Edicola – Argomenti

Gli e-book come i videogame: l’Ue boccia l’Iva agevolata

Gli e-book come i videogame: l’Ue boccia l’Iva agevolata

Marco Zatterin – La Stampa

Salvo miracoli, i giochi sono chiusi. Una decina di stati dell’Ue resta convinta che un libro di carta e uno elettronico siano due oggetti diversi che richiedono tassazioni differenti. Il tentativo di cucire il consenso unanime necessario per rivedere la rotta risulta fallito, così da gennaio i volumi tradizionali saranno ancora assoggettabili all’Iva ridotta (4%), mentre sugli e-book graverà l’aliquota normale, che in Italia è del 22%. Brutta storia. Perché i prezzi aumenteranno e un’editoria già in difficoltà avrà nuovi problemi di domanda, provocati da una scelta bizzarra che aiuta molti fra i Ventotto a fare i propri interessi più che quelli dei cittadini.

L’ultima chance poteva essere il Consiglio Cultura del 25 novembre, ma le speranze sono ridotte al lumicino. Questa settimana la riunione del Coreper – il conclave dei rappresentanti dei governi che prepara i lavori dei ministri – è finita con un nulla di fatto. Italia e Francia hanno spinto per convincere i partner che «un libro è un libro, comunque lo si serva». Inutile. Per motivi vari – esigenze nazionali e questioni procedurali – Commissione, britannici, nordici e centroeuropei hanno detto «no» a Roma e Parigi, mentre i tedeschi hanno fatto tattica e non si sono pronunciati. Risultato: la bozza di conclusioni per il Consiglio Cultura con l’«invito» ai titolari di cattedra dell’Ecofin perché equiparino letture digitali e cartacee non è stata accolta.

L’oggetto del contendere è la direttiva 112/2006 con cui gli stati dell’Unione intendono delineare dal primo gennaio 2015 un «sistema comune d’imposta sul valore aggiunto». È un dispositivo che nelle intenzioni armonizza l’Iva in modo da limitare al massimo la concorrenza fiscale. Si vuole evitare che si possa scegliere un bene o un servizio in un paese, piuttosto che in un altro, solo per ragioni fiscali. Vuol dire omologare aliquote e criterio di applicazione. E, nel caso degli acquisti online, applicare la tassa del paese dove si consegna e non quella della sede in cui la transazione viene registrata.

La contesa sui libri nasce dalle nozze del nuovo criterio di fatturazione con l’Iva «ridotta». Il testo in discussione prescrive che possano usufruire della minore tassa la «fornitura di libri, gli album, la musica stampata, le mappe, i giornali, non il materiale pubblicitario». Bene, sin qui. Però colpisce ciò che manca, gli ebook che i giuristi della Commissione considerano prodotti elettronici come i videogame, che sono soggetti all’aliquota ordinaria. Se vanno sul Kindle non sono libri, l’essere dietro uno schermo li snatura. «Come se l’uomo dentro la doccia non fosse più un uomo», scherza una fonte Ue. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, si batte da sempre per l’equiparazione delle letture, ma non è agevolato dall’essere presidente dell’Ue sino a fine mese, deve per definizione mediare. Con lui sono i francesi che nel 2012 hanno abbassato d’arbitrio l’Iva sugli e-book al 7%, sfidando l’Ue e rischiando la condanna in Corte. Più Olanda, Grecia e Slovenia. L’alleato insolito è il Lussemburgo, in nome delle tasse basse più che per la diffusione della cultura. La ragione è presto spiegata: Amazon fa capo al Granducato; un libro venduto a un residente italiano è attualmente tassato al 3% lussemburghese, ma da gennaio passerà al nostro 22.

Londra ambisce a una zona «no tax» per i servizi finanziari, poi però accetta l’Iva alta sugli ebook, confortata dal mercato «reale» che comunque tira. In settembre la Corte Ue ha deliberato che il doppio binario Iva è legittimo, perché «dipende dalla percezione del consumatore». L’Associazione italiana Editori teme che l’Iva normalizzata geli un mercato digitale che decolla a fatica: era il 3% del totale nel 2013, è salito al 5% nel 2014. Il governo Renzi studia cosa fare, ma non pensa al momento di imitare lo strappo di Parigi. «Si stronca la diffusione di un media che piace ai giovani», fanno notare a Bruxelles, dove ammettono che al Consiglio Cultura una fumata bianca sarà difficile. È una di quelle cose difficili da spiegare ai cittadini, una direttiva che tassa gli ebook al 22% e non la vendita di navi da guerra. Cose che fanno male all’Europa.

