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Il fisco stanga i terremotati: multe per tasse non dovute

Il fisco stanga i terremotati: multe per tasse non dovute

Alessia Pedrielli – Libero

Piovono cartelle pazze sui terremotati dell’Emilia Romagna, già umiliati dalle promesse di una no-tax area mai applicata, dalla Tari che arriva anche a chi vive in roulotte. Sembra una punizione “divina” al voto espresso due giorni fa, che nelle aree del sisma ha premiato la Lega Nord e stangato il Pd: nelle ultime ore nelle case e nelle aziende di centinaia di cittadini, che nel sisma del 2012 hanno perso tutto, e che dei rimborsi promessi e stanziati ancora non hanno visto un euro, stanno arrivando cartelle esattoriali impazzite, inviate dall’Agenzia delle Entrate, che chiedono ai contribuenti di versare cifre che in realtà sono a loro credito.

In termini pratici la vicenda è questa: a seguito del terremoto, per i contribuenti residenti nei Comuni colpiti, fu decretata per alcuni mesi la sospensione di tutti gli adempimenti tributari tra cui anche le dichiarazioni dei redditi del 2012, relative all’anno precedente. La scadenza ultima per le dichiarazioni del 2012 venne fissata al 30 aprile del 2013 e poi prorogata ancora. Al termine della sospensiva i terremotati, nonostante molti fossero ancora fuori casa e senza lavoro, pagarono le loro tasse come si conviene ad ogni bravo contribuente, e poiché nel frattempo i debiti si erano accumulati, qualche settimana dopo si trovarono a presentare anche i modelli di pagamento del 2013, relativi all’anno precedente. In questi, come prevede la legge, i terremotati inserirono oltre ai debiti dovuti allo Stato anche i crediti che il versamento precedente aveva loro tributato. Crediti che ora, guarda caso, l’efficacissimo cervellone dell’Agenzia delle Entrate non vede.

Cosa è successo? L’inghippo starebbe nei termini temporali delle analisi delle cartelle. Di fatto, le dichiarazioni dei contribuenti dei Comuni colpiti da eventi calamitosi vengono messe a parte rispetto a quelle correnti ed hanno un codice speciale. A tutela dei poveri cittadini? Nient’affatto. Anzi, cieca quasi quanto la fortuna, e noncurante delle leggi che lei stessa ha emesso, la burocrazia romana ha pensato bene di valutare prima le dichiarazioni del 2013 relative al 2012, e poi quelle dell’anno precedente. Così facendo l’Agenzia vede per i contribuenti un buco di un anno, non tanto o non solo nel versamento ma anche nel credito di cui il soggetto deve entrare in possesso. Insomma è come se compilando le dichiarazioni post sisma tutti i terremotati avessero deciso di imbrogliare
il fisco attribuendosi crediti non spettanti.

Possibile che centinaia di persone abbiano messo in atto la stessa furbata? All’agenzia delle Entrate il dubbio non è venuto e gli accertamenti «bonari» sono partiti a frotte verso l’area del cratere, con la minaccia di triplicare la cifra dovuta se le cartelle non verranno saldate entro trenta giorni. «L’Agenzia delle Entrate ha commesso un clamoroso errore che impatta su cittadini e imprese già duramente provate dal sisma», sottolinea Erio Luigi Munari, presidente Lapam Confartigianato, l’associazione di categoria delle piccole medie imprese del territorio a cui i cittadini si sono rivolti disperati. «È chiaro che tratta di una inefficienza del sistema che non tiene conto delle dichiarazioni presentate oltre le normali scadenze, non per capriccio del contribuente, ma per una legge che ha legittimato questa presentazione», precisa ancora Munari che ha contattato già ieri l’Agenzia delle Entrate sollecitando i funzionari ad annullare d’ufficio di tutti gli accertamenti, che altrimenti qualcuno finirà per pagare.

La politica? Le elezioni sono passate e i partiti hanno altro da fare. Quindi silenzio. Unica voce che si è alzata sul tema tasse e stata quella del neoeletto consigliere regionale della Lega Nord Alan Fabbri, ex sindaco di Bondeno, che invita i terremotati ad una sorta di sciopero fiscale, non solo sulle cartelle pazze ma proprio su tutto. Per Fabbri bisogna «rispedire a palazzo Chigi le cartelle esattoriali» e «resistere agli attacchi di un fisco che sta facendo morire le nostre terre». Non pagare «è oggi un atto eroico”, continua il consigliere che ha ribadito il concetto anche due sere fa a Ballarò, direttamente in faccia al direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Per Fabbri «Gli imprenditori che per sopravvivere evadono, sono eroi».

Lavoriamo per le tasse 158 giorni all’anno

Lavoriamo per le tasse 158 giorni all’anno

Filippo Caleri – Il Tempo

Benvenuti nella nuova schiavitù. Quella del lavoro, che invece di tramutarsi in contanti e ricchezze per le famiglie di coloro che la mattina alzano la serranda o si siedono alla scrivania, fa sì che i frutti del sudore vadano in buona parte al socio occulto di ogni cittadino della Repubblica. E cioè allo Stato italiano. Che si mette nel cassetto tutti i guadagni maturati nei primi 158 giorni dell’anno. Moneta sonante che, arrivata nelle casse statali, non si trasforma però in servizi di livello adeguato per un Paese civilizzato. Oltre al danno anche la beffa, dunque.

