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A Landini non resta che lo share

A Landini non resta che lo share

Il Foglio

Cinque adesioni su 1.478 dipendenti. È il risultato dello sciopero indetto per il 14 febbraio e per i prossimi due altri sabati, dalla Fiom-Cgil nello stabilimento Fiat Chrysler Automobiles di Pomigliano d’Arco, dove si produce la Panda per la quale c’è un boom di richieste. Il sindacato di Maurizio Landini era stato l’unico a prendere le distanze da quanti – compreso il segretario generale della Cgil Susanna Camusso – avevano salutato come assolutamente, e diremmo ovviamente, positivo l’annuncio di Sergio Marchionne di 1.500 nuove assunzioni all’altra fabbrica di Melfi, oltre alla fine della cassa integrazione. Da Melfi escono la Jeep Renegade, che ha avuto in Italia ed Europa un grande successo e che ora verrà esportata negli Usa, e la nuova 500X, sulla quale sono riposte altrettante attese.

In generale è tutto il settore auto – in pratica FCA – ad aver già registrato un record di produzione a dicembre, più 30,4 per cento rispetto allo stesso mese 2013, e oltre il nove per cento nell’intero anno: una buona spinta alla fine della recessione. A poche ore dalla diffusione di questi dati la Fiom ha invece proclamato i tre sabati di sciopero presentandoli come “non ideologici ma sull’organizzazione dei turni”. Landini, che ha portato Marchionne in tribunale e davanti alla Corte costituzionale (che gli ha dato ragione) proprio per il referendum di Pomigliano che aveva visto sconfitta la Fiom, furoreggia sui media e nei talk-show, dove già minimizza il flop: “Non sono pentito, sapevo che sarebbe andata così”. Non gli resta che lo share. Quello televisivo però, perché in fabbrica è un po’ bassino: cinque su 1.478 equivalgono allo 0,33 per cento.

L’urgenza di ridefinire il servizio universale

L’urgenza di ridefinire il servizio universale

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

Grande anno il 2015 per le Poste Italiane. L’amministratore delegato Caio ha appena iniziato un tour del Belpaese per spiegarne il piano industriale e la quotazione in borsa della società non dovrebbe farsi attendere troppo. Nelle interviste che il capoazienda sta rilasciando per spiegare il futuro di Poste, egli si pone in termini problematici la questione di come si debba intendere l’obbligo (remunerato) di servizio universale assunto dalla sua impresa in un mondo in cui c’è sempre meno corrispondenza. Posto che non si vuole negare alla vecchina che abita nello sperduto paesello di montagna il diritto a ricevere la cartolina del nipotino in vacanza, si pongono comunque alcuni interrogativi. Sicurezza della consegna o velocità? Che remunerazione del servizio? Per aiutare gli spunti di riflessione, capita a proposito la pubblicazione di un paper dell’Istituto Bruno Leoni, scritto da Giacomo Lev Mannheimer, che cerca di fare il punto della situazione su un piccolo ma non irrilevante monopolio di cui gode Poste Italiane, la notifica degli atti giudiziari.

Il processo di liberalizzazione dell’attività di consegna della posta é cominciato negli anni ’90 ed è ininterrottamente proseguito nel quindicennio successivo. Attualmente le riserve a favore di Poste Italiane non sono molte, in particolare le notificazioni a mezzo posta degli atti giudiziari e degli atti relativi a violazioni del Codice della strada. Entrambe le attività rientrano in quello che viene chiamato “servizio universale riservato”. Quando il dipendente di Poste consegna un atto giudiziario assume la qualifica di “pubblico ufficiale” ma, se ad essere notificato è un ricorso tributario, questo può essere tranquillamente portato a destinazione anche da un operatore privato. Inoltre molte pubbliche amministrazioni che spediscono atti di altra natura – principalmente Comuni e tribunali – già si affidano a società private che hanno scelto attraverso una procedura competitiva.

Già tale bizzarra differenziazione dovrebbe farci chiedere quale sia la differenza tra documenti comunali, atti giudiziari di stampo tributario e gli atti di altri giudizi così rilevante da giustificare un diverso trattamento. Ed in effetti, l’Autorità delle Comunicazioni (AGCOM) ha stabilito nel 2012 che non c’erano ragioni logiche per considerare la consegna di atti giudiziari come un servizio universale né tantomeno da offrire in regime di esclusiva. Secondo l’AGCOM, il regime di monopolio ha la conseguenza di mantenere i prezzi alti rispetto a quelli che scaturirebbero dal gioco delle forze di mercato (concetto in linea con la teoria economica generalmente accettata) e, vista anche l’esistenza di alternative come i messi giudiziari e la PEC, non si capisce perché bisognerebbe precludere ad imprese private, debitamente autorizzate, di operare anche nelle notifiche giudiziarie.

Il servizio universale, peraltro, anche secondo la normativa europea, tendenzialmente é un obbligo che può generare perdite e quindi può essere finanziato dallo Stato. Tuttavia esso va attribuito con procedure di appalto pubblico a chi é in grado di svolgerlo meglio: insomma, l’esatto contrario di quello che succede per le spedizioni di multe e atti giudiziari, assegnati senza gara alle Poste, pur essendo una prestazione che potrebbe essere svolta da concorrenti e per di più profittevole. Insomma, se, come si dice, il disegno di legge sulla concorrenza che il governo dovrebbe presentare nel prossimo futuro contenesse anche l’abolizione di questa riserva, si metterebbe fine ad una situazione che ormai non è più giustificata. Peraltro, l’esempio degli atti giudiziari e delle multe stradali dovrebbe indurre ad una riflessione più ampia, sia sui limiti del servizio universale sia sulle società designate al suo svolgimento.