«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

Luigi Grassia – La Stampa

Continuano ad arrivare stime sulla propensione dei lavoratori italiani a incassare subito il Tfr maturato nel 2015 anziché aspettare la fine del rapporto d’impiego, nonostante lo svantaggio fiscale per chi sceglie la prima soluzione. Un’indagine della Confcommercio e della società Format Research rivela che i dipendenti che vogliono prendere i soldi al più presto sono una quota abbastanza piccola, solo il 18,1%. Peraltro questo già basta a preoccupare le aziende sul piano finanziario. Il campione riguarda i dipendenti delle imprese fino a 49 addetti; sono quelle per cui la scelta farà la differenza, infatti fino a ora trattenevano tutte le somme accantonate per il Trattamento di fine rapporto e le usavano come liquidità propria – mentre le aziende da 50 dipendenti in su versano i fondi all’Inps, quindi per loro niente cambia con una diversa destinazione del Tfr.

L’indagine si occupa in via preliminare di un problema di informazione e rivela che il 91,9% dei lavoratori dipendenti sa della possibilità di ricevere in busta paga il Tfr che maturerà nel 2015. Quanto alle intenzioni, il 18,1% dice di voler approfittare di questa opportunità, il 18% è indeciso e ben il 63,9% dei lavoratori dice di non volerlo assolutamente fare. Ma queste sono cifre medie, che vanno scomposte. L’intenzione di anticipare l’incasso del Tfr è più forte della media fra i lavoratori di sesso maschile, fra i giovani fino a 34 anni, fra i dipendenti delle imprese del Nord-Ovest, fra i «single», fra coloro che vivono ancora con la famiglia di origine, e fra chi è operaio o comunque svolge mansioni a carattere esecutivo. Come saranno usate le somme che i lavoratori incasseranno in anticipo? Il 60% di chi vuole subito il Tfr lo utilizzerà per maggiori consumi o per spese di cui ha necessità urgente, mentre l’altro 40% dice che ritirerà il denaro extra per risparmiarlo. Se ne deduce che un certo effetto di espansione dei consumi, come spera il governo, dovrebbe esserci. Naturalmente lo scotto è che peggioreranno le prospettive previdenziali.

Le imprese italiane con un numero di addetti fino a 49 sono circa un milione e mezzo. Una parte di queste nel 2015 dovrà versare un extra a una parte dei dipendenti e questo peggiorerà la condizione finanziaria media delle aziende, che sono già provate da anni di crisi economica e da una domanda interna ferma. Difficile valutare l’impatto positivo dei maggiori consumi, ma è certo che l’eventuale beneficio andrà a tutte le imprese, anche a quelle sopra i 50 addetti, mentre l’aggravio finanziario sarà solo per le più piccole. Dall’indagine risulta che a trovarsi più in difficoltà per le nuove regole sul Tfr saranno le aziende con un numero di dipendenti compreso fra 20 e 49, quelle che operano nel ramo industriale (anziché nel terziario) e quelle collocare nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est. Fra le imprese dell’industria (cioè manifattura e costruzioni) il 34,3% (circa 170 mila) subirà richieste di anticipo del Tfr in busta paga da parte di alcuni dipendenti. La quota sarà invece più bassa, attorno al 10%, fra le aziende del terziario (cioe commercio, turismo e servizi) e questo corrisponderà ad altre 110 mila imprese coinvolte, in totale 280 mila.

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Un milione di abusivi, così il fisco perde 12 miliardi l’anno

Paolo Baroni – La Stampa

Ci sono parrucchieri ed estetiste, spesso ex dipendenti licenziati, che continuano ad esercitare a casa loro o direttamente a casa dei clienti, tassisti completamente abusivi o che magari «sforano» in comuni limitrofi a quelli per cui hanno la licenza, idraulici ed elettricisti che tirano giù la serranda ma che poi continuano come se nulla fosse a prestare i loro servizi, e ancora trasportatori per conto terzi senza la necessaria abilitazione. Per non dire poi di imbianchini e muratori. C’è gente che fa il doppio lavoro e ci sono anche tanti cassintegrati che in questo modo cercano di arrotondare. Complice la crisi l’esercito degli abusivi cresce anno dopo anno. Oggi sono un milione, o quasi, calcola l’ufficio studi di Confartigianato. O meglio sono 881mila, ma visto in media lavorano molte più ore dei regolari «valgono» come 1 milione e 34mila persone, o «unità di lavoro equivalenti a tempo pieno» (ula) per usare il termine dei tecnici. Il tasso di irregolarità, tra i lavoratori autonomi, tocca così il 13,8%. Ovvero, un occupato su 7 è in nero. Se poi si allarga lo sguardo al totale dell’economia il conto degli irregolari, calcolando anche i 2.204.000 lavoratori dipendenti a loro volta «in nero», sale a quota 3 milioni e 85 mila, con un tasso complessivo di irregolarità del 12,4%.

