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La Tasi si mangia gli 80 euro di Renzi

La Tasi si mangia gli 80 euro di Renzi

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Con una mano dà e con l’altra prende. A pochi giorni dall’appuntamento con il pagamento dell’acconto della Tasi, l’imposta sui servizi indivisibili, coloro che hanno avuto il bonus da 80 euro stanno facendo i conti del bluff. Il bonus se ne andrà in fumo quasi tutto. E una volta pagata la prima rata dell’imposta, nemmeno il tempo di riprendere fiato che ecco arriva la legge di Stabilità. Difficile quindi parlare di rilancio dei consumi quando in tasca di chi ha dovuto spendere gran parte degli 80 euro in tasse. I beneficiari del bonus, lo ricordiamo, non sono in una situazione reddituale privilegiata. Il requisito per accedere alla «paghetta» elargita dal premier Renzi, era di percepire un reddito annuo lordo inferiore ai 25.000 euro. Il bonus è scattato con lo stipendio di maggio. Quindi per fine anno chi è stato «beneficiato» da questo «regalo» avrà percepito circa 640 euro.

Il costo medio della Tasi, secondo i calcoli del centro studi della Uil, ammonta a una media di circa 148 euro (74 euro da versare con l’acconto). Ma se si prendono a riferimento le sole città capoluogo l’importo sale a 191 euro medi (96 euro per l’acconto), con punte di 429, un conto più salato dell’Imu in un caso su due. Pertanto circa due terzi del bonus di 80 euro viene assorbito dall’imposta. A questi record si è arrivati perché la media dell’aliquota applicata dai 105 capoluoghi di provincia è pari al 2,63 per mille (superiore all’aliquota massima ordinaria), anche se «ammorbidita» dalle varie detrazioni introdotte dai relativi Comuni. Ci sono almeno 100mila combinazioni diverse di detrazioni ma se la fantasia è soddisfatta non lo è il portafoglio. Giacchè anche a fronte delle detrazioni il salasso rimane. Secondo la simulazione a Roma si pagheranno 391 euro medi, a Firenze 346 euro, a Bari 338 euro, a Foggia 326 euro, a Como 321 euro, a Trieste 309 euro, a Milano 300 euro, a Monza 299 euro e a Pisa 287 euro. Se all’imposta sui servizi poi si aggiungono la Tari (la tassa sui rifiuti) e le addizionali comunali, il bonus non basta più. Facciamo un esempio. Nel caso di un’abitazione di tipo economico A3 (che è di minor pregio), a Roma, tra Tasi, Tari e l’addizionale comunale Irpef, si pagano circa 1.100 euro. La Capitale si colloca al primo posto nella classifica delle città più tassate. Seguono Bari, con 1.079 euro, Napoli con 1.000 euro e Genova, con 961 euro.

Spulciando le delibere approvate dai principali Comuni capoluogo di Regione in materia di Tari, Tasi e addizionale comunale Irpef è emerso che, in quasi tutte le città, l’addizionale comunale ha raggiunto l’aliquota massima dello 0,8% (Roma applica addirittura lo 0,9%). Solo quattro amministrazioni hanno applicato una aliquota inferiore: Bologna (0,7%), L’Aquila (0,6), Aosta (0,3%) e Firenze (0,2%). Nel caso della Tasi in 9 casi stato applicato il valore massimo consentito per le abitazioni principali: 3,3%. La Tari, invece, colpisce soprattutto al Sud. Nonostante il servizio di raccolta dei rifiuti erogato nelle grandi città del Mezzogiorno non sia sempre «impeccabile», per un’abitazione di tipo civile A2, una famiglia di 3 persone residente a Cagliari paga quest’anno 653 euro. A Napoli 522 euro e a Palermo 497 euro. Quindi in questi casi tutto il bonus basta solo a coprire la tassa sui rifiuti.

Se è vero che il costo della Tasi sarà complessivamente leggermente più basso della vecchia Imu, è anche vero che la distribuzione della nuova tassa è meno equa: pagherà di più chi prima era esente o pagava cifre basse e pagheranno molto meno i proprietari di quelle abitazioni con rendite catastali elevate. Questo vuol dire che sono penalizzati proprio coloro che hanno ricevuto il bonus. L’imposta quindi non è stata concepita con una gradualità tale da favorire i proprietari di immobili di categoria medio bassa. Oltre il danno anche la beffa di vedersi prelevati dal fisco gli 80 euro. Dalle simulazioni fatte dalla Uil emerge che per 1 famiglia su 2 il costo della Tasi sarà maggiore dell’Imu nel 2012. La conclusione è che nel 2014 con la Tasi la pressione fiscale delle famiglie, rispetto al 2013, aumenterà. Gli 80 euro serviranno soltanto ad attenuare la stangata ma non saranno certo soldi che il contribuente potrà destinare ai consumi. Pagate queste imposte, in tasca rimane ben poco o nulla degli 80 euro. In queste condizioni i contribuenti dovranno affrontare l’appuntamento con la legge di Stabilità. Renzi promete che non ci saranno nuove imposte ma aveva anche promesso che il bonus sarebbe servito a rilanciare i consumi.

Sgravi alle famiglie. Assunzioni, 3 anni senza tasse

Sgravi alle famiglie. Assunzioni, 3 anni senza tasse

Andrea Bassi e Luca Cifoni – Il Messaggero

Il dato, quasi paradossale, lo ha certificato ieri l’Istat. Il bonus da 80 euro, per la metà, ha favorito i redditi medio-alti. Come questo sia stato possibile è semplice da spiegare. In Italia non esiste il reddito familiare. Così se in uno stesso nucleo ci sono due persone che guadagnano meno di 26 mila euro, entrambi hanno diritto al bonus, dal quale, invece, sono stati del tutto esclusi gli incapienti (chi dichiara meno di 8 mila) e le famiglie monoreddito sopra i 26 mila euro. Per mettere una toppa, seppur parziale, alla seconda di queste storture, il governo nella legge di Stabilità destinerà 500 milioni di euro agli sgravi per le famiglie numerose. Allo studio ci sarebbe un doppio meccanismo, legato anche ad una possibile rivisitazione del funzionamento del bonus da 80 euro. La prima possibilità sarebbe quella di far aumentare la soglia di reddito che dà diritto al bonus nel caso di famiglie monoreddito con minori a carico. Con due figli, per esempio, la soglia passerebbe da 26 mila a 30 mila euro, per salire a 40/42 mila euro con tre figli e a 50/55 mila euro con quattro figli. La seconda ipotesi, invece, si baserebbe su un aumento delle detrazioni per i figli a carico, attualmente 950 euro per figlio che salgono a 1.220 euro sotto i tre anni. In questo caso, tuttavia, sarebbe lo stesso bonus da 80 euro a cambiare fisionomia, diventando esso stesso una detrazione invece che, come è nella struttura attuale, un credito d’imposta. In questo modo si avrebbe anche un effetto collaterale di non poco conto, ossia una riduzione nominale della pressione fiscale.