Ad esempio se pensiamo alla RAI, siamo certi che il servizio pubblico per il quale essa è remunerata con i soldi del contribuente non sia definito in maniera troppo ampia e comunque non potrebbe essere svolto anche dai suoi attuali concorrenti? Nelle telecomunicazioni, poi, il servizio universale, che in teoria l’AGCOM dovrebbe assegnare attraverso una procedura “efficace, obbiettiva, trasparente e non discriminatoria in cui nessuna impresa è esclusa a priori”, è da sempre aggiudicato solo da Telecom Italia addirittura per disposizione di legge (art. 58 del Codice delle Comunicazioni elettroniche), la qual cosa potrebbe essere persino dannosa per quest’ultima società. La stessa abnorme estensione del “mercato tutelato” nel settore elettrico, a scapito di quello libero, esprime una concezione per la quale essendo l’energia un bene primario bisogna rendere la sua fruizione “universale”, proteggendo fasce amplissime di consumatori.

Possiamo fermarci qui: quello di cui ci sarebbe bisogno sarebbe una valutazione complessiva delle genuine necessità imprescindibili dei cittadini, meritevoli di rientrare sotto la denominazione di “servizio universale”, nonché di una liberalizzazione vera dei criteri di scelta degli operatori che tale servizio svolgono e della loro remunerazione. Senza nulla togliere all’Italicum, certamente i cittadini avrebbero più immediato e concreto beneficio da maggiore concorrenza che dal premio elettorale di lista.

Lotta all’evasione: purché gli onesti non paghino il conto

Lotta all’evasione: purché gli onesti non paghino il conto

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere economia

II Fisco divide, inevitabilmente, in due gruppi la popolazione: chi versa le imposte regolarmente, e chi, invece, cerca di farne a meno. Due gruppi che reagiscono alle possibili modifiche delle regole sulle tasse in modo naturalmente molto diverso, a seconda della loro posizione (come dire) fiscale. E quello che sta accadendo alla norma sull’«abuso di diritto», meglio nota ormai come legge salva-Berlusconi. La disposizione che prevede una soglia di tolleranza del 3%, sotto la quale sarebbe possibile regolarizzare la propria posizione, evitando sanzioni penali.

Alcuni conteggi dicono che le imprese potenzialmente interessate sarebbero circa seimila. E qui sta il punto: la norma introdotta all’ultimo momento nel gennaio scorso al Consiglio dei ministri ha suscitato legittime polemiche. E ora il governo fa sapere che intende rinviarla. Ma sarebbe un errore. Oltre ai due gruppi di contribuenti corretti ed evasori, ce n’è, infatti, anche un terzo che in qualche modo li accomuna: le persone che vorrebbero regole più semplici, meno vessatorie, una minore stratificazione delle norme. Per non favorire un Fisco che talvolta diventa inesorabile con chi commette un errore di calcolo o una svista, perché più facili da scovare rispetto all’evasione vera e propria.

Non bisogna arrivare alla lista Falciani per ricordare come, negli anni scorsi, in molti abbiano preferito depositare illecitamente i propri capitali all’estero. Ecco quindi che quella norma sull’abuso di diritto diventa necessaria, da correggere, ma necessaria. Il limite del 3 per cento non va bene? Meglio una soglia quantitativa? O un insieme delle due? Serve una riflessione più approfondita sulla frode fiscale? C’è il tempo per farlo. Sarebbe opportuno utilizzare questa occasione per tentare di chiudere la stagione dei sotterfugi reciproci. Di uno Stato che detta regole confuse, per mettere sempre in mora i contribuenti vittime spesso di interpretazioni penalizzanti. E dei contribuenti che hanno l’abitudine di aggirare le norme con la scusa di considerarle troppo penalizzanti e poco chiare.

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

Gianna Fregonara – Corriere della Sera

L’idea del governo di adottare una «terapia d’urto» per chiudere definitivamente le graduatorie ad esaurimento è «comprensibile», ma «assumere tutti e subito i circa 140 mila precari avrà effetti molto negativi sulla scuola italiana abbassandone la qualità e ostacolandone il rinnovamento per molti anni a venire». Il grido dall’allarme sul decreto che Matteo Renzi dovrebbe presentare domenica prossima a Roma e il consiglio dei ministri approvare il 27 febbraio, è contenuto in un documento della Fondazione Agnelli, che da anni monitora e studia il sistema scolastico italiano: gli insegnanti che si stanno per assumere non sono quelli di cui la scuola avrebbe bisogno. Il direttore Andrea Gavosto e la sua squadra hanno confrontato numeri e proposte di quella che sarà la più grande «stabilizzazione di precari» della scuola degli ultimi trent’anni, mentre al ministero dell’Istruzione stanno scrivendo il testo del decreto, cercando di far tornare i conti di questa imponente operazione. Il punto di partenza dell’analisi della Fondazione Agnelli è che la promessa di assunzione di tutti i precari nelle graduatorie ad esaurimento non è stata preceduta da «un’analisi dei profili professionali necessari alla scuola italiana, ma si è adottata una logica capovolta: assumo questi insegnanti e poi vediamo che cosa gli possiamo far fare», spiega Gavosto. Dei problemi denunciati dalla Fondazione si stanno occupando anche nel governo e nel Pd, tanto che il sottosegretario Davide Faraone ha annunciato che ci saranno delle correzioni.