I conti della schiavitù fittizia introdotta subdolamente nel nostro Paese li ha fatti la Cgia di Mestre e confermano che «nel 2013 i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco fino al 7 giugno, vale a dire 9 giorni in più rispetto alla media registrata nei Paesi dell’area dell’euro e ben 13 se, invece, il confronto viene realizzato con la media dei 28 Paesi che compongono l’Ue». L’Italia si conferma così una Repubblica basata sul lavoro. E sulle tasse.In sintesi lo scorso anno per pagare le tasse e le imposte allo Stato gli italiani hanno dedicato 158 giorni di lavoro. Un record storico già uguagliato però nel 2012.

Nell’area euro solo i francesi, con 174 giorni, i belgi, con 172 e i finlandesi, con 161, hanno sopportato uno sforzo fiscale superiore al nostro. Ma forse a giudicare dalle classifiche di vivibilità i soldi lì garantiscono livelli di servizi molti più elevati dei nostri. Il destino di pagatori di tasse per metà annio è comunque comune a tutti gli europei. Magra consolazione. «La media dell’area dell’euro si è stabilizzata infatti a 149 giorni, mentre quella relativa ai 28 Paesi dell’Ue è stata di 145 giorni» spiega l’associazione degli artigiani di Mestre. Tra i nostri più diretti concorrenti solo la Francia presenta un dato peggiore del nostro (174 giorni), mentre in Germania il cosiddetto «tax freedom day» scatta dopo 144 giorni, in Olanda dopo 136 giorni e in Spagna dopo 123 giorni.

Come si sono ottenuti questi risultati? L’Ufficio studi della Cgia ha preso in esame il Pil nazionale dei singoli Paesi registrato nel 2013 con la nuova metodologia di calcolo adottata dall’Eurostat (Sec 2010) e lo ha suddiviso per i 365 giorni dell’anno, ottenendo così un dato medio giornaliero. Successivamente, ha considerato il gettito di contributi, imposte e tasse che i contribuenti europei hanno versato al proprio Paese e lo ha diviso per il Pil giornaliero. Il risultato di questa operazione ha consentito di calcolare il giorno di liberazione fiscale di ciascuna nazione presente in Europa. «A esclusione del Belgio – osserva il segretario Bortolussi – tutti i paesi federali presentano una pressione fiscale molto inferiore alla nostra, con una macchina statale più snella ed efficiente e un livello dei servizi offerti di alta qualità. Pertanto, è necessario riprendere in mano il federalismo fiscale, definire ed applicare i costi standard per abbassare gli sprechi e gli sperperi e, nel contempo, ridurre le tasse di pari importo».

L’ufficio studi della Cgia che è guidata da Giuseppe Bortolussi ha ricostruito, grazie alla nuova metodologia Sec 2010, la serie storica del giorno di liberazione fiscale in Italia dal 1995 al 2013. Ebbene, se dalla metà degli anni ’90 (147 giorni) fino al 2005 (143 giorni) i giorni di lavoro necessari per onorare il fisco hanno sub’to una progressiva riduzione, successivamente sono aumentati sino a toccare il record storico nel 2012 (158 giorni), poi bissato anche nel 2013.

Abuso del diritto, prima prova al fisco

Abuso del diritto, prima prova al fisco

Marco Mobili e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Abuso fìscale o elusione solo a tre condizioni: assenza di una vera e propria sostanza economica delle operazioni effettuate dalle imprese; realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; il vantaggio è l’effetto essenziale dell’operazione. Ma non è tutto. L’onere della prova di una condotta abusiva o elusiva sarà a carico dell’amministrazione finanziaria. In pratica, il fisco dovrà indicare all’impresa le norme che sono state aggirate e i vantaggi fiscali non consentiti che sono stati realizzati. Mentre spetterà al contribuente dimostrare poi al fisco l’esistenza delle «ragioni extrafiscali» che giustificano le operazioni effettuate. È quanto prevede la bozza del decreto attuativo della delega fiscale sulla «certezza del diritto» che il governo vorrebbe approvare la prossima settimana in Consiglio dei ministri.

Salvo ulteriori ripensamenti e una volta concluso il confronto interno all’amministrazione finanziaria sull’esatta definizione di frode fiscale e del nuovo regime sanzionatorio penale, il decreto sulla certezza del diritto si comporrà di tre parti. La prima sulla definizione di abuso del diritto ed elusione fiscale che, come recita l’articolo 1, diventa parte integrante dello Statuto del contribuente. La seconda rivede il sistema sanzionatorio penale: dalle norme sull’emissione e sull’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti alle dichiarazioni fraudolente e a quelle infedeli o ancora all’omesso versamento. C’e poi il raddoppio dei termini dell’accertamento secondo cui questo scatta a condizione «che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza ordinaria dei termini». La terza parte codifica le regole per misurare, gestire e controllare il rischio fiscale per i grandi contribuenti.

Dopo anni di attese, sentenze e contrasti tra imprese e amministrazione finanziaria vengono definiti i confini dell’abuso del diritto in linea con la raccomandazione della Commissione Ue sulla pianificazione fiscale aggressiva (2012/772/Ue del 6 dicembre 2012). Abuso ed elusione fiscale vengono uniformati in un unico istituto in relazione a tutti i tributi. Anche nei confronti di quelli non ancora armonizzati a livello comunitario. In sostanza dopo l’entrata in vigore del decreto attuativo si potrà parlare indistintamente di abuso o di elusione fiscale.