Concorrenza sleale
Questo esercito di abusivi non solo «fa concorrenza sleale alle imprese regolari – è scritto nel rapporto di Confartigianato, che ha elaborato i dati contenuti nei conti nazionali pubblicati dall’Istat a settembre, e che La Stampa pubblica in esclusiva – ma determina una rilevante evasione fiscale». Usando come reddito la media rilevata dagli studi di settore, Confartigianato stima che la presenza di una fetta così ampia di lavoro irregolare determini un’evasione fiscale e contributiva da parte dei soli lavoratori autonomi pari a 11,78 miliardi: 3,8 miliardi di Iva, 2,8 di Irpef, 604 milioni di Irap e 4,54 miliardi di contributi sociali. Tanto per fare un paragone: l’importo evaso dagli abusivi, in media 14.209 euro a testa all’anno, rappresenta lo 0,7 del Pil ed equivale alla spesa sanitaria di Veneto e Marche messe insieme.

Chi è più esposto
Ovviamente le imprese artigiane regolari sono tra le più esposte alla concorrenza sleale del sommerso: circa i due terzi del settore (923.559 imprese, 1.750.427 di addetti) sono a rischio. In cima alla lista “altri servizi alla persona” con un tasso di esposizione del 24,5%, servizi di alloggio e ristorazione (22,1%) e le attività di trasporto e magazzinaggio (19,5%) che in tutto assommano 333.748 imprese e 650.743 addetti. Particolarmente esposti anche parrucchieri ed estetiste, settore che conta 126.790 imprese e 229.300 addetti. In valori assoluti tra le regioni più «colpite» ci sono Lombardia (con 172.688 imprese, pari 18,7% del totale dell’artigianato più esposto), Emilia-Romagna (10,2), Veneto (9,6) e Piemonte (9,5). Commenta il presidente nazionale di Confartigianato, Giorgio Merletti: «Smettiamo di tollerare l’abusivismo e le attività irregolari come se fossero un male necessario. Il fenomeno del sommerso è un’emergenza nazionale, una grave minaccia per il Paese e per il sistema produttivo, soprattutto per artigiani e piccole imprese. Noi piccoli imprenditori siamo le prime vittime della concorrenza sleale di chi opera senza rispettare le leggi, sottraendo gettito alle casse dello Stato e minacciando la sicurezza dei consumatori».

Il record in Campania
In termini assoluti la metà degli occupati irregolari totali si concentra in cinque regioni: l’11,6% in Campania con 357.400 unità, il 10,7% in Sicilia (329.400), il 10,1% in Lombardia (312.600), il 9,4% in Lazio (290.900) e l’8,2% in Puglia con 253.400 unità. In Calabria un terzo (35,3%) degli occupati è irregolare, in Molise, Sardegna, Basilicata e Sicilia viaggiano sul 25%, Campania e Puglia sono attorno al 20. Il tasso di irregolarità più basso è pari al 5,9% e si rileva nella Valle d’Aosta. Un terzo (34,2%) degli occupati irregolari, pari ad oltre un milione (1.054.600 unità), si concentra nelle sette prime province: Roma (222.500 unità), Napoli (200.900), Milano (157.300), Torino (126.700), Bari (106.500), Palermo (87.900), Cosenza (78.500) e Salerno (74.300). Ma a livello provinciale i picchi si toccano a Crotone con il 40,1%, a Vibo Valentia (39,3%) e Catanzaro (37,8%).

Come rimediare a tutto ciò? «Non servono interventi spot e dichiarazioni di buone intenzioni – spiega Merletti -. Il fenomeno del sommerso va combattuto senza ipocrisie e in modo strutturale, intervenendo sulle cause che lo favoriscono, vale a dire tutto ciò che ostacola l’attività delle imprese che lavorano alla luce del sole, a cominciare dal carico fiscale e contributivo troppo elevato e dall’eccesso di burocrazia».

 

Tasse giù di 3 miliardi, ma solo per pochi

Tasse giù di 3 miliardi, ma solo per pochi

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Nel 2014 le tasse caleranno di 3 miliardi. Potrebbe sembrare una bella notizia quella della Cgia ma se andiamo a guardare nel dettaglio emerge che non solo è come una goccia nel deserto giacché la pressione fiscale resta elevatissima (il 43,3%) ma il taglio irrisorio interessa comunque una fascia di contribuenti circoscritta. La Cgia mette in evidenza che quest’anno la riduzione delle impose sarà pari a 11,8 miliardi di euro a fronte di aumenti per 8,7 miliardi. Queste cifre scaturiscono dal confronto tra le varie misure fiscali che hanno avuto impatto economico nel 2014.

