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Sulle imprese record di tasse e contributi

Sulle imprese record di tasse e contributi

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Il Governo – lo ha confermato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi nell’intervista di ieri al «Sole24Ore» – si accinge a stabilizzare con la prossima legge di stabilità il bonus Irpef da 80 euro, e a tentare per quanto possibile di estenderlo alle categorie finora escluse. Nessun nuovo intervento per alleggerire il peso del fisco sulle imprese, a partire dall’Irap. Di certo, se si esaminano dati e statistiche, l’urgenza di un intervento a sostegno del mondo produttivo è pienamente confermata.

Secondo il rapporto «Paying taxes» della Banca mondiale, il livello complessivo del prelievo a carico delle aziende italiane (il cosiddetto total tax rate) ha raggiunto l’astronomico livello del 65,8 per cento. Un primato indiscutibile in Europa, se si considera che i dati del «Doing business 2014» mettono in luce come in Germania la pressione fiscale complessiva sulle imprese si attesti a un livello decisamente più basso, il 49,4% dei profitti. Alto livello di imposizione, ma anche eccesso di adempimenti: da noi le imprese effettuano mediamente 15 versamenti l’anno impiegando 269 ore, contro le 130 delle aziende danesi, le 132 di quelle francesi, le 167 della Spagna il cui livello di total tax rate al 58,6 per cento. Se si esamina la scomposizione del prelievo italiano a carico delle imprese, un peso determinante va ai contributi (34,8), mentre la corporate tax vera e propria è del 21,2%, cui vanno aggiunte l’Irap e l’Ires.

Come finanziare un’operazione che comunque, per essere efficace, dovrebbe essere “visibile”? Da un lato, attraverso la riduzione selettiva della spesa, dall’altro con una lotta senza quartiere all’economia sommersa, al lavoro nero, all’evasione fiscale. Mali endemici del nostro Paese, che sottraggono risorse, solo per quel che riguarda l’evasione, per non meno di 130 miliardi l’anno. Da questo punto di vista, occorrerà attuare in pieno il dispositivo della delega fiscale in cui si dispone la «misurazione dell’evasione fiscale», attraverso la messa a punto di un rapporto annuale che stimi e monitori il «tax gap», il livello accertato di evasione per tutte le principali imposte.

Del resto – lo sottolinea Eurostat – l’Italia dopo l’Ungheria è il paese europeo che in un solo anno, tra il 2011 e il 2012, ha accresciuto di più il peso della tassazione (dal 42,4 al 44%). Secondo i calcoli del Centro studi di Confindustria, se si guarda al parametro dell’aliquota implicita (quale emerge dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile), la tassazione dei redditi d’impresa da noi è superiore sia alla media dell’eurozona che a quella dell’intera Unione europea. In sostanza l’onere che grava sui profitti è pari al 2,8% del Pil, contro il 2,5% dell’eurozona e il 2,6% della Ue a 27. L’aliquota implicita da noi è del 24,8%, inferiore, tra i paesi euro, solo a Portogallo (36,1%), Francia e Cipro (26,9%).

Quanto all’incidenza del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro, l’Italia si colloca al secondo posto nella classifica europea, con il 42,3% (il Belgio è al 42,8%). La Francia è al 38,6%, la Germania al 37,1 per cento. Da metà degli anni Novanta – rileva il CsC – il livello dell’imposizione sul lavoro «si è innalzato in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, aprendo così un divario sostanziale, in termini di costo del lavoro, che ha effetti negativi sulla competitività delle imprese».
Del resto, se si calcola il peso del sommerso, la pressione fiscale effettiva supera e di molto il livello fotografato dalle statistiche ufficiali, attestandosi nei dintorni del 53 per cento.

Nel mare di annunci neppure lo straccio di una promessa per le partite Iva

Nel mare di annunci neppure lo straccio di una promessa per le partite Iva

Stefano Filippi – Il Giornale

Matteo Renzi dice che nel programma dei mille giorni ce n’è per tutti. Che cambierà faccia all’Italia, che sono state fissate date certe contro l’«annuncite» e che i risultati del suo governo saranno tutti verificabili «passo dopo passo», e comunque entro il 2017. Sarà. Per il momento, l’unico dato certo e verificabilissimo, anche se per niente sbandierato perché l’esecutivo non ci fa una grande figura, è che dall’orizzonte del governo sono spariti gli artigiani, le piccole imprese, le partite Iva, i professionisti. Quella che una volta era la spina dorsale del Paese ora è ridotta dalla crisi a una cenerentola. Quella rete di attività imprenditoriali e professionali in cui si è sempre articolato il tessuto produttivo più vitale è finita nel dimenticatoio.

Riforme, riforme, riforme. Il sito internet passodopopasso che dovrebbe scandire il diario della svolta ne annuncia a valanga. Il Senato e le autonomie locali, la pubblica amministrazione e i permessi sindacali, la scuola e gli 80 euro. L’«annuncite» deborda in questo manifesto di belle intenzioni tradotte in diapositive (o «slide», come s’usa dire adesso): un miscuglio di cose fatte e da fare dove non mancano indicazioni minuziose come il piano per gli asili nido e l’elenco dettagliato dei cantieri con le infrastrutture dello sblocca-Italia. Ma per le partite Iva la mente del premier e dei suoi consiglieri non ha partorito nulla. Esse sono tagliate fuori dall’ondata di novità che scuoterà lo Stivale, per loro non sono previste svolte, semplificazioni, alleggerimenti, defiscalizzazioni. Renzi aveva già escluso i piccoli imprenditori dal «bonus» degli 80 euro, venduto dal governo come una misura che riduce le tasse mentre le tasse non sono state toccate. Con la sua «promessite», che fa il paio con la vituperata «annuncite», Renzi aveva garantito che quei mille euro annui sarebbero finiti in tasca anche ad artigiani e imprenditori. Ora sappiamo che le buone intenzioni (di cui, com’è noto, sono lastricate le vie per l’inferno) rimangono. Ma senza alcuna garanzia di allargamento. Ieri il governo ha cominciato a riempire il sito internet (passodopopasso.italia.it) dove misurare i risultati dell’«annuncite». Sotto la testata campeggia un conto alla rovescia, ma non appaiono le date «cui ci siamo auto-costretti», come ha proclamato Renzi lunedì. Non esistono scadenze, non è fissato un termine alle promesse se non il 2017 al quale il premier vorrebbe arrivare senza essere giudicato. Manca perciò anche qualsiasi auto-costrizione. Il sito è soltanto un elenco propagandistico di argomenti sganciati tra loro: dai lavoratori Electrolux salvaguardati alla giustizia civile, dai permessi sindacali tagliati alle eccellenze dell’agroalimentare.