Il meccanismo
La prima misura destinata alle imprese è invece l’azzeramento dei contributi in caso di nuove assunzioni a tempo indeterminato. Viene così riproposto, ma in una forma più potente e generale, il meccanismo già messo in campo alla metà dell’anno scorso dal governo Letta, che però non ha raggiunto gli obiettivi che si proponeva. In quel caso l’esenzione dal versamento dei contributi (pari al 33 per cento della retribuzione) riguardava per un periodo di 18 mesi le nuove assunzioni di giovani fino a 29 anni, mentre il beneficio era limitato a 12 mesi nel caso di passaggio dal contratto a termine a quello a tempo indeterminato. La dote finanziaria era di 794 milioni, su più anni, che avrebbero dovuto garantire 100 mila nuovi posti di lavoro. In realtà l’incentivo ha fatto scattare solo 22 mila ingressi nel mondo del lavoro, ed è stato recentemente definanziato con il decreto sblocca-Italia, per garantire copertura alla Cig in deroga. Lo schema di Renzi, che dovrebbe accompagnare il debutto del nuovo contratto a tutele crescenti introdotto con il Jobs Act, prevede invece che la decontribuzione, per un periodo di tre anni, riguardi qualsiasi nuova assunzione. Se le risorse messe sul tavolo si aggirano sul miliardo e mezzo in tre anni, allora le assunzioni agevolate dovrebbero riguardare un numero maggiore di persone. Ovviamente la propensione delle imprese ad ampliare il personale sarà condizionata anche dall’andamento del ciclo economico.

Deducibilità piena
Tocca il costo del lavoro, in modo sostanzioso, anche la nuova riduzione dell’Irap annunciata dal presidente del Consiglio. Oggi le retribuzioni dei dipendenti entrano nella base imponibile del tributo: come ha ricordato lo stesso Renzi è una caratteristica che lo rende particolarmente inviso agli imprenditori, perché comporta l’obbligo di un versamento anche quando la crisi azzera gli utili. Dal 2015 questa voce dovrebbe essere interamente dedotta, con un beneficio per le imprese quantificato in 6,5 miliardi (molto più di quanto ipotizzato finora). Resta però da capire come la novità si combinerà con l’attuale deduzione dell’Irap costo del lavoro ai fini Ires, ed eventualmente con il taglio dell’aliquota (dal 3,9 al 3,5 per cento) avviato con il decreto dello scorso aprile.

Il Pil “oscuro” vale 52 miliardi

Il Pil “oscuro” vale 52 miliardi

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

C’è un Pil buono, che misura gli investimenti virtuosi in Ricerca e Sviluppo. Nei dieci big europei vale 206 miliardi di euro e consente di raggranellare l’1,8% in più di ricchezza nazionale. Ma c’è anche un Pil cattivo, stimato in circa 52 miliardi, che per la prima volta considera le attività illegali: droga, prostituzione e contrabbando di alcol e sigarette. Con un contributo alla crescita dello 0,44 per cento. Da settembre le due facce della medaglia sono state incluse nel calcolo della ricchezza nazionale, con l’entrata in vigore delle nuove regole di contabilità europee del Sec 2010, sulla scia della revisione degli standard internazionali. Una boccata di ossigeno per i conti pubblici in tempi difficili, con l’obiettivo di una maggiore comparabilità dei dati. In attesa della prima comunicazione di Eurostat sul nuovo Pil prevista per venerdì 17 ottobre, Il Sole 24 Ore ha compiuto un viaggio virtuale tra gli Istituti nazionali di statistica delle 10 maggiori economie europee.

La palma per gli investimenti in R&S va alla Svezia: qui le spese per l’innovazione fanno crescere il Pil del 3,7%. Al polo opposto la Polonia, dove ci si deve accontentare di un magro 0,6 per cento. In termini assoluti primeggia però la Germania, con 54,7 miliardi di spinta dall’hi-tech, seguita dalla Francia. L’Italia è al quarto posto, con 20,5 miliardi, con un guadagno dell’1,3 per cento. «Sulla contabilizzazione delle spese di R&S – spiega Gian Paolo Oneto, direttore centrale della contabilità nazionale dell’Istat – la comparabilità tra i Paesi Ue è completa. È invece più difficile riuscire a intercettare la portata economica delle attività illegali, anche perché ognuno ha le proprie specificità di status legale di alcune di esse. Il ruolo di Eurostat sarà decisivo per arrivare a una maggiore convergenza dei sistemi di misurazione». Le stime fornite dai vari Paesi presentano infatti ordini di grandezza ancora difficili da comparare.

La forbice va dallo 0,9% del Pil di Italia e Spagna allo 0,1% di Francia e Germania. Roma e Madrid seguono alla lettera le regole di Sec 2010, mentre Parigi e Berlino si fermano al mercato degli stupefacenti. Così in Italia, dove le attività fuorilegge valgono 15,5 miliardi, la commercializzazione della droga vale da sola 10,5 miliardi, mentre la prostituzione pesa sui nuovi conti per 3,5 miliardi, e il contrabbando contribuisce per 300 milioni. In Spagna l’economia illegale frutta 9,4 miliardi all’anno e il commercio di droga, tra hashish, cocaina, eroina, ecstasy, amfetamine e Lsd, vale da solo mezzo punto di Pil. «Per quanto ci riguarda – spiega Oneto – il lavoro più complesso ha riguardato le stime sulla prostituzione: al contrario del mercato della droga dove ci sono forme di contrasto estremamente organizzate, qui abbiamo meno informazioni e abbiamo proceduto con le stime dal lato dell’offerta, ovvero del numero di prestazioni e dei prezzi medi. I dati forniti dalle associazioni private di assistenza che si occupano di questi fenomeni hanno avuto un ruolo importante». In termini assoluti al secondo posto dopo l’Italia c’è la Gran Bretagna con un impatto di 10,7 miliardi.

In Francia, come sottolinea Eric Dubois, direttore delle analisi economiche dell’Insee, il mercato degli stupefacenti vale circa 2 miliardi. Nel Paese, invece, la prostituzione è legale, ma non lo sfruttamento. «I ricavi derivanti dalla prostituzione esercitata in un contesto legale ma non dichiarati – precisa Dubois – sono già inclusi nel Pil da tempo e confluiscono nelle stime sul sommerso. Riteniamo invece che la prostituzione clandestina non debba essere considerata nel calcolo perché coinvolge in genere immigrati clandestini che operano in reti criminali». Anche in Germania, sottolineano dall’Ufficio di statistica, la prostituzione non è proibita e le stime sull’impatto di questo mercato sono già incluse nel Pil, mentre il contrabbando di alcol e sigarette «non ha un impatto economico dati i prezzi relativamente bassi». Resta il mercato della droga che vale 1,52 miliardi. In Olanda a trainare il Pil “cattivo” è il valore aggiunto del mercato della cannabis che “regala” 1 miliardo di ricchezza in più su un tolale di 2,6 miliardi derivanti dalle attività illegali. Qui l’eroina pesa il triplo dell’ecstasy: 317 contro 103 milioni.

Non era espressamente richiesto dal Sec 2010, ma alcuni Uffici di statistica, come quelli italiano e francese, hanno approfittato della revisione per aggiornare le stime sull’economia sommersa. Roma ha aggiornato al ribasso la previsione: da una forbice finora compresa tra il 16,3 e il 17,5% all’11,5%, che resta comunque il livello più alto tra i dieci Paesi considerati. In Francia, invece, la zona d’ombra rappresenta il 3,4% del Pil e frutta un bottino di 68,1 miliardi. In Belgio l’economia nascosta è stata inclusa per la prima volta nel calcolo della ricchezza nazionale e vale 696 milioni, lo 0,2%, la percentuale più bassa dei top 10. In Germania, Olanda e Spagna, il dato viene stimato ma resta top secret. Qui la strada per l’armonizzazione delle regole resta in salita.