Guardando nel dettaglio emerge che hanno beneficiato del taglio delle tasse soprattutto i redditi bassi mentre il ceto medio ne è rimasto escluso. Anzi è proprio questa fascia che ha subito i maggiori rincari. Tra le riduzioni di imposta avvenute nel 2014, la Cgia segnala il bonus di 80 euro voluto dal governo Renzi (misura pari a 6,6 miliardi di euro), il bonus Letta, che ha incrementato le detrazioni Irpef per i lavoratori dipendenti a basso reddito (sgravio da 1,5 miliardi di euro), l’eliminazione della maggiorazione Tares (1 miliardo di euro), la riduzione dell’aliquota della cedolare secca (1 miliardo di euro) e la deduzione del 30% dal reddito di impresa dell’Imu applicata sugli immobili strumentali (714 milioni di euro). Per contro, invece, tra i principali aumenti fiscali avvenuti quest’anno la Cgia registra l’introduzione della Tasi (3,8 miliardi di euro di gettito), la crescita della tassazione delle rendite finanziarie (720 milioni di euro di gettito), l’incremento dell’imposta di bollo sul dossier titoli (627 miliardi di euro) e la riduzione della deduzione forfetaria dei redditi derivanti dai contratti di locazione (627 milioni di euro).

Ad essere colpita dal fisco, come emerge chiaramente, è soprattutto la casa. La Tasi, l’imposta sui servizi indivisibili, è una specie di Imu dal momento che colpisce anche la prima casa ed è risultata più alta della vecchia imposta immobiliare non avendo la detrazione fissa di 200 euro e quella per ogni figlio sotto i 26 anni. Secondo i calcoli della Cisl il salasso maggiore l’hanno avuto coloro che hanno un’abitazione principale con rendita catastale bassa, fino a 300-500 euro. Più piccola è la casa, maggiore è la differenza rispetto all’Imu. Per gli immobili con rendita catastale di appena 300 euro, la nuova tassa sui servizi risulta più cara in 11 città, mentre in soli 4 centri urbani era più alta la vecchia imu sulla prima abitazione. Solo in 5 capoluoghi su 20, invece, i due balzelli sulla casa risultano equivalenti.

Secondo la Cgia «la stabilizzazione del bonus Renzi, gli sgravi contributivi per i neoassunti a tempo indeterminato e il taglio dell’Irap dovrebbero avere il sopravvento sugli aumenti di imposta previsti sui fondi pensione, sull’incremento della tassazione sul Tfr, e sull’incremento delle accise sui carburanti che scatterà dal prossimo 1° gennaio». «Era da molto tempo che ciò non accadeva – osserva il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – A far pendere l’ago della bilancia a favore dei contribuenti italiani è stato il bonus fiscale introdotto nella primavera scorsa dal Governo Renzi. In linea di massima possiamo affermare che i maggiori benefici economici, come era giusto che fosse, sono andati ai redditi medio bassi, mentre quelli superiori non hanno ancora fruito di nessun sollievo fiscale. Nonostante ciò, il carico fiscale complessivo rimane ancora molto elevato. Purtroppo, la contrazione del Pil continua ad essere superiore alla diminuzione del gettito: pertanto, la pressione fiscale non si abbassa».

E per far fronte al caro imposte in molti pensano di farsi anticipare il Tfr in busta paga. Secondo un’indagine realizzata da Confcommercio-Imprese, un lavoratore su cinque, nelle imprese fino a 49 addetti, è pronto a chiedere il Tfr in busta paga. Un’intenzione che sta maturando soprattutto tra i dipendenti di sesso maschile, giovani, single che vivono nella famiglia d’origine, con un’età compresa tra i 25 e i 34 anni d’origine, e un’ampia maggioranza (il 60%) conta di utilizzare l’anticipo della liquidazione per consumi e per fronteggiare spese ritenute necessarie mentre il 40% circa vuole depositarlo in banca come fondo per le emergenze. Si tratta di un’operazione che coinvolgerà circa 300 mila imprese e, per molte, non sarà certo indolore visto che comporterà un aggravio della loro capacità finanziaria.

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Da gennaio l’addizionale Irpef regionale potrà salire fino al 3,33%. Un punto in più del 2,33%, già applicato da quattro Regioni: Piemonte, Lazio, Molise e Basilicata. Il Piemonte guidato da Sergio Chiamparino, che è anche presidente della Conferenza delle Regioni, ha già deciso un aumento dell’aliquota per i redditi sopra 28 mila euro. Riguarda meno di un quarto dei 2,6 milioni di contribuenti piemontesi, si giustifica la Giunta. Il conto più salato sarà per i 127 mila cittadini sopra i 55 mila euro. Per loro l’aliquota salirà di un punto: al 3,32% per lo scaglione tra 55 mila e 75 mila euro, al 3,33% oltre. Per fare un esempio, un torinese con più di 75 mila euro subirà un prelievo Irpef complessivo superiore al 47%, considerando l’Irpef nazionale del 43% e comunale dello 0,8%. Si tratta di aumenti «obbligati», sostiene la Regione, per far fronte al debito salito a quasi 9 miliardi. Ma, spiega Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori al Bilancio della Conferenza delle Regioni, «anche altre Regioni, quelle con i Piani di rientro sanitari (oltre al Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, ndr.), rischiano di aumentare le addizionali, a causa dei tagli alle Regioni: 4 miliardi con l’ultima legge di Stabilità e 1,8 con le precedenti due manovre».