Ma anche in questo trionfo dell’autocelebrazione non si programma nulla per venire incontro alla crisi dei produttori. Le richieste avanzate in questi giorni da Giorgio Squinzi, leader di Confindustria, e Sergio Marchionne, numero uno di Fiat-Chrysler,sono rimaste lettera morta nel «Millegiorni». Del «contratto unico conveniente per le imprese e i lavoratori» chiesto da Squinzi, sfrondando la giungla dei lavori flessibili come di quelli a tempo indeterminato, non c’è traccia. Evidentemente Renzi pensa di essersela cavata con il taglio del tasso base dell’Irap per le piccole imprese (10 per cento) deciso in primavera. Qualcuno gli dica che, secondo il centro studi della Cna, la riduzione è un’aspirina perché la tassazione complessiva è calata appena dello 0,60 per cento. Non c’è traccia nemmeno di una revisione della riforma delle pensioni targata Elsa Fornero, che inchioda i lavoratori fino a 67 anni impedendo il ricambio generazionale nell’occupazione.

Lo sblocca-Italia, che avvia investimenti già decisi da cinque governi fa, si occupa soltanto dei cantieri delle grandi infrastrutture, non delle piccole imprese. Per loro non si prevedono alleggerimenti burocratici, semplificazioni degli adempimenti amministrativi, sgravi fiscali, incentivi per riportare in Italia le attività trasferite in Paesi dove abbonda la manodopera sottopagata, e nemmeno aiuti per la conquista di nuovi mercati o semplicemente per favorire assunzioni. Perfino Susanna Camusso, leader della Cgil, ha detto che «il piano del governo è una serie di titoli in cui continuiamo a non vedere una reazione al fatto che non c’è uscita dalla deflazione, né dalla crescita della disoccupazione». E se lo dice lei…

Le associazioni produttive non cessano di lanciare allarmi. Su negozi e capannoni è in arrivo la stangata della Tasi. Aumenta il rischio dell’usura. L’Istat segnala che l’occupazione non riprende. Per ogni negozio che apre, ne chiudono due mentre si espande indisturbato il commercio illegale dei venditori abusivi. Ma il maratoneta Renzi è convinto che per rilanciare l’attività degli imprenditori sia sufficiente la riduzione dei permessi sindacali, il dimezzamento dei diritti da versare alle Camere di commercio, il tetto agli stipendi dei manager, la semplificazione dei rimborsi dalla Pubblica amministrazione e il bando per favorire la nascita di start up agricole e agroalimentari previsto nel 2015. Sono questi gli unici provvedimenti del «Millegiorni» che in qualche modo interessano il sistema produttivo. Briciole.

Renzi diventa il leader del rinvio

Renzi diventa il leader del rinvio

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Dopo l’accelerazione il rinvio. Non volendo ammettere di aver abbondato nelle promesse e di non riuscire a mantenerle, Renzi non fa altro che spostare in avanti il traguardo delle riforme. Il piatto forte della legislatura avrebbe dovuto essere il decreto Sblocca Italia salvo scoprire, alla vigilia del Consiglio dei ministri, che i soldi in cassa non ci sono. Se ne riparlerà con la legge di Stabilità, è il ritornello che Renzi e la sua squadra di governo continuano a ripetere mostrando anche un certo fastidio se qualcuno gli ricorda che avevano prospettato ben altri ritmi.

A furia di rinviare e di accantonare provvedimenti che avrebbero dovuto essere prioritari per il rilancio dell’economia, la legge di Stabilità si è trasformata in un imbuto. Ma se ora i soldi per finanziare le riforme mancano e se finora nessuno ha avuto il coraggio di attuare i tagli suggeriti dal commissario alla spending review Cottarelli, sarà difficile trovare entrambi nel giro di poche settimane. La legge di Stabilità va presentata a Bruxelles il 15 ottobre e quindi va varata dal Consiglio dei ministri qualche giorno prima. Quindi Renzi ha a disposizione poco più di un mese per dare consistenza alla manovra economica. Questa, secondo la logica del rinvio, dovrebbe contenere tagli alla spesa pubblica per 17 miliardi per il 2015 che dovrebbero addirittura diventare 32 nel 2016. Un’impresa ardua.

Dovrebbe rientrare nella legge di Stabilità anche l’ampliamento della platea di chi ha diritto al bonus da 80 euro. Renzi aveva promesso che l’avrebbero avuto anche i pensionati, gli incapienti (reddito sotto gli 8 mila euro). Inoltre, altra promessa, la soglia del reddito sarebbe stata portata fino a 50mila euro l’anno. Ma questo vorrebbe dire un conto che oscilla tra 1,5 e 2 miliardi.

Rinviato anche il Jobs Act. Potrebbe vedere la luce entro la fine dell’anno. Renzi questa volta durante la conferenza stampa per il decreto Sblocca Italia, si è ben guardato dall’indicare una data precisa. Ma non doveva essere una priorità?

Slitta anche il provvedimento per i 4 mila lavoratori della scuola con quota 96, che non sono potuti andare in pensione a causa della riforma Fornero. Doveva occuparsene la riforma della pubblica amministrazione, poi il governo disse che forse con il pacchetto di misure sulla scuola si sarebbe trovata una via d’uscita. Oggi Renzi presenterà solo alcune linee guida sulla riforma della scuola e l’anno scolastico sta per cominciare.