Fisco, clima da DDR: un milione di italiani ha denunciato i vicini

Fisco, clima da DDR: un milione di italiani ha denunciato i vicini

Andrea Cuomo – Il Giornale

Un milione di spiate dal valore di 164 milioni di euro e spiccioli. È la delazione fiscale, bellezza. Un modo per far trionfare l’onestà, certo. Ma chissà quanti sassolini dalle scarpe si saranno tolti quegli italiani che hanno scritto al sito evasori.info per denunciare il commerciante, l’artigiano, il professionista poco incline alla ricevuta fiscale. Siamo nell’anno di grazia 2014 e se il ristoratore non ti ha portato lo scontrino, soffiandoti il conto nell’orecchio con piglio da cospiratore, le cose sono due: o lo stronchi su TripAdvisor o gli mandi la finanza elettronica. Comunque ti godi l’acre sapore della vendetta senza nemmeno muoverti da casa.

C’è un mood un po’ da Germania dell’Est nell’elaborazione dei dati di evasori.info fatta dall’agenzia AdnKronos. Quel clima plumbeo che ha ispirato narratori e registi, per cui in appartamenti incistati in falansteri da architettura socialista ciascuno diffidava del vicino di casa che avrebbe potuto spiarlo attraverso il muro di cartongesso per poi raccontare alla Stasi, la polizia segreta, che con la moglie si era lamentato della mancanza dei cetriolini sottaceto giù al supermercato di zona. Ma se ci si libera di quel sapore un po’ ferroso da collaboratori del regime, ci si può congratulare con l’erario, che festeggia 164.860.730 euro di evasione fiscale potenzialmente recuperata grazie alle soffiate «spontanee» dei cittadini arrivate entro le ore 16 dello scorso 10 ottobre. I cittadini superonesti, oppure vendicativi, se la prendono soprattutto con i bar (33,2 per cento delle segnalazioni), con i ristoranti (12,2), con negozi di alimentari, bevande e tabacchi (9,6), con servizi per la persona (9,2) e con gli ambulanti (4,4). In termini di valore, però, le evasioni più ingenti sono quelle degli studi legali e notarili (35,8 per cento dell’ammontare totale), seguiti da medici e dentisti (7,4), ristoranti (5,9), bar (5,2), agenzie immobiliari (5,6) e servizi alla persona (5,2).

La ricerca individua anche le categorie meno inclini alla fattura o allo scontrino, che sono, nell’ordine: i servizi finanziari in provincia di Como, le agenzie immobiliari in provincia di Milano, medici e dentisti in provincia di Roma, i loro colleghi napoletani, rivenditori e meccanici di auto e moto in provincia di Roma, pubblicitari sempre in provincia di Roma, ristoranti in provincia di Milano, servizi immobiliari in provincia di Roma e bar in provincia di Roma. Una lista che mostra una maggiore propensione all’evasione nelle grandi città e al Nord. O forse una maggiore talento per la soffiata. Tra i comportamenti denunciati c’è di tutto: il barista che nella frenesia mattutina finge di dimenticarsi lo scontrino del tuo cappuccino&cornetto. Il dentista che per la lunga cura ortodontica di tuo figlio ti propone un doppio binario: una cifra A senza fattura e una cifra A+B con. Il cameriere che scrive il totale a penna sulla tovaglia di carta e si aspetta ovviamente il pagamento cash. E anche un buona mancia, che c’entra. Siamo mica nella Ddr!

Miraggio assunzione per 3mila statali

Miraggio assunzione per 3mila statali

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tremila vincitori di concorso che hanno qualche possibilità di essere assunti, anche se i tempi sono tutti da definire. E 84 mila idonei che appaiono in buona parte destinati ad uscire dalle graduatorie. Il governo ha fatto il punto sulla situazione dei concorsi pubblici del passato pubblicando sul sito del Dipartimento della Funzione pubblica i primi risultati di una rilevazione condotta tra le varie amministrazioni, comunque incompleta e destinata ad essere aggiornata con altri dati.

La procedura attivata nasce da un provvedimento di oltre un anno fa, il decreto sulla pubblica amministrazione voluto dal precedente governo. In quel testo era stata prorogata fino al 31 dicembre 2016 la validità delle vigenti graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato. Veniva poi prevista la ricognizione delle graduatorie stesse, in particolare per individuare al loro interno coloro che avessero lavorato come dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato, maturando quindi anzianità. Con l’obiettivo di ridurre il ricorso ai contratti a termine la legge ipotizzava una possibile assunzione a tempo indeterminato di queste persone, sulla base delle disponibilità finanziarie che avrebbero dovuto essere precisate da un decreto (di concerto tra ministero della Pubblica amministrazione ed Economia) da adottare entro il 30 marzo 2014. Ad oggi questo decreto non risulta emanato e dunque tutta l’operazione appare ancora in alto mare.

Cambio di strategia
Se non che nel frattempo il nuovo governo, mosso evidentemente da priorità diverse da quelle che avevano spinto l’allora ministro D’Alia a scegliere questa strada, ha approvato un altro decreto legge di riforma della pubblica amministrazione e poi un disegno di legge che si trova attualmente all’esame del Senato. In quest’ultimo tra i principi per la revisione dei concorsi pubblici vengono indicati: «definizione di limiti assoluti e percentuali, in relazione al numero dei posti banditi, per gli idonei non vincitori; riduzione dei termini di validità delle graduatorie». Insomma in particolare sugli idonei la linea non sembra la stessa che aveva originato la necessità della ricognizione. Nel dettaglio, la gran parte delle posizioni nelle graduatorie si riferiscono al mondo della sanità e delle autonomie locali: quasi 2.200 su 3 mila per quel che riguarda i vincitori, oltre 67 mila su 84 mila tra gli idonei. Tra le amministrazioni centrali, spicca il ministero della Difesa che ha 252 vincitori da assumere e 346 idonei per l’eventuale assunzione. Un numero analogo di idonei (ma non di vincitori da assumere) si trova ai dicasteri dell’Istruzione e dello Sviluppo economico.

Il comparto sanitario
Nel comparto sanitario ci sono, tra gli altri, 170 vincitori da assumere nei servizi di emergenza (118) e 118 nella sola Asl di Bergamo. Quanto agli idonei per l’eventuale assunzione, il singolo ente che ne conta di più è 1’ente per i servizi tecnico amministrativi di area vasta del Centro, con 2.846, mentre gli ospedali riuniti di Ancona ne hanno 1.356 e l’azienda sanita- ria provinciale di Palermo 1.136. Tra gli enti locali attira decisamente l’attenzione il caso di Roma Capitale. Su 1.410 posti banditi, risultano assunti solo 307 vincitori; di conseguenza sono 1.013 quelli che ancora aspettano di vedersi assegnare un posto. E sono stati censiti 2.921 idonei per un’assunzione che si presenta però alquanto remota. Decisamente più contenuti i numeri del Comune di Milano, che ha non ha vincitori ancora da assumere ma 928 idonei potenzialmente candidati.

