Edicola – Argomenti

Il Paese dei prestiti negati

Il Paese dei prestiti negati

Gigi Di Fiore – Il Mattino

Un commerciante suicida per i debiti, un pensionato che rischia di perdere la casa, il Sud nella morsa dell’usura: schegge di conseguenze indirette scatenate dal calo dei prestiti bancari, diminuiti dello 0,8 per cento alle famiglie e del 3,8 per cento alle imprese. Dati dell’ultimo mese, calcolati dalla Banca d’Italia. Sono lontani i tempi in cui non ci restavano che le banche per coronare un sogno. Una casa, un’auto, un viaggio: bastava chiedere un prestito, anche piccolo, per conquistarsi l’oggetto del desiderio. A garanzia, un immobile, la propria busta paga di lavoratore a tempo indeterminato, un parente pronto a metterci la faccia per il sì al denaro chiesto. Capi famiglia, artigiani, commercianti hanno alimentato l’esercito dei piccoli risparmiatori che si rivolgevano alle banche per esigenze improvvise. Fino al 2000, secondo i dati dell’ufficio studi della Banca d’Italia, il mercato del credito alle famiglie era di dimensioni ancora limitate rispetto al resto d’Europa: un terzo del reddito disponibile in un anno. Poi, da allora, 14 anni fa, in coincidenza con il calo dei tassi d’interesse, i prestiti bancari sono aumentati fino all’inversione di tendenza esplosa nel 2008.

La crisi, i redditi in diminuzione, la stretta della tasse sempre più numerose hanno spinto la chiusura dei rubinetti. Negli ultimi tre anni, il tramonto del periodo di vacche grasse è diventato fisiologico. Con storie che si fanno dramma, in una spirale sempre più preoccupante. A Ginosa Marina, in provincia di Taranto, un commerciante di 60 anni si è suicidato. Ha lasciato un piccolo quadernetto, dove ha registrato l’abisso della sua sofferenza. Nelle pagine scritte, quasi un testamento: «Mi sono trovato in grandi difficoltà economiche e avevo urgente bisogno di 1300 euro per coprire un assegno consegnato ad un fornitore. Rischiavo il protesto, mi sono rivolto alla mia banca per un fido. Me l’hanno rifiutato e sono piombato nella disperazione». Una moglie e tre figli, il no della piccola banca locale motivato da una «rilevante esposizione debitoria», ha spiegato l’avvocato Giuseppe Lecce, incaricato dalla famiglia di denunciare la banca per «istigazione al suicidio»: «Dagli estratti conto, abbiamo rilevato addebiti sproporzionati per le transazioni scaturite dall’uso del Pos sui pagamenti con carte di credito. Probabilmente, si trattava di errori e il commerciante lo ha fatto presente, nella richiesta di fido. Non l’hanno ascoltato, addebitandogli invece debiti rilevanti».

Casi limite, certo. Ma spia di situazioni difficili. Al Sud come al Nord. A Santa Vittoria di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, un artigiano di 42 anni ha denunciato la banca per usura. Dopo aver pagato per otto anni le rate di un mutuo decennale a tasso variabile, ha dovuto smettere perché si era trovato in difficoltà per il calo di guadagni nella sua attività. Stop alla rata di 800 euro, per poi rivolgersi ad un avvocato attraverso l’associazione antiusura Federitalia a Parma. E arriva una scoperta, attraverso il calcolo dell’associazione: i tassi applicati avrebbero sforato quelli regolari, diventando usurai.

Lo stop ai prestiti si concentra soprattutto sui mutui per l’acquisto della prima casa. Non è un caso, quindi, che il ministero del Tesoro abbia sentito il bisogno, nelle ultime ore, di firmare un protocollo d’intesa con l’Abi, l’associazione delle banche italiane. Prevede un fondo di garanzia, con dotazione di 650 milioni di euro, che dovrebbe consentire lo sblocco di una ventina di miliardi per l’acquisto della prima casa non di lusso. Spiegano Abi e ministero del Tesoro: «Si tratta di un’importante strumento di accesso al credito per la casa a favore dei cittadini, oltre che un immediato impulso alla crescita attraverso il rilancio del settore immobiliare». Beneficiati principali dovrebbero essere le giovani coppie, o un genitore separa-to con figli minorenni. Basterà? Di certo, i rubinetti a secco o totalmente chiusi del prestito bancario toccano le famiglie, come le piccole imprese. Colpa delle crisi, colpa di un sistema finanziario stritolato dalle sofferenze di crediti concessi a grossi gruppi imprenditoriali. Se i soldi vanno ai più grandi, che riescono a offrire più garanzie ma poi non pagano nei tempi fissati, a farne le spese sono i più piccoli e le famiglie. Un paradosso.

Per ristrutturazioni aziendali, o tamponare crisi, occorrono soldi. E le banche ne hanno sborsati cosi tanti che, negli ultimi mesi i 12 primi istituti creditizi italiani si incontrano con sempre maggiore frequenza per trovare soluzioni alle «sofferenze» scaturite da grossi gruppi imprenditoriali in difficoltà: 170 miliardi di euro. I nomi sono circolati da tempo, con Sorgenia, Risanamento e Tassara in cima alla lista. E scrive la Banca d’Italia, riferendosi agli ultimi mesi del 2014: «I criteri di offerta dei prestiti alle imprese sono divenuti lievemente espansivi, beneficiando del miglioramento delle attese riguardo l’attività economica in generale». Più sotto, però, il ma che complica la situazione di chi deve fare i conti con le bollette della luce, il fitto, il mutuo: «I criteri di offerta dei prestiti alle famiglie per l’acquisto di abitazioni hanno registrato un ulteriore allentamento».

I piccoli alle prese con la finanza che stritola. Giuseppe è stato a lungo in cassa integrazione alla Fiat di Pomigliano. Racconta: «Se non mi avessero aiutato i suoceri, avrei perso la casa che avevo comprato con un mutuo. Provate voi a onorare una rata di prestito, sottoscritta quando avevo un contratto di lavoro, con 700 euro al mese di cassa integrazione». La stretta alimenta il mercato delle società finanziarie private, che pretendono minori garanzie per concedere prestiti. Molte sono boarder line, strutture improvvisate, che si pubblicizzano con volantini e offrono interessi da favola e prestiti che poi si rivelano usurai. Ci sono però società finanziarie consolidate, con strutture nazionali, che finanziano acquisti di auto, computer, elettrodomestici vari. Nomi ricorrenti: Findomestic, Compass, Agos. Hanno gioco facile se, negli ultimi tre anni, secondo Unimpresa, il valore dei prestiti alle famiglie si è ridotto di 14 miliardi di euro. E per le imprese la contrazione è arrivata, sempre negli ultimi tre anni, alla somma di 70 miliardi di euro. I calcoli, dal luglio 2011 al luglio 2014, sono presto fatti: ai privati sono stati concessi dalle banche 83,1 miliardi di prestiti in meno, che significano il meno 5,49 per cento. Un’impresa fornisce la sua lettura di queste cifre: «La causa sono le sofferenze bancarie, l’insolvenza, il ritardo dei pagamenti. L’effetto diventa però la ripercussione negativa sull’economia reale».