Musica ed economia
Ma alcuni punti fermi restano. Come le ore di musica alle elementari: nelle graduatorie ci sono circa diecimila insegnanti di musica o strumento che verranno assunti a settembre. Così per economia e materie giuridiche, che il ministro Stefania Giannini ha annunciato verrà introdotta nelle superiori per una/due ore alla settimana, ma solo in terza e quarta, perché se si ampliasse l’offerta all’ultimo anno sarebbe necessario poi cambiare anche l’esame di maturità: ci sono almeno 3.000 insegnanti di questa classe di concorso nelle graduatorie, che altrimenti seguendo l’attuale fabbisogno della scuola che è di circa 200/400 insegnanti di economia ci metterebbero decenni ad essere assorbiti. Invece per una materia come la matematica non ci sono in molte regioni, a partire dalla Lombardia insegnanti in numero sufficiente nelle graduatorie ad esaurimento, neppure per coprire i posti di ruolo disponibili l’anno prossimo. Secondo gli esperti di «Voglioilruolo», il sito per prof che censisce graduatorie e scuole, risultano già esaurite le graduatorie per matematica a Como, Milano, Mantova, Ascoli Piceno, Roma, Pisa e Grosseto, Frosinone e Foggia: «In provincia di Milano – si legge nel testo della Fondazione Agnelli – servono ogni anno tra i 50 e i 100 insegnanti di matematica, nelle Graduatorie ad esaurimento ce ne erano a settembre solo 31».

La carica dei supplenti
Come si farà con gli altri posti? «Probabilmente continueranno ad essere almeno in parte coperti dai supplenti delle graduatorie di istituto, come avviene ora». Con il paradosso che in queste materie così importanti continueranno le difficoltà che si vorrebbero cancellare, a partire dai cambi continui di supplenti. «Non solo, se non si cambia il criterio di assunzione, si crea un problema di equità perché i prof che sono in queste graduatorie di istituto sono persone mediamente più giovani, con una preparazione e un’anzianità di servizio non inferiore a quella di chi verrà assunto, ma destinati a non diventare di ruolo», e a restare precari per chissà quanto tempo. Si aggiunga che proprio per materie importanti come quelle scientifiche proprio in questi giorni l’Ocse ha lanciato l’allarme: solo con professori più preparati ad affrontare le classi, usando metodi anche innovativi, si potranno migliorare la preparazione e i risultati dei ragazzi, che continuano a «soffrire» nei test proprio in queste discipline.

Nuove assunzioni
Il problema di questi precari fuori dalle graduatorie ad esaurimento è ben chiaro, non solo ai sindacati che oggi incontreranno il ministro Giannini, ma anche al governo tanto che il sottosegretario Faraone ha dichiarato che si sta pensando anche a loro, e qualcosa nel testo definitivo ci sarà: «Aspettate a dire chi sarà dentro e chi sarà fuori». Non sarà possibile cambiare molto ma potrebbero essere assunti almeno in parte a partire dall’anno prossimo, prima del concorso, per ora annunciato ma non indetto: il rischio restano i ricorsi in massa al Tar. «Ma il turn over nei prossimi anni è intorno ai 13 mila insegnanti all’anno. Si può ritenere che l’ingresso in ruolo dei 140 mila in blocco ostacoli per i prossimi dieci anni l’ingresso dei giovani neolaureati», si legge ancora nel documento elaborato dalla Fondazione. A tutto questo si aggiunge che i maestri e i professori che verranno assunti a settembre vivono lontano da dove il loro lavoro servirebbe. Le proiezioni sul numero di studenti in Italia nei prossimi dieci anni dicono che al Sud diminuiranno e cresceranno al Nord. E invece, per esempio, in una regione come la Sicilia, ci sono quasi 20 mila precari. Nel decreto, anche per non avere «migrazioni» di professori si sta pensando di irrobustire, con le nuove assunzioni, le scuole nelle zone più problematiche o dove i risultati dei ragazzi nei test internazionali non sono all’altezza, e dunque in molte aree del Sud.

La formazione rinviata
C’è un ultimo non secondario problema che non è stato risolto nei piani del governo: secondo l’approfondimento della Fondazione, di moltissimi di questi insegnanti non si sa nulla, se non i requisiti formali. «La metà di questi precari, che resteranno nella scuola per i prossimi venti anni, risulta non ha insegnato nelle scuole pubbliche negli ultimi anni – continua Gavosto – Una parte certamente lavora nelle scuole private, ma altri potrebbero aver intrapreso altre carriere e tornerebbero soltanto ora in vista di un posto a tempo determinato. Come pensiamo di prepararli al loro lavoro? Non è prevista alcuna verifica della loro preparazione e l’idea di un anno di prova non è sufficiente». Anche di questo si stanno occupando al ministero. Sempre Faraone: «Quest’anno i fondi sono per le assunzioni, il prossimo saranno per la formazione».

Se la riforma tributaria prende tempo

Se la riforma tributaria prende tempo

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il governo avrà più tempo per completare l’attuazione della legge delega per un «sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita». La proroga di sei mesi per emanare i decreti legislativi mancanti – finora solo tre sono giunti in porto, oltre ad alcune disposizioni che hanno trovato attuazione con la legge di Stabilità – non può essere considerata un incidente di percorso. La legge delega 23/2014 è tutt’altro che un testo organico per ridisegnare dalle fondamenta il sistema tributario. Non si vede un disegno complessivo, ma al contrario, si tratta – come abbiamo più volte sottolineato – di un testo di legge fatto di una combinazione di principi e del tentativo di dare soluzione a più casi pratici. Non si tratta di una critica: molti aspetti sui quali la delega si propone di intervenire rappresentano problematiche molto sentite dagli operatori. Tuttavia, per quanto apprezzabile in molti elementi, la delega non porta con sé una strategia omogenea. Inoltre, l’esperienza insegna che mettere le mani al testo di una legge delega non è mai cosa agevole. Soprattutto non lo è quando gli interlocutori sono tanti.