Rinviata alla legge di Stabilità anche la regolarizzazione dei centomila precari della scuola. Uno slittamento determinato dalla mancanza di risorse. Come trovarle nel giro di un mese?

Nella manovra economica dovremmo trovare quella parte del piano casa che il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi non è riuscito ad inserire, per il solito problema di fondi, nello Sblocca Italia. Si tratta del rinnovo dell’ecobonus (lo sgravio Irpef del 65%) per le riqualificazioni energetiche degli edifici.

Rinviata al dibattito parlamentare la norma che prevede la deducibilità ai fini Irpef di una percentuale pari al 15% del prezzo di acquisto dell’immobile fino ad una soglia massima di 100mila euro. Il provvedimento è stato inserito all’interno del decreto Sblocca Italia ma con la clausola «salvo intese»: questo significa che dovrà essere ancora esaminata in Parlamento la sua opportunità di una sua applicazione alla luce delle coperture finanziarie disponibili.

Nulla di fatto ancora per il taglio delle municipalizzate. Anche in questo caso dovrà essere la legge di Stabilità ad occuparsene. Il commissario Cottarelli ha da tempo pronto tutto il piano ma l’operazione è apparsa subito molto difficile per la resistenza delle amministrazioni. Tant’è che Cottarelli ha suggerito di introdurre un meccanismo di sanzioni per colpire le partecipate recalcitranti all’abolizione. Il commissario ha addirittura prospettato la chiusura già nel 2015 di duemila municipalizzate. Infine sono slittati i tempi perla riforma della giustizia penale e per la legge elettorale. Sull’«annuncite» di Renzi è intervenuto D’Alema: il vocabolo non è un neologismo. L’Italia ne ha sofferto moltissimo: nel corso dei governi di Berlusconi era un’attività costante.

Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Paolo Baroni – La Stampa

Arriva settembre, finiscono le ferie, e molte serrande restano abbassate. A chiudere (per sempre) sono bar e ristoranti, negozi di abbigliamento e librerie, imprese che magari hanno una lunga storia imprenditoriale alle spalle ma anche attività nate anche da poco: spesso chiudono in sordina, a volte per pudore non lo comunicano nemmeno alle loro associazioni. «Per molti – spiegano alla Confesercenti – la chiusura del negozio in cui hanno lavorato tutta la vita, magari insieme alla famiglia, è una sconfitta personale. Per questo qualcuno approfitta delle ferie per chiudere».

I primi dati elaborati da Confesercenti ci dicono che tra luglio e agosto, nel settore del commercio, per ogni nuova impresa che ha aperto i battenti ben due li hanno chiusi. E quel che è peggio è che questi dati (2.603 aperture a fronte di 5.463 chiusure) replicano quelli del 2013, che fino a ieri risultava in assoluto l’anno peggiore di sempre. Oggi – denuncia Confesercenti – un’impresa su 4 dura addirittura meno di tre anni: a giugno 2014 oltre il 40% delle attivita aperte nel 2010 – circa 27mila imprese – è già sparito bruciando investimenti per circa 2,7 miliardi.

È crisi nerissima insomma: confermata anche dallo stallo dei consumi, che in sei mesi ha già fatto perdere al terziario altri 2,2 miliardi di euro di fatturato, e da una pessima stagione dei saldi, che quest’anno si sono rivelati un vero flop, con una riduzione delle vendite (stime Codacons) del 5-8% e una spesa media per famiglia che non supera i 65 euro.

In base ai dati dell’Osservatorio Confesercenti relativi ai primi sei mesi solo il commercio ambulante fa segnare un leggero miglioramento, si arresta la corsa delle vendite on line (82 nuove imprese avviate nei primi sei mesi dell’anno contro le 530 del 2013), mentre tutto il resto va male. A cominciare dai ristoranti (saldo negativo per 2.500 unita) che traina all’ingiù tutto il comparto del turismo, che già prima di questa pessima estate presentava un saldo negativo di 6mila imprese tra

hotel, bar, ecc. doppio rispetto al 2013. Poi vanno molto male il commercio in sede fissa (-14mila), i negozi di sigarette elettroniche (4 chiusure ogni nuova apertura), l’abbigliamento (-3300) e le rivendite di giornali (4 chiusure/2 aperture). Tra le regioni più colpite ci sono la Sicilia (15 chiusure al giorno e solo 5 aperture) ed il Lazio (6 aperture ogni 15 chiusure). Tra le grandi citta malissimo Roma, che ha fatto segnare un saldo complessivo negativo di 1.111 imprese nel solo settore del commercio in sede fissa, seguita da Napoli (-812) e Torino (-543).

«L’avvio del 2014 è stato peggiore di quanto ci aspettassimo – commenta il segretario generale di Confesercenti, Mauro Bussoni -. Siamo entrati nel terzo anno di crisi e molte imprese semplicemente non ce la fanno più, schiacciate dalla diminuzione dei consumi e l’aumento della pressione fiscale». Spaventa, inoltre, «la doppia batosta Tari/Tasi», senza contare poi i «danni» delle liberalizzazioni introdotte da Monti: dovevano rilanciare consumi e occupazione e si sono rivelate «un vero flop: i previsti effetti benefici sono tuttora “non pervenuti”, ed il settore ha perso oltre 100mila posti, registrando allo stesso tempo 28,5 miliardi di minori consumi da parte delle famiglie».