E, a questo scenario da pianto, si aggiungono clausole e interessi applicati dalle banche, che scatenano denunce. Adusbef e Federconsumatori hanno presentato diffide contro 13 banche che, nel concedere mutui, avrebbero inserito «condizioni in grado di determinare un significativo squilibrio di diritti ed obblighi contrattuali, lesivi dei diritti degli utenti». L’elenco comprende gli interessi calcolati per scoperture momentanee dell’utente. Due giorni fa, un pensionato torinese, Vittorio Giari, si è rivolto al programma televisivo «Le Iene», per denunciare il suo caso. Ad una banca torinese aveva chiesto un prestito di 14mila euro, cedendo un quinto della pensione. Ha scoperto di aver restituito addirittura 40mila euro, con un tasso del 29 per cento, oltre il limite del 14,9 per cento fissato dalla legge per non sconfinare in usura. L’inghippo è stato scoperto: il contratto prevedeva anche un’assicurazione obbligatoria, per coprire l’eventuale morte o difficoltà del cliente a restituire il prestito. L’assicurazione è costata 10mila euro, che si è aggiunta alla restituzione con interesse. La banca, portata in tribunale, ha dovuto restituire 7500 euro. Il giudice ha dato ragione al pensionato.

Ma su quali elementi le banche rifiutano prestiti alle famiglie? Influiscono le garanzie e, negli ultimi anni, con l’incremento dei contratti a tempo determinato, gli istituti di credito sono diventati più restii a concedere mutui. Poi, ci si mettono le cosiddette «referenze creditizie». Sono i dati, raccolti da società private o pubbliche costituite da gruppi di banche e finanziarie, sui precedenti dell’utente che chiede un prestito. È l’archivio sui pagamenti in ritardo, i prestiti richiesti, gli eventuali scoperti e tutte le altre informazioni che le banche utilizzano per valutare l’attendibilità di chi chiede denaro e decidere. È il Sic (Sistema informazioni creditizie) a fornire quelle notizie. In Italia, ne esistono quattro: Experian, Consorzio tutela credito, Crif e Assilea. Sono una specie di grande fratello su chiunque si rivolga ad una banca per chiedere denaro. Un sistema invadente, che impone alle banche il segreto sui dati acquisiti. Riguarda finanziamenti inferiori ai 30mila euro. Sono proprio quelli che, inmaggior numero, richiedono le famiglie. L’invadenza nella privacy corre sul filo. Sono le banche e le finanziarie a fornire al Sic i dati personali di chi chiede un prestito. E, bisogna starne attenti, queste informazioni possono essere custodite non oltre sei mesi. Il tempo, di solito, di rispondere si o no alla richiesta. Spiegano all’Aduc, l’associazione per i diritti di utenti e consumatori: «Se il prestito è negato, o il cliente vi rinuncia, le informazioni possono restare in custodia al Sic non oltre 30 giorni. Attenzione, le notizie sui mancati pagamenti, o pagamenti in ritardo, non possono essere conservate oltre 12 mesi dalla regolarizzazione del debito. Sul Sic e i dati personali custoditi, valgono le norme sulla privacy e ci si può rivolgere al Garante per ottenere tutela». Se le richieste di prestiti sono superiori ai 75mila euro, esiste una Centrale rischi pubblica, gestita dalla Banca d’Italia. Riguarda essenzialmente le grosse imprese, i gruppi imprenditoriali di rilievo.

Denuncia Carlo Rienzi, presidente del Codacons: «È un vicolo cieco. La riduzione dei prestiti a famiglie e alle imprese strozza la ripresa. Che fine hanno fatto i miliardi di euro concessi dalla Bce agli istituti di credito, per aumentare i finanziamenti nel nostro Paese?». Domanda lecita, ma la risposta non appare semplice. Salvatore Rossi, attuale direttore generale della Banca d’Italia, ha analizzato l’andamento del credito concesso alle famiglie, partendo dal 2000. Spiega: «Le famiglie italiane hanno assistito alla progressiva riduzione del loro reddito reale, a partire dal 2008. La conseguenza è stato il ridimensionamento dell’acquisto di beni di consumo e la riduzione anche di domande di finanziamento bancario». Secondo quest’analisi, le famiglie a basso reddito sono progressivamente sparite dalla clientela bancaria. Nel 2012, le banche hanno concesso 30 miliardi di mutui e aggiunge ancora il direttore Rossi: «È cresciuta la selettività nell’offerta di credito, condizionando le scelte delle famiglie. Il tasso di sofferenza dei prestiti, così, è aumentato. Nel 2009 era passato dall’l all’1,4 per cento del totale dei prestiti esistenti».

Sono allarmanti i calcoli dell’ufficio studi della Banca d’Italia: almeno il 3, 6 per cento delle famiglie si è trovato con debiti bancari elevati. Le più vulnerabili, quelle con reddito più basso o inesistente, sono calcolate nell’1,4 per cento. Dice ancora il direttore Rossi: «Le progressive contrazioni del reddito reale e il deterioramento del mercato del lavoro hanno mutato le prospettive delle famiglie e ne hanno ridimensionato la propensione a chiedere finanziamenti». Sul no al prestito influiscono gli ostacoli della vita reale: cassa integrazione, famiglie monoreddito, contratti a tempo parziale. Le banche catalogano i «cattivi pagatori» e, in maniera indiretta, soprattutto al Sud, si alimenta il mercato illecito dell’usura. Secondo l’ultimo studio della Cgia di Mestre, la Campania sarebbe al primo posto in Italia per il ricorso agli usurai. Cresce la richiesta del piccolo prestito, trai mille e cinquemila euro a restituzioni da favola. Ma chi ha bisogno di denaro, anche per spese sanitarie non previste, non ha alternative. Soprattutto se non possiede garanzie da fornire alle banche. Dopo la Campania, ci sarebbero, nel ricorso all’usura, Calabria, Abruzzo, Puglia, Sicilia, Molise.

L’ultimo studio dell’Unioncamere, in collaborazione con Libera contro le mafie, lancia l’allarme. Vi si legge: «Un rapporto usurario nasce dalla necessità stringente di denaro, ma anche da un’offerta che può apparire di facile e rapida soluzione a chi si trova in difficoltà». Tassi d’interesse che schizzano dal 120 al 1500 per cento, accompagnati da metodi spicci per ottenere la restituzione del prestito. Confesercenti denuncia che circa 200mila commercianti hanno dovuto ricorrere all’usura. Al primo posto, anche stavolta, la Campania con 32mila commercianti. Racconta Giovanni, che ha dovuto chiudere un suo piccolo negozio di abbigliamento in provincia di Napoli, rimanendo per ora privo di lavoro: «Ero insolvente con più fornitori, che, sperando di recuperare i loro soldi, non mi facevano fallire. La banca non mi concedeva più prestiti, quando mi hanno presentato un’ingiunzione ho dovuto ricorrere agli usurai. Da lì è stata una spirale inarrestabile, che mi ha portato alla chiusura».