Il prelievo medio pro capite che quest’anno è salito a 377 euro con punte di 548 euro nel Lazio e 442 in Piemonte e Campania, potrebbe salire ancora. Come l’aliquota media, che ora sfiora 1,6% (va tenuto conto che molte Regioni articolano il prelievo sui 5 scaglioni Irpef) con Lazio, Molise, Campania e Calabria oltre il 2% mentre il prelievo medio più basso c’è nelle province autonome di Bolzano e di Trento. L’aumento fino al 3,33% è quasi certo nel Lazio, dove è già previsto dalla manovra approvata l’anno scorso, mentre la Campania fa sapere che sarà confermato il 2,03% in vigore. Già domani potrebbe esserci un nuovo incontro governo-Regioni, dice il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta. Che anticipa: «Le proposte delle Regioni non vanno nella direzione giusta. Vorrebbero alleggerire i tagli utilizzando i fondi non spesi per il pagamento dei debiti verso le imprese. Sarebbe una soluzione finanziaria mentre secondo noi vanno ridotti gli sprechi».

Le posizioni sono distanti. A sentire le Regioni, 4 miliardi di tagli sono insostenibili, mettono a rischio i servizi, per non ridurre i quali bisogna appunto aumentare l’addizionale. In effetti, secondo i calcoli della Copaff, la commissione del’Economia per il federalismo fiscale presieduta da Luca Antonini, tra il 2008 e il 2013 sono proprio le Regioni ad aver sopportato, in proporzione, i tagli maggiori di spesa: 13 miliardi più 8 sul fondo sanitario. Ma, a sentire il premier Matteo Renzi, tagliare 4 miliardi, su una spesa regionale di 200 miliardi, è possibile intervenendo sugli sprechi e applicando i costi standard. Secondo il rapporto dell’istituto di ricerca Glocus, nella sanità si possono risparmiare 22 miliardi in 5 anni. Per Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, la società del ministero dell’Economia per gli acquisti della pubblica amministrazione, «è senza dubbio nel campo dell’energia che ci sono troppi sprechi. In qualche caso si sono ottenuti risparmi fino al 40%. Centralizzando gli acquisti, oltre a eliminare gli sprechi, si rende più difficile la corruzione».

In questo braccio di ferro a rimetterci è il contribuente. Eppure la legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale fissava il principio dell’invarianza della pressione fiscale, quindi se aumentavano le addizionali doveva diminuire l’Irpef nazionale. Invece, afferma la Corte dei conti nel Rapporto sulla finanza pubblica 2013, «non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e locale ma, anzi, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate territoriali sia di quelle centrali». Solo nel 1998, ricorda la Corte, quando l’addizionale regionale debuttò con un’ aliquota che allora era dello 0,5%, «furono ridotte della stessa misura le aliquote Irpef». Da allora, spiega Antonini, «c’è stato un continuo scaricabarile tra Stato, Regioni ed enti locali e il principio dell’invarianza di gettito è stato massacrato». Più accademica la Corte: «Le evidenze» dimostrano «una mancanza di coordinamento fra prelievo centrale e locale, sconfinato nell’aumento della pressione fiscale complessiva a causa di un perverso effetto combinato: lo Stato centrale che taglia i trasferimenti ma lascia invariato il prelievo di sua competenza; gli enti territoriali che, per sopperire ai tagli, aumentano le aliquote dei propri tributi». Quando finirà? Il governatore della Campania, Stefano Caldoro, ha suggerito un po’ provocatoriamente: «Lasciamo il governo nazionale, sciogliamo le Regioni e riorganizziamo le funzioni sulla base delle macroaree».

Italia agli ultimi posti sulle liberalizzazioni, la legge è nel cassetto

Italia agli ultimi posti sulle liberalizzazioni, la legge è nel cassetto

Rosaria Amato – La Repubblica

Far pagare troppo poco il cliente svilisce la professione legale? Sembra di sì, a giudicare dalle argomentazioni del Consiglio Nazionale Forense, accuratamente riportate dall’Antitrust nel provvedimento che condanna l’organo professionale al pagamento di quasi un milione di euro. Completamente diversa la visione dell’Authority presieduta da Giovanni Pitruzzella: il tariffario imposto dal Cnf limita l’autonomia degli avvocati e restringe la concorrenza. Stessa lontananza di vedute per quanto riguarda la pubblicità su Internet: per il Cnf pubblicizzare tariffe convenienti su un sito «comporta in re ipsa lo svilimento della prestazione professionale da contratto d’opera intellettuale a questione di puro prezzo». Più banalmente, per l’Antitrust il singolare divieto importo dal Consiglio agli iscritti all’Ordine è “anticompetitivo” e potrebbe precludere agli avvocati l’uso di «un importante canale di diffusione dell’informazione». In generale, le due disposizioni sanzionate limitano direttamente e indirettamente «l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento sul mercato».