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

Valentina Conte e Roberto Mania – La Repubblica

Si fa presto a dire riforme: solo per attuare quella della pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia ci vorranno almeno 77 decreti attuativi. Ventisei – ha calcolato la Cgil – per applicare, entro dodici-diciotto mesi, il decreto convertito in legge e pubblicato già sulla Gazzetta ufficiale (quello sulla mobilità degli statali, per capirci) e ben 51 per il disegno di legge delega (il “cuore” della riforma) che deve ancora cominciare il suo iter parlamentare. Tempi lunghi, insomma, al di là della promessa, e degli sforzi, della Madia di rendere totalmente operativo il decreto entro la fine di quest’anno. Anche per il Jobs Act di Giuliano Poletti serviranno per ciascuno dei cinque articoli di cui è composta la legge delega «uno o più decreti legislativi». Dunque almeno cinque. Senza pensare che tra sessanta giorni, altri due decreti legge – giustizia sui processi civili e Sblocca Italia – saranno leggi bisognose di attuazione. E dunque di regolamenti ministeriali. Passo dopo passo, la montagna si è stratificata a tal punto che per dare compimento a tutti i provvedimenti dei governi della Grande Crisi – Monti-Letta-Renzi – servono ancora 699 decreti attuativi, come confermato ieri dallo stesso Renzi e da Maria Elena Boschi, ministro (appunto) per l’Attuazione del programma.

Il passaggio delle riforme dalla carta all’attuazione pratica non è mai lineare e soprattutto non è mai veloce: le Province, per dire, sono ancora vive e vegete. La legge Delrio le avrebbe cancellate, ma senza i relativi decreti attuativi è come se le norme fossero scritte sulla sabbia. I decreti per la loro abolizione dovevano arrivare a luglio, ora tutto è slittato a questo mese. Vedremo. Ma questo è il nostro sistema di produzione legislativa nel quale solo una parte del compito spetta a Parlamento e governo mentre tutta la parte applicativa viene delegata ai “potenti” uffici ministeriali. L’ha scritto Sabino Cassese, uno dei maggiori studiosi italiani del diritto amministrativo: «Ma chi è il legislatore? Formalmente il Parlamento, nei fatti le burocrazie operanti sotto il comando del governo. Per lunghi periodi della storia italiana, attribuzione di pieni poteri al governo, controllo dei governi sul Parlamento, deleghe del Parlamento all’esecutivo hanno consentito alle burocrazie e ai governi di legiferare. Quasi nessuna delle grandi leggi della storia italiana è prodotto del solo Parlamento».

D’altra parte – è il governo Renzi che lo certifica nel suo “Monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo“ aggiornato al 7 agosto scorso – il 62% dei provvedimenti legislativi varati dall’attuale esecutivo ha bisogno per essere effettivamente attuato di altri decreti, visto che meno della metà (precisamente il 38%) si applica da solo: in termini assoluti, su 40 solo 15 sono autoapplicativi. Risultato: servono 171 regolamenti. In percentuale il governo Renzi si muove nella media dei suoi predecessori. È stato infatti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue ultime Considerazioni, a ricordare come delle 69 riforme approvate dai governi tra il novembre del 2011 (quando si insedia l’esecutivo di emergenza guidato dal professor Mario Monti) all’aprile del 2013 (governo di Enrico Letta) solo la metà era stata realizzata a dicembre 2013. Anche questo incide sulla nostra scarsa competitività. Ancora oggi, alla vigilia della nuova legge di Stabilità, mancano all’appello 59 provvedimenti attuativi della legge di Bilancio del governo Letta. Di più: per 25 di quei provvedimenti è addirittura scaduto il termine entro il quale andavano adottati.

Il decreto soprannominato enfaticamente “Decreto del fare” è rimasto al palo per circa la metà dei previsti decreti attuativi: su 79 ne sono stati adottati 40. Ne mancano ancora 39 per 12 dei quali sono pure scaduti i termini temporali. Pensiamo se fosse stato chiamato con un altro nome… Pessima la performance del “Destinazione Italia”: dei 32 decreti attuativi richiesti ne mancano ancora 26, dunque ne sono stati applicati solo sei. Continua ad essere in affanno anche il “Salva Italia” (governo Monti, fine 2011): mancano tuttora 12 decreti attuativi per cinque dei quali è scaduto il termine. Nel complesso ci sono ancora 258 provvedimenti amministrativi da adottare per rendere completamente operative le leggi varate dal governo Monti; 273, invece, per quelle del governo di Enrico Letta. In tutto ce ne sono da varare ancora 531 (ieri la Boschi ha detto che sono scesi a 528) relativi ai precedenti governi che sommati ai 171 dell’esecutivo Renzi fanno 702 decreti mancanti al 7 agosto, ora diminuiti a 699.

Come sempre, in questa lunga stagione di crisi economica, la parte del leone la fa il ministero dell’Economia: sono 36 su 171 i provvedimenti che devono essere definiti dalla struttura guidata da Pier Carlo Padoan. Segue il ministero dell’Ambiente con 24 e poi la presidenza del Consiglio dei ministri con 22. Vero è che il governo Renzi ha smaltito un arretrato del 40% targato Monti-Letta da quando si è insediato, a febbraio (889 provvedimenti da approntare, portati in agosto a 531, ora a 528). Innalzando così la percentuale di attuazione rispettivamente di 12 punti percentuali (governo Monti al 64%) e ben 23 punti (governo Letta al 37%, poco più di un terzo).

Ma ciò che colpisce è l’incredibile vacanza di decreti per leggi importanti, ormai “datate”. È il caso ad esempio della legge Fornero del lavoro, la molto discussa 92 del 2012. Ebbene, anche in questo caso mancano all’appello sei decreti attuativi su 16. Nel frattempo però, si sono succeduti ben due governi, l’attuale ha già modificato la disciplina dei contratti a termine e si appresta a varare il nuovo Codice del lavoro tramite il Jobs Act. La stratificazione normativa e la corsa a legiferare ad ogni costo portano a questi paradossi. Negando benefici concreti a chi poi deve applicare le regole, vecchie e nuove. Anzi aggiungendo confusione e favorendo conflitti interpretativi. Per rimanere nel campo del lavoro, c’è da segnalare l’assurda storia del credito d’imposta previsto dal decreto Sviluppo 83 del 2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), entrato in vigore il 26 giugno di due anni fa e predisposto dall’allora ministro Corrado Passera. La norma assicura benefici fiscali (un abbattimento del 35% del costo aziendale per un massimo di dodici mesi) a quelle imprese che assumono a tempo indeterminato ricercatori, laureati o dottorati per svolgere attività di ricerca e sviluppo. Ecco, fino a pochi giorni fa questo bonus non era operativo, pur essendo previsto da una legge dello Stato. L’attuazione era demandata al solito decreto interministeriale da emanare entro 60 giorni. Decreto arrivato il 23 ottobre 2013 (oltre un anno dopo, governo Letta) che a sua volta prevedeva un “decreto direttoriale” del ministero dello Sviluppo, firmato il 28 luglio scorso (governo Renzi) e pubblicato in Gazzetta ufficiale solo il 9 agosto scorso. Oltre due anni dopo la legge che lo istituisce, “urgente” e “per la crescita del Paese”. Con una disoccupazione giovanile alle stelle, la fuga dei cervelli e la spesa in ricerca ai minimi storici, passaggi burocratici biblici come quelli descritti lasciano davvero attoniti.

Solo a settembre 307 mazzate fiscali

Solo a settembre 307 mazzate fiscali

Antonio Spampinato – Libero

Matteo Renzi si è preso 1.000 giorni di tempo per portare a termine la sua agenda di riforme: si va dal lavoro, allo snellimento della pubblica amministrazione, alla giustizia, al fisco, al ridisegno delle istituzioni. Un’indiretta ammissione sull’impossibilità di fare qualcosa di conclusivo nei primi 122 giorni di governo, bollando, di fatto, le precedenti promesse come irrealizzabili, quantomeno nei tempi programmati al momento del suo insediamento. «L’Italia cambia. Con calma e il passo giusto arriviamo dappertutto››, ha detto. Mettiamoci comodi, dunque, che fretta c’è. A proposito di fisco – e a proposito di riforme – ci permettiamo di segnalare che tra i numeri elencati nel corso della conferenza stampa il premier ne ha dimenticato uno, particolarmente caro a tutti: quello relativo alle scadenze fiscali. E, a questo proposito, settembre è uno di quei mesi da bollino rosso.

Tra Irpef, cedolare secca e addizionali varie, il portafoglio si prosciuga, ma soprattutto impazzisce, dovendo stare dietro a un numero spropositato di adempimenti. Il fisco amico, quello aperto al dialogo con i contribuenti, solo per il mese di settembre ha infatti fissato 371 appuntamenti con le famiglie e le imprese italiane. Di questi, 307 riguardano versamenti veri e propri, 17 sono dichiarazioni, 19 comunicazioni, 3 adempimenti contabili, 18 ravvedimenti e 7 tra richieste, domande e istanze. Non tutte da onorare da tutti, ovviamente.

Quello che però vorremmo mettere in risalto sono le catene che legano i contribuenti al fisco, l’esagerato numero di adempimenti che gli italiani sono costretti a segnarsi in agenda per non finire nel libro nero degli evasori. Persino i commercialisti faticano ad aggiornare i loro database, visti i continui ripensamenti e, purtroppo, aggiunte, che i burocrati sfornano in continuazione, quasi non facessero parte anche loro del tartassato mondo dei contribuenti italiani.

Ieri è stato il giorno della prima scadenza del versamento di Irpef addizionali e cedolare secca per i contribuenti non titolari di partita Iva che hanno rateizzato il primo acconto 2014. Dei 51 versamenti previsti, 7 riguardavano l’Irpef, 8 le addizionali, 4 la cedolare secca e poi l’Iva (1), imposte di registro (3) e imposte sostitutive (4). Sotto la voce “altro”, ci sono scadenze quali il versamento dell’imposta dovuta sui premi ed accessori incassati nel mese di luglio 2014 nonché gli eventuali conguagli dell’imposta dovuta sui premi ed accessori incassati nel mese di giugno 2014. Martedì 16 sono previste ben 206 scadenze, di cui 205 relative a versamenti: sempre per Irpef, addizionali e cedolare secca, è fissata la scadenza per i contribuenti titolari di partita Iva che hanno rateizzato il primo acconto 2014. Inoltre, per i pensionati, è previsto il versamento della quota del canone Rai.

E si arriva a venerdì 19 con l’invio del modello 770 relativo all’anno 2013. Ma gli adempimenti del mese di settembre si chiuderanno martedì 30 con l’invio del modello Unico 2014 e del modello Irap 2014. Oltre a 51 diversi tipi di versamenti, anche questi suddivisi per tipologia di contribuente. Ma non è finita qui: a settembre si tornerà a parlare anche di Tasi. Mercoledì 10, infatti, i Comuni devono approvare e inviare alle Finanze le delibere sulla Tassa sui servizi indivisibili, la nuova imposta comunale istituita dalla legge di stabilità 2014. E martedì 30 i Comuni devono approvare il bilancio di previsione (comprese le aliquote Imu e le tariffe Tari, la tassa sui rifiuti). Sul sito dell’Agenzia delle entrate, proprio per venire incontro alla necessaria esigenza di trasparenza, il fisco, sempre quello amico, invece di tagliare con l’accetta il numero di scadenze, ha preferito pubblicare un comodo calendario in cui cittadini e imprenditori possono cliccare su decine, centinaia di link per capire in quale modo possono contribuire al risanamento dei conti pubblici e al rilancio del Paese. La suddivisione è fatta per adempimento e per tipologia di contribuente. Il tutto consultabile standosene seduti davanti al computer di casa o dell’ufficio. Comodo no?

Imu, Tasi e Tari: il percorso (impossibile) delle tasse sulla casa

Imu, Tasi e Tari: il percorso (impossibile) delle tasse sulla casa

Gino Pagliuca – Corriere della Sera

È cominciato l’autunno delle tasse sulla casa. Da qui a metà dicembre infatti il calendario è punteggiato di appuntamenti che riguarderanno in pratica tutti coloro che occupano un’abitazione. Tre sono i tributi che incombono: la Tasi, a carico del proprietario se la casa non è locata, altrimenti va suddivisa tra proprietario (che deve pagare tra il 70 e il 90%) e l’inquilino; la Tari (tassa sui rifiuti) dovuta da chi occupa l’immobile; l’Imu, sempre a carico del proprietario. Oltre al danno c’è spesso la beffa: oltre a dover pagare, molti contribuenti dovranno farlo in tempi stretti perché le amministrazioni comunali se la stanno prendendo comoda con le delibere delle tariffe. Dal data base presente sul sito del ministero delle Finanze ieri risultava infatti che su un complesso di 8.057 Comuni italiani sono state pubblicate 3.243 delibere Imu, 4.567 delibere Tasi e 2.982 delibere Tari. Ma vediamo che cosa succederà nei prossimi mesi tributo per tributo.

