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I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Niente di personale: almeno di questo siamo certi, nel caso in cui Carlo Cottarelli non dovesse fare marcia indietro rinunciando al proposito maturato negli ultimi tempi. E che avrebbe già anticipato al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Ovvero, quello di lasciare l’incarico dopo l’estate. Ottobre, è la data prevista.

Che Renzi non avesse con il commissario alla spending review la medesima sintonia di Enrico Letta, il quale lo aveva nominato, non era affatto un mistero. Del resto, a dispetto delle voci circolate contestualmente all’arrivo dell’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, che indicavano Cottarelli come candidato a prendere le redini del Dipartimento economico della presidenza del Consiglio, per lui i mesi trascorsi dall’insediamento del nuovo governo indiscutibilmente non sono stati i più facili. E certo non per la responsabilità del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, con il quale il commissario ha condiviso una lunga militanza negli organismi internazionali, a rappresentare il nostro Paese.

Gli ostacoli che ha dovuto affrontare sono stati fino in fondo politici. Probabilmente non del tutto imprevisti. Ma non nelle proporzioni e nelle forme che aspettava di trovarsi davanti quando è rientrato da Washington, dopo 25 anni passati al Fondo monetario internazionale, per occuparsi delle rogne italiane. Intanto un approccio tutto diverso da parte di Renzi rispetto a Letta, nei confronti del capitolo «tagli alla spesa pubblica» e dei compiti di Cottarelli. Un approccio che ha avuto l’effetto di ridimensionare oggettivamente il ruolo del commissario: declassato da una specie di autorità indipendente incaricata di individuare non soltanto gli sprechi e le diseconomie interne alla Pubblica amministrazione ma di proporre anche i tagli alle voci di spesa più ingombranti, a un semplice consulente esterno. Per quanto, ovviamente, autorevole: ma comunque un corpo estraneo alla stanza dei bottoni. Condizione diventata sempre più palpabile man mano che il tempo passava. Ed evidentemente sempre meno sopportabile.

Poi alcuni fatti che parlano da soli. Ieri su questo giornale Francesco Giavazzi si è opportunamente chiesto dove sia finito il lavoro di Cottarelli. Aggiungendo che il commissario alla spending review dovrebbe rendere coraggiosamente noto dove, come e quanto si dovrebbe tagliare, mettendo il governo di fronte alla responsabilità di non farlo. Sappiamo, perché l’ha scritto prima ancora sul «Corriere» Riccardo Puglisi, uno dei partecipanti al gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon a cui Cottarelli aveva chiesto un rapporto sui costi della politica, che da marzo sono pronte 25 relazioni su altrettanti segmenti della spesa pubblica preparate da team di esperti. Tutti dossier, