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Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Yanis Varoufakis. Chi è costui? A volte bastano poche parole, per capire chi si ha di fronte. E la descrizione di se stesso fatta nel suo profilo Twitter ci dice chi è il nuovo ministro delle Finanze greco: «Economista, ho scritto testi accademici per anni senza che nessuno si accorgesse di me, fino a che non sono stato spinto nella scena pubblica dall’incapacità dell’Europa di gestire una crisi inevitabile». E noi diciamo, sempre con poche parole: per salvare la Grecia servono 10-15 miliardi. Così come ne bastavano 50 nel 2010, e la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma oggi gli effetti di scelte sbagliate da parte dell’Europa potrebbero avere effetti ancor peggiori di quelli che abbiamo visto negli anni della crisi, perché ai problemi economici e finanziari si aggiungono possibili guerre molto vicine a noi, dall’Ucraina alla Serbia, fino alla minaccia dell’Isis.

Oggi il nuovo governo greco illustrerà il suo programma al Parlamento. L’Europa, ancora tedesca, chiede che sia diverso da quello con cui Tsipras ha vinto le ultime elezioni. Come può un premier appena eletto seguire un programma diverso? Da quello che Tsipras dirà oggi dipenderanno le decisioni dell’Eurogruppo di martedì e del Consiglio europeo di mercoledì. L’Europa si trova a un punto di svolta. Viva l’euro, viva l’Europa. Ma quella amata dai suoi cittadini, non temuta. Non l’Europa emotiva, della deterrenza, dei drammi (anche solo minacciati) o delle costrizioni ma l’Europa solidale, coesa, unita. Non si pone, almeno per ora, il tema dell’uscita della Grecia dall’euro, ma non per questo non bisogna parlarne né sapere come si fa. Finora ha prevalso la vulgata per cui dall’euro non si può uscire, o salta tutto. Invece basta solo attuare bene la procedura, con i tempi necessari. Senza drammi dalla moneta unica si può uscire. E anche la reazione dei mercati può essere meno dura di quanto si immagini.

Lo prevede l’articolo 50 del Trattato, che rimanda, per la procedura puntuale, all’articolo 218. Una procedura tutta burocratica, di ping pong tra le istituzioni europee, che dura 2 anni. Ma lo Stato che ne fa richiesta è considerato fuori dall’Unione da subito, anche nel periodo in cui la procedura è ancora in corso. Amen. Si può uscire dall’euro restando nell’Unione? La dottrina dice che si può. Ci sono 4 vie alternative: referendum sull’euro; uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati; recesso dall’Eurozona in base agli articoli 139 e 140 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue); recesso dai Trattati europei secondo il Diritto internazionale. Quest’ultima è la strada più facile, e basta addurre come unica motivazione il cambiamento delle condizioni economiche e politiche rispetto al momento in cui il Trattato era stato firmato. La Gran Bretagna non ha l’euro ma ha indetto per il 2017 un referendum per uscire anche dall’Unione. Non è escluso, pertanto: che si possa uscire dall’Unione senza uscire dall’euro; che si possa uscire dall’euro senza uscire dall’Unione; che si possa uscire contemporaneamente dall’Unione e dall’euro. È un atto di sovranità che, conformemente alle proprie regole costituzionali, ciascuno Stato può fare. Senza drammi.

Azzardiamo con qualche perversa malizia un’ipotesi che potrebbe avere più fondamento di quanto sembra. E se Stati con monete diverse dall’euro (si pensi alla Cina, al Giappone, ma soprattutto agli Stati Uniti d’America, in perenne conflitto con la Germania) decidessero di «appoggiare» l’uscita di uno dei paesi dell’Eurozona dalla moneta unica? Chi ci dice che non riuscirebbero a mantenere calmi i mercati? Poniamo, poi, che questo Stato sia la Grecia, presa da noi ad esempio in quanto molto chiacchierata nelle ultime settimane: se Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis dimostrano che uscire dall’euro si può, e che in due, tre anni il paese ricomincia a prosperare grazie a una moneta diversa e senza aver subito traumi, che posizione prenderanno i partiti degli altri paesi dell’Eurozona chiamati a votare, magari nel 2018, come l’Italia?

Avevamo accennato ai Trattati. L’articolo 50 del Tfue recita testualmente: «1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49».

Chiaro. E l’articolo 218 lo è ancor di più. Ne riportiamo solo stralci: «(…) Il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi. (…) La Commissione (…) presenta raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. (…) Il Consiglio (…) adotta la decisione di conclusione dell’accordo: a) previa approvazione del Parlamento europeo (…) ovvero b) previa consultazione del Parlamento europeo. (…). Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati».

Ecco come si esce dall’Unione europea e, perché no, dall’euro. È scritto nei Trattati. Basta applicarli, se si vuole. E se si è forti/credibili abbastanza per farlo. La decisione è tutta politica. Quanto alla Grecia, siamo sicuri che tutto questo non accadrà. Il «problema» greco è oggi, ancora una volta, drammatizzato in termini di immagine, ma è contenuto nella sostanza dei numeri. Il punto è uno e uno solo: l’Europa non deve di nuovo sbagliare. Non c’è tempo da perdere. Si affronti la questione, con freddezza, subito. O sfuggirà nuovamente di mano. In questo caso il precedente c’è: a ottobre 2009, quando è emerso il buco dei conti pubblici di Atene sarebbero bastati poco più di 50 miliardi per risolvere l’emergenza. Invece sappiamo tutti com’è andata.

Errare è umano, con quel che segue. L’Europa oggi è a un punto di svolta. Non si può più insistere con la filosofia (sbagliata) dei compiti a casa. L’Europa oggi deve cogliere l’occasione per cambiare se stessa, realizzando quelle riforme da anni ormai annunciate, ma ferme al palo: l’unione economica, l’unione politica, l’unione bancaria e l’unione di bilancio. Argomenti che si trascinano stancamente a causa delle resistenze sempre dei soliti paesi. E deve cambiare la mission della Bce, oggi anch’essa troppo condizionata dagli interessi dei partner più forti (leggi: Bundesbank), affinché diventi una vera banca centrale (che funga, cioè, da prestatore di ultima istanza per gli Stati), al pari di tutte le altre principali banche centrali mondiali. E smettiamola, una volta per tutte, di farci del male.

Da Natale a Carnevale

Da Natale a Carnevale

Davide Giacalone – Libero

Il falso in bilancio va perseguito, ma anche il bilancio falso di comunicazioni governative contraddittorie. A Natale ci hanno detto che si depenalizzano le fatture false sotto i mille euro e che la soglia di punibilità penale per l’evasione fiscale passa da 50 a 150mila euro. Poi hanno messo tutto in un inesistente congelatore, continuando il presidente del Consiglio (giustamente) a difendere il senso di quelle norme. A Carnevale ci dicono di avere trovato un accordo in virtù del quale il falso in bilancio è sempre perseguibile d’ufficio, naturalmente in sede penale. Il fatto è che la depenalizzata fattura falsa diventa reato sia che la iscriva sia che non la iscriva a bilancio, perché lo falsa in entrambe i casi. E se i soldi che la società doveva al fisco sono stati sottratti mediante maggiori iscrizioni di spese o minori di entrate (perché se i conti sono in regola, allora non è evasione, ma un errore o la mancanza di soldi per pagare, cosa che già oggi i tribunali non puniscono come infedeltà fiscale), non serve a nulla depenalizzare sotto certe soglie se poi la procura rientra in casa contestando il falso in bilancio.

Non sono questioni formali, ma due politiche opposte. Preferisco la natalizia, ma temo la carnevalata. Posto che il reato di falso in bilancio, al contrario di quanto molti ripetono, non è mai stato depenalizzato ed è rimasto un “delitto”, nel 2001 si modificarono le regole di procedibilità. La cosa non mi convinse allora, perché così come non si può essere vergini a percentuale un bilancio non può essere vero a porzioni. Ma, comunque, fino al 2001 si procedeva d’ufficio, mentre da lì in poi si è continuato a farlo per le società quotate, mentre per le altre a querela di parte. Ovvero se qualcuno si riteneva danneggiato. Oggi altro non si farebbe che tornare al regime di prima, che non ricordo come l’era dei bilanci cristallini. L’innovazione, quindi, è un ritorno al passato. Con la particolarità che non funzionava neanche in passato.

In ogni caso: sia per l’evasione fiscale che per il falso in bilancio, non c’è ragione alcuna di difendere gli imbroglioni. Che paghino. Ma chi sono, gli imbroglioni? Non sono gli accusati di evasione o falso, bensì i condannati per tali reati. Solo che il fisco frusta con gli accertamenti e punisce poco con il recupero della supposta evasione, mentre i tribunali martorizzano con il procedimento e non condannano con le sentenze. Ci stiamo prendendo in giro, perché in un Paese in cui la giustizia non funziona la giustizia non c’è, quindi invocare procedure d’ufficio e pene più alte è giustizialismo ipocrita e satanico.

Dicono: premiamo i pentiti, nel reato di corruzione. Bello, sono favorevole. Ma il migliore trattamento per chi collabora con la giustizia è già nel nostro ordinamento, da prima che molti straparlanti nascessero, mentre per sapere se un collaborante sta dicendo il vero o rintontonendo la procura occorre una sentenza definitiva. E ci rivediamo fra dieci anni. Dicono: per evitare la prescrizione allunghiamola e facciamola decorrere dal processo. La prescrizione è un pilastro di civiltà ed è ciò che distingue una dittatura dallo Stato di diritto. Ma capisco il punto di vista: per molti quindici anni di processo sono quindici anni di stipendi; per il cittadino sono quindici anni di avvocati da pagare. Se governo e legislatori danno ragione ai primi al cittadino non resta che scappare.

Renzi aveva detto che non si sarebbe fatto influenzare dalla pressioni togate. Plaudo. È andato allo scontro, con piglio guerriero, sulle ferie dei magistrati (con un testo scritto male), ma poi consegna ai magistrati le chiavi delle aziende e il potere di decidere se il falso rilevato crea, o meno, un “danno rilevante”. Così, senza null’altro aggiungere. A piacimento dell’eccellentissima corte. Come essere severi con i pargoli perché passano troppo tempo alla play station, per poi dare loro i soldi acciocché possano comprarsi lo spinello. Strani genitori. Strani governanti.

Tfr in busta paga, rischio flop

Tfr in busta paga, rischio flop

Valentina Conte – La Repubblica

Optare per il Tfr in busta paga, dal prossimo primo marzo, può costare caro. Il 40% in meno di ricchezza futura, se si scelgono i soldi subito anziché lasciarli in azienda. Addirittura tra due e tre volte in meno, se si rinuncia al fondo pensione. Anche per questo, la misura inserita dal governo Renzi nella legge di Stabilità rischia il flop. In ogni caso, nelle più rosee previsioni, l’auspicato impatto sui consumi non andrà oltre lo 0,1%. L’ufficio parlamentare di Bilancio, nella sua analisi della Finanziaria 2015, lo scrive chiaro: solo 2,7 miliardi dei possibili 4 miliardi richiesti verrebbero consumati. Il resto a bollette, rate, tasse.

Se dunque pure il caos burocratico fosse superato in tempo utile (manca ancora il decreto attuativo della norma a pochi giorni dalla sua entrata in vigore), i lavoratori ci penseranno bene. Primo, perché non si tratta di risorse extra (come il bonus da 80 euro), ma di soldi propri, di fatto un trasferimento di patrimonio. Secondo, perché le tasse sono più alte (l’anticipo è soggetto agli scaglioni ordinari Irpef e non alla più conveniente tassazione separata riservata alla liquidazione futura). La relazione tecnica alla legge di Stabilità quantifica queste entrate extra in 2,2 miliardi quest’anno e 2,7 il prossimo. Denari che andranno a compensare l’Inps, per i mancati incassi del Tfr dalle aziende più grandi, sopra i 50 addetti. Terzo motivo, perché ci si perde.

Basta guardare ai conti fatti per Repubblica da Progetica. Un trentenne che oggi guadagna mille euro netti al mese, può certo avere 2.800 euro nei prossimi 40 mesi (dal primo marzo al 30 giugno 2018). Ma rinuncia a 4.500 euro futuri, ottenuti lasciando i soldi in azienda, oppure ad 8 mila euro, destinando il Tfr alla previdenza integrativa. Peggio ancora per un quarantenne con busta paga da duemila euro: incassa circa 5.500 euro in poco più di tre anni, da qui al 2018, ma rinuncia nei due casi a 9.200 e addirittura 13.600 euro. Un cinquantenne con salario da 2.500 euro, porta a casa oltre 7 mila euro ora grazie all’idea del premier Renzi, sacrificando però oltre 11 mila e 13 mila euro, nei due casi (azienda e fondi), quando dovrà andare in pensione. E le perdite future, avverte Progetica, potrebbero essere anche più ingenti, se la speranza di vita del lavoratore fosse più ampia di quella stimata dall’Istat (nei tre casi, pari a 22, 21 e 20 anni, con età della pensione a 67 anni). Augurabile.

Il possibile flop della misura non è d’altronde legato solo al mero ed ovvio calcolo delle convenienze personali. Ma anche ad alcuni dati di fatto. Se, come scrivono gli esperti dell’ufficio parlamentare di Bilancio, almeno un terzo dei più bisognosi saranno tentati (redditi bassi e difficoltà di reperire credito), tra questi non vi saranno i giovani precari. I cocopro non hanno Tfr, i contratti a tempo determinato sono abituati a ricevere la liquidazione ad ogni cambio di contratto. E questo purtroppo avviene spesso. Chi ha già optato per i fondi è fuori. Come pure gli statali. L’operazione è poi irreversibile: si sceglie ora, si incassa fino al 30 giugno 2018, senza possibilità di rinunciarvi. In aggiunta, problemi di liquidità e contabilità per le aziende (soprattutto piccole). Infine, il segnale contraddittorio a giovani e famiglie: dopo aver caldeggiato il secondo pilastro per integrare magre pensioni, ora si spinge al consumo. Non solo, si aumentano anche le tasse sui fondi pensione (dall’11,5 al 20%). Un capolavoro.

Partite Iva, politica ferma ma da loro passa la crescita

Partite Iva, politica ferma ma da loro passa la crescita

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Riflettere su professionisti, partite Iva e freelance non è tema separato da quello della crescita: è questo l’elemento che il governo e la politica faticano a capire. Torniamo a parlare di partite Iva e cominciamo a sgombrare il campo da un equivoco. Chi sostiene le loro ragioni non lo fa in nome di una rivisitazione tardiva del mito del «piccolo è bello». Non sappiamo ancora quali connotati avrà l’economia del dopo crisi ma probabilmente la polarizzazione del sistema delle imprese, oggi determinata dall’export , si accentuerà. Bisognerà quindi sostenere tutti gli sforzi per aumentare la taglia delle aziende laddove è possibile, strutturare le filiere della fornitura in maniera più moderna e spronare i «piccoli» a non proseguire nel loro tran tran, a darsi – pur nei limiti della dimensione – un orizzonte di politica industriale, ad attuare per tempo la staffetta generazionale, ad aprirsi alla collaborazione anche temporanea di manager esterni, ad affrontare la discontinuità digitale.

Questo itinerario, ovvero l’evoluzione del nostro sistema manifatturiero, è destinato a incrociare la modernizzazione dei servizi, a mettere in cantiere una forte ibridazione con tutto ciò che sta a valle della produzione: di conseguenza, riflettere su professionisti, partite Iva e freelance non è tema separato da quello della crescita. Pur rispettando la differente scala di grandezza, fa parte della stessa riflessione, è l’incontro tra l’evoluzione dell’industria, le sue esigenze di ri-specializzazione e i professionisti dell’innovazione. È questo l’elemento che il governo, la politica ma anche il segmento più orientato alle riforme del giuslavorismo italiano faticano a capire. Per loro intervenire sulle partite Iva resta una misura di politica sociale, un paternalistico sostegno ai giovani.

Che questa impostazione sia riduttiva lo dimostrano tutte le indecisioni messe in mostra dallo stesso premier, che pure della capacità di scegliere ha fatto il baricentro del suo format politico. Renzi ha fatto autocritica sul nuovo regime dei minimi (che penalizza le partite Iva) ma è ancora lì a cincischiare di aliquote, tetti e forfait senza venirne a capo e con l’amministrazione finanziaria che si erge a custode di una presunta ortodossia fiscale. Non si rende conto che questi traccheggiamenti alimentano un risentimento tra i freelance che si esprime oggi, per lo più, con le campagne di tweet bombing sui social e le assemblee nei coworking ma è destinato a non fermarsi lì. Se si continua a tematizzare la questione delle partite Iva come una sorta di anomalia del sistema, una devianza rispetto al lavoro dipendente, non si va lontano e si finisce per delegare la ricognizione politico-sociologica ai fiscalisti ministeriali.

C’è un legame stretto tra la tassazione, le politiche previdenziali e il riconoscimento dello status di lavoratore autonomo della conoscenza, ma stenta a passare tra i maître à penser renziani. Eppure tutte le riviste americane di maggiore prestigio hanno pubblicato nelle ultime settimane inchieste e analisi sul boom del «nuovo» lavoro autonomo, sostenendo che lì si troveranno le maggiori (e le migliori) occasioni di lavoro e la possibilità di creare valore per sé e per il sistema delle imprese. Ecco, è questo il verso giusto: aiutare le partite Iva a crescere con politiche fiscali che non taglino loro le gambe, dotarle di un welfare che non si presenti predatorio (arrivare al 33% di contributi Inps con prospettive di pensione sotto i mille euro è francamente insostenibile) e favorirne l’inclusione nelle politiche di sviluppo. È chiaro che un simile programma non lo si centra con un ritocchino o un emendamento infilato nel Milleproroghe, ma si può dare un segnale subito (bloccare l’aumento delle aliquote previdenziali e ripristinare un regime dei minimi più favorevole) e poi costruire il nuovo.

Se la politica sta ferma il mercato si muove. Si cominciano, infatti, a registrare i primi movimenti di partite Iva e freelance verso nuove formule come le ditte individuali commerciali o le accomandite semplici perché garantiscono un regime fiscale più equo e una contribuzione previdenziale che non assomigli all’usura.

Istruttivo e distruttivo

Istruttivo e distruttivo

Davide Giacalone – Libero

Istruttivo e distruttivo, lo scontro sui contributi che le emittenti televisive devono pagare per l’uso delle frequenze digitali. È istruttivo che tutti si concentrino su quanto dovranno scucire la Rai e Mediaset (e chi se ne importa), o su quanto questo incremento sia frutto di una ritorsione politica (che neanche nella Chicago del vecchio Al). È distruttivo, invece, che nessuno faccia caso a cosa comporta una simile decisione governativa: la fine delle autorità indipendenti, la demolizione dell’Agcom (autorità per le comunicazioni). Che forse se lo merita pure, ma sarà il caso di concentrarsi sull’elefante entrato in cristalleria, non sulla scimmia sghignazzante che ha sul groppone e finge di guidarlo.

Partiamo dal conoscere, prima di giudicare e deliberare. L’autorità indipendente fu introdotta all’inizio degli anni novanta (con la legge Mammì, che, come tutti ripetono, contribuii a scrivere, ma dato che quanti dicono sono refrattari a studio e lettura, non sanno che i difetti li misi nero su bianco durante la discussione e subito dopo, perché le leggi si scrivono in Parlamento, dove si producono robe da ridere e da piangere). Fu una moda, quella delle autorità, che, anche grazie a Uolter Veltroni, furono da subito chiamate all’americana: Authority (che poi non è manco americano, perché colà al plurale fa: Authorities). A me sembrava che non potessero funzionare, in un sistema di diritto in cui esistono sedi di ricorso amministrativo. Così è stato. Ma ora siamo al salto (in basso) di qualità: è il governo a intervenire sulle decisioni dell’autorità indipendente, che così cessa di essere sia indipendente che autorità.

Nell’aprile del 2012, governante Mario Monti, con una maggioranza di governo che comprendeva le componenti politiche dell’attuale, un decreto legge stabilì che sarebbe stata l’Agcom a fissare criteri e quantificazione dei contributi annuali da versare per l’uso delle frequenze digitali. Nell’ottobre del 2014 (con calma), l’Agcom provvede. Nel decreto legge milleproroghe, il cui nome è un milleprogrammi, il governo Renzi incorpora quella decisione. Non pago di avere decretato d’urgenza, quindi dando vita a un atto che è già vigente e operativo, urgentemente, ma posticipatamente, decide di cambiarlo, presentando un emendamento che attribuisce al governo quella funzione. Tutti si mettono a strillare per le due ragioni sopra ricordate, ma nessuno vede lo scempio del diritto. Altro che semplificazioni e trasparenza dei testi, qui siamo all’azzeccagarbuglismo che genera un kamasutra legislativo, inducente contorsionismo regolamentare.

C’è una sola cosa da farsi, per metterci una pezza: chiudere l’Agcom. Perché se non la chiudono resta evidente che è commissariata, il che, per una supposta indipendenza, è troppo. Avvertendovi di ciò, vi metto sull’avviso di quel che si sta preparando e già praticando. Ricordate il vecchio mercato delle frequenze? Un suk inverecondo, che la legge Mammì stoppava, introducendo, dopo anni, la pianificazione e le concessioni. Peccato che provvidero a disapplicarla, dando poi le concessioni senza le frequenze, sicché il suk raggiunse ritmi e quotazioni stellari. È finito per estinzione, giacché si è passati al digitale. Bene. Peccato che ora si sia aperto il suk Lcn: vale a dire, per capirsi, della posizione di ciascuna emittente sul telecomando. Teoricamente non dovrebbe esistere, perché ad ogni autorizzazione corrisponde una collocazione. Ma praticamente è già attivo e fiorente, con soggetti che si fanno pagare milioni null’altro che il riflesso del valore di un atto amministrativo e governativo. In un Paese mezzo serio tutto questo verrebbe stroncato sul nascere, salvo il fatto che nessuno se ne occupa. Né il governo né la (non) autorità (non) indipendente. Quando qualcuno, fra qualche tempo o anno, ve lo racconterà come uno scandalo, sapete dove indirizzarlo.