Tasi: il rebus di acconti e saldi
E cominciamo dalla Tasi, la nuova tassa sui servizi indivisibili. Per i tempi di pagamento bisogna tener conto dell’epoca della pubblicazione della delibera sul sito www.finanze.it. Nei circa duemila Comuni in cui le amministrazioni sono riuscite a pubblicare entro fine maggio e che non abbiano deciso tempistiche diverse, i contribuenti hanno già pagato la prima rata entro il 16 giugno e dovranno versare il saldo entro il 16 dicembre. Nei Comuni che avranno deliberato le aliquote tra inizio giugno e il 10 settembre, con pubblicazione entro il 18 settembre, i contribuenti dovranno versare la prima rata entro il 16 ottobre e il saldo il 16 dicembre. In questa situazione si trovano, tra gli altri, i proprietari di casa di Milano e di Roma. Ci sono però ancora circa 3.500 amministrazioni che hanno solo poco più di due settimane di tempo per deliberare. Nei Comuni che infine non pubblicassero entro il 18 settembre la delibera, si pagherà tutto a saldo il 16 dicembre: i proprietari di abitazione principale dovranno pagare sulla base dell’aliquota dello 0,1%; sugli immobili diversi dall’abitazione principale invece si pagherà lo 0,1% solo se l’aliquota Imu non supera lo 0,96%, altrimenti si pagherà un’aliquota che sommata a quella dell’Imu arrivi all’1,06% (esempio se l’aliquota Imu 1,03%, la Tasi sarà allo 0,03%). Siccome si parla tanto in questi mesi di semplificazioni diciamo che in questo campo c’è molto spazio per esercitarsi. La base imponibile della Tasi è la stessa dell’Imu ma il meccanismo delle detrazioni per la prima casa è diverso da quello del vecchio tributo perché i Comuni hanno un’ampia discrezionalità nel determinare le agevolazioni. Per questo se si vuol fare da sé (i comuni non mandano infatti i modelli F24 precompilati) è necessario leggere attentamente la delibera sul sito del ministero. Da mesi infuria la polemica se la Tasi sulla prima casa sia più cara rispetto all’Imu. Una risposta univoca, basata su medie alla Trilussa, non sarebbe attendibile. Rimane però chiaro che il meccanismo della Tasi è più «regressivo» rispetto a quelle dell’Imu, nel senso che favorisce i proprietari di immobili di alto valore fiscale e penalizza le case piccole. Nella tabella che abbiamo elaborato si evidenzia, ad esempio, che una casa civile di 70 metri quadrati a Milano paga 228 euro, 63 in più rispetto all’Imu 2012; un’abitazione medio signorile di 120 metri, invece, paga 530 euro, con un risparmio di 118 rispetto a due anni fa. A Roma, dove l’aliquota Imu era dello 0,5%, si risparmia praticamente sempre. Tra le città da noi considerate il peggiore aggravio l’avrà Frosinone: per la casa da 70 metri nel 2012 il proprietario non pagava e ora dovrà sborsare 121 euro.

Tari: la caccia alla posizione tributaria
Minori incombenze per la Tari, nuove denominazione della tassa sui rifiuti. Per pagare bisogna infatti aspettare la richiesta del Comune: di norma viene calcolata una prima parte in acconto sulla base della tariffa del 2013 e il saldo a conguaglio sulla base della tariffa nuova. Ai Comuni è lasciata anche per quest’anno la facoltà di usare, adeguandole, le vecchie tariffe Tarsu ma la maggior parte delle amministrazioni già lo scorso anno aveva adottato un sistema di determinazione dei costi per il residenziale basato sull’incrocio tra numerosità del nucleo familiare e superficie dell’alloggio. Il calcolo, una volta che si disponga della delibera, non è particolarmente complesso ma farselo non servirebbe a nulla. Per pagare infatti è necessario indicare nel modello F24 il numero della posizione tributaria di cui evidentemente non si dispone. Nei Comuni che non hanno variato metodologia di calcolo la tariffa è rimasta simile a quelle del 2013. Da un’analisi di Federconsumatori emerge che una famiglia con tre persone in una casa di 100 metri quadrati a Milano quest’anno risparmierà 7 euro, a Roma pagherà lo stesso e a Lodi spenderà 49 euro in più. Al saldo della tassa del 2013, però, si era pagato un contributo fisso (pari a 0,30 centesimi per metro quadrato) a titolo di contributo per i servizi indivisibili, ora è assorbito dalla Tasi.

Imu: percorso collaudato
Nessuna novità infine per l’Imu, che si paga ancora per le abitazioni principali di categoria A/1, A/8 e A/9 e per tutti gli immobili diversi dalla abitazioni principali. Nelle grandi città l’aliquota era già al massimo nel 2013 e non potrà aumentare. Se il Comune non delibera si paga sulla base dell’aliquota 2013. La prima rata è stata versata il 16 giugno, la scadenza del saldo è fissata per il 16 dicembre. Chi possiede un’abitazione non affittata nello stesso comune in cui ha anche l’abitazione principale dovrà pagare anche l’Irpef sul 50% del valore catastale dell’immobile a disposizione. Per il saldo però potrà aspettare la liquidazione dell’Unico o del 730, a giugno 2015.