«Questa impostazione è tipica dell’Ordine forense, ed era tipica di tutte le professioni fino a qualche anno fa» rileva Silvio Boccalatte, avvocato, autore del capitolo sulle professioni dell’Indice delle liberalizzazioni, pubblicato ogni anno dall’Istituto Bruno Leoni. «Adesso però alcuni ordini, per esempio quello dei commercialisti, degli ingegneri, stanno cercando di far evolvere il loro quadro normativo verso una configurazione più moderna di prestazione professionale». La prossima edizione dell’Indice verrà presentata il 27 novembre. I nodi al pettine non sono molto diversi da quelli dello scorso anno, quando con valutazione 28 su 100 l’Italia è risultata il Paese meno concorrenziale d’Europa. Tanto poco concorrenziale che non c’è ancora traccia della nuova lenzuolata di liberalizzazioni annunciata oltre un mese fa dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, in occasione della Giornata Europea della Concorrenza. La pubblicazione del disegno di legge, che dovrebbe recepire gran parte della segnalazione dell’Antitrust di luglio, era stata indicata come imminente, ma adesso fonti ben informate ipotizzano come periodo perlomeno gennaio, quando la legge di stabilità sarà finalmente alle spalle. E sui contenuti, bocche stracucite, per evitare le pressioni delle numerose lobby che temono moltissimo eventuali nuove limitazioni al loro campo di azione.

Le indicazioni di luglio dell’Antitrust sono estremamente ampie: vanno da provvedimenti che rendano meno care benzina e assicurazioni a misure che favoriscano il passaggio da una banca all’altra e una maggiore concorrenza nei servizi locali. Anche all’Istituto Bruno Leoni avrebbero qualche indicazione da dare al governo: «La sostanziale totale liberalizzazione delle forme di organizzazione professionale – suggerisce Boccalatte – e la assoluta totale liberalizzazione delle forme delle prestazioni professionali alla clientela, nel rispetto della concorrenza e nell’ottica della correttezza. E concretezza: basta con cose folli tipo le sanzioni contro “l’accaparramento della clientela”».

Certo, non sono solo gli ordini professionali a essere carenti sotto il profilo della libera concorrenza: «A mio avviso bisognerebbe ancora intervenire sulle rigidità del mercato del lavoro – dice Serena Sileoni, tra gli autori dell’Indice delle liberalizzazioni – e sicuramente tra le urgenze ci sono i servizi postali, sia il servizio universale che tutto il resto, e il trasporto ferroviario. Però non bastano le leggi: il provvedimento odierno dell’Antitrust dimostra che le restrizioni all’esercizio concorrenziale delle professioni possono dipendere soprattutto dalle barriere erette dagli ordini».

Il Jobs Act c’è. Poche chiacchiere

Il Jobs Act c’è. Poche chiacchiere

Il Foglio

È sbagliato considerare chissà quale retromarcia i ritocchi annunciati al Jobs Act, compresa la possibilità di reintegra (peraltro demandata ai decreti D’attuazione) per circostanziati licenziamenti disciplinari. Chi lo dice guarda al dito anziché alla luna. Il primo soddisfa le temporanee vanità di minoranze e partitini che giustificano così la propria presenza. La luna è l’introduzione anche in Italia della regola aurea di ogni paese civile: non esiste lavoro senza giusto profitto, e non esiste l’abbonamento a vita al posto fisso, mentre in una vita è lecito e spesso utile cambiare più lavori. La riforma introduce il diritto dell’imprenditore a licenziare, dietro indennizzo, per motivi economici: è così ovunque, anche nell’Europa del Welfare state, ma per l’Italia pare una rivoluzione.

Gli stranieri, imprese e istituzioni come Banca centrale europea e Ocse, dicono che qui è più facile separarsi dalla moglie che da un dipendente. Basta guardare ai 118 milioni di ore di cassa integrazione, in gran parte straordinaria, erogati in dieci mesi per mantenere posti fasulli, spesso con aziende decotte o chiuse. L’equiparazione tra “lavoro” e “posto” non esiste nelle economie ad alta occupazione, ma resta un dogma per la Cgil dello sciopero surreale del 5 dicembre, e per la Fiom che ha cavalcato quello “sociale” di ieri. Nel quale sono echeggiate minacce per Matteo Renzi, proprio nelle ore in cui alcuni suoi collaboratori venivano costretti sotto scorta. In Italia per impedire le riforme del lavoro si è ucciso: non dimentichiamolo ora che si ha il coraggio di cambiare.

Ponte di fuga

Ponte di fuga

Il Foglio

Convocare uno sciopero generale nel bel mezzo di un ponte festivo può essere una furbata, come molti hanno pensato della “pensata” di Susanna Camusso, ma se si guarda un po” più a fondo sembra invece una sorta di fuga, di rinuncia preventiva a un rapporto reale con l’insieme dei lavoratori. Nelle fabbriche e negli uffici ognuno considererà la sua convenienza di approfittare delle feste, indipendentemente dalla proclamazione della Cgil, che si troverà come al solito a dialogare solo con una frangia minoritaria ed estremista convogliata nei cortei di protesta da formazioni politiche antagonistiche.