Imprese, incentivi a ricerca e brevetti

Imprese, incentivi a ricerca e brevetti

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Innovazione come capitolo centrale. Nel pacchetto sviluppo che il governo intende varare con la legge di stabilità il tema della ricerca gioca un ruolo chiave, sia con il recupero del credito d’imposta per gli investimenti sia con la norma che dovrebbe incentivare fiscalmente le spese in brevetti. Nelle ultime settimane si sono susseguite riunioni tecniche tra il ministero dello Sviluppo economico e il ministero dell’Economia, con il primo a proporre misure di politica industriale e il secondo a fare i conti sulle coperture. Due miliardi e mezzo: questa la cifra ritenuta dallo Sviluppo indispensabile per rendere almeno semi strutturale il credito d’imposta per la ricerca con una dote da 500 milioni annui per cinque anni. La copertura, dopo il flop della precedente versione della norma (i fondi della programmazione Ue 2014-2020 previsti dal Dl Destinazione Italia), stavolta dovrebbe essere a portata di mano, magari sacrificando in parte l’entità del beneficio in termini di percentuale di credito d’imposta.

L’innovazione è in buona parte anche il filo conduttore di quello che dovrebbe costituire un decreto “crescita” collegato alla legge di stabilità. Il provvedimento allo studio conterrà le prime misure che in queste settimane sono state elaborate dal gruppo di lavoro sull’«Industrial compact» coordinato dallo Sviluppo economico, da integrare con alcune proposte più direttamente mirate alla finanza d’impresa. Nel pacchetto dell’«Industrial compact» spicca il «patent box», una defiscalizzazione al 50 per cento dei redditi derivanti da beni riconducibili alla proprietà intellettuale. Anche in questo caso bisognerà fare attenzione alle esigenze di copertura e si valuta, a questo scopo, se limitare la platea delle spese ammissibili ai soli brevetti o estenderla anche a marchi e opere d’ingegno. A completare il pacchetto dovrebbe esserci l’estensione del piano startup. In particolare, si studia un ampliamento della categoria di imprese che possono essere interessate dagli incentivi fiscali per gli investitori. Sempre il Dl collegato alla stabilità dovrebbe fare da cornice a un nuovo intervento a favore dei canali alternativi al credito bancario, come minibond e fondi di credito. Si valuta inoltre l’estensione ad assicurazioni e società di cartolarizzazioni della possibilità di beneficiare del Fondo centrale di garanzia.

Non rappresenterebbe una sorpresa il rifinanziamento della nuova legge Sabatini, più volte annunciato. L’obiettivo è quello di raddoppiare il plafond della Cassa depositi e prestiti destinato a finanziamenti agevolati per l’acquisto o il leasing di beni strumentali. La Cdp potrebbe mettere a disposizione ulteriori 2,5 miliardi ma anche in questo caso è possibile che si restringa il raggio d’azione della misura, forse attraverso l’innalzamento dell’importo unitario minimo dei beni acquistabili. Tra i capitoli aperti, ancora in fase di lavorazione, anche la spinta allo sviluppo dimensionale delle Pmi. L’obiettivo dovrebbe essere favorire lo sviluppo di filiere e la crescita del taglio medio delle aziende mediante facilitazioni fiscali alle aggregazioni.

Sciopero fiscale contro la tassa rifiuti

Sciopero fiscale contro la tassa rifiuti

Attilio Barbieri – Libero

A Cremona è scoppiata la guerra alla tassa rifiuti, la Tari. Sette imprese su dieci non hanno pagato la tassa più odiata dai piccoli imprenditori. Le categorie produttive avevano annunciato lo sciopero fiscale lo scorso mese di luglio, guadagnandosi anche aperture di pagina sui quotidiani nazionali. Ma in fondo in pochi credevano che commercianti e artigiani sarebbero andati fino in fondo. E invece, secondo un sondaggio condotto su un campione rappresentativo delle categorie coinvolte, il 70 per cento ha deciso di non presentare la dichiarazione Tari. Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato, Cna, Asvicom: l’appello alla disobbedienza fiscale era partito un po’ da tutte le sigle che rappresentano il variegato universo del terziario commerciale. Ieri il quotidiano di Cremona, La Provincia, ha dato conto del sondaggio condotto in settimana fra gli iscritti. La percentuale di quanti hanno detto no alla Tari, è tale da lasciare pochi dubbi.

Inutile il tentativo dell’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Gianluca Galimberti, eletto lo scorso giugno dalla coalizione di centrosinistra, di ammorbidire le posizioni dei piccoli imprenditori. Dal tavolo di confronto aperto quest’estate non è uscito nulla di significativo. Le categorie chiedevano di attutire l’effetto della nuova imposta sui rifiuti, ritoccando le tabelle in vigore. Lo «sconto» proposto da Galimberti è stato giudicato insufficiente se non addirittura irrilevante. La partita non è ancora chiusa. Mercoledì prossimo ci sarà un nuovo confronto, ma come hanno anticipato i rappresentanti di commercianti e artigiani «gli scudi restano alzati».

«La nostra posizione», hanno spiegato le associazioni del terziario, «resta quella di un mese fa, non possiamo lasciarci ammazzare da questa gabella iniqua e pensiamo che il Comune debba attutire l’impatto devastante con maggiore convinzione di quella dimostrata finora». In gioco ci sono cifre consistenti. Le attività coinvolte in provincia di Cremona, sono 1.100. «Abbiamo chiesto a Galimberti di conoscere nel dettaglio tutti i numeri: quanto pagavano i nostri associati di Tarsu, la vecchia tassa sui rifiuti e quanto devono versare ora di Tari», spiega a Libero il presidente di Confcormnercio Cremona, Claudio Pugnoli, «ma tenga conto che gli aumenti arrivano anche al 600%. Il Comune ci ha offerto uno sconto di 100mila euro: spalmandolo sugli associati fa poco più di 90 euro a testa. Vogliamo capire, numeri alla mano, quanto possa incidere. Per alcuni di noi il nuovo tributo comporta rincari nell’ordine delle migliaia di euro. Cifre improponibili, che si fa fatica a pagare».

In effetti l’entità della nuova tassa è tale da mettere in ginocchio intere categorie di operatori. Secondo un documentato studio prodotto a inizio anno proprio da Confcommercio, un negozio di fiori o una pizzeria al taglio, per i rifiuti prima pagavano 400 euro, ora ne devono sborsare più di 3mila, con un aumento del 650 per cento. E parliamo di attività che impegnano una superficie di 100 metri quadrati, non certo dei supermercati. Di poco inferiore l’aumento percentuale toccato a ristoranti e trattori, con una superficie di 200 metri quadri: il rincaro si limita (si fa per dire!) al 482%. Ben 4.675 euro contro gli 802 della Tarsu. Pesante anche la sorte che tocca a bar e pasticcerie (sempre con una superficie di 100 metri): anziché 401 euro ne dovranno sborsare 1.661 (+314%). Ma le sorprese non finiscono qui. Sempre a guardare le tabelle compilate da Confcommercio, si scopre che all’aumentare della superficie, e presumibilmente del giro d’affari, il rincaro percentuale si attenua. Il costo dei rifiuti per un piccolo supermercato così come un negozio di generi alimentari che impegnino 300 metri quadri, sale da 1.204 a 3.478 euro. L’onere cresce del 188 per cento.

Un albergo senza ristorante, con 200 metri di superficie calpestabile, deve versare 840 euro anziché 386, con un aumento che si ferma al 118 per cento. Va un po’ meglio a edicolanti, farmacisti e tabaccai: di Tarsu pagavano 103 euro, di Tari 183 (+77%). Anche se paragonare gli introiti di un’edicola a quelli di una farmacia, con la crisi nera dei giornali, è un paradosso nel paradosso. Resta il fatto che il nuovo tributo anziché essere progressivo è regressivo: decresce percentualmente all’aumentare della superficie e presumibilmente dei ricavi. Un meccanismo che finisce per punire i titolari delle piccole attività. Alla faccia della perequazione di cui si sono riempiti la bocca i governi negli ultimi cinquant’anni. Il caso di Cremona, comunque, non è l’unico. Anche a Siracusa e Nuoro commercianti e artigiani si preparano a restituire le cartelle Tari ai sindaci. Forse lo sciopero fiscale è soltanto all’inizio.

Tasi, sarà stangata record. È il regalo delle giunte rosse

Tasi, sarà stangata record. È il regalo delle giunte rosse

Cinzia Meoni – Il Giornale

A pochi giorni dalla scadenza, il 16 ottobre, del versamento della prima rata della Tasi (il tributo sui servizi indivisibili, vero e proprio rebus per i contribuenti italiani), la Cgia di Mestre si prende la briga si spulciare tutte le delibere approvata dai capoluoghi di regione italiani su Tasi, Tari (la nuova tassa sui rifiuti) e addizionale Irpef per stabilire che il non proprio invidiabile primato di assoggettare i propri cittadini alle tasse comunali complessivamente più elevate di tutta la Penisola è detenuto da Bologna, Roma e Bari. La classifica, redatta dall’ufficio studi della Cgia calcolando il prelievo subito da una famiglia tipo di 3 persone, mette in luce divergenze abissali tra città e città. Nel caso di un’abitazione di tipo civile A2, ad esempio, a Bologna la stangata ammonta a 1.610 euro, a Genova a 1.488 euro, a Bari a 1.414 euro e Milano, a 1.379 euro. Meglio forse, potendo, trasferirsi ad Aosta dove si pagano in tutto «solo» 551 euro.

Più in dettaglio l’addizionale Irpef quasi dovunque raggiunge l’aliquota massima dello 0,8%. La Tari, invece, colpisce soprattutto a Sud: considerando sempre un’abitazione di tipo civile A2 abitata da tre persone, a Cagliari si pagheranno 653 euro, a Napoli 522 euro mentre a Firenze 217. Per la Tasi infine, solo Aosta, tra i capoluoghi di regione, ha applicato l’aliquota base dell’1 per mille. Ben nove capoluoghi (su 18) hanno deciso direttamente di applicare il valore massimo consentito per le abitazioni principali (3,3 per mille). Veri e propri salassi per i cittadini che, negli ultimi anni, hanno visto crescere esponenzialmente le imposte comunali nonostante servizi non esattamente impeccabili. Tutta colpa, a giudizio di Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, «dei pesantissimi tagli ai trasferimenti che lo Stato centrale ha praticato nei confronti degli enti locali». Negli ultimi cinque anni, come segnala la Cgia, a Roma sono arrivati 667 milioni in meno, a Milano 317,7, a Napoli 199,6, Torino 158,9 e a Genova 110,8.

I contribuenti intanto si preparano ad affrontare il rompicapo della Tasi, l’unica imposta sul valore dell’immobile che si paga a livello locale e forse le tasse più odiate per la poca chiarezza sui termini di pagamento. Per la stragrande maggioranza degli italiani mancano, infatti, pochi giorni alla scadenza prevista per legge per il versamento della prima rata della Tasi (50% del dovuto su base annua). Eppure non tutti i dubbi sono stati risolti. Entro giovedì 16 ottobre dovranno pagare l’acconto sulla Tasi tutti coloro che hanno in proprietà o possiedono a qualunque titolo immobili e aree edificabili nei comuni che hanno deliberato le aliquote entro il 10 settembre (in caso di mancato invio delle deliberazioni entro il termine previsto, il versamento della Tasi è effettuato in un’unica soluzione entro il 16 dicembre 2014, data di scadenza anche per la seconda rata dell’imposta, con l’aliquota minima dell’1 per mille). Il provvedimento riguarda tra l’altro Roma, Milano, Verona, Bari, Firenze e Palermo, ma fortunatamente sul web si può trovare l’elenco completo. Il tributo varia da città a città. La base imponibile è la rendita catastale, rivalutata del 5%, a cui si applicano i moltiplicatori a seconda della tipologia immobile. Le aliquote tuttavia sono stabilite a livello locale entro tetto massimo fissato dalla legge. Il risultato? Iniquo. Per Guglielmo Loy, segretario confederale Uil, con la Tasi, prevista dalla Legge di Stabilità 2014, «pagherà un po’ di più chi prima era esente o pagava cifre basse e pagheranno molto meno i proprietari di quelle abitazioni con rendite catastali elevate».

Capitali di nuovo in fuga dall’Italia, oltreconfine 67 miliardi in due mesi

Capitali di nuovo in fuga dall’Italia, oltreconfine 67 miliardi in due mesi

Federico Fubini – La Repubblica

Un deflusso del genere dall’Italia non si era visto da prima che Mario Draghi, nel luglio del 2012, pronunciasse le sue parole più celebri: “Faremo qualunque cosa per preservare l’euro”. Quel giorno il presidente della Bce arrestò e poi invertì la corrente della fuga di capitali da Paesi più in crisi. Ora, per la prima volta da quei giorni, la direzione di marcia si è ribaltata: via dall’Italia, verso l’estero.

Questa non è una replica del film di due o tre anni fa, in cui un’intera porzione d’Europea fu colpita dalla sfiducia. Stavolta, sugli ultimi due mesi, la fuoriuscita di denaro riguarda solo l’Italia. Nelle altre economie della cosiddetta “periferia”, Grecia, Spagna e Portogallo inclusi, la bilancia delle partite finanziarie procede come nell’ultimo anno o due. In agosto dall’Italia invece sono usciti capitali per 30,3 miliardi di euro, mentre la corsa verso l’estero in settembre ha addirittura accelerato con un saldo negativo di 37 miliardi. Era dal periodo drammatico fra la primavera 2011 e la primavera del 2012 che non si assisteva a un’emorragia così sostenuta. La tendenza è fotografata dal sistema europeo delle banche centrali, l’Eurosistema che dà vita alla Bce, attraverso i saldi di Target 2. Quest’ultimo è il meccanismo di pagamenti anche fra privati in Europa, che l’Eurosistema segue perché sono le stesse banche centrali a regolare i pagamenti attraverso i confini con un meccanismo di crediti e debiti.

È questo il termometro che ha segnalato la grande corsa verso l’uscita dall’Italia negli ultimi due mesi. Poiché gli scambi di import e export procedono di solito a ritmo costante, è sicuro che la fuoriuscita di capitali sia data da una decisione degli investitori finanziari: risparmiatori, fondi, banche. Sulla base dei dati pubblici è più difficile spiegare quali categorie di titoli italiani siano smobilizzate per portare denaro fuori. Per ora la fuga non sembra riguardare i titoli di Stato, ma dal 4 settembre scorso il Ftse-Mib, principale listino della borsa di Milano, ha perso il 9,5%: è una fuga di circa 40 miliardi di euro. Parte di questo denaro sembra essere stato parcheggiato in Germania: la posizione creditoria della Bundesbank nell’Eurosistema negli stessi mesi si è infatti impennata per circa la metà dei volumi finanziari persi dall’Italia. Il resto sembra essere finito fuori dall’area euro, contribuendo alla svalutazione della moneta unica.

Anche nel 2011 andò così: la fuga di capitali dall’Italia investì prima il mercato azionario, quindi quello dei titoli di Stato dopo qualche mese di deflussi dall’azionario. Non è detto che stavolta debba ripetersi il copione della crisi finanziaria, partendo dalla debolezza di borsa per poi si allargarsi ai titoli di Stato e facendo impennare lo spread con i bund tedeschi. Ma Frank Westermann dell’università di Osnabrueck ha notato lo smottamento di agosto e settembre e si è chiesto perché riguardi solo l’economia più grande dell’Europa del Sud. La prima spiegazione è la più ovvia: l’Italia è il solo Paese della periferia che resta in recessione, senza risultati visibili dalle riforme. Inoltre, poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre duecento miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati. Westermann però offre anche una spiegazione politica: Draghi nel 2012 promise interventi illimitati della Bce solo in difesa di quei Paesi che avessero accettato la troika, cioè un programma di politiche controllate e monitorate dal resto d’Europa. L’Italia è il solo Paese del Sud a non averlo sottoscritto, e ha un sistema politico che rifiuta la troika. È un tema del quale i politici nel Paese e nel resto d’Europa non parlano mai. I dati sulle fughe di capitale, ogni tanto, invece sì.

Il sindacato non c’è più?

Il sindacato non c’è più?

Enrico Deaglio – Il Venerdì di Repubblica

No, non è stato solo l’articolo 18. Quello era il pretesto, il tabù da abbattere. Quello che è successo il 29 settembre 2014 alla direzione del Pd, è stato un evento epocale. Per la prima volta nella sua storia, il partito italiano della sinistra ha rotto con il sindacato, con la sua visione del mondo, il suo linguaggio, la sua burocrazia, il suo peso politico, la sua storia. Senza rispetto, senza dire grazie. Anzi, con uno sfogo liberatorio. Non ne possiamo più di voi; siete vecchi, malvestiti, non siete sexy. Nooo! Noi non siamo i vostri figli!

Era già da un po’ che quest’aria circolava. Oggi infatti, insieme al politico della casta, il sindacalista è la persona più disprezzata d’Italia. Quando il presidente del Consiglio – a capo del partito della sinistra; Berlusconi non avrebbe osato tanto – deforma in un messaggio video la voce della segretaria Cgil Susanna Camusso in un piagnucolante falsetto e attacca il sindacato definendolo il principale responsabile di un apartheid sul luogo di lavoro, ha voglia Camusso di prospettare, a mezza bocca, uno sciopero generale. Lei per prima sa che non avrebbe successo. Quando anche il comico liberal Maurizio Crozza scherza su Maurizio Landini (il segretario della irriducibile Fiom) e Camusso e li mostra mentre mobilitano gli iscritti telefonando con i gettoni dalle cabine telefoniche, sembra di sentire una campana a morto: il sindacato, dice lo sketch, è un fantasma del passato; vive ingenuamente in una «bolla spazio temporale sopravvissuta agli anni Settanta»; il futuro delle relazioni di lavoro è piuttosto Flavio Briatore, il boss, quello che in un programma tv su come avere successo negli affari, ti guarda in faccia e ti fa: «Sei fuori». E poi, c’è il popolo che non tollera i fannulloni. Il popolo del blog di Beppe Grillo, il popolo dei melomani che plaude al licenziamento collettivo dei 182 orchestrali e coristi dell’Opera di Roma dopo la rinuncia del Maestro Riccardo Muti a dirigere Aida e Le nozze di Figaro. E poi c’è Sergio Marchionne, nella parte dell’imprenditore coraggioso, che si è trovato contro dei sindacati che volevano mettere becco con lui persino sulle pause per andare a fare la pipì alla catena di montaggio e che è dovuto emigrare in America.

A questo si era giunti, in Italia, nel 2014. Tutti dicevano che erano i sindacati, coi loro stupidi privilegi, a bloccare la speranza. Altro che i minatori gallesi! Altro che i controllori di volo americani! Altro che i ferrovieri inglesi che non volevano rinunciare alla pausa per il tè! No, qui in Italia si è andati oltre. I sindacati hanno distrutto l’Alitalia, difendono i ladri del bagaglio a Malpensa, fanno fuggire gli imprenditori con i loro diktat. Improvvisamente, sono diventati i responsabili di tutto; del precariato, della mancata innovazione, della rigidità del mercato del lavoro, della burocratizzazione della cosa pubblica, dell’assenza del merito, della fuga dei cervelli (94.121 giovani emigrati in un anno), dell’abulia della gioventù, del suicidio degli imprenditori, della crisi. Questa l’aria che tira. Vento forte, non c’è che dire, visto che è arrivato così tumultuosamente anche dentro il partito che era sempre stato l’unico alleato del sindacato.

Vien voglia, allora, di guardarla un po’ più dappresso, questa causa di tutti i mali. Prima di tutto: si dice sindacato o sindacati? Se si sceglie la dizione «sindacati», essi sono in Italia – a seconda delle stime – tra gli 800 e i 1.100; pare sia impossibile avere un censimento sicuro, visto che moltissimi sono sindacati registrati, ma composti di una sola o al massimo due o tre persone, per ottenere qualche beneicio legale. Nella scuola, per esempio, i sindacati sono ben 43, mentre 13 sono quelli dell’Enav, ovvero i controllori di volo. Alitalia e Meridiana schierano 13 sigle (a Ryanair, invece, il sindacato è di fatto vietato. Ehi! Vedi che si può volare senza sindacato!). I magistrati sono organizzati in 5 correnti sindacali, i dirigenti d’azienda hanno sindacati categoriali, provinciali, regionali, così come i prefetti. La Rai, con tredicimila dipendenti, sfoggia Slc Cgil, Uilcom Uil, Ugl Telecomunicazioni, Snater, Libersind Conf Sal, Usigrai, ma dirotta tutte le sue produzioni all’esterno, dove lavorano cooperative o altre entità ovviamente senza sindacato. I disoccupati di Napoli assommano 15 sigle, tutte piuttosto vivaci. In realtà praticamente tutti gli italiani (notai, taxisti, allevatori, guide alpine, vittime del racket) fanno parte di un sindacato alla ricerca di un tavolo di trattativa dove poter far valere le proprie ragioni. La Lega Nord ha fatto il suo sindacato, il Sinpa, sindacato della Lega Nord e la destra ha fatto l’Ugl, diventata nota perché la sua segretaria, Renata Polverini, stava sempre in televisione.