Impresalavoro: «La giunta poteva tagliare di più l’Irap»

Impresalavoro: «La giunta poteva tagliare di più l’Irap»

Il Messaggero Veneto

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale il Fvg ha erogato nel 2013 al sistema delle imprese 230 milioni di euro suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,62 per cento del Pil. Un paper di Paolo Ermano, del1’Università di Udine, ha analizzato per il Centro studi di ImpresaLavoro il fenomeno e ha ricostruito la composizione di questi dati. Nel 2013 – al netto dei contributi per servizi sanitari – la Regione ha trasferito complessivamente 108 milioni di euro ad imprese private (56 milioni in trasferimenti correnti e 52 in contributi in conto capitale) e 121 milioni di euro ad imprese pubbliche (34 milioni di euro ín trasferimenti correnti e 87 milioni di euro in conto capitale).

Per il Centro fondato da Massimo Blasoni è una cifra di tutto rispetto: tre volte superiore al Veneto e cinque volte la Lombardia. «Durante il dibattito su Rilancimpresa – sottolinea Impresalavoro – la Regione ha più volte spiegato di non essere in grado di andare oltre il taglio dell’Irap di circa 7 milioni. Secondo noi, invece, un’ipotesi di revisione del sistema dei contributi alle imprese avrebbe permesso di estendere sensibilmente i beneficiari del taglio, fino a raddoppiarne l’impatto. È questo, infatti, il vero tema in discussione. Il dibattito sulla fuga delle imprese regionali in Carinzia o in Slovenia ruota intorno a due fattori: di là le imposte sono più basse e c’è meno burocrazia. Tagliando con decisione l’Irap il Fvg potrebbe diventare fiscalmente competitiva, quantomeno rispetto alle altre regioni italiane e ridurrebbe il divario fiscale con Slovenia e Carinzia semplificando il sistema e immettendo risorse senza la necessità di dedicare ore preziose alla burocrazia per richiedere un contributo».

Contributi alle imprese: dalle Regioni ogni anno circa 6 miliardi di euro

Contributi alle imprese: dalle Regioni ogni anno circa 6 miliardi di euro

ANALISI

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale ogni anno le Regioni italiane trasferiscono al sistema delle imprese circa 6 miliardi di euro, suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,36% del Pil nazionale. Lo rivela una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti contenuti in SIOPE, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici del Ministero delle Finanze. Gli ultimi dati disponibili certificano infatti che nel 2013 le Regioni italiane hanno trasferito complessivamente 3,3 miliardi di euro a imprese private (1 miliardo in trasferimenti correnti e 2,3 miliardi in contributi in conto capitale) e 2,5 miliardi di euro a imprese pubbliche (1,1 miliardi in trasferimenti correnti e 1,4 miliardi in conto capitale) .
Dal punto di vista regionale, a fare la parte del leone è il Trentino Alto Adige, che trasferisce annualmente al suo sistema delle imprese circa 762 milioni di euro. Seguono la Sicilia con 683 milioni e la Puglia con 591 milioni.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Il dato assunto in mero valore assoluto rischia però di essere fuorviante, considerato che si paragonano regioni molto diverse sia per popolazione che per Prodotto interno lordo. Dal punto di vista dei contributi che ogni regione eroga rapportati alla popolazione, il Trentino Alto Adige risulta ancora di gran lunga il territorio più generoso: con 736 euro di contributo per ogni cittadino residente quasi doppia la Valle d’Aosta che si classifica al secondo posto. Terza la Basilicata con 200 euro a cittadino e quarta un’altra Regione autonoma, il Friuli Venezia Giulia, che trasferisce ogni anno alle sue imprese 186 euro per cittadino residente. Molto meno generose sono la Toscana (37 euro), la Lombardia (41 euro) e il Lazio (42 euro).
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Anche con riferimento al Pil Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Basilicata si confermano le regioni in cui vengono erogati più contributi alle imprese: nelle province di Trento e Bolzano, infatti, la contribuzione regionale ad aziende pubbliche e private raggiunge i 2 punti di Pil: il doppio di quanto avviene in Valle d’Aosta e Basilicata e 20 volte l’impatto che queste misure hanno in regioni importanti come Lombardia, Toscana, Lazio e Veneto.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Le singole Regioni si differenziano non solo in termini quantitativi: particolarmente curioso è analizzare la composizione dei contributi al sistema delle imprese diviso tra quanto finisce in tasca ad aziende private e quanto invece va a foraggiare il sistema delle imprese pubbliche. Liguria ed Emilia Romagna, ad esempio, scelgono di erogare larghissima parte dei loro contributi ad aziende di proprietà dello Stato, delle Regioni o degli Enti Locali. In Liguria quasi il 93% dei contributi erogati finisce al pubblico mentre in Emilia-Romagna le aziende di stato si portano a casa l’82% del totale stanziato a favore dell’economia reale. Terza in questa speciale classifica di attenzione alle società pubbliche è la Puglia con il 64% dei contributi erogati, seguita dalla Campania cn il 63,5% e dalla Sardegna con il 54,1%.
tabella4
Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Al contrario, si dimostrano particolarmente attente al sistema delle aziende private Molise, Campania e Sicilia che stanziano a loro favore rispettivamente il 94,4%, il 90,7% e l’86% delle risorse disponibili per contributi alle imprese.
tabella5
Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
 