Secondo Eurispes, almeno il 35,7 per cento degli italiani ha chiesto nell’ultimo anno un prestito alle banche. Tra i più bisognosi di aiuti finanziari, i lavoratori con partite Iva (44,2 per cento) e il 35,2 lavoratori subordinati. La stessa analisi spiega la richiesta con la necessità di pagare debiti accumulati nel tempo (il 62,3 per cento) e il bisogno di saldare prestiti ricevuti da altre banche o da finanziarie (il 44,4 per cento). In tutti i casi, nella stretta del denaro che non basta mai e che le banche concedono sempre di meno, bene non siamo di certo messi. Speriamo che passi.

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Serena Uccello – Il Sole 24 Ore

Nel 2013, i cittadini che hanno beneficiato di un ammortizzatore sociale (Cassa integrazione guadagni, mobilità e indennità di disoccupazione, Aspi e MiniAspi) sono stati quasi 4,6 milioni, con un aumento del 6,5% rispetto al 2012 (280mila unità in più). Se si paragonano, invece, i dati del 2013 con quelli del 2008 (ultimo anno senza la piena crisi), l’aumento è stato di 2,4 milioni di persone (+113,6%), in quanto in quell’anno le persone beneficiarie di ammortizzatori sociali furono 2,1 milioni. A rivelarlo è il terzo Rapporto del Servizio Politiche del Lavoro della Uil, secondo cui nel 2013 sono stati spesi 23,8 miliardi, segnando un aumento del 5% rispetto all’anno precedente (1,1 miliardi di euro in più).

«Un gran numero di persone – sottolinea Guglielmo Loy, segretario Confederale Uil – circa un terzo dei lavoratori del settore privato, ogni anno conosce l’esperienza, spesso amara e angosciante, in alcuni casi un sollievo per l’aver evitato comunque il licenziamento, di avere una forma di sostegno al reddito». Un sistema di protezione sociale che, tra indennità e contributi figurativi, nell’ultimo anno è costato 23,8 miliardi di euro, (+13,8 miliardi di euro rispetto al 2008). Il tutto finanziato per 9,1miliardi di euro con i contributi di lavoratori e aziende e per 14,7 miliardi di euro a carico della fiscalità generale.L’importo medio, tra sussidi e contribuzione figurativa, per ogni beneficiario di ammortizzatori sociali, è di 5.191 euro pro capite (4.353 euro per la cassa integrazione, 18.589 euro per la mobilità e 4.768 euro per l’Aspi, Mini Aspi e indennità varie di disoccupazione). Nello specifico – spiega Loy – le persone protette dalla cassa integrazione guadagni, tra ordinaria, straordinaria e deroga, sono state 1,5 milioni (in diminuzione del 3,9% rispetto al 2012); mentre aumentano dello 0,9% le persone in mobilità, ordinaria e in deroga (arrivando a 187mila unità complessive); mentre tra Aspi, MiniAspi e Indennità di disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, i benefieiari sono stati 2,8 milioni con un aumento del 13,6% rispetto al 2012 (+341mi-
la).

Tornando ai costi, perla cassa integrazione la spesa è stata di 6,7 miliardi di euro, in aumento del 9,9% rispetto al 2012 (604 milioni di euro); per le indennità di mobilità ordinaria e in deroga il costo è stato di 3,5 miliardi di euro, con un aumento del 19,6% sul 2012 (+568 milioni di euro); perAspi, Mini Aspi e disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, il costo è stato di 13,6 miliardi di euro in leggera diminuzione rispetto al 2012 (-0,3%). Il capitolo degli ammortizzatori in deroga, finanziati completamente dalla fiscalità generale, nel 2013 e stato, tra cassa integrazione in deroga e mobilità in deroga, di 2 miliardi di euro.

Ma le leggi restano insabbiate nella palude della burocrazia

Ma le leggi restano insabbiate nella palude della burocrazia

Antonio Angeli – Il Tempo

Hai voglia a dire riforme… le leggi ci sono, ma mancano i decreti attuativi, succede così nell’Italia della crisi: i provvedimenti vengano pure varati da Camera e Senato (che sta sempre là), ma se i ministeri non producono l’adeguato supporto normativo… le riforme restano al palo. Il problema non è certo recente, anzi, è di natura «archeologica»: ieri in una affollata conferenza stampa il coordinatore della Struttura di missione per il dissesto idrogeologico, Erasmo D’Angelis, ha annunciato di aver trovato un «tesoretto» destinato al risanamento del territorio, quattro miliardi di euro «persi» da anni, in alcuni casi da decenni, nei labirinti della burocrazia italiana.

Per far arrivare in porto tutti i provvedimenti dei governi della «grande crisi»: Monti, Letta e Renzi, sono necessari, in base agli ultimi dati, circa 700 decreti attuativi, come confermato in tempi recenti dallo stesso governo Renzi. Le Province, ad esempio, che per tutti sono morte e sepolte, hanno invece proseguito a stare là. La legge Delrio le avrebbe cancellate, ma senza i relativi decreti attuativi è come se nulla fosse accaduto. Il problema è semplice (e ampiamente dibattuto): il Parlamento, nella pratica, indica delle «linee guida», ma chi poi porta «nelle case di tutti» le riforme è la struttura ministeriale, cioè la burocrazia. Anzi, le burocrazie che, in Italia, sono proverbialmente in ritardo. In alcuni casi anche di anni.

Nel complesso, in base agli ultimi dati diffusi, ci sono ancora 258 provvedimenti amministrativi da adottare per rendere completamente operative le leggi varate dal governo Monti; 273, invece, per quelle del governo di Enrico Letta. A queste si aggiungono le norme necessarie alle riforme del governo Renzi che, nel frattempo, ne sta producendo altre, per un totale complessivo di 700 decreti attuativi mancanti all’appello. Con una curiosità: per attuare la riforma della della pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia sono necessari almeno 77 decreti attuativi. E i decreti attuativi provengono, necessariamente, dalla stessa pubblica amministrazione che deve, in qualche modo, mettere in atto la sua stessa riforma. Il governo Renzi ha certificato, nel suo «Monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo», aggiornato al 7 agosto scorso, che il 62% dei provvedimenti legislativi varati dall’attuale esecutivo ha bisogno di ulteriori decreti per essere effettivamente messo in pratica. E questo perché meno della metà delle disposizioni (in tutto il 38%) si applica da sola: cifre alla mano su 40 provvedimenti solo 15 sono «autoapplicativi». In vista del traguardo della nuova legge di Stabilità, poi, mancano ancora all’appello provvedimenti attuativi della legge di bilancio del governo Letta. E per 25 di quei provvedimenti è bello che scaduto il termine entro il quale andavano adottati. Il «Decreto del fare» (quello di Letta, correva l’anno 2013) è rimasto insabbiato per circa la metà dei necessari decreti attuativi: su 79 ne sono stati adottati 40. Ne mancano ancora 39 per 12 dei quali sono anche in questo caso scaduti i termini temporali. Un «pasticcio burocratico», che ha radici profonde.

