvio, l’impressione che ingeneri è che il diritto sia nebbioso e incerto, consegnando tutti in balia di toghe che s’esprimono negli anni. Il che nuoce gravemente alla salute produttiva. Oltre a scoraggiare chi voglia investire. Per sfortunata coincidenza, inoltre, tutto questo accade assieme ai supplementari della partita greca. La sostanza è definita, l’apparenza va sistemata. Non era un giallo di Christie, Doyle o Simenon, in cui si deve scoprire come va a finire e chi è l’assassino, semmai una trama alla Levison e Link (il tenente Colombo): sai già chi è l’assassino, lo spettacolo consiste nel vedere come ci si arriva. Ecco, ad Atene, dopo avere riempito i giornali di moda maschile e fatto scrivere fiumi di amenità, hanno scoperto l’ovvio: se rinvii sempre le cose da farsi, o addirittura le neghi, il tempo che perdi non passa in cavalleria, sei tu che passi alla cassa per pagarlo.