Non a caso la Costituzione dà a Parlamento e governo ruoli precisi e non sovrapponibili: il procedimento per la delega vede la competenza del Parlamento nella previsione di principi e criteri direttivi, mentre è il governo a emettere i decreti delegati. Questo perché il governo, come organo ristretto, è guidato dall’iniziativa di un ministro competente (nel caso, l’Economia) in grado dal punto di vista tecnico di formulare testi che abbiano la dignità della legge. Per la delega fiscale le cose sono andate diversamente, con il Parlamento che – attraverso la “bicameralina” – ha quasi rivendicato il diritto a occuparsi dei decreti attuativi. Aumentando la confusione e allungando i tempi anziché accorciarli.

Da ciò deriva un’altra considerazione. E cioè che il governo non ha ancora esplicitato la propria linea di politica tributaria. A volte si ha la sensazione che a determinarne la direzione sia più l’amministrazione finanziaria che non l’esecutivo. Le cronache sui lavori tecnici per l’attuazione raccontano di un ruolo attivo dell’agenzia delle Entrate. Il che trova una spiegazione nel fatto che l’amministrazione sarà il soggetto che queste norme dovrà far rispettare. Però, ciò riporta l’attenzione sui rapporti tra ministero dell’Economia e agenzia delle Entrate. Gli indirizzi di politica tributaria, compresa la stesura delle norme, sono affidati al governo e al ministro dell’Economia e delle Finanze, anche per il tramite del Dipartimento per le politiche fiscali; l’amministrazione del fisco – in termini di riscossione dei tributi, contrasto all’evasione fiscale, gestione del contenzioso – tocca invece all’agenzia delle Entrate, che opera sulla base di una convenzione con il ministero dell’Economia e ne è sottoposto alla vigilanza. L’agenzia per sua natura ha il solo compito di applicare le leggi fatte su indirizzo del governo. Altrimenti, si creerebbe un evidente conflitto di interessi e si finirebbe per alimentare il sospetto di un’amministrazione che scrive norme “pro domo sua”, ad esempio per dare copertura (anche ex post, con norme interpretative) al proprio operato.

Insomma, la sensazione è che la legislazione, specie quella fiscale, sia caratterizzata dall’assenza di strategie e da una confusione dei ruoli. E tornando ai sei mesi in più per la delega: siamo sicuri che con il rinvio ci siano i tempi necessari per varare i decreti delegati? Io credo di no. Anche se c’è la scappatoia della proroga della proroga.

Fisco e contribuenti in lite per 52 miliardi

Fisco e contribuenti in lite per 52 miliardi

Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Dall’Iva all’Irpef, dai tributi locali all’Irap,le liti con il fisco valgono più di 52 miliardi di euro.Sulle scrivanie dei 3.400 giudici tributari di primo e secondo grado – esclusa quindi la Cassazione – ci sono i fascicoli di 570mila controversie fiscali ancora in attesa di decisione. I dati sono aggiornati al 31 dicembre scorso e sono contenuti nella relazione sullo stato della giustizia tributaria, che sarà presentata giovedì prossimo a Roma e che Il Sole 24 Ore del Lunedì è in grado di anticipare.

Se la mole dell’arretrato resta notevole, va comunque rilevato un calo di 55mila liti pendenti rispetto al 31 dicembre 2013. Ma si tratta di un dato da maneggiare con cura. Di fatto. la diminuzione arriva tutta dalle commissioni tributarie provinciali e dipende più dal calo dei nuovi ricorsi arrivati nel 2014 (21mila in meno) che da un aumento di quelli decisi (mille in più). Si sentono, in particolare, gli effetti dell’introduzione del contributo unificato, cioè la tassa d’ingresso perla giustizia tributaria varata a luglio del 2011, e della mediazione obbligatoria, la procedura che impone di presentare prima del ricorso un’istanza di reclamo agli uffici delle Entrate per le liti fino a 20mila euro di valore. Due novità normative che hanno consolidato un trend già visibile nel 2013.

La situazione non migliora – anzi peggiora – se si guarda alle 21 commissioni tributarie regionali. Qui l’arretrato aumenta e si assiste a una doppia variazione negativa: più ricorsi in appello e meno sentenze depositate. La spiegazione non sembra dipendere dalle carenze in organico, visto che i giudici di secondo grado hanno un tasso di scopertura leggermente più basso rispetto a quelli di primo grado (24% di giudici in meno in Ctr, contro il 27% delle Ctp). Piuttosto, si può immaginare che il calo del contenzioso registrato in primo grado non sia ancora arrivato in appello. Anche perché la durata media di una lite in Ctp è poco superiore ai due anni e mezzo. Tra primo grado e appello un processo tributario dura in media quattro anni e tre mesi. Se però si aggiunge anche la Cassazione si arriva a otto anni. Insomma, anche i giudici della Suprema corte sono in affanno. Tant’è vero che il nuovo presidente della sezione tributaria, Mario Cicala, sta studiando le soluzioni migliori per rendere più efficiente la trattazione. Accelerare i processi tributari non aiuterebbe solo i cittadini, ma anche lo Stato, che potrebbe stabilire definitivamente se ha diritto o no a incassare certe somme contestate.