Proprio ieri è stata presentata a Palazzo Chigi la campagna istituzionale «Se l’Italia si Cura, l’Italia è più Sicura» con annesso il nuovo sito web italiasicura.governo.it, tutto legato all’attività delle Strutture di missione della Presidenza del Consiglio contro il dissesto idrogeologico. All’incontro c’erano Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Erasmo D’Angelis, coordinatore della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche. «Finalmente voltiamo pagina – ha spiegato D’Angelis – e lo dobbiamo innanzitutto alle oltre 4.000 vittime di frane e alluvioni negli ultimi 50 anni. Stiamo mettendo fine a ritardi imbarazzanti ed abbiamo recuperato e stiamo riprogrammando la spesa di circa 4 miliardi, 2,3 contro dissesto e 1,6 per disinquinare fiumi e mare, grazie al decreto “Sblocca Italia”. Entro la fine del 2014 apriranno altri 650 cantieri per opere di sicurezza per 800 milioni di euro. Sono soldi che, insieme al ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, al capo della Protezione Civile Franco Gabrielli e ai presidenti delle Regioni, stiamo finalmente trasformando in interventi in tutta Italia». Tutti fondi «insabbiati» da anni in paludi burocratiche. Intanto «abbiamo iniziato a spendere queste risorse che abbiamo trovato», ha detto D’Angelis.

Ma a parecchi tutto questo non va giù: «Il decreto legge Sblocca Italia dà il via libera ai saldi di fine stagione per il territorio e le risorse del nostro Paese – è la denuncia che arriva dal Wwf – Deroghe alla normativa ordinaria di tutela del paesaggio e dell’ambiente, mani sul territorio e sul demanio dei privati e dei concessionari autostradali, depotenziamento delle procedure di valutazione ambientale, tutto sotto la regia del governo centrale che emargina regioni, enti locali e cittadini grazie all’estensione della strategicità a intere categorie di interventi senza alcuna idea sulle priorità». E anche dal Fai, il Fondo Ambiente Italiano, e dal suo presidente, il noto archeologo Andrea Carandini, arrivano dure critiche.

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Filippo Caleri – Il Tempo

La riforma del lavoro c’è. O meglio ci sarà. Nella notte tra mercoledì e giovedì scorso il sì del Senato al Jobs act, la legge delega al governo per cambiare le regole che disciplinano il mercato dell’impiego, ha messo il primo tassello per rendere la disciplina in materia più flessibile. Non è una rivoluzione copernicana ma non appena i decreti delegati saranno emanati sarà possibile di modificare ad esempio le mansioni in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (da individuare «sulla base di parametri oggettivi») e mantenendo il livello salariale. Non solo. Arriverà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che significa che le tutele previste dall’articolo 18 saranno meno forti per i neoassunti. Non significa che l’occupazione ripartirà, visto che per creare posti di lavoro servono gli investimenti. E quelli non si fanno per legge. Ma sicuramente gli imprenditori non avranno più scuse sulla pesantezza del quadro regolamentare quando devono assumere. Intanto ieri è arrivato il plauso dell’Ocse a Renzi. Il via libera del Senato al Jobs Act «è uno sviluppo molto positivo». Se «pienamente implementato», il provvedimento «può contribuire a mettere il Paese su un sentiero di crescita più dinamica» ha detto Il segretario generale dell’Ocse, Gurria. Ecco le misure principali.

Neossunti
Per i nuovi assunti ci sarà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e cioè in relazione all’anzianità. Si va all’eliminazione del reintegro per i licenziamenti economici, che viene sostituito dal solo indennizzo certo e crescente con gli anni di servizio.

Licenziamenti
Resta la possibilitò del reintegro per i licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare “particolarmente gravi”, le cui fattispecie saranno poi specificate nel decreto delegato. Questo sempre per i neoassunti. Il reintegro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resta per i licenziamenti discriminatori.

Contrati stabili
L’obiettivo del Governo è quello di promuovere il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata» rendendolo «più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Questo comporta un riordino delle tipologie contrattuali, con l’abolizione delle forme «più permeabili agli abusi e più precarizzanti, come i contratti di collaborazione a progetto». Per questo si punta a definire un Testo organico semplificato dei contratti e rapporti di lavoro.

Cambiare mansioni
Sì alla revisione delle mansioni del lavoratore nel caso che parta la riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ma va basata su «parametri oggettivi», per «la tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita» ma anche “economiche”, con limiti alla modifica dell’inquadramento. Nella revisione delle mansioni anche la contrattazione aziendale e territoriale può individuare “ulteriori ipotesi”.

Il Governo assume
Arrivano 1,5 miliardi aggiuntivi per i nuovi ammortizzatori sociali. L’obiettivo è di estenderli a una platea di lavoraori più larga. In tutto sul piatto ci sono 11-12 miliardi. Con questi maggiori fondi si punta anche sulle politiche attive e su una maggiore tutela della maternità.

Salario minimo
Resta l’obiettivo di introdurre «eventualmente anche in via sperimentale» il compenso orario minimo anche per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti nazionali.

Ferie da regalare
Confermata la possibilità per il lavoratore che ha ferie in eccesso di cederle a colleghi che ne abbiano bisogno per assistere figli minori che necessitano di cure.

Solidarietà
Si punta a semplificare e ad estendere il campo di applicazione dei contratti di solidarietù potenziandone l’utilizzo in chiave “espansiva”, per aumentare cioè l’organico riducendo l’orario di lavoro e la retribuzione del personale.

Il boom della finanza questa volta è sociale

Il boom della finanza questa volta è sociale

Andrea Di Turi – Avvenire

Una crescita in doppia cifra di questi tempi è cosa piuttosto rara. Ma non per la finanza socialmente responsabile (Sri), più nota come finanza etica, che dimostra ancora una volta la sua capacità di “contaminare” i mercati finanziari guardando alle performance non solo economiche ma anche sociali e ambientali degli investimenti.

I numeri presentati ieri da Eurosif, l’organizzazione dei forum nazionali europei che promuovono la finanza Sri (per l’Italia il Forum per la finanza sostenibile), parlano da soli. Tra il 2011 e il 2013, nei 13 Paesi europei considerati dallo studio, si è assistito a una crescita in doppia cifra per tutte le modalità d’investimento riconducibili allo Sri. E tutte hanno fatto meglio, in termini di performance, del settore del risparmio gestito complessivamente considerato a livello continentale.