Poi, però, dato che siamo un Paese stravagante, esiste tutta un’altra Italia senza sindacati, ma altrettanto vivace. È l’Italia di mafia, camorra e ‘ndrangheta, di tutto il lavoro nero, degli usurai, degli immigrati che mandano avanti l’agricoltura e l’edilizia, degli schiavi che raccolgono il pomodoro. Insomma, quello che si dice normalmente il sommerso, che vale circa il 20 per cento del Pil. Ma, in generale, quando si parla del «sindacato » si intendono le tre grandi confederazioni Cgil, Cisl e Uil, che hanno numeri da lasciare a bocca aperta. Tutte e tre insieme raggiungono quasi dodici milioni di iscritti. Di questi, però, quasi la metà sono pensionati organizzati in una propria federazione. (L’Italia qui è un’anomalia. In Francia e in Germania, per esempio, i pensionati continuano a essere membri del loro sindacato di origine). Dei ventidue milioni di lavoratori in attività, quindi, uno su quattro è iscritto ad una delle tre grandi confederazioni. Non solo, ma all’interno di quel venticinque per cento, in netta maggioranza sono i lavoratori assunti dallo Stato. Per quanto riguarda l’industria, Cgil, Cisl e Uil rappresentano solo le realtà con più di 15 addetti, circa il sessanta per cento del totale. (Ovvero, il 40 per cento dei lavoratori italiani non è mai stato tutelato Redall’articolo 18. Un referendum per estendere la tutela si svolse nel 2003, ma fallì clamorosamente il quorum).

Un altro calcolo interessante è poi quello del numero dei sindacalisti. Secondo Bruno Manghi, il grande sociologo del sindacato, ex dirigente della Cisl, i sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil – ovvero le persone che dedicano almeno qualche ora al giorno, tutti i giorni, alle attività della loro federazione, sono circa 700 mila. Il loro lavoro è in parte volontariato, oppure è ricompensato da «permessi retribuiti» o «distacchi». Il fenomeno è particolarmente presente nella pubblica amministrazione, dove i sindacalisti in distacco retribuito erano arrivati ad essere quattromila, prima che fossero falcidiati dai ministri Brunetta e ora Madia. Quindi, quando vedete una manifestazione sindacale di mezzo milione di persone, duecentomila sono pensionati e il resto sono sindacalisti, in genere del pubblico impiego. Numeri impressionanti. Gli iscritti al sindacato in Italia superano di gran lunga i cattolici che vanno a messa la domenica; i sindacalisti a tempo pieno sparsi sul territorio sono sette volte gli effettivi dell’Arma dei carabinieri.

Da istituzione che difende i salari e le condizioni di vita dei lavoratori, il sindacato si è progressivamente trasformato in un colossale patronato che funge da centro di assistenza fiscale e pensionistico. I salari, invece, la cui difesa e il cui aumento sono il core business del sindacato, non sono stati molto tutelati. Marco Revelli, storico e da sempre appassionato militante delle battaglie sindacali, nel suo libro Poveri noi (Einaudi) ha riportato un dato quanto meno inaspettato. Una ricerca di Luci Ellis (Banca internazionale dei regolamenti di Basilea) e Kathryn Smith (Fondo Monetario Internazionale) scoprì già nel 2008 che la somma dei salari italiani era diminuita verticalmente. Per l’Italia si stimava un trasferimento tra salari e profitti di 8 punti percentuali (circa 120 miliardi di euro all’anno). Mi dice ora Revelli: «Luciano Gallino aggiorna i dati per l’Italia ipotizzando ora addirittura una quindicina di punti, il che farebbe 250 miliardi». Diversi i fattori: diminuzione della produzione generale; aumento della produttività dovuto al maggior uso di tecnologia, ma soprattutto aumento enorme della forbice tra le retribuzioni del lavoro manuale o impiegatizio, di livello sempre più basso, e quelle che l’alta dirigenza e la proprietà si assegnano. «Una delle più significative sconfitte sindacali è avvenuta alla Fiat. Nel 2012 Marchionne chiese un referendum in cui poneva seccamente la possibilità della chiusura se non fossero stati accettati pesanti cambiamenti (in peggio) dell’orario di lavoro. I dipendenti chiamati al voto si espressero, per poco, per il sì; ma questo non servì a garantire i livelli di produzione promessi e si entrò piuttosto in uno stato di cassa integrazione prolungata e apparentemente senza fine. La vertenza in pratica finì con una perdita di diritti sindacali che si erano acquisiti con anni di lotte e un salario decurtato sensibilmente, dato che la cassa integrazione copre solo l’ottanta per cento della busta paga. Detto in un altro modo, forse più crudo: quello che trent’anni fa era il volano che aveva spinto in alto le richieste sindacali – l’industria dell’automobile – ha perso nove decimi della sua forza numerica ed è composta da migliaia di operai di mezz’età o sulla via della pensione che vivono con meno di mille euro al mese». E di pari passo vennero i call center, i co.co.co, il precariato, le false partite Iva, le false cooperative.

Una massa di lavoro precario che è esplosa oggi in Italia fino a coinvolgere tre milioni di persone. Sono poveri, infelici, indignados, ma soprattutto non sindacalizzati. Nacquero più o meno insieme all’ultima grande manifestazione di forza della Cgil, nel 2002. Tre milioni di persone sfilarono a Roma per «mantenere l’articolo 18» che Silvio Berlusconi voleva eliminare. Non bastando i pullman italiani, la Cgil andò ad affittarli in Slovenia e il sindacato si vantò di aver prodotto tre milioni di spillette e cappellini in una settimana senza ricorrere al lavoro nero. A Sergio Cofferati, il segretario generale, venne pronosticato il ruolo di leader politico. Si parlò di un «ticket Prodi Cofferati», che avrebbe guidato un’Italia socialista. Ma era lo stesso Cofferati a sapere che quei tre milioni erano una specie di illusione ottica, l’ultima raffigurazione di un mondo che non esisteva più. «Quando facevo il sindacalista e c’era un contratto da rinnovare facevamo un’assemblea per turno alla Pirelli Bicocca. Ad ogni assemblea partecipavano settemila operai. Questo vuol dire che il sindacato riusciva a raggiungere in un giorno quattordicimila operai. Ieri, mi hanno portato i dati di adesione al nostro nuovo sindacato che vuol organizzare i precari. Abbiamo raddoppiato gli iscritti! Peccato che da 15 siano passati a trenta!». Giorgio Airaudo è stato il segretario nazionale della Fiom ed è ora parlamentare con Sel. Ha vissuto gli aspetti più drammatici della trasformazione del lavoro e della perdita di forza del sindacato. «Per dire tutta la verità, anche noi non ci rendemmo conto. C’era tutto questo parlare di flessibilità, necessaria per superare la crisi, che ci eravamo illusi che fosse qualcosa di momentaneo. Mi ricordo di quando andai a vedere il call center delle Pagine Gialle, sistemato dentro un’officina vuota di Mirafiori. Era la nuova catena di montaggio, però senza diritti! Noi eravamo abituati ad inserire nelle vertenze concessioni sullo straordinario, in cambio di assunzioni, ma notavamo che agli imprenditori non interessava più. Loro erano alla ricerca di un nuovo modo di produrre – e quando potevano andavano in Serbia o in Romania – e cercavano solo un modello che svalutasse il lavoro, così come ai tempi della lira si svalutava la moneta. Questa è la tendenza di oggi, purtroppo. Lavoro sempre più dequalificato e precario; volatile e licenziabile al primo accenno di crisi. Diventeremo un ex Paese industrializzato, ma forse il primo tra i Paesi sottosviluppati. Credo che dovremo abituarci a considerare il tempo del sindacato forte come un’età dell’oro. Il 13 ottobre, quando John Elkann suonerà la campanella di Wall Street, avrà quotato in borsa una società che in Italia ha lasciato solo piccoli pezzi di produzione».