È difficile capire quale logica possa aver spinto la più numerosa organizzazione sindacale italiana a infilarsi in questo vicolo cieco. Susanna Camusso, che aveva inaugurato il suo mandato con l’intenzione di recuperare gli spazi negoziali, cioè tipicamente sindacali, dai quali la Cgil si era allontanata seguendo di fatto la linea protestataria della Fiom, ha poi finito per concludere la sua esperienza in una sorta di gara a chi le spara più grosse con Maurizio Landini. Se il tema sul quale si intende raccogliere la protesta sociale, la pretesa abolizione dell’articolo 18, suscitasse davvero un interesse di massa, sarebbe un boomerang rinunciare a propagandare le proprie ragioni in uno sciopero vero, promosso con iniziative nei luoghi di lavoro, in grado di coinvolgere e motivare un’area assai più ampia di quella delle “avanguardie” politicizzate. Questo alla Cgil, che organizza lotte da un secolo, lo sanno tutti benissimo.

L’avere scelto la strada apparentemente più facile e in realta più rinunciataria giustifica il sospetto che l’iniziativa di sciopero non sia pensata come strumento di pressione per ottenere risultati. Se questo fosse il vero obiettivo si sarebbe cercata davvero una qualche intesa con le altre confederazioni e una data che non consentisse alibi a eventuali insuccessi, o il sospetto che le fabbriche, se si svuo- teranno, si sarebbero svuotate a prescindere. Invece si insiste sullo sciopero, anche sapendo che sara un fallimento come tutti quelli precedenti indetti dalla sola Cgil perché in questo modo si da sfogo all’orgoglio ferito di una sindacalista in declino, e questo è piuttosto penoso.

L’addizionale sull’Irpef cede il passo a un’imposta aggiuntiva

L’addizionale sull’Irpef cede il passo a un’imposta aggiuntiva

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Tassa unica locale dal 2015 e destinata tutta ai Comuni, addio all’addizionale Irpef sostituita con una «sovraimposta» statale con clausola anti-rincari, aumento del fondo crediti di dubbia esigibilità in cambio di ulteriore flessibilità sul Patto di stabilità e sulle coperture degli extradeficit, finanziamento centrale degli interessi sui mutui per gli investimenti comunali, possibilità di usare parte degli oneri di urbanizzazione per finanziare spesa corrente e cancellazione di tutte le norme puntuali che in questi anni si sono concentrate su singole voci dei bilanci locali. Sono i contenuti dell’accordo politico che Governo e sindaci hanno raggiunto ieri a Palazzo Chigi. La direzione, insomma, pare segnata, e ora toccherà ai tavoli tecnici tradurre tutto in regole da inserire nel correttivo alla legge di stabilità. «Gran parte delle nostre richieste sono state accolte dal Governo – ha spiegato il presidente dell’Anci, Piero Fassino, appena dopo l’incontro – e ora la legge di stabilità è un po’ meno onerosa».

Sulla tassa unica, l’accordo conferma le anticipazioni dei giorni scorsi. L’aliquota di base per le abitazioni principali sarà più alta rispetto alla Tasi, ma le detrazioni standard alleggeriranno il peso per le case di valore medio-basso (la maggioranza) e dovrebbero tornare a escludere dall’imposta chi già non pagava né Imu né Ici. Sugli altri immobili, il primo effetto sarà la semplificazione, mentre le imprese attendono interventi di peso sulla deducibilità dalle imposte sul reddito e sull’esclusione dal calcolo dei macchinari (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). La semplificazione, secondo il progetto, sarà però generalizzata dal fatto che i Comuni potranno distinguere il trattamento per grandi categorie di immobili (casa sfitta, casa affittata e così via) e non per micro-dettagli. Imposta sulla pubblicità, tassa sull’occupazione del suolo pubblico e gli altri tributi minori non entreranno nella tassa locale, ma si fonderanno in un canone unico nella disponibilità dei Comuni, che potranno articolarlo come meglio credono. Questa soluzione rende un po’ meno «unica» la tassa locale, ma evita di distribuire sulla generalità dei contribuenti il carico (oltre un miliardo di euro all’anno) oggi pagato da chi mette cartelloni pubblicitari oppure utilizza suolo pubblico per la propria attività commerciale.

Con la tassa locale va in soffitta l’addizionale Irpef, che passa allo Stato. L’idea, sul punto, è di trasformarla in una «sovraimposta», cioè un’addizionale statale calcolata non sull’imponibile ma sulle tasse già versate. Il meccanismo serve a dare progressività alle richieste, e ad escludere del tutto chi oggi non paga Irpef perché ha un reddito basso oppure grazie a deduzioni e detrazioni. In ogni caso, per rendere anche politicamente tranquillo il passaggio, il debutto della sovra-imposta sarà accompagnato da una clausola anti-rincari per evitare di bussare alla porta di chi oggi non paga l’addizionale o paga meno della media grazie alle aliquota basse decise dal Comune. Ora si tratta di capire come adattare al nuovo sistema i conti di tutti i Comuni, agendo prima di tutto sulla perequazione, mentre qualche novità ulteriore potrebbe arrivare sui meccanismi di debutto della riforma dei bilanci.