Secondo la bozza del decreto attuativo, oltre ai tre presupposti che configurano un abuso, vengono definiti come vantaggi tributari indebiti quelli che il contribuente realizza per effetto dell’operazione priva di sostanza economica. È necessario che il perseguimento di tale vantaggio deve essere stato lo scopo essenziale della condotta del contribuente. Allo stesso tempo il Dlgs dovrebbe definire non abusive le operazioni giustificate da «non marginali, valide ragioni extrafiscali, anche di ordine organizzativo o gestionale che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente». Impresa o professionista potranno, comunque, ottenere legittimamente un risparmio di imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, i fatti e i contratti quelli comunque ritenuti meno onerosi sotto il profilo impositivo. Il solo limite indicato dal decreto attuativo a questa libertà “di movimento” è dettato dal divieto di perseguire un vantaggio fiscale indebito.

Altro passaggio chiave della bozza di Dlgs è l’atto di accertamento esclusivamente dedicato all’abuso, che gli uffici del fisco dovranno motivare «a pena di nullità» proprio in relazione alla condotta abusiva o elusiva del contribuente. In sostanza eventuali altri addebiti contestati al contribuente dovranno viaggiare separatamente con altro atto. In questo modo l’abuso del diritto non potrà più in alcun modo essere contestato d’ufficio dal giudice tributario. Puntando così a un riequilibrio in direzione del pieno diritto alla difesa del contribuente. Inoltre l’abuso non potrà mai essere invocato in caso di frodi fiscali o comportamenti penalmente rilevanti.

Gli architetti? Nuovi poveri (e bussano al Catasto)

Gli architetti? Nuovi poveri (e bussano al Catasto)

Dario Di Vico – Corriere della Sera

«Gli architetti italiani? Sono i nuovi poveri». Il presidente dell’ordine professionale, Leopoldo Freyrie, non usa mezzi termini e sciorina i dati di una recentissima e cruda indagine condotta dal Cresme. Il reddito medio della professione è attorno ai 17 mila euro annui, in cinque anni la perdita di guadagno è stata del 40% e in più aumentano vertiginosamente le prestazioni non pagate. Il 68% degli architetti vanta crediti nei confronti di aziende private e il 32% verso la pubblica amministrazione. I fortunati che riescono nell’impresa di farsi pagare devono però attendere in media 172 giorni se il committente è un privato e 217 se invece si tratta di un soggetto pubblico. Visto che non vengono remunerati per il lavoro che svolgono, i professionisti a loro volta sono costretti a contrarre debiti verso terzi: al Nord il 57% di loro deve denaro alle banche, alle società finanziarie o ai fornitori.

La recessione e la mancanza di lavoro non fa evolvere la struttura degli studi che rimangono piccolissimi: il loro reddito medio è di 38 mila euro, in genere hanno un dipendente non architetto e 1,5 collaboratori a partita Iva. In queste condizioni la possibilità di prescindere dal mercato italiano e di pescare clienti esteri è minima, se non nulla. I giovani ovviamente stanno ancora peggio: dopo cinque anni di professione mensile è ancora attorno ai 1.200 euro mensili e il tasso di disoccupazione viaggia attorno al 30%. Così quando, come ieri a Roma si apre un concorso per assumere 140 funzionari e tecnici dell’Agenzia delle Entrate per potenziare il catasto, giovani architetti (e ingegneri) si iscrivono a quella che appare una vera e propria lotteria. Nel caso in questione sono in 25 mila a partecipare, un numero che non si era mai visto e riflette un disagio che all’Ordine fotografano così: «La professione è a rischio sopravvivenza».

Una stangata sulle bollette dell’acqua

Una stangata sulle bollette dell’acqua

Luigi Grassia – La Stampa

L’Autorità per l’energia elettrica e il gas è responsabile anche (dal 2012) del settore acqua, e ieri in questa sua funzione ha approvato lo schema delle nuove tariffe idriche. Per la prima volta il Garante di settore ha stabilito un criterio omogeneo in tutta Italia, che interesserà le bollette circa 40 milioni di utenti. Con quali conseguenze sui bilanci delle famiglie? In massima parte ne risulteranno dei rincari, condizionati però a investimenti delle aziende idriche per migliorare la qualità del servizio e ridurre 1’impatto ambientale. Se si guarda ai numeri medi (che nascondono una realtà locale frastagliatissima) l’Authority di Guido Bortoni ha deciso rincari di quasi il 10% in un biennio, sommando il +3,9% del 2014 e il +4,8% nel 2015. Però, come detto, questo non varrà per tutti: quasi 6 milioni di consumatori avranno non un aumento ma una riduzione di tariffa, addirittura del 10%.