I conti di Cottarelli: nel 2015 mezzo miliardo di risparmio dalle partecipate

I conti di Cottarelli: nel 2015 mezzo miliardo di risparmio dalle partecipate

Andrea Ducci – Corriere della Sera

Una ricetta che nel 2015 può valere mezzo miliardo di risparmi. La condizione per raggiungere l’obiettivo è eliminare almeno 2.000 società partecipate dagli enti locali. Il suggerimento arriva dal commissario straordinario alla spending review, Carlo Cottarelli, illustrando il programma di razionalizzazione delle aziende partecipate da Comuni, Province e Regioni. Il documento è quello reso noto all’inizio di agosto, ma ieri Cottarelli ha voluto spiegarne il principio ispiratore. Quel «sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000 le municipalizzate», scandito per la prima volta dal premier, Matteo Renzi, lo scorso aprile. Le misure, illustrate da Cottarelli, che si è tenuto alla larga dal fornire chiarimenti su una sua permanenza, ormai ballerina, nell’incarico di commissario straordinario, puntano, perciò, a tagliare 7.000 partecipate pubbliche. Una maxi sforbiciata che dovrebbe tradursi nell’arco di 3-4 anni in un risparmio stimato di 2-3 miliardi di euro.

Tra la teoria e la pratica resta la necessità di fissare, nella legge di Stabilità, norme e sanzioni certe per imporre agli enti locali le dismissioni e le chiusure di una moltitudine di carrozzoni. A precisarlo è lo stesso Cottarelli, tenuto conto che già la legge finanziaria del 2008 vieta la creazione di società partecipate che non abbiano a che fare con le finalità istituzionali dell’ente di appartenenza. La norma stabilisce, tra l’altro, la vendita o la chiusura delle aziende fuori regola. Nei fatti il divieto è stato ignorato o trascurato, e, a detta del commissario, la misura «non è efficace perché la valutazione è lasciata all’amministrazione partecipante». Il risultato è una giungla di aziendine e società locali, il cui esatto numero resta indefinito. Secondo la banca dati del ministero dell’Economia sarebbero 7.726, ma la banca dati della presidenza del Consiglio ne rileva circa 10.000. Cottarelli e i suoi tecnici stimano quest’ultima cifra la più veritiera.

Il piano del commissario straordinario riporta anche i costi delle inefficienze e degli sprechi. Le perdite palesi nel 2012 hanno raggiunto quota 1,2 miliardi di euro, a cui vanno aggiunte le perdite celate da contratti di servizio e trasferimenti in conto corrente per aggiustare bilanci altrimenti pericolanti. L’aggravio finale è rappresentato dai costi pagati dai cittadini per servizi che potrebbero essere più economici ed efficienti. Totale, insomma, i circa 3 miliardi che lo studio fissa come obiettivo di risparmio.

Nel documento è ribadito anche il principio a cui ancorare il mantenimento di una società in mano pubblica. «Il campo di azione delle partecipate deve essere strettamente limitato ai compiti istituzionali dell’ente di controllo, che non includono la produzione di beni e servizi che possono essere forniti dal settore privato». Basta, insomma, a società comunali o regionali che producono «uova piuttosto che prosciutti», dice Cottarelli. E poco importa se quelle società realizzano profitti. Sul piatto vanno infatti considerati altri fattori: il rischio di alterare il corretto funzionamento del mercato, il rischio di creare perdite a carico della collettività, la necessità di monitorare le partecipate pubbliche, sottraendo così risorse umane alle finalità e ai compiti istituzionali dell’ente. Non a caso, lo studio sulla spending review delle partecipate suggerisce l’introduzione di alcuni paletti: il limite alle partecipazioni indirette e di secondo grado, il limite alla detenzione di partecipate da parte di piccoli comuni, l’uscita da quote di minoranza (ci sono 1.400 società in cui la quota azionaria pubblica si ferma al 5%, e 2.500 casi in cui non va oltre il 20%), e, infine, la chiusura delle scatole vuote (sono 3.000 le aziende con meno di 6 dipendenti).

Un’ultima riflessione la merita il numero delle cariche di vertice. Il meccanismo dei poltronifici pubblici ha prodotto 37.000 incarichi nei consigli di amministrazione e circa 26.500 amministratori. Il costo pro quota di questa proliferazione di posti è circa 450 milioni di euro. L’imperativo è disboscare.  

Renzi annuncia l’impossibile: attuare un decreto al giorno

Renzi annuncia l’impossibile: attuare un decreto al giorno

Stefano Sansonetti – La Notizia

Chissà cosa ne pensa Angela Merkel. L’impressione è che il tradizionale scetticismo tedesco, a proposito dell’ “italica” capacità di attuare le riforme, di fronte a certi numeri potrebbe moltiplicarsi all’infinito. Nella presentazione del programma dei “mille giorni”, effettuata ieri dal premier Matteo Renzi con il solito profluvio di parole enfatiche, c’è una cifra a dir poco utopistica. Di fatto, pur senza dirlo apertamente, il governo ha fatto capire di voler attuare una media di 0,7 decreti al giorno fino all’estate del 2017. Tabella di marcia possibile? Il fatto è che ieri l’esecutivo ha fornito cifre la cui combinazione finale sarebbe proprio questa. A snocciolare i numeri, in particolare, è stata la ministra per le riforme, Maria Elena Boschi, che ha ricordato come il governo Renzi abbia ereditato al momento dell’insediamento ben 889 decreti dell’era Monti-Letta. Ebbene, a sentire la Boschi l’attuale esecutivo sarebbe riuscito a ridurre questo arretrato a 528 provvedimenti. Questo significa che per la ministra il governo avrebbe attuato 361 decreti in 6 mesi dall’insediamento, che in media fanno due decreti al giorno, festivi compresi. Roba da fantascienza.