Il piano segreto dell’Europa: saccheggiare i nostri risparmi

Il piano segreto dell’Europa: saccheggiare i nostri risparmi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un’«euro-rapina» sui conti correnti? Potrebbe accadere e i poveri risparmiatori subirebbero una mazzata con pochi precedenti (tra i quali il prelievo forzoso notturno del 1992 effettuato dal governo Amato). E, soprattutto, è quello che teme il focoso europarlamentare leghista, Gianluca Buonanno, che ha presentato un’interrogazione scritta alla Commissione Ue e alla Bce per chiedere di confermare «l’esistenza di un piano di misure adottato nel luglio 2014» secondo il quale, come già sperimentato a Cipro, «sarebbe prevista l’imposizione di misure d’urgenza che consentirebbero il congelamento dei conti correnti bancari dei cittadini e delle imprese europee e il prelievo forzato delle somme ritenute necessarie a fronteggiare l’esposizione debitoria».

Ma la domanda che pone Buonanno è anche un’altra: «la Bce ritiene che il rischio di default sia concreto a tal punto da permettere l’adozione di un tale piano?». La risposta non è semplice: anche se le crisi si presentano sempre in forme diverse, l’opera di prevenzione (anche se l’Ue ha raggiunto soglie maniaco-depressive) può rappresentare un aiuto. Tuttavia quando si ascoltano le parole del capo economista di Standard & Poor’s, Jean-Michel Six, l9o shock è fortissimo. «La ripresa economica ha perso molto slancio e, avvicinandoci al 2015, nell’Eurozona sono aumentati i rischi di una terza recessione dopo il 2009 e il 2011», ha detto.

I quesiti aumentano. Perché il presidente della Bce, Mario Draghi, e soprattutto le istituzioni italiane – pubbliche e private – in questi mesi hanno messo l’accento sulla creazione di una bad bank , cioè di un ente che si faccia carico dei crediti deteriorati degli istituti (in Italia hanno superato i 180 miliardi) per ripulire i bilanci e consentire una migliore sopravvivenza del sistema? Perché la principale banca italiana, Intesa Sanpaolo, ha scaricato dal portafoglio 17 miliardi di Btp? Qui rispondere è più facile: hanno ripreso valore e ha guadagnato, la Bce li penalizza e, se la recessione proseguisse, meglio stare leggeri. Perché allora Buonanno lancia questo allarme? «Mi è stato detto da fonti interne alla Commissione che esiste un documento nel quale si specifica che il prelievo sui conti correnti potrebbe arrivare al 10% delle giacenze», racconta sostenendo che «in ogni caso la Bce e la Commissione devono smentire se si tratta di una notizia falsa oppure confermarla».

Vale la pena di raccontare la storia per intero. Sin dall’anno scorso in sede comunitaria è stato approvato un piano d’azione per la «risoluzione ordinata delle crisi bancarie», contestuale alla nascita dell’Unione bancaria. I pilastri sono due. Il primo è il Single supervisory mechanism (Ssm), ossia la vigilanza unificata della Bce sulle più importanti banche europee. È stato istituito un organismo, sono state scritte delle regole sui requisiti minimi di solidità patrimoniale e sono stati condotti gli stess test che in Italia hanno bocciato Monte dei Paschi e Banca Carige. Il secondo pilastro è il Single resolution mechanism (Srm), ossia il dispositivo per i salvataggi in caso di crisi. La trattativa è stata complicatissima e si è conclusa solo nell’Ecofin di Lussemburgo dello scorso giugno. Come al solito ha vinto la Germania. È, infatti, passato il principio-guida del bail-in , cioè il salvataggio delle banche con mezzi propri. Se le cose vanno male, come accaduto a Cipro, pagano prima gli azionisti (con aumenti di capitale mostruosi) e poi gli obbligazionisti (con una rinegoziazione del debito). Se la situazione non migliorasse, sarebbero i correntisti con depositi oltre i 100mila euro a rimetterci. È prevista, inoltre, l’istituzione di un fondo unico finanziato dagli Stati membri (che raggiungerà la dotazione di 55 miliardi nel 2024) per tamponare le eventuali carenze di liquidità. È chiaro che i prestiti del fondo andranno comunque restituiti dalle banche con le modalità sopra descritte. I piccoli risparmiatori che volessero chiudere i conti prima che la propria banca fallisca potrebbero dover aspettare almeno 15 giorni fino al 2018. E, comunque, i derivati non si toccano!