Secondo le stime del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il contenzioso pendente – senza contare la Cassazione – vale più di 52 miliardi, tra imposte, sanzioni e interessi per i tributi amministrati da Entrate, Dogane, Equitalia, Regioni, Province e Comuni. Anche ipotizzando che il fisco abbia ragione solo in un caso su due, si tratta di un importo capace di far impallidire una manovra finanziaria di medie dimensioni. È interessante anche vedere “come” si arriva al totale. Dei 52 miliardi pendenti, 19 sono già in appello, mentre il resto è rappresentato dalle liti davanti alle 103 commissioni tributarie provinciali. Ma è soprattutto lo spaccato per fasce di valore a svelare che pochissime liti fanno il grosso degli importi. Per esempio, davanti ai giudici di primo grado le liti con un valore superiore ai 250mila euro sono solo 13mila, ma incidono per 28 miliardi su 33. Al contrario, le controversie di valore fino a 20mila euro sono più di 345mila, ma pesano solo per meno di un miliardo.

Non è un caso chela delega per la riforma fiscale, nel capitolo dedicato al processo tributario, preveda tra l’altro la possibilità di introdurre un giudice unico per le cause minori, di rivedere le soglie per l’«autodifesa» (ora a 2.582,28 euro) e di ampliare le categorie professionali abilitate all’assistenza in giudizio. Misure che dovrebbero affiancarsi al processo telematico e al potenziamento della conciliazione.

Così Craxi “risolve” la  trattativa Tsipras-Ue

Così Craxi “risolve” la trattativa Tsipras-Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Oggi 16 febbraio verrà parafato (il termine del lessico diplomatico per dire siglato) un nuovo accordo tra la Repubblica ellenica da una parte e i partner dell’eurozona, la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dall’altra. L’Ocse è, per così dire, un nuovo arrivato; su richiesta in gran misura della delegazione greca, in ragione della sensibilità mostrata dall’organizzazione parigina con sede a Chateau de la Muette per i temi sociali, la distribuzione del reddito e lo sviluppo sostenibile. Non ci sarà la Banca centrale europea non perché Alexis Tsipras abbia Mario Draghi in antipatia (in seguito alla decisione di non accettare titoli del Governo greco a garanzia di prestiti alle banche elleniche), ma perché è un bene per tutti che la Bce mantenga una veste puramente tecnica e in tale ambito possa, se del caso, concedere aiuti al di fuori di un accordo eminentemente politico.

L’intesa è Tak blizko!, Tak blizko! Bliko (ossia a portata di mano, dice un economista russo mio amico non coinvolto nella trattativa, ma come molti economisti russi ben informato poiché costretto ad “arrotondare”, facendo altre cose, il suo modesto stipendio universitario). Quali sarebbero i termini? Il punto principale sarebbe una dilazione della scadenza per il pagamento di una tranche del debito ora dovuta il 28 febbraio. Il dilazionamento potrebbe essere di sei mesi; la Grecia può sopravvivere in autonomia sino a fine maggio, se non è costretta a far fronte alla scadenza. Una dilazione di sei mesi consentirebbe di preparare un piano di riassetto strutturale con la collaborazione dell’Ocse e forse anche quella della Commissione europea e del Fmi, istituzioni gradite invece ai suoi creditori. Tuttavia, Tsipras potrebbe dire al proprio elettorato che la troika non è più l’interlocutore-vessatore in quanto la Bce esce e l’Ocse entra. Non si parlerebbe di ulteriori riduzione dei tassi d’interesse principalmente perché già adesso i termini sono così generosi che il servizio del debito della Grecia (pari al 170% del Pil) è appena il 2,6% del Pil rispetto al 5% del Portogallo (il cui debito è il 132% del Pil), al 4,7% dell’Italia (132% del Pil), al 3,3% della Spagna (95%).

Secondo il centro di ricerche Bruegel (abbastanza coinvolto nella trattativa), se il programma preparato con il supporto Ocse (e verosimilmente di Commissione Ue e Fmi) porta a ulteriori dilazioni, i risparmi di spesa pubblica potrebbero arrivare al 15-17% del Pil ed essere disponibili per nuovi investimenti (da selezionare con cura). È probabile che a questo punto l’intesa non vada oltre in attesa del programma di riassetto strutturale.

Andare più a fondo rischierebbe di fare saltare il tavolo in una fase in cui nessuno vuole farlo. Non tanto perché dal 2008 il Pil nominale greco ha subito una contrazione del 22%, i salari reali un taglio di pari portata (ma del 40% per la fascia di età tra i 18 e i 24 anni), il valore delle abitazioni (la prima destinazione del risparmio delle famiglie anche nella Repubblica ellenica) una riduzione del 40%. E neanche perché si temano i riflessi dell’uscita della Grecia dalla moneta unica sull’intera eurozona. Ma a causa della situazione nel Mediterraneo e dell’avamposto in Cirenaica posto dall’autoproclamato Califfato islamico. Oggi tutti vogliono pace e stabilità sul fronte greco: la situazione è drammaticamente cambiata nel giro di una settimana.

Sono state scartate le proposte di prestiti i cui interessi siano collegati all’andamento del Pil reale oppure di prestiti senza scadenza ma tali di assicurare una “rendita” ai creditori (in gran parte Stati e organizzazioni internazionali). In effetti, il pittoresco Varoufakis ha mostrato di avere poca fantasia ripescando idee e strumenti della Russia zarista (per finanziare la transiberiana) e dell’Italia mussoliniana (per la “Guerra d’Abissinia” che ci avrebbe fatto diventare un Impero).