In particolare, secondo lo studio, che è stato realizzato grazie al contributo di realtà come Edmond de Rothschild asset management o Generali Investments Europe, a registrare un vero e proprio boom è stato il settore degli impact investing, gli investimenti che ricercano allo stesso tempo un rendimento accettabile e un impatto sociale (ad esempio garantire l’accesso a beni e servizi essenziali alle fasce svantaggiate della popolazione nei Paesi in via di sviluppo), sulla cui importanza si è soffermato di recente lo stesso Papa Francesco: l’impact investing, infatti, è la strategia di investimento socialmente responsabile che è cresciuta di più (+132%), tanto che si stima che il mercato europeo valga circa 20 miliardi di euro. Ed è un mercato in cui, dopo Olanda e Svizzera che insieme valgono i due terzi (il 50% dell’impact investing in Europa è rappresentato dalla microfinanza), l’Italia è ben posizionata, insieme a Gran Bretagna e Germania.

Notevole anche la crescita delle strategie di investimento responsabile dette di esclusione (o negative), che cioè escludono dall’universo investibile singole società quotate o interi settori considerati eticamente discutibili o quanto meno controversi: un caso tipico è quello degli investimenti in società che producono cluster bomb (bombe a grappolo) e mine anti-uomo, che in alcuni Paesi (ad esempio in Belgio) sono stati addirittura vietati per legge. Gli asset soggetti a criteri di esclusione sono cresciuti del 91%, a quasi 7 trilioni di euro (7mila miliardi di euro), cioè oltre il 40% degli asset gestiti complessivamente a livello europeo, e costituiscono oggi la modalità di investimento Sri più diffusa in Europa.

È ancora l’Italia, poi, a distinguersi in relazione alle pratiche di “engagement”, ossia di dialogo tra investitori e imprese su temi sociali e ambientali, che può sfociare nel voto in assemblea: l’engagement interessa 3,3 trilioni di euro di asset, è cresciuto dell’86% in Europa ma più di tutti è cresciuto in Italia, dov’è quasi raddoppiato (+193%) rispetto a due anni fa. Gli investitori etici italiani stanno dunque diventando anche investitori “attivi”? Forse. Di certo sarà uno degli argomenti della terza Settimana italiana dell’investimento sostenibile, in programma dal 4 al 12 novembre.

Chi si rivede, l’Imu sulla prima casa

Chi si rivede, l’Imu sulla prima casa

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Renzi prepara l’ennesimo gioco di prestigio per la tassazione sulla casa. La legge di Stabilità dovrebbe partorire, secondo alcune indiscrezioni, una nuova Imu sulla prima casa. Probabilmente non si chiamerà così perché il premier vorrà marcare la differenza con i precedenti governi e brillare per inventiva, ma la sostanza non cambia. I tecnici del ministero dell’Economia sono al lavoro per sfornare, a tempi record, in occasione della presentazione della manovra economica per il 2015 fissata per il 15 ottobre, una tassazione sulla casa nuova di zecca. Renzi ha già preparato il terreno di quella che sarà un’altra operazione di marketing. Ha annunciato che unificherà le diverse imposte in un’unica tassa. Il prossimo passo sarà dire che la Tasi ha creato tanta confusione e disagi ai proprietari di immobili, che è un’imposta iniqua perché le aliquote sono state lasciate in mano ai Comuni con un effetto a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale e che le diverse scadenze hanno creato il caos.

Si dirà quindi che occorre tornare all’antica. Ecco quindi l’arrivo di un’unica imposta che solo sulla carta rappresenterà un minor onere per i contribuenti. La Tasi, secondo le ipotesi allo studio dovrebbe confluire in un’altra imposta, una sorta di Imu bis che dovrebbe però assicurare almeno lo stesso gettito. Secondo le valutazioni in corso al ministero dell’Economia potrebbe essere molto simile all’Imu con una detrazione fissa a livello nazionale pari a 200 euro per la prima casa più uno sconto per ogni figlio sotto i 26 anni residente nello stesso immobile. Le aliquote sulle quali si sta ragionando sono per la prima casa comprese in un range tra il 4 e il 6 per mille e per le seconde abitazioni tra il 7,6 e il 10,6 per mille.

La Tasi fu introdotta sotto il governo Letta, come un escamotage voluto da Alfano che non voleva intestarsi il ritorno dell’Imu sulla prima casa dal momento che Berlusconi aveva ottenuto dall’ex premier l’esenzione dell’imposta sull’abitazione principale. Questo la dice lunga sulla volontà maturata da tempo, di colpire la prima casa. L’imposta unica e l’abolizione della Tasi verrà quindi spacciata come un «regalo» ai proprietari e dovrebbe servire a far digerire le maggiori imposte più o meno mascherate contenute nella legge di Stabilità.

Al momento non è stata fatta alcuna comunicazione ufficiale all’Anci. L’associazione dei Comuni ha comunque detto che, sulla base delle indiscrezioni emerse in questi giorni, «l’ipotesi di un vero riordino sulla Tasi è la benvenuta, ovviamente a condizione che si assicuri un sistema semplice, sostenibile e duraturo per la generalità dei Comuni, e che non si comprometta ancora una volta la possibilità di approvare i bilanci in tempo utile per gestire gli Enti». Poi l’Anci sottolinea che proprio «la variabilità delle aliquote e delle detrazione della Tasi sull’abitazione principale è tra i principali motivi della grande confusione». In base ai dati dell’Ifel il prelievo sull’abitazione principale media nel complesso dei capoluoghi è pari a 184 euro annui. Il prelievo annuo medio è molto diversificato: va dai 30 euro annui dei casi di minore impatto, ai circa 430 euro nei capoluoghi che hanno applicato un’aliquota relativamente elevata (intorno al 2,5 per mille)».

La Confedilizia in un dossier ha fatto il punto sul peso della tassazione immobiliare. L’Italia, nel confronto internazionale, è il paese con il maggior livello di imposizione fiscale sugli immobili. La manovra Monti per il 2012 ha portato il nostro Paese a una pressione del 2,2% sul Pil e del 2,75% sul reddito disponibile, contro la media Ocse di 1,27% e 1,59%, ossia circa 1 punto in meno sul Pil e 1,15 sul reddito disponibile. Il divario si accentua nei confronti della media Ue – che ha una pressione fiscale, rispettivamente, dell’1,15% e dell’1,40% – e, ulteriormente, con l’Eurozona, che ha una pressione dell’1,13% e dell’1,40%, ossia la metà circa di quella dell’Italia sia rispetto al Pil che al reddito disponibile.

Oltre al record di peso fiscale l’Italia detiene anche il primato per le stranezze sulle aliquote e le detrazioni. A Ferrara, per conoscere la detrazione applicabile per la Tasi sull’abitazione principale, bisogna applicare una formula matematica. A Modena, sono previste 11 detrazioni diverse, ad Asti 9. Il Comune di Parma, poi, prevede una detrazione maggiorata per le abitazioni principali con riferimento alla capacità contributiva della famiglia definita attraverso l’applicazione dell’indicatore Isee e declinata in ben 24 fattispecie diverse. In alcune città importanti (Bologna, Ancona, Treviso), le amministrazioni non si sono limitate a stabilire le aliquote relative al 2014, ma hanno fissato la misura dell’imposta anche per il 2015 e il 2016, sfruttando subito la possibilità di superare il limite massimo che la legge di stabilità dello scorso anno ha previsto solo per il 2014 (a Bologna, ad esempio, l’aliquota è stata fissata al 4,3 per mille sia per il 2015 che per il 2016). Sul «valore» dei figli, poi, ogni Comune ha la sua idea, che traduce in una diversa misura della (eventuale) specifica detrazione stabilita (10, 20, 25, 30 euro ecc.).

La nuova imposta – che, si ricorda, è solo una delle tre componenti della Iuc la sedicente imposta unica comunale che comprende anche l’Imu e la Tari – ha rappresentato infatti una nuova occasione, per i Comuni, per sbizzarrirsi nelle scelte più diverse, soprattutto con riferimento ad aliquote e detrazioni. A dimostrare lo stato d’incertezza e di confusione determinato da questo tributo vale del resto – ricorda Confedilizia – quanto accaduto a Lignano Sabbiadoro (Udine), dove, nonostante il Comune abbia deliberato l’azzeramento della Tasi, il sindaco ha riferito che dai cittadini sono arrivati decine e decine di versamenti del tributo. Il presidente della Confedilizia ha chiesto al governo di dare un segnale con la legge di Stabilità per consentire il rilancio del settore immobiliare «che non può essere la valvola di sicurezza ogni volta che lo stato ha bisogno di far cassa». Un intervento significativo potrebbe essere, secondo la Confedilizia, «una riduzione importante delle rendite catastali».

L’atlante mondiale delle economie: l’Italia scende dalla “top 10”

L’atlante mondiale delle economie: l’Italia scende dalla “top 10”

Danilo Taino – Corriere della Sera

È difficile per chi ha superato i 30 anni. Dobbiamo però ridisegnare nelle nostre menti l’atlante de mondo economico. Ieri, il Fondo monetario internazionale ha pubblicato una mappa interattiva (google.com/publicdata) dalla quale si ricava che l’ordine mondiale misurato in termini di Prodotto interno lordo (Pil) a parità di potere d’acquisto sarà, alla fine del 2014, questo: prima economia, la Cina con 17.632 dl dollari; seconda, quella degli Stati Uniti, 17.416 terza l’indiana, 7.277 miliardi. Seguono Giappone, Germania, Russia, Brasile, Francia, Indonesia, Regno Unito. All’ undicesimo posto il Messico, con 2.143 miliardi e al dodicesimo l’Italia, 2.066 miliardi di dollari.

Questa classifica è una novità, non paragonabile agli anni passati. Pil a parità di potere d’acquisto significa che si stabilisce un basket di prodotti e servizi e si guarda quante unità di una certa valuta servono per comprarlo, in ogni Paese; poi si registra quanti dollari servono per comprare il basket e sulla base del rapporto tra i due si corregge il Pil nominale. È una misura discutibile come tutte ma realistica: racconta a quanti beni e servizi corrisponde un singolo Pil.

L’Italia è insomma fuori dalle prime dieci economie. Qualcuno (per esempio il Financial Times) ha anche immaginato un G7 di Paesi emergenti: ha scoperto che un gruppo formato da Cina, India. Russia, Brasile, Indonesia, Messico, Turchia avrebbe un Pil più alto di quello del G7 tradizionale formato da Usa, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada: 37.800 miliardi contro 34.500.

Fuga da Belpaese, espatriano 94mila italiani in un anno

Fuga da Belpaese, espatriano 94mila italiani in un anno

Nadia Ferrigo – La Stampa

Che sia una buona notizia oppure no, è difficile a dirsi. Di sicuro, per un lavoratore straniero che arriva in Italia, almeno due italiani se ne vanno all’estero. Secondo i dati raccolti nell’ultimo «Rapporto Italiani nel Mondo», pubblicato dalla Fondazione Migrantes, lo scorso anno sono partiti 94.126 italiani, in aumento sul 2012 di circa il 16%. Un altro balzo in avanti che conferma una tendenza che va di pari passo con la crisi economica: nel 2011 gli «expat» nostrani erano più di 60mila, l`anno dopo sfioravano gli 80mila e oggi il saldo delle presenze è ancora positivo, con la soglia dei 100mila sempre più vicina. A cambiare e la classifica delle destinazioni preferite: al primo posto non c’e più la Germania, scivolata in seconda posizione, ma il Regno Unito, con 12.933 nuovi iscritti all’Aire, l’anagrafe italiana dei residenti all’estero. Al terzo posto la Svizzera (con 10.300 presenze, in aumento del 16%) e poi la Francia (8400, più 19%). A preparare le valigie sono più gli uomini delle donne, mentre la classe di età più rappresentata è quella che va dai 18 ai 34 anni (36,2%), a seguire si parte tra i 35 e i 49 (26,8%). Da dove arrivano? Il podio per quest’anno se lo aggiudicano Lombardia, Veneto e Lazio.

Cittadini del mondo
Nel mondo sono 4.482.115 i cittadini italiani iscritti all’Aire, quasi 141 mila in più rispetto allo scorso anno. La maggior parte delle iscrizioni – circa 2 milioni e 300mila – sono per espatrio, seguite dalle nascite, circa un milione e 700mila. L’Argentina è il primo paese di residenza (725mila), seguita da Germania (665mila), Svizzera (570mila), Francia (378mila), Brasile (332mila), Regno Unito (223mila), Canada (136mila) e Australia (134mila). Da dove si parte? Poco più della meta degli italiani iscritti all’Aire è di origine meridionale – più di 1,5 milioni del Sud e circa 800 mila delle Isole – il resto si divide equamente tra Nord e Centro. Ma quali sono le regioni che possono contare sulle comunità più numerose? Domina la Sicilia con il 15 per cento sul totale, seguita da Campania e Lazio, agli ultimi posti Trentino Alto Adige, Umbria e Valle dAosta.

Sempre più i frontalieri
Sono sempre più anche i lavoratori che ogni giorno arrivano in Canton Ticino, una delle mete più ambite. I frontalieri tra il 2003 e il 2008 Sono passati da 33mila a 41mila, e oggi sono circa 59mila. Secondo il dossier della Fondazione Migrantes, anche la mobilità regionale è sempre più
significativa: nel 2012 circa l’85% dei cittadini veneti si è cancellato e reiscritto in un comune diverso della stessa regione. In Lombardia, Piemonte e Friuli Venezia Giulia le percentuali di mobilità sono tra l’80 e l’84%. E tra una regione e l’altra? Basilicata e Molise registrano frequenti spostamenti verso le confinanti, mentre Calabria e Puglia resistono con il più classico dei modelli, che riguarda quasi esclusivamente lo spostamento verso il Nord e il Centro. I poli di attrazione sono soprattutto Lombardia e Piemonte per il Nord Ovest, Veneto ed Emilia Romagna nel Nord Est, Lazio nel Centro.

Già pronti a partire?
Bella ma non ci vivrei. Secondo la ricerca di Coldiretti, realizzata in concomitanza con i risultati del dossier Migrantes, un giovane italiano su due assicura di essere pronto a trasferirsi all’estero per cercare il lavoro che in patria non spera nemmeno più di trovare. Le motivazioni ricorrenti tra chi ha già la valigia se non in mano, sotto il letto? L’Italia è un Paese «fermo», dove non si prendono mai decisioni, poi c’è il problema delle troppe tasse e la cronica mancanza di meritocrazia. I più intenzionati a lasciare mamma e papà sono i giovani tra i 18 e i 19 anni, la percentuale sale di pari passo con il grado di istruzione.

Meno bamboccioni, ma “partire” resta un tabù

Meno bamboccioni, ma “partire” resta un tabù

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

La retorica dei «bamboccioni» (o come li chiamava l’ex sottosegretario Michel Martone «sfigati») non è più trendy come un tempo. Eppure la statistica continua a confermare una realtà sotto gli occhi di tutti: ancora molti ragazzi italiani non sono disposti a spostarsi all’estero per ottenere migliori condizioni di lavoro. È quanto emerge dal Global Talent Survey, una ricerca su un campione di oltre 200mila intervistati in tutto il mondo (circa 6mila in Italia) condotta dalla società di consulenza The Boston Consulting Group e da The Network, associazione che riunisce le principali aziende di selezione del personale.

Come detto, il nostro Paese si colloca nei bassifondi della classifica: poco più del 50% del campione ha risposto affermativamente. A farle compagnia ci sono altri Paesi a forte connotazione familistica della società come Argentina, Grecia e Spagna. La situazione macroeconomica, infatti, non è un fattore discriminante: se è vero che in Germania, Usa e Gran Bretagna c’è ancora minore propensione a spostarsi rispetto all’Italia, è altrettanto vero che in il 94% dei francesi e degli olandesi sarebbe felicissimo di lavorare all’estero se ciò comportasse un reddito migliore. Eppure a Parigi e Amsterdam non si sta certamente peggio di Roma. Lo stesso discorso vale per i cittadini degli Emirati Arabi Uniti, nazione tra le più ricche al mondo.

La vicinanza a casa è comunque una condizione necessaria anche per gli italiani che sarebbero disposti a emigrare. A differenza della maggior parte dei Paesi sviluppati, non è l’America la terra promessa dove cercare fortuna, ma la meno distante Gran Bretagna. Gli Stati Uniti vengono solo al secondo posto. In terza e in quarta posizione ci sono la Germania e la Francia. Le economie emergenti come Russia, Brasile, Cina e India sono agli ultimi posti. Fanno eccezione l’Australia (quinta posizione) e il Giappone (settimo). Forse la spiegazione sociologica della minore propensione a lasciare casa risiede nel fatto che per gli italiani un compenso attraente non è tra i fattori principali di scelta. Ciò che conta di più è che il proprio lavoro sia apprezzato, che ci siano possibilità di fare carriera e che si possano avere buoni rapporti con i superiori. Obiettivi non facilmente raggiungibili altrove per una popolazione in età lavorativa che, in media, ha una vera idiosincrasia per le lingue straniere.

La ricerca di The Boston Consulting Group sorprende anche dal lato inverso. Nonostante la crisi economica perenne, infatti, l’Italia continua a essere una delle destinazioni lavorative più apprezzate nel mondo. Si piazza, infatti, al nono posto con il 25% delle citazioni dietro la Spagna (26%) e prima della Svezia. Il nostro Paese si classifica quasi sempre come sesta o settima meta preferita tra i lavoratori delle altre nazioni industrializzate, eccezion fatta per gli statunitensi che la vedono come quarta migliore nazione dove avere un’esperienza lavorativa. Analogamente, tra le città ideali dei lavoratori, al decimo posto, figura Roma (3,5%). Lontanissima dalle prime tre (Londra, New York e Parigi), ma prima di Los Angeles, Tokyo e San Francisco che offrono sicuramente più potenziale di business. Certo, la Capitale piace in tutto il mondo e poi che ne sanno all’estero dell’esistenza di un tal Ignazio Marino?

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Lorenzo Vendemiale – Il Fatto Quotidiano

“Non siamo partiti dall’edilizia, ma dall’annoso problema dei lavoratori socialmente utili e della gara per i servizi di pulizia”. A svelare il bluff dell’operazione “Scuole belle” sono gli stessi vertici del ministero dell’Istruzione. L’obiettivo non erano le scuole: i soldi, 450 milioni di euro in totale, sono stati in realtà stanziati per risolvere il problema degli ‘ex Lsu’, migliaia di lavoratori che svolgono le opere di pulizia nelle strutture scolastiche del Paese, messi in difficoltà dal ribasso dell’ultima convenzione Consip. Il progetto di manutenzione è solo il modo di garantire a questi dipendenti la continuità occupazionale perduta. Così gli istituti scivolano in secondo piano: fondi distribuiti a pioggia, senza considerare gli interventi realmente necessari; importi, in alcuni casi di decine di migliaia di euro, spesi per operazioni marginali, perché solo queste rientravano nelle competenze dei lavoratori da occupare.

“Scuole Belle” insomma si trasforma, diventa la storia un’iniziativa che riguarda sì la scuola italiana, ma non è stata calibrata sulle esigenze della scuola italiana. Non più il grande progetto annunciato in pompa magna dal presidente del Consiglio, ma i classici due piccioni con una fava. Anche i presidi ne sono consapevoli. “Il progetto non è come l’hanno presentato: pensavamo di poter gestire quelle risorse, con certe cifre avremmo potuto fare cose importanti. In realtà c’è solo da scegliere tra alcune opzioni di lavori possibili. È tutto incanalato perché quei soldi servono a dare da mangiare ai lavoratori socialmente utili, le scuole vengono dopo”, spiega Fernando Iurlaro, dirigente dell’Istituto comprensivo Copertino, in provincia di Lecce.

I soldi dove ci sono più lavoratori

La riprova sta proprio nel processo con cui l’esecutivo ha elaborato la graduatoria e quantificato gli importi. I 150 milioni per il 2014, che diventeranno 450 milioni fino ai primi mesi del 2016, sono esattamente quanto serve a colmare il gap aperto dall’ultimo bandoConsip. E i fondi sono stati distribuiti tra le varie province del Paese non sulla base delle richieste delle scuole ma sul numero dei lavoratori. Tanto che su 450 milioni totali 330 finiscono al Meridione – la Campania da sola ne prende 171, la Puglia 68 – solo perché la maggior parte degli Lsu si trova in queste regioni. Non certo perché le strutture del Sud siano messe peggio di quelle del Nord.