La prospettiva
Ma c’è di più, perché la stessa Boschi ha chiarito che attualmente, tra ereditati e decreti prodotti dal governo Renzi, rimane da attuare una mole di 699 provvedimenti. Che spalmati sui “mille giorni”, presentati ieri dall’ex sindaco di Firenze in pompa magna, comporterebbero una media giornaliera di attuazione di 0,7 decreti. Meno fantascienza di prima, ma pur sempre fantascienza. Anche perché nel frattempo è presumibile che si aggiungeranno nuovi decreti del governo da attuare. Insomma, si potrebbe arrivare a una media superiore a un decreto al giorno. Naturalmente Renzi ha chiesto ieri di essere giudicato nel maggio del 2017, quando il percorso dovrebbe terminare. Ma è chiaro che siamo di fronte a cifre che come minimo suscitano un legittimo scetticismo. Tra l’altro gli annunci di ieri sono stati accompagnati dalla presentazione di un sito internet (passodopopasso.italia.it) nel quale il governo aggiornerà sullo stato di avanzamento delle riforme. In esso si legge che “mille giorni sono il tempo che ci diamo per rendere l’Italia più semplice, più coraggiosa, più competitiva. Dunque più bella”. Subito dopo l’esecutivo Renzi usa il solito linguaggio enfatico-retorico: “Il nostro governo è nato per fare quello che per troppo tempo è stato solo discusso o rinviato. Ma siamo qui per questo. Una sfida difficile, come solo le sfide affascinanti possono esserlo. Questa è la nostra sfida e noi l’affrontiamo con il coraggio e la leggerezza di chi sa che l’Italia è più grande delle resistenze dei piccoli centri di potere”. Per non parlare del finale della presentazione del sito: “La certezza della forza di questo paese, dei suoi piccoli imprenditori e delle sue maestre elementari, dei suoi ingegneri e dei suoi artisti, dei suoi studenti e dei suoi nonni è per noi un caposaldo irrinunciabile”.

Gli scogli
Di certo nei prossimi mesi non mancheranno le cose da fare, con annessi ostacoli. La carne al fuoco, almeno a livello teorico, è tanta. Dai cantieri dello sblocca-Italia alla riforma della pubblica amministrazione, dal nuovo Senato alla riforma della giustizia (a partire da quella civile). Dare un filo logico a tutto questo bendidio non sarà facile, soprattutto se già ora il fardello di decreti di attuare ha toccato quota 699 provvedimenti. Nessuno mette in dubbio la necessità di affrontare con decisione tutti questi argomenti, ma forse dire che lo si può fare in mille giorni è un po’ esagerato, soprattutto visti i precedenti non proprio lusinghieri che hanno contraddistinto il cammino dei governi precedenti. Per non parlare di quelle riforme richiamate nel piano dei mille giorni di cui si parla da decenni. Una su tutte? I famosi “costi standard” nella sanità e negli altri appalti pubblici, ovvero quei parametri virtuosi di spesa che dovrebbero essere utilizzati su tutto il territorio nazionale per risparmiare sulle forniture. Nessuno ne ha ancora visto traccia.

Il labirinto dei bonus per favorire l’occupazione

Il labirinto dei bonus per favorire l’occupazione

Alessandro Rota Porta – Il Sole 24 Ore

In periodi di crisi economica come quello attuale abbattere il costo del lavoro diventa un`esigenza primaria: riuscire a cogliere incentivi sulle assunzioni è pero una strada impervia. Non solo non esiste un contenitore normativo organico a cui far riferimento (più volte le deleghe a riordinare la materia, demandate dal legislatore al governo sono cadute nel vuoto), ma gli stessi meccanismi operativi si presentano piuttosto complessi: intanto, perché quasi mai i bonus – così come vengono licenziati a livello legislativo – sono immediatamente fruibili, necessitando di disposizioni attuative emanate a distanza; poi, perché occorre far riferimento alle condizioni generali di fruizione e a quelle specificatamente richieste dai singoli incentivi. 

Scorrendo il panorama delle misure disponibili, i datori di lavoro che vogliano accaparrarsi uno sconto contributivo o fiscale, in fase di inquadramento di nuovo personale, devono ricercare lavoratori che possano portare in dote i bonus, vagliando il loro status occupazionale al momento dell’assunzione. Gli strumenti più recenti sono stati licenziati con il Dl 91/2014 (decreto competitività) e riguardano le aziende agricole: chi assume giovani a tempo indeterminato (o a termine con durata almeno triennale e occupazione minima garantita) può godere di un incentivo sulla contribuzione pari a 1/ 3 della retribuzione lorda imponibile ai fini previdenziali. Le domande vanno presentate all’Inps e il bonus è riconosciuto in base all’ordine cronologico delle domande: sul punto è però necessario attendere le istruzioni dell’istituto. 

Sempre legato alla categoria dei “giovani”, c’è l’incentivo del Dl 76/2013, riservato a soggetti “svantaggiati” e correlato ad assunzioni a tempo indeterminato o alla stabilizzazione di lavoratori assunti con contratto a termine: la misura corrisponde a un terzo dello stipendio mensile lordo imponibile ai fini previdenziali, con un tetto di 650 euro al mese, per 18 mesi al massimo (che scendono a 12 in caso di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato). 

Esaminando le altre agevolazioni, ve ne sono alcune che puntano a favorire la ricollocazione di lavoratori over 50 disoccupati da oltre 12 mesi e donne di qualsiasi età, prive di un impiego retribuito da almeno 24 mesi (0 da 6 mesi con riferimento alle donne rientranti in settori o residenti in aree geografiche ad elevato tasso di disoccupazione): queste prevedono l’abbattimento del 50% dei contributi Inps e Inail, per 18 mesi in caso di assunzioni a tempo indeterminato e lino a 12 per i contratti a termine. 

Con riguardo ai lavoratori disoccupati o iscritti alle liste di mobilità si segnalano altresì gli incentivi derivanti dalla loro riassunzione, rispettivamente ai sensi delle leggi 407/90 e 223/91: in alcune ipotesi si può ottenere l’abbattimento totale della contribuzione Inps, per 36 mesi. Da ricordare altresì lo sgravio riservato ai titolari di Aspi, che portano in dote al datore che li ricolloca il 50% dell`indennità che sarebbe loro spettata, per il residuo periodo di trattamento. Infine, sono stati sbloccati dal provvedimento attuativo del Mise (decreto 28 luglio 2014) le agevolazioni legate all’assunzione di personale qualificato nella ricerca.