Tuttavia, proprio Ocse e Fmi hanno suggerito che se il programma di riassetto strutturale è di qualità (e non si basa su grandi incrementi del gettito da imputarsi a una maggiore e migliore lotta all’evasione e alla corruzione), per la Grecia si potrebbe riprendere una proposta del Rapporto Craxi del 1990 all’Assemblea Generale Onu per i paesi più indebitati: rimettere, in fasi, parte del debito greco man mano che le riforme strutturali hanno effetto e aumenta la produttività complessiva del Paese.

Occorre dire che Tsipras contava molto sull’apporto e appoggio di Renzi poiché sia Portogallo che Spagna sono guidati da Presidenti del Consiglio di centrodestra. Non solo, ma il leader italiano aveva ostentato amicizia e comunanza d’intenti con forti abbracci durante la visita fatta dal greco a Roma. Tuttavia, Renzi è stato molto preso dal fronte interno, e la manifestata intenzione di andare avanti senza il contributo dell’opposizione nella riforma della Costituzione e della legge elettorale gli ha fatto perdere quel po’ di autorevolezza che aveva conquistato nell’eurozona.

A tendere la mano a Tsipras (e a rammentare come per vent’anni i negoziati per i Paesi poveri più indebitati sono stati guidati dal Rapporto Craxi) sono stati, oltre all’Ocse e al Fmi, i tedeschi. Pare che a Palazzo Chigi, alla Farnesina e a via Venti Settembre nessuno se ne ricordasse. La prossima volta Tsipras saprà chi abbracciare.

Speculazioni, rumors e sospetti: c’è del marcio nel caso Etruria

Speculazioni, rumors e sospetti: c’è del marcio nel caso Etruria

Renato Brunetta – Il Giornale

C’è del marcio in Etruria. Vorrei fare un pezzo filosofico, ma che filosofia si può fare davanti a un furto con destrezza? Il problema è capire chi ha fornito il trapano per aprire la cassaforte. Costoro, infatti, hanno utilizzato conoscenze, dirette o indirette, informazioni chirurgiche relative al decreto sulle Popolari da trasformare in Spa, per comprare e vendere azioni. Il tutto molto, ma molto vicino a persone, ambienti, stanze di Palazzo Chigi. Insomma rischia di venire giù Roma, come accadde per lo scandalo Banca Romana.

Stavolta ci troviamo di fronte a piccole banche, una delle quali in gravissime difficoltà, al punto che nei giorni scorsi è stata commissariata da Banca d’Italia. Non prima però che il valore di ogni singola azione sia balzato in alto: +62,17% nella sola settimana di borsa tra il 19 e il 23 gennaio 2015, quella del varo del decreto del governo, per la Banca popolare dell’Etruria e del Lazio. Il cui vicepresidente è il padre del ministro Maria Elena Boschi, anch’essa azionista della banca (e il fratello ne è dipendente). Il più attivo in questo fenomeno di spostamenti azionari è stato il fondo di Davide Serra da Londra, punto di riferimento e consigliere del premier in materia di finanza. Il paragone con Banca Romana ci sta, fatta salva la diversa statura del personaggio Giolitti.

Che il tema fosse «caldo» si è capito fin da subito. Ma la gravità sta venendo fuori giorno dopo giorno. A far deflagrare la già scottante miccia è stata l’approfondita e dettagliata audizione di mercoledì scorso, in commissione Finanze della Camera, del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, nell’ambito della quale è stato messo nero su bianco il sospetto di insider trading , anche grazie a una ricostruzione puntuale, attraverso notizie di stampa e tweet (uniche informazioni disponibili al pubblico, fatto già di per sé anomalo, data la delicatezza dell’argomento) dei «movimenti» del governo e degli amici del governo dal 3 gennaio 2015 al 9 febbraio 2015, dell’andamento in borsa nonché, con particolare riferimento alla Banca Etruria, degli accadimenti non del tutto trasparenti verificatisi tra l’11 agosto 2014 e il 9 febbraio 2015. È così che la gravità di quanto stava avvenendo è balzata agli occhi della Banca d’Italia, che ha commissariato la Banca dell’Etruria; della procura di Roma, che ha subito aperto un’indagine; e della Guardia di finanza, braccio operativo di entrambi questi ultimi.

Al di là delle plusvalenze effettive o potenziali di quei geni (si fa per dire) che hanno comprato azioni delle Popolari prima del decreto per poi rivenderle a prezzi ben più alti, quel che è grave è che, a quanto pare, potrebbero essere stati i membri del governo a comunicare in anticipo ai finanziatori della loro campagna elettorale le imminenti decisioni dell’esecutivo. Così sembra, infatti, che siano andate le cose in quel di Londra, presso gli uffici del Fondo Algebris: all’annuncio da parte del governo, il 16 gennaio 2015, di voler riformare il sistema delle banche popolari, hanno fatto seguito imponenti operazioni di borsa. Tanto per avere un’idea dei numeri: le azioni di Banca Etruria sono aumentate del 62,17% in quattro giorni contro un andamento del comparto bancario dell’8,68%. Al secondo posto il Credito Valtellinese: +30,93%. Quindi tutte le altre 6 banche popolari che nei propositi del governo dovevano rientrare nell’ambito del decreto. Con un’ulteriore stranezza: il requisito dimensionale individuato (un attivo totale pari a 30 miliardi di euro) è stato ridotto a 8. E così sono rientrate Credito Valtellinese, Popolare di Bari e Banca Etruria, che interessano all’esecutivo.