A ricostruire l’iter è Sabrina Bono, capo dipartimento Miur per le risorse finanziarie: “Quella dei lavoratori socialmente utili è un’emergenza che nasce dalla gara per i servizi di pulizia: l’esternalizzazione, se da un lato ha razionalizzato i costi, dall’altro ha generato una pressante questione sociale. Per affrontarla, il nuovo governo ha pensato ad una soluzione che non fosse il solito ricorso agli ammortizzatori sociali. E visto che sul tavolo c’era già il tema dell’edilizia scolastica, si è deciso di inaugurare un filone riguardante la piccola manutenzione”. Questo genere di lavori, infatti, ricade proprio all’interno della convenzione Consip che riguarda gli “ex Lsu”. Così sono stati messi in cantiere un tot di opere in base al fabbisogno di questi lavoratori, non delle scuole. Legittimo. Anche lodevole, a sentire alcuni protagonisti come i sindacati o i vertici del ministero, soddisfatti di aver raggiunto un duplice obiettivo: “Per noi è una bella iniziativa, fino all’anno scorso in alcune scuole si facevano collette fra i genitori per riverniciare le aule. Abbiamo ricevuto tante lettere di ringraziamento”, afferma la Bono. Sicuramente, però, non è quello che aveva raccontato il premier Renzi, che negli ultimi mesi aveva più volte sbandierato l’intenzione di mettere la scuola al centro dei piani del governo. Mentre le cose sono andate diversamente.

Gli effetti negativi sui lavori

La particolare genesi del progetto, infatti, ha comportato alcune storture nella destinazione dei fondi alle scuole e nel loro impiego. La prima, la più macroscopica, è che il principale criterio di ripartizione è stato il numero di lavoratori presenti nella provincia: i soldi, insomma, non sono andati alle scuole che ne avevano più bisogno. Del resto, non c’è stato alcun bando a cui gli istituti potevano partecipare, nessun censimento specifico per monitorare gli interventi da effettuare (se non la consueta comunicazione che all’inizio di ogni anno i presidi fanno ai Comuni di appartenenza). Così nelle province più “munificate” dal progetto (come ad esempio Napoli con 37 milioni di euro, o Lecce con 10 milioni) è capitato che alcune scuole, le più grandi, si vedessero assegnati fino 200mila euro. Cifre ben lontane dai 7mila euro fissati come importo minimo dal Miur, o dalla media di 20mila euroscarsi per plesso. Sempre, però, per fare interventi “di cacciavite”. La lista delle operazioni possibili, poi, è abbastanza ristretta: verniciatura delle pareti e cancellazioni di scritte; riparazioni degli infissi; rimozione e riallocazione delle strutture didattiche (praticamente montare o spostare mensole, armadi, lavagne); piccoli interventi all’impianto idrico-sanitario (caldaie escluse, però); rifacimento e manutenzione del giardino.

È possibile spendere decine, a volte centinaia di migliaia di euro solo in questo tipo di lavori? Evidentemente sì. Si doveva farlo, del resto. Al massimo è stata concessa la possibilità di destinare fondi avanzati per pagare a canone servizi di pulizia e giardinaggio per i prossimi mesi. E pazienza che in alcuni casi gli stessi presidi abbiano avanzato dei dubbi. “A me alcuni costi sono sembrati spropositati. Ad esempio, il 15% secco solo per pulizie di fine cantiere (altra voce della circolare, ndr) mi è sembrato esagerato”, spiega Tonino Bacca, dirigente scolastico del circolo “Livio Tempesta” a Lecce. La sua direzione didattica si è vista assegnare 166mila euro, di cui 25mila circa se ne andranno solo per smontare i cantieri. “A casa mia non avrei mai fatto quei lavori a quelle cifre”, conclude. “Se avessi potuto decidere, avrei speso solo una parte dei fondi in manutenzione e il resto li avrei destinati a migliore la qualità delle attrezzature e dell’offerta formativa”. Discorso simile in un’altra scuola della provincia: qui la preside (che ha preferito rimanere anonima) ha speso circa 50mila euro per riverniciare 16 aule; ma pochi mesi prima la ritinteggiatura di 10 aule, a spese del Comune, era costata solo 17mila euro; in proporzione, meno della metà. È il genere di inconvenienti che si verifica con i finanziamenti a pioggia. Il risultato, alla fine della giostra, è una “mano di fresco” ai 7.751 plessi interessati, che ha lasciato parzialmente soddisfatti i presidi: da una parte felici di aver migliorato le condizioni delle loro strutture, dall’altra convinti che con le stesse cifre si sarebbe potuto fare di più e di meglio. Tutti contenti, invece, i lavoratori impiegati dal progetto, i veri beneficiari dell’iniziativa.

Lsu: chi e quanti sono

Per capire di chi si tratta e da dove nasce questa esigenza bisogna fare un passo indietro. In totale parliamo di circa 21mila uomini e donne in tutta Italia, concentrati per oltre il 50% nelle regioni del Sud. Alcuni provengono dai cosiddetti “appalti storici”, impiegati in questo settore sin dagli anni Ottanta. Altri, la maggior parte, sono appunto gli ex “lavoratori socialmente utili” (Lsu): disoccupati o cassaintegrati che nel 2001 il governo Prodi decise di stabilizzare all’interno delle scuole per i lavori di pulizia, impegnandosi a stanziare ogni anno le risorse necessarie per mantenerli. La loro situazione si è però complicata nel corso degli anni: le opere di pulizia sono state prima sottratte agli enti locali nel 2007, poi esternalizzate. E l’ultima gara Consip del 2011 ha visto dei ribassi tali (in alcuni casi anche del 30-50%) da indurre le ditte a presentare un piano di riduzione consistente dell’orario di lavoro. Si tratta della Dussmann in Puglia e Toscana; della Manutencoop in Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia e Trentino Alto-Adige; e del consorzio Rti in Sardegna, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo Molise, Valle D’Aosta, Piemonte e Liguria (nelle altre regioni la gara non è stata completata).

Già negli scorsi anni erano state varate delle operazioni straordinarie di pulizia, per far fronte all’emergenza. Quindi, nel febbraio 2014, il lancio di “Scuole belle”, per dare una svolta alla questione. Con i soldi del progetto, infatti, i lavoratori dovrebbero essere a posto almeno per due anni. Poi alcuni di loro dovrebbero andare in pensione, il bacino cominciare a svuotarsi. E il “bubbone” sgonfiarsi. Con piena soddisfazione del governo. Un po’ meno delle scuole, che per essere pulite meglio dovrebbero sperare in una disoccupazione maggiore.