Scomponendo i numeri in maniera più precisa, dai numeri dell’Autorità si scopre che in Italia le aziende che forniscono l’acqua sono più di 1.600. Una minoranza di queste, circa 350 con 34 milioni di clienti, si vedrà riconosciuto un aumento della remunerazione di quasi il 10% cumulativo attraverso le bollette. Invece le rimanenti 1.250 aziende idriche, che sono quasi tutte municipalizzate piccole o piccolissime, con 6 milioni di utenti, avranno tariffe ridotte in misura quasi speculare del 10%. Come mai quei 6 milioni di clienti sono cosi fortunati? La loro fortuna corrisponde alla sfortuna delle compagnie. Infatti le 1.250 compagnie i cui utenti pagheranno meno sono quelle che non hanno comunicato all’Autorità i dati necessari a determinare le tariffe (per esempio le cifre degli investimenti); quindi queste compagnie vengono punite della loro inadempienza.

Ma perché agli altri 34 milioni di utenti bisogna infliggere un rincaro in bolletta? Il fatto è, spiega l’Authority, che gli investimenti nel settore idrico erano fermi da decenni, e questo ha portato a molti disguidi: forti perdite d’acqua dalle tubature, in certi casi interruzioni del servizio, soprattutto d’estate quando dell’acqua c’è più bisogno, e anche problemi di impatto ambientale (ne creano tutte le attività industriali e di servizio, comprese quelle che sembrano più neutre, come appunto l’acqua). Nei prossimi quattro anni, in cambio dei rincari in bolletta saranno attivati 4,5 miliardi di investimenti, divisi in vari capitoli: le nuove infrastrutture, il miglioramento dei servizi esistenti e la tutela dell’ambiente. Grosso modo l’importo di questi investimenti sarà pari al valore totale degli impianti finora realizzati.

Se si tiene conto dello schema deciso dall’Autorità, si ridimensiona anche una storia particolare come quella di Torino dove l’acqua (è stato detto) rincarerà perché i consumi sono calati e l’azienda idrica locale vuole garantire comunque i suoi introiti. In realtà le compagnie non possono fare quello che vogliono: l’Autorità offre loro una specie di menù, nel quale le aziende possono scegliere il modello tariffario più congruente con gli investimenti fatti e quelli da fare. Fra le associazioni dei consumatori, l’Adusbef calcola che sul complesso delle famiglie italiane si abbatterà «una stangata tariffaria di oltre 130 euro a famiglia nel 2014-2015». L’Autorità non conferma. Quanto al canone Rai da inserire nella bolletta elettrica (come ipotizzato), il garante Bortoni ha ripetuto che sarebbe una scelta «impropria e molto difficile». Adesso spunta l’ipotesi di inserire il canone nella dichiarazione dei redditi.

Flop della Garanzia Giovani, governo verso nuove regole

Flop della Garanzia Giovani, governo verso nuove regole

Rita Querzé – Corriere della Sera

Peccato: quello che sembra mancare alla Garanzia giovani è proprio il lavoro. Per un misura che ha l’obiettivo di lenire la piaga della disoccupazione giovanile è davvero il massimo. Dicono in regione Lombardia: «Abbiamo stanziato 52 milioni per il bonus occupazione (sconti e sgravi per chi assume a vario titolo con Garanzia giovani, ndr). Il problema è che il cavallo non beve. Insomma, i posti non ci sono. Se continua così, spostiamo i soldi su altre misure: i tirocini, la formazione, il servizio civile».

Le agevolazioni per le assunzioni dei giovani si fanno concorrenza tra loro. Il bonus Renzi prevede decontribuzione fino a 8.500 euro l’anno per tre anni. Spesso attrae gli imprenditori più della Garanzia. D’altra parte gli “sconti” della Youth guarantee per contratti a termine, a tempo indeterminato, apprendistato non si possono sommare con nessun altra agevolazione. Inoltre i contratti a termine danno diritto agli sgravi della Garanzia soltanto quando durano più di sei mesi. E di questi tempi per le aziende spesso sei mesi sono troppi.

Il problema è ormai chiaro anche al ministero del Lavoro dove mercoledì scorso si è tenuto un incontro con le Regioni. Si parla di cambiare in corsa le regole per l’assegnazione del bonus occupazionale, in sostanza gli sgravi per le aziende che assumono i giovani con la Garanzia. D’altra parte se si continua così semplicemente i soldi non vengono spesi. Su 2.000 contratti a termine di giovani under 29 stipulati in Lombardia da luglio a ottobre, 473 erano più lunghi di sei mesi, quindi meritevoli degli sconti della Youth Guarantee. Ma non è finita. Di questi 473 ragazzi, solo 30 sono hanno garantito gli sgravi alle aziende che li hanno assunti. Tutti gli altri, in base alle regole oggi in vigore, sono considerati facili da piazzare sul mercato del lavoro: per loro (e per le aziende che li ingaggiano) nessuna agevolazione. Altra questione: la Garanzia Giovani è sempre più un vestito d’Arlecchino. In alcuni territori, soprattutto al Nord, la macchina è partita. In altri si sta ancora cercando di accendere il motore. In Sicilia il bando per l’accreditamento delle aziende autorizzate a fornire tirocini con la garanzia è saltato per problemi informatici. Ora si sta cercando di partire con l’aiuto del ministero del Lavoro. Non prima però di avere sistemato la vertenza dei precari addetti agli sportelli. Paradosso nel paradosso.