La cosa più impressionante è vedere i grafici che hanno accompagnato la relazione di Giuseppe Vegas. Tre giorni di fuoco con utili da capogiro. Potenza dell’intuito: si è giustificato Davide Serra, con un susseguirsi di tweet e comunicati stampa. «Algebris Investiments ha investito fin dalla sua nascita, nel 2006, nel settore bancario e assicurativo italiano». Quindi nessun possesso di informazioni privilegiate. Se poi il valore delle azioni è lievitato è solo una coincidenza del destino. Come semplice coincidenza è il fatto che la Banca popolare dell’Etruria e del Lazio abbia nel board, con la carica di vicepresidente, Pier Luigi Boschi, il padre del ministro Maria Elena. Anch’essa azionista dell’istituto di credito caro, come notano i maligni, a Licio Gelli. Conti che in qualche modo tornano, visti i vecchi gossip sulle frequentazioni di famiglia dei nostri attuali governanti fiorentini.

Ed è sempre un caso che sia stata questa banca a registrare, tra tutte le popolari coinvolte nell’affaire , gli incrementi maggiori. Una banca talmente solida (siamo ironici) da giustificare, prima del rally di borsa, ben due preoccupate ispezioni della Banca d’Italia, seguite dal commissariamento. E da suffragare l’ipotesi di «ostacolo alla vigilanza» e il timore di «operazioni occulte» su cui sta indagando la procura di Roma, e che si aggiungono ai sospetti di insider trading. Ancora una volta, come accaduto con la merchant bank che non parlava inglese, per ricordare come Guido Rossi qualificò la presidenza di Massimo D’Alema a palazzo Chigi, si è di fronte al solito gioco. Allora, tuttavia, c’erano «capitani coraggiosi» che stavano scalando il cielo, in formato Telecom. Oggi siamo, invece, di fronte a un pugno di speculatori che entrano in borsa, acquistano tutto quello che c’è da acquistare e dopo un paio di giorni lo rivendono, portandosi a casa un malloppo fatto di plusvalenze milionarie. Non è una bella immagine per il Pd, che una volta era il partito delle mani pulite, pronto a denunciare conflitti d’interesse e ipotetici falsi di bilancio.

Questa volta, tuttavia, l’episodio è ben più grave. Ricorda da vicino un vecchio scandalo della storia d’Italia: quello della Banca romana. La grande speculazione edilizia che portò alla nascita del quartiere di Prati a Roma. Finanziata con l’emissione arbitraria di carta moneta, e la copertura politica di Palazzo Chigi. Giovanni Giolitti da un lato e Francesco Crispi dall’altro: accusati da Bernardo Tanlongo, che della ex Banca pontificia era il governatore, di aver percepito mazzette e cointeressenze nel gioco della grande speculazione fondiaria e di essere quindi i corresponsabili del successivo fallimento dell’istituto di credito. La sede della presidenza del Consiglio, che allora stava al Viminale, era divenuta un centro di affarismo con le prime riforme volute da Agostino Depretis, il grande trasformista. Riforme che avevano portato all’addomesticamento del Parlamento, i cui poteri furono depotenziati per favorire il formarsi di maggioranze occasionali continuamente addomesticate dal grande domatore.

Episodi che dovrebbero far riflettere, nel momento in cui si fanno più o meno le stesse cose, con riforme ritagliate sugli interessi terreni dell’attuale premier. Sul decreto banche popolari la sua, oggi, è una posizione lose-lose : portarlo avanti aggrava l’accusa di «connivenza» del governo con chi ha speculato. Ritirarlo vorrebbe dire per Renzi ammettere le responsabilità del suo esecutivo. Cui non possono che seguire dimissioni immediate. Altro che spread, che nel 2011 ha mandato a casa, con l’imbroglio, l’ultimo governo legittimamente votato dai cittadini. Dalle carte del processo di Trani sulla manipolazione del mercato avvenuta in quell’estate-autunno 2011 da parte delle agenzie di rating sta emergendo che il danno erariale che ne è derivato ammonta a 120 miliardi di euro. Tanto ci è costato il complotto. Non vorremmo che al conto già salato che i cittadini italiani devono pagare, si aggiungesse anche il gravissimo obbrobrio delle banche popolari. Il governo ritiri il decreto, e il premier si faccia carico in prima persona dello scotto dei suoi errori e della sua spocchia. Quando esagerano, le volpi finiscono in pellicceria, direbbe l’Amleto dei giorni nostri.

Giochi, stretta del governo: via una slot machine su tre

Giochi, stretta del governo: via una slot machine su tre

Roberto Giovannini – La Stampa

Per adesso, più che una notizia è soltanto un avvertimento, visto che la novità scatterà soltanto a partire dal 2017. Sempre che non ci siano ripensamenti. Parliamo delle slot machine, le fatidiche macchinette mangia soldi che tanti considerano un fenomeno sociale non certo edificante, se non davvero pericoloso. Nell’ultima bozza del decreto in tema di giochi in attuazione della delega fiscale – che il governo dovrebbe approvare venerdì prossimo in Consiglio dei ministri – si prevede infatti una drastica riduzione del numero delle slot: dal 2017 ne dovranno sparire almeno un quarto del totale. Altre misure, come un aumento del prelievo fiscale sulle vincite, e una nuova stretta sugli (imperversanti) spot televisivi sui giochi sembrano invece pronte ad entrare in vigore in tempi più stretti. Il testo, dicono i bene informati, potrebbe pero avere bisogno ancora di ulteriori approfondimenti e potrebbe quindi non arrivare, come annunciato nei giorni scorsi, sul tavolo del Consiglio dei ministri del 20 febbraio – quando saranno esaminati i nuovi testi su catasto, compliance, fiscalità internazionale, fatturazione elettronica e probabilmente anche sulle partite Iva.