Dodici anni dopo quella grandiosa manifestazione in nome della dignità del lavoro, il rosario di sconfitte sindacali è lungo. Un quarto delle manifatture è andato perso, il potere d’acquisto è diminuito, le pensioni sono state pesantemente allontanate dal costo della vita e ribassate, il lavoro precario è diventato legge e lo stesso potere politico del sindacato – i grandi accordi di concertazione – sulla politica economica, è un rito del passato. Franco Marini (una vita nella Cisl) non è diventato presidente della Repubblica. Fausto Bertinotti (sindacalista Cgil) si è fatto conoscere per aver fatto cadere il governo Prodi, reo di non aver fatto un legge sulle 35 ore di lavoro. Sergio Cofferati non è diventato il leader del Pd; oggi lo è invece un giovane che ha portato il partito sopra il 40 per cento dei voti, che ha scavalcato i sindacati mettendo lui ottanta euro in busta paga, senza nemmeno un’ora di sciopero. Li ha dati a dieci milioni di garantiti e sindacalizzati, ma è probabile che sia l’ultima volta. Matteo Renzi ha preso l’impegno di difendere «Marta, 28 anni, precaria, che aspetta un bambino» e a cui il sindacato non garantisce le tutele che invece garantisce alle dipendenti pubbliche. Nella stessa riunione, il Pd – dove la Cgil ha scoperto di non avere che pochissimi amici – una direzione euforica ha applaudito il diritto dei «padroni» (e basta chiamarli così!) a licenziare. Non Marta, s’intende. Ma Cofferati e la sua genìa.

Il sindacato è una cosa del passato? Difficile rispondere, perché il quadro non è uniforme. Negli Stati Uniti sembra essere diventato definitivamente un fenomeno residuale, con solo il sette per cento di lavoratori iscritti (dopo la guerra erano il 35 per cento). In Cina è ferocemente represso nei suoi tentativi. Il simbolo del suo sviluppo è piuttosto la gigantesca fabbrica Foxconn, con più di un milione di operai che assemblano telefonini chiusi da reti alle finestre per impedire i suicidi. Il suo contrappeso americano è la catena di grandi magazzini Walmart, anche questa con più di un milione di dipendenti (80 per cento dei prodotti venduti sono made in China) e nessuna rappresentanza sindacale; da cui paghe bassissime, turn over altissimo, licenziamenti facilissimi. Ma non tutto il mondo è così. In Brasile, Lula e Dilma Roussef sono stati portati alla presidenza dal sindacato e il Paese ha vissuto il suo migliore sviluppo economico con grande redistribuzione della ricchezza. La Polonia moderna è nata con la vittoria di un sindacato, Solidarnosc. La Germania è mitica per il potere della sua IG Metal, nel cui grattacielo svettante su Francoforte si decide di che colore saranno le prossime Bmw, di quante settimane di terme a Ischia possono godere gli operai, quanti saranno gli apprendisti da assumere e naturalmente si detta la linea alla politica, anche alla Merkel.

L’Italia oggi è in bilico, ma la tendenza è ad avere un grande futuro dietro le spalle. E dire che la storia è lunga e il sindacato ha radici talmente forti nel popolo italiano da rendere difficile una sua sparizione. In un immaginario tour di turismo sindacale, ecco Torino, la capitale operaia del Novecento, dove una fermata della nuova metropolitana si chiama XVIII dicembre, per ricordare la strage che le bande fasciste di Piero Brandimarte fecero contro la Camera del Lavoro nel 1922. Venti morti ammazzati, un telegramma di plauso da Benito Mussolini. Il sindacalismo italiano era nato da poco più di vent’anni – le leghe dei braccianti e quelle di mutuo soccorso, la gioventù operaia cattolica e i consigli di fabbrica gramsciani, un’idea di lavoro organizzato da contrapporre al padronato che era, davvero, avido e cattivo. Cesura di vent’anni, causa fascismo. Ripresa nel 1945, in cui agli operai e ai contadini nessuno regalava niente. Le fabbriche allora erano caserme, la polizia sparava volentieri. Tour sindacale in Sicilia, alla ricerca delle 44 Case del Popolo distrutte e dei 44 sindacalisti uccisi nel dopoguerra dalla maia, che difendeva feudi e latifondi. Un passaggio nella oggi placida Puglia, a ricercare le orme di Giuseppe Di Vittorio, il più grande sindacalista italiano.

Fatevi accompagnare dal libro di Luciana Castellina e Milena Agus, Guardati dalla mia fame, e scoprirete gli agrari che mettevano la museruola ai bambini perché non mangiassero l’uva durante la vendemmia e le donne proletarie affamate che entrarono nel palazzo dei signori e uccisero per vendetta, a mani nude altre donne, perché simbolo della ricchezza arrogante. Il sindacato in Italia è nato con sangue, passione e sacriicio. È ancora quello? Secondo lo storico Giovanni De Luna «l’apogeo venne raggiunto negli anni 70. I tre sindacati erano uniti (la destra, che li temeva, li chiamava la Triplice, la Trimurti), i grandi contratti collettivi erano momenti in cui si prendevano decisioni sulla scuola, sulla sanità, sulla casa, sullo sviluppo economico. Un’era che allora prese il nome di pansindacalismo, ma che fu sconfitta, principalmente perché non divenne progetto politico. Oggi viviamo i risultati di quella sconfitta; e il sindacato appare una somma di interessi di corporazioni. Un cambio antropologico piuttosto triste».

Pietro Marcenaro, già senatore del Pd, una vita passata nella Cgil, prima come operaio poi come dirigente, non pensa che il sindacato scomparirà. «Fa parte dell’Italia, è stato costruito da uomini e donne di nobili sentimenti e di grande moralità e la sua massima nobiltà l’ha avuta quando è stato unitario. Ma è ovvio che qualcosa è cambiato. Mi dispiacerebbe che la reazione alla politica di Renzi fosse uno scatto pavloviano di autodifesa. Credo piuttosto che il sindacato debba ripartire dal basso, che i sindacalisti debbano considerarsi soggetti che vogliono tutelare altri, non dirigenti di gruppi che cercano tutele. Ripartire dai più deboli. Il primo pensiero che mi viene in mente è questo. Sono un operaio marocchino, cerco qualcuno che mi difenda. Lo trovo, un sindacato?». La stessa domanda potrebbe fare Marta, che aspetta il bambino. O forse queste domande resteranno senza risposta, perché non ci sono più i sindacalisti di una volta. Il rischio è che anche il nome perda di significato. In California circola un adesivo, di quelli da appiccicare sul paraurti posteriore dell’auto. «Non sai chi è un sindacalista? È quello che ti ha fatto avere il weekend».