Un problema a cui non è ancora stata trovata soluzione è quello dei giovani che si sono iscritti alla garanzia in regioni diverse dalla propria, fatti girare come trottole per presentarsi a colloqui che non portano a nulla. Per finire, una cosa buona ci sarebbe. La multiutility Iren sostituirà 400 dipendenti in uscita volontaria con ragazzi assunti tramite la Garanzia. Ma piani del genere restano una rarità. Anche nelle aziende a partecipazione pubblica che dovrebbero dare l’esempio.

I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana

I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Ha ragione papa Francesco: gli immigrati sono una ricchezza. Lo dicono i numeri. Fatti i conti costi-benefici, spiega un dossier della fondazione Moressa, noi italiani ci guadagniamo 3,9 miliardi l’anno. E la crisi, senza i nuovi arrivati che hanno fondato quasi mezzo milione di aziende, sarebbe ancora più dura. Certo, è facile in questi tempi di pesanti difficoltà titillare i rancori, le paure, le angosce di tanti disoccupati, esodati, sfrattati ormai allo stremo. Soprattutto in certe periferie urbane abbruttite dal degrado e da troppo tempo vergognosamente abbandonate dalle pubbliche istituzioni. Ma può passar l’idea che il problema siano «gli altri»?

Non c’è massacro contro i nostri nonni emigrati, da Tandil in Argentina a Kalgoorlie in Australia, da Aigues Mortes in Francia a Tallulah negli Stati Uniti, che non sia nato dallo scoppio di odio dei «padroni di casa» contro gli italiani che «rubavano il lavoro». Basti ricordare il linciaggio di New Orleans del 15 marzo 1891, dove tra i più assatanati nella caccia ai nostri nonni c’erano migliaia di neri, rimpiazzati nei campi di cotone da immigrati siciliani, campani, lucani. Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie («la patria è là dove si prospera», dice Aristofane) proprio come ricorda Francesco: «I Paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale». Creano anche un mucchio di problemi? Sì. Portano a volte malattie che da noi erano ormai sconfitte? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza. C’è dell’altro, però . E non possiamo ignorarlo.

Due rapporti della Fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini,collaboratore de «lavoce.info», spiegano che non solo le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale: a dispetto della crisi) per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro, ma che nei calcoli dare-avere chi ci guadagna siamo anche noi. Nel 2012 i contribuenti nati all’estero sono stati poco più di 3,5 milioni e «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona) su un totale di 800 miliardi di euro, incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta». L’imposta netta versata «ammonta in media a 2.099 euro, per un totale complessivo pari a 4,9 miliardi». Con disparità enorme: 4.918 euro pro capite di Irpef pagata nel 2013 in provincia di Milano, 1.499 in quella di Ragusa.

A questa voce, però, ne vanno aggiunte altre. Ad esempio l’Iva: «Una recente indagine della Banca d’Italia ha evidenziato come la propensione al consumo delle famiglie straniere (ovvero il rapporto tra consumo e reddito) sia pari al 105,8%: vale a dire che le famiglie straniere tendono a non risparmiare nulla, anzi ad indebitarsi o ad attingere a vecchi risparmi. Ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per il 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi arriva a 1,4 miliardi di euro». Più il gettito dalle imposte sui carburanti (840 milioni circa), i soldi per lotto e lotterie (210 milioni) e rinnovi dei permessi di soggiorno (1.741.501 nel 2012 per 340 milioni) e così via: «Sommando le diverse voci, si ottiene un gettito fiscale di 7,6 miliardi». Poi c’è il contributo previdenziale: «Considerando che secondo l’ultimo dato ufficiale Inps (2009) i contributi versati dagli stranieri rappresentano il 4,2% del totale, si può stimare un gettito contributivo di 8,9 miliardi». Cosicché «sommando gettito fiscale e contributivo, le entrate riconducibili alla presenza straniera raggiungono i 16,6 miliardi».

Ma se questo è quanto danno, quanto ricevono poi gli immigrati? «Considerando che dopo le pensioni la sanità è la voce di gran lunga più importante e che all’interno di questa circa l’80% della spesa è assorbita dalle persone ultrasessantacinquenni», risponde lo studio, l’impatto dei nati all’estero (nettamente più giovani e meno acciaccati degli italiani) è decisamente minore sul peso sia delle pensioni sia della sanità, dai ricoveri all’uso di farmaci. Certo, è maggiore nella scuola «dove l’incidenza degli alunni con cittadinanza non italiana ha raggiunto l’8,4%», ma qui «la parte preponderante della spesa è fissa». E i costi per la giustizia? «Una stima dei costi si aggira su 1,75 miliardi di euro annui». E le altre spese? Contate tutte, rispondono Stuppini e la Fondazione. Anche quelle per i Centri di Identificazione ed Espulsione: «Per il 2012 il costo complessivo si può calcolare in 170 milioni».

In ogni caso, prosegue il dossier, «si è considerata la spesa pubblica utilizzando il metodo dei costi standard, stimando la spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro, pari all’1,57% della spesa pubblica nazionale. Ripartendo il volume di spesa per la popolazione straniera nel 2012 (4,39 milioni), si ottiene un valore pro capite di 2.870 euro». Risultato: confrontando entrate e uscite, «emerge come il saldo finale sia in attivo di 3,9 miliardi». Per capirci: quasi quanto il peso dell’Imu sulla prima casa. Poi, per carità, restano tutti i problemi, i disagi e le emergenze che abbiamo detto. Che vanno affrontati, quando serve, anche con estrema durezza. Ma si può sostenere, davanti a questi dati, che mantenere l’estensione della social card ai cittadini nati all’estero ma col permesso di soggiorno è «un’istigazione al razzismo»?