Scendono le entrate
Per adesso, a leggere la bozza, il taglio delle slot machine (rinviato però al 2017) comporterà certamente una riduzione delle entrate per le casse dell’Erario. Sicuramente sarà una pessima notizia per i tanti bar e locali pubblici che fanno tornare i loro conti con persone che trascorrono ore a premere pulsanti e (quasi sempre) a perdere i loro soldi. Oggi ne sono operative circa 350mila, ma tra un paio di anni con le nuove regole – si potrà installare una macchina ogni 7 metri quadri di superficie del locale pubblico, e in ogni caso non più di 6 macchine in cifra assoluta – si calcola che spariranno dalla circolazione circa 80-100mila «macchinette». Un po’ più di un quarto del totale. Oltre a stabilire vincoli legati a metri quadri e numero massimo di slot, per bar e sale scommesse il decreto stabilirà anche che le slot non devono essere visibili dall’esterno dei locali, devono avere uno spazio dedicato e devono essere, come già previsto, assolutamente vietate ai minori. Le sale da gioco (gaming hall), invece, per avere le «macchinette», devono avere «una superficie non inferiore a 50 metri quadrati» e rispettare il parametro di «un apparecchio ogni 3 metri quadrati».

Giro di vite sulle pubblicità
Scatterà invece immediatamente l’aumento dal 6 all’8% della cosiddetta «tassa sulla fortuna», il prelievo introdotto dal 2012 su giochi numerici, lotterie istantanee e videolottery. La bozza del decreto sui giochi non ha ancora però identificato la soglia di vincita oltre la quale scatterà il prelievo: attualmente è fissata a 500 euro. In arrivo anche una nuova stretta sulla pubblicità: oltre a recepire le norme già in vigore (introdotte con un decreto del governo Monti) che vietano gli spot durante e mezzora prima e dopo programmi destinati ai minori – in tv, in radio, al cinema – si aggiunge infatti lo stop anche in fascia protetta, tra le 16 e le 19. Fatta eccezione per i canali e le trasmissioni sportive o quelli dedicati al gioco.

Bluff sui debiti PA: la metà è ancora da pagare

Bluff sui debiti PA: la metà è ancora da pagare

Stefano Re – Libero

Allarme per le imprese italiane: malgrado le promesse fatte da Matteo Renzi, che il 13 marzo, a Porta a Porta, si era impegnato a saldare tutti i debiti della Pubblica amministrazione entro settembre, gli ultimi dati dicono che i debiti pagati dalla pubblica amministrazione sono ancora meno della metà del dovuto. Lo stock del debito, intanto, resta inchiodato attomo a quota 75 miliardi. Venerdì il governo ha annunciato un ulteriore passo avanti nello smaltimento dei debiti scaduti delle Pubbliche amministrazioni, comunicando di aver erogato ai creditori, al 30 Gennaio 2015, 36,5 miliardi di euro, con un incremento di 4 miliardi rispetto all’ultimo monitoraggio effettuato a fine ottobre.

Tutto bene, dunque? Non proprio. Intanto perché questi pagamenti si riferiscono ai debiti maturati fino al 31 dicembre 2013 e non ai ritardi che la Pubblica amministrazione ha accumulato in tutto il 2014. E comunque, anche limitandosi ai debiti accumulati sino al 2013, i calcoli fatti da ImpresaLavoro su dati Eurostat e Intrum Justitia dicono che sinora è stato pagato meno della metà di quanto dovuto sino ad allora. I debiti commerciali maturati dalla Pubblica amministrazione al 2013, infatti, ammontano a 74,2 miliardi di euro: devono dunque essere pagati dal governo altri 37,7 miliardi.

Lo stock di debito complessivo che la Pubblica amministrazione ha nei confronti delle imprese private resta peraltro ingentissimo. I debiti commerciali infatti si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce quindi lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione. Purtroppo nessun indicatore, avverte ImpresaLavoro, permette di dire che vi è stata una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che l’intervento del governo è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse.

Il Centro studi stima che nel 2014 siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione beni e servizi per un valore di circa 158 miliardi di euro e che, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra Pa, lo stock complessivo del debito è pari a circa 75 miliardi: di poco superiore, dunque, a quello di fine 2013. Si tratta, peraltro, di stime prudenziali, che non tengono conto di altri debiti commerciali, tra cui quelli delle imprese partecipate dallo Stato e dagli enti locali. L’universo di società che vedono nel proprio capitale sociale la partecipazione di amministrazioni pubbliche locali e centrali contribuiscono infatti ad aumentare in misura rilevante lo stock dei debiti commerciali della nostra Pa, per una quota difficile da stimare. Secondo uno studio condotto dal Cerved sui dati del 2013, le imprese partecipate da Regioni e Autonomie locali registrano pessime performance in termini di fatture non pagate sullo scaduto. Si stima che a giugno 2013 le partecipate regionali non abbiano pagato addirittura l’82,2% delle fatture scadute, registrando un forte peggioramento rispetto agli anni precedenti.

Secondo il presidente del centro studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, «sono gli stessi dati che il governo comunica a certificare che Renzi non ha mantenuto la promessa di saldare tutti i debiti della pubblica amministrazione entro il 21 Settembre dello scorso anno. Il presidente del Consiglio aveva garantito di saldare tutto il pregresso entro San Matteo: 146 giorni dopo siamo anche a meno di metà del percorso. La Pubblica amministrazione onora i propri impegni in tempi lunghissimi, 170 giorni: il governo, per non essere da meno, sembra adeguarsi a questi tempi nel mantenere le sue promesse. Le imprese, però, non possono più permettersi di aspettare».