Rassegna stampa
La Gazzetta del Mezzogiorno
Il Messaggero Veneto
 
 
Dati non dati

Dati non dati

Davide Giacalone – Libero

Cresciamo meno della metà dell’eurozona, non riuscendo a riassorbire la disoccupazione. Ciò dovrebbe imporre, a tutti, il tema di cosa fare per rimediare. Invece si cerca su chi scaricare la colpa, agevolati dal fatto che al governo hanno appena provato a prendersi il merito di dati e previsioni di pura fantasia. Nelle scorse settimane abbiamo letto di previsioni di crescita del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, del 2,1%. Alcuni, più prudenti, supponevano un +1,6. Domandavamo: da dove arriva questa manna? Rispondevano: dal calo del petrolio e dalle politiche espansive della Banca centrale europea. Più le meravigliose riforme già fatte e che solo chi si picca di leggere i documenti non riesce a vedere.

Ora arriva la previsione della Commissione europea: 1’Italia dovrebbe crescere dello 0,6%. Dopo tre anni di recessione. L’intera zona dell’euro, noi compresi, è data in crescita dell’1,3%. Considerato che in quella media ci siamo noi, ed è già più del doppio della nostra, risulta evidente che gli altri crescono allargando il distacco. Le cose non andranno meglio nel 2016, perché è vero che noi dovremmo crescere dell’1,3, ma l’area e previsto che faccia +1,9. Lo svantaggio relativo diminuisce solo dello 0,1, mentre quello assoluto cresce. Tale crescita, inoltre, non è il frutto delle riforme che facciamo all’interno, ma del trascinamento che subiamo dall’esterno, tanto è vero che un’eventuale flessione della domanda globale è segnalata come possibile causa di problemi nei nostri conti. Sono le esportazioni a funzionare, prevedendosi un saldo attivo del 2,6 fra importazioni ed esportazioni. Ciò vuol dire che a tirare la carretta ci sono le aziende che esportano, agevolate da null’altro che dal deprezzamento dell’euro. Cioè da quel che non dipende da scelte politiche compiute all’interno dei nostri confini. Occhio a quel che segue.

Nelle stime fatte a novembre si prevedeva una crescita del nostro pil dello 0,6. Esattamente quella che si prevede ancora oggi. Ma si pensava che quella crescita avrebbe portato al 12,6% la disoccupazione, nel corso del 2015. Posto che il 2014 si era chiuso con la disoccupazione al 12,9. Ora, invece, si corregge la previsione, peggiorandola: dovremmo chiudere l’anno con il 12,8% dei disoccupati. Ovvero quelli che abbiamo oggi. Ma non ci era stato raccontato che solo a gennaio si erano creati 100mila posti di lavoro? Peccato fossero 94mila e compensassero a malapena gli occupati persi da ottobre. Nel 2016 dovremmo trovarci con il 12,6% di disoccupati, quindi con un calo dello 0,2. Nessuno, intellettualmente onesto, può sostenere che sia colpa di questo governo, visto che scontiamo una lunga e devastante perdita di competitività e crescita dei costi interni. Però nessuno, intellettualmente onesto, può continuare a vendere la balla che le riforme denominate all’inglese sono in grado di mettere al lavoro i disoccupati in vernacolo. L’Italia arranca e scivola anche perché al gran clamore delle polemiche seguono risultati striminziti e contraddittori.

E veniamo ai conti pubblici, dove si trova la polpetta avvelenata, fin qui nascosta agli italiani. Qui la Commissione si fa prudente, perché i conti italiani devono ancora essere rivisti. Fin qui siamo alla fede rispetto a quel che dice il nostro governo. E sentite che dice: nel 2014 il deficit è stato al 3% (che il cielo ci assista e che non si trovi nulla a farlo crescere); nel 2015 sarà del 2,6; nel 2016 del 2. Come si ottiene questo risultato? Mediante l’aumento del gettito fiscale. Avete letto bene. E io lo leggo nelle carte europee: perché aumenta la pressione fiscale. Laddove ci era stato detto che sarebbe diminuita nell’anno in corso. La verità è che rispetto ai conti a sua volta fatti dal governo italiano c’è una imponente novità, ovvero la Bce che fa scendere significatívamente il costo del debito pubblico. Bravissimi, ma com’è, allora, che tale meravigliosa cosa non produce da sola, senza tasse, la discesa del deficit? Risposta: perché non sono capaci d’imbrigliare la spesa pubblica. Vedi al capitolo Collarelli e secretazione dei suoi lavori. Saldo finale: debito pubblico che cresce al 133% del pil quest’anno e si spera scenda (si fa per dire) al 131,9 il prossimo.