Per non dire dell’apporto dei «nuovi italiani» su altri fronti. Dice uno studio dell’Istituto Ricerca Sociale che ci sono in Italia 830 mila badanti, quasi tutte straniere, che accudiscono circa un milione di non autosufficienti. Il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro. Per un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti per una spesa complessiva annuale (26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno. Più spese varie. Con un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.

Terreni, macchinari e capannoni: il conto delle patrimoniali nascoste

Terreni, macchinari e capannoni: il conto delle patrimoniali nascoste

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dall’Imu sui terreni che fino a oggi erano considerati esenti perché montani alle tasse sui capannoni ingigantite dai cambi continui di regole e dai paradossi dei calcoli che trattano i macchinari come il mattone e moltiplicano così la base imponibile, il fisco immobiliare ha ormai scalato la classifica delle tasse «ostili» al contribuente. A spingerlo in vetta è stata la sua caratteristica principale, assunta negli ultimi tre anni: un caos normativo interminabile che si è puntualmente tradotto in rincari, spesso retroattivi, per coprire questo o quel problema di bilancio.

L’ultimo episodio della saga arriva con l’addio all’esenzione totale per i terreni agricoli in 2mila Comuni, in base al decreto che il ministero dell’Economia ha preparato e che a meno di ripensamenti dell’ultima ora dovrebbe vedere la luce a breve. Il nuovo provvedimento attua un capitolo del decreto Irpef di aprile, che aveva promesso una stretta sulle esenzioni oggi in vigore nei Comuni considerati «montani» dall’Istat con l’obiettivo di raggranellare «una somma non inferiore a 350 milioni di euro». Nel frattempo i mesi sono passati, le regole attuative (che avrebbero dovuto vedere la luce entro il 22 settembre) hanno tardato, ma proprio il fatto che i 350 milioni di euro siano già stati messi a copertura sul bilancio 2014 rende improbabile un altro rinvio.

Nelle loro infinite contorsioni di questi ultimi tre anni, però, le tasse immobiliari hanno raggiunto risultati paradossali anche su contribuenti già abituati a fare i conti con l’Ici. È il caso, in particolare, di capannoni, alberghi e centri commerciali: nel tentativo almeno di ammorbidire i maxi-aumenti che hanno colpito queste categorie produttive, l’ultima legge di Stabilità ha provato la strada della deduzione dalle imposte sui redditi di quanto versato a titolo di Imu e poi di Tasi. Peccato, però, che per far quadrare i conti la deducibilità sia stata ridotta al minimo, con il risultato che mentre il bonus attribuisce uno sconto effettivo del 5,5%, l’ulteriore aumento lineare delle basi imponibili nel 2013 è stato dell’83 per cento, e l’arrivo della Tasi quest’anno ha assestato un colpo ulteriore. Una beffa, che per di più ha escluso ogni aiuto per le imprese in perdita, per le quali la deducibilità si trasforma in un credito d’imposta futuribile. Tutti questi fenomeni si ripresentano ingigantiti sulle imprese che si vedono attribuire la rendita catastale anche ai macchinari come le presse, i forni e gli altri strumenti di lavorazione, e che anche su questi pagano Imu e Tasi. Nel cantiere della manovra dell’anno scorso l’allora ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato disse che era in- concepibile «far pagare la patrimoniale a un tornio». È esattamente quello che accade.

Ma la ricerca dei problemi fiscali sul mattone non può ignorare l’abitazione principale, oggetto di un dibattito intenso quanto inconcludente da ormai nove anni. Anche in questo caso, il Fisco ha bussato a sorpresa alla porta di contribuenti fino a un momento prima “graziati” dalle vecchie tasse. Lo ha fatto con la Tasi, che a causa dell’assenza degli sconti fissi tipici di Ici e Imu ha presentato per la prima volta il conto anche ai proprietari di abitazioni di valore fiscale molto basso, per questa ragione sempre trascurati dalle vecchie imposte. Il risultato paradossale è stato che dopo un dibattito infinito sul «superamento» delle imposte sull’abitazione principale, milioni di abitazioni principali che non avevano mai versato né Ici né Imu sono state obbligate a pagare la Tasi. Anche in questo caso, nemmeno il calendario ha giocato a favore dei contribuenti, permettendo loro almeno di abituarsi all’idea e di capire con comodo quanto e come pagare.

Il fisco pesa sulle costruzioni

Il fisco pesa sulle costruzioni

Michela Finizio – Il Sole 24 Ore

Le tasse sul mattone sono un disincentivo per l’edilizia. A denunciarlo è una ricerca di Assimpredil-Ance, l’associazione milanese delle imprese di costruzione, che fotografa l’impatto del prelievo fiscale sulle operazioni di sviluppo, dalla fase di acquisizione delle aree alla vendita sul mercato delle unità costruite. Ad esempio, su un’operazione del valore complessivo di oltre 22,5 milioni, il Fisco pesa fino al 32% e, considerando solo il gettito a carico dell’impresa, le imposte dovute nel complesso superano il 76% dell’utile lordo generato.

È quanto emerge dall’indagine dei costruttori, che si propone di analizzare nel dettaglio i “conti” di un investimento, prendendo in esame lo sviluppo di 32 appartamenti, 136 box e un’unità commerciale (periodo 2008-2014). Il campanello di allarme, che ha spinto Assimpredil-Ance a realizzare questa ricerca, è scattato davanti ai dati che fotografano l’aumento della tassazione sul possesso di immobili: siamo passati dai 9,2 miliardi di prelievo del 2010 ai 23,2 miliardi del 2012 «e, nonostante la flessione del 2013 legata alla cancellazione dell’Imu sulla prima casa, nel 2014 toccheremo i 26 miliardi di tasse sul mattone», stima il presidente dell’associazione dei costruttori, Claudio De Albertis. «Manca una qualsiasi strategia nella tassazione immobiliare – aggiunge -. L’unica logica è andare a coprire i tagli che vengono fatti agli enti locali. Sull’unica base imponibile, inoltre, si sommano tasse centrali e locali all’interno di un sistema tributario caotico che maschera delle vere e proprie patrimoniali con imposte in nome dei servizi locali». Dai calcoli sul case-study emerge che, a fronte di utili netti per quasi 4,4 milioni di euro generati dall’impresa, sulla stessa operazione l’Erario incassa un gettito di oltre 7,2 milioni. «Se vado a comprimere così le operazioni di rigenerazione urbana come posso sperare che la rinascita del Paese parta dalle città?» commenta De Albertis. Inoltre, oggi è sempre più difficile vendere l’intero stock di abitazioni realizzate sul mercato: oggi in Italia si contano più di 540mila case in vendita, per il 26% di nuova costruzione.

L’effetto perverso per chi non vende. In base ai calcoli dell’ufficio studi Assimpredil-Ance, se l’impresa trovasse acquirenti solamente per il 50% delle unità costruite dovrebbe pagare ancora più tasse a causa delle imposte sull’invenduto. Sui beni merce, infatti, in molte città viene applicata oltre all’Imu anche la Tasi. A Milano, ad esempio, sulle unità senza acquirenti nel 2014 sarebbe prevista un’aliquota Tasi del 2,5 per mille: nella simulazione elaborata da Assimpredil-Ance, se l’invenduto fosse pari al 50% il prelievo Tasi sarebbe di circa 10.750 euro; in caso di nessuna unità venduta salirebbe a 21.500 euro. «Il paradosso è che, in pratica, l’impresa in difficoltà viene penalizzata dal Fisco», sintetizza il presidente dei costruttori milanesi.. A rappresentare il primo deterrente all’attività di sviluppo immobiliare sono i costi legati all’acquisizione delle aree: al momento dell’investimento («quando, cioè, l’impresa si espone di più», sottolinea De Albertis) il costruttore si trova subito a dover affrontare un’imposizione considerevole. Nel caso specifico, ad esempio, a fronte di 9,5 milioni di euro investiti per acquistare i terreni l’impresa è chiamata a pagare subito oltre 1,9 milioni di euro di imposte (tra registro, ipotecaria, catastale, oneri di costruzione e imposta sostitutiva sul mutuo). «Non c’è da meravigliarsi che la propensione all’investimento sia al minimo», commenta De Albertis. I permessi di costruire, infatti, sono in picchiata del 70% rispetto ai periodi pre-crisi, in base agli ultimi dati Istat (2012 sul 2005).

Ad influire, poi, in modo differente in ogni singola operazione immobiliare sono diversi fattori: gli oneri di urbanizzazione sono molto diversi sul territorio, così come le aliquote delle imposte locali; il valore di investimento e i costi di costruzione sono legati alle disponibilità dell’impresa; l’assorbimento delle unità costruite sul mercato dipendono dalla congiuntura. In un mercato immobiliare fermo, affaticato da compravendite ancora al ribasso (-1% su base annua nel secondo trimestre 2014), l’offerta residenziale pesa sui bilanci delle imprese edili che faticano a trovare acquirenti: in media ci sono 15,8 case invendute ogni mille unità abitative presenti sul territorio nazionale (dati Scenari Immobiliari). «È illogico che la tassazione sia legata al valore dell’immobile e prescinda dalla situazione patrimoniale del contribuente o dal reddito che produce l’immobile», conclude il presidente dei costruttori, suggerendo innanzitutto l’eliminazione dell’imposta di registro sulle cessioni di terreni da parte dei privati e del prelievo Imu più Tasi sui beni merce.

In busta paga la crisi non è uguale per tutti

In busta paga la crisi non è uguale per tutti

Francesca Barbieri – Il Sole 24 Ore

Direttore generale, responsabile corporate banking, informatore scientifico del farmaco e capo turno. Sono questi i “vincitori” delle quattro categorie del borsino delle professioni realizzato da Od&M, la società specializzata in Hr consulting di Gi Group, su un campione di oltre 420mila profili retributivi per altrettanti dipendenti del settore privato. L’obiettivo? Individuare in un momento di crisi del mercato del lavoro italiano quali sono le attività che offrono gli stipendi migliori. Nel borsino, però, non si considera solo l’andamento dei cinque “mestieri” meglio retribuiti, ma si mettono sotto la lente anche quelli meno pagati. Il tutto distinto per quattro livelli di inquadramento, dall’apice fino alla base della piramide aziendale: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Sui gradini inferiori alla media si rintracciano le figure It, insieme a quelle tradizionali di staff e ai profili poco specializzati.

I dirigenti
A livello apicale si registra un gap del 62% tra i poli opposti sulla scala retributiva, con uno stipendio medio di 112.340 euro lordi l’anno. I direttori generali guadagnano 133mila euro contro gli 82mila dei responsabili di manutenzione dello stabilimento (ultimi in classifica). Tra le cinque professioni più pagate prevalgono le posizioni di direttore, mentre all’opposto troviamo i responsabili dei sistemi qualità, dell’area tecnica, dello sviluppo software, della manutenzione e il project leader It. Ma considerando il trend degli ultimi 5 anni emerge che le funzioni che hanno visto la crescita più timida sono quelle meglio retribuite, mentre hanno evidenziato una dinamica positiva quelle più in basso, in particolare l’ultima in classifica – il responsabile manutenzione di stabilimento – ha visto aumentare la propria retribuzione di oltre il 10%. Nel 2014, poi, sono cresciuti di più il direttore pubbliche relazioni (+8,8% sul 2013) e il country manager (+6 per cento). «Si tratta dei ruoli più critici nel mercato – commenta Simonetta Cavasin, general manager di Od&M – fortemente focalizzati sui risultati, quindi preziosi per le aziende».

Middle manager e impiegati
Le buste paga dei quadri sono decisamente inferiori rispetto a quelle dei dirigenti e ammontano in media a 54.233 euro, con l’unica eccezione del responsabile corporate banking (84mila euro l’anno) che batte l’ultimo in classica dei top manager. «In generale – commenta Cavasin – a vincere sono le figure manageriali o di responsabilità, mentre quelle meno retribuite riguardano ruoli più operativi, come la segretaria di direzione e gli specialisti formazione». Tra i colletti bianchi guadagna la vetta, un po’ a sorpresa, l’informatore scientifico del farmaco, che intasca il 54% in più della retribuzione media degli impiegati (44mila euro l’anno rispetto a circa 29mila) e il doppio dell’operatore grafico che, all’opposto, risulta il meno pagato. «Gli informatori – commenta Fabio Carinci, presidente della Federazione delle associazioni italiane di categoria – mantengono buoni livelli retributivi, anche se, complice la crisi, negli ultimi anni sono calati di numero e oggi sono circa 12mila». Il mercato comunque si muove. L’agenzia per il lavoro Randstad segnala tra le ricerche aperte quelle di laureati in farmacia e in scienze dell’alimentazione, o comunque in materie sanitarie a indirizzo scientifico. «Gli informatori sono figure specializzate – spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria -fondamentali in primis per l’aggiornamento dei medici sui nuovi prodotti. In generale poi in tutta l’industria farmaceutica gli stipendi sono di buon livello per le figure qualificate che vi operano grazie alla produttività elevata del settore». In generale tra gli impiegati, sull’orizzonte di 5 anni, a crescere di più sono stati i responsabili business development (+13,9%) e commerciale (+13,8%). Figure, queste ultime, spesso impiegate all’interno di piccole aziende in ruoli molto vicini a quelli dirigenziali.

Operai
Sul podio delle tute blu troviamo capo turno (31mila euro), capo squadra produzione e capo squadra manutenzione (29mila euro). All’opposto, invece, le figure meno qualificate, come l’addetto di cucina (21mila euro), il cameriere (20mila euro) e il barista (19mila euro) rispetto a una media di categoria di 23.884 euro. Considerando gli anni dal 2009 in poi, il trend è positivo per quasi tutti i ruoli e in particolare per il capo squadra produzione (+12%) e per il verniciatore (+10 per cento).

Settori e comparti
A livello settoriale, sono le banche e le assicurazioni a offrire i migliori stipendi ai dirigenti (+12% rispetto alla media), mentre il comparto con le retribuzioni più basse è l’edilizia (97mila euro, il 13,5% sotto la media). I quadri guadagnano oltre la media solo nel campo del credito, mentre l’industria premia di più impiegati e operai: sono in particolare la farmaceutica e la chimica a riconoscere compensi superiori rispetto alla media di oltre il 15 per cento.

Il trend dal 2002
Analizzando, infine, la dinamica retributiva rilevata negli anni 2000, gli esperti di Od&M evidenziano l’andamento in tre periodi distinti: dal 2002 al 2007 le retribuzioni sono cresciute ben più dei prezzi al consumo (eccezion fatta per gli impiegati). Dal 2007 al 2011 si è verificata una stagnazione, che ha prodotto un calo di potere d’acquisto significativo: gli operai, per esempio, hanno visto salire la busta paga di appena lo 0,6% in media l’anno, contro un’inflazione cresciuta del 2,2%. Dal 2011 il trend si è invertito: crescita superiore all’inflazione, in primis proprio per le tute blu. «Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014 – conclude Cavasin – le retribuzioni sono salite di poco, ma grazie a un buon incremento avvenuto nel 2012 e a un rallentamento del costo della vita, si è realizzata negli ultimi tre anni una crescita, seppur lieve, del potere d’acquisto, con l’eccezione del middle management».