Torno da dove sono partito: dobbiamo chiederci cosa fare per disincagliare l’Italia, posto che il motore produttivo funziona, come dimostrano le esportazioni. Rispondiamo: abbattimento del debito, mediante dismissioni; tagli della spesa corrente; tagli alla pressione fiscale; smantellamento della pressione burocratica. I dettagli illustrati molte volte. Ma, prima di tutto, piantiamola di prenderci per i fondelli fa soli. Operazione impossibile per la fisica, ma praticata dai parolai.

Fornitori dello Stato in rivolta: «Versare subito l’Iva ci uccide»

Fornitori dello Stato in rivolta: «Versare subito l’Iva ci uccide»

Roberto Giovannini – La Stampa

Per lo Stato è quasi 1 miliardo di gettito atteso aggiuntivo; dunque una marcia indietro è praticamente impossibile. Parliamo dello «split payment», la misura introdotta dalla Legge di Stabilità che impone alle pubbliche amministrazioni di girare direttamente all’Erario l’Iva sui pagamenti ai loro fornitori di beni e servizi. Apparentemente sembra una misura di buon senso: invece di perdere tempo lasciando per qualche mese l’Iva alle aziende che lavorano col “pubblico”, a un certo punto poi costrette a girarla all’Erario, si evitano passaggi intermedi. E soprattutto si evitano le tristemente note «truffe carosello» con false compensazioni Iva. Eppure in queste settimane i costruttori dell’Ance e le associazioni di piccola e media impresa che compongono Rete Imprese Italia hanno lanciato l’allarme: «È una norma killer», affermano le associazioni, sostenute da M5S, Forza Italia e Lega, «il conto per noi è insostenibile». E come afferma il presidente dei costruttori dell’Ance Paolo Buzzetti, «per centinaia di imprese di costruzione sarà la fine». Protestano anche i professionisti, che pure sono esentati dalla novità.

Una vicenda, si capisce, che la dice lunga sulla stato di salute (pessimo) e sulla competitività (risibile) del nostro sistema d’impresa. Perché è davvero misero un paese in cui tante imprese rischiano di chiudere soltanto perché non disporranno più della liquidità rappresentata dall’Iva (dal 10 al 22% per ogni lavoro svolto) che fino all’anno scorso potevano utilizzare per qualche mese, e che oggi invece passa direttamente tra la pubblica amministrazione committente e l’Erario. E in effetti, spiega l’Ance, è proprio il «forte ammanco di liquidità rispetto a quanto attualmente incassato» a spaventare. Tenendo conto, dicono le aziende, che come noto lo Stato non solo ritarda moltissimo i pagamenti per i lavori svolti, ed è pure lentissimo nell’effettuare i rimborsi Iva alle aziende che ne hanno diritto.

E parlando con gli esperti di fisco e con quelli di governo, si capisce che è proprio il nodo della compensazione tra crediti e debiti Iva la ragione che ha spinto il governo a varare lo «split payment», e che preoccupa tante aziende. In precedenza, un’azienda che lavorava col «pubblico», prima di girare all’Erario l’Iva temporaneamente incassata, poteva detrarre da quella somma i crediti Iva, ovvero l’Iva versata a fornitori, subappaltanti e acquisti vari effettuati. Molto banalmente, spiegano al ministero di Via Venti Settembre, quasi sempre tra i crediti Iva si inserivano acquisti discutibili o fatture un po’ gonfiate, contando sull’inefficacia dei controlli fiscali. Per non parlare delle truffe vere e proprie con le fatture false create dalle cosiddette «cartiere». Non è un caso se dallo «split payment» lo Stato si attende moltissime entrate aggiuntive, blindate peraltro con una «clausola di salvaguardia» sulle accise dei carburanti. E il ritardo nei rimborsi Iva «onesti»? Il governo assicura che impiegherà non più di sei mesi per restituire l’Iva «passiva», ma le imprese non ci credono. L’Ance ha varato una raccolta di firme, Rete Imprese chiede correzioni nel «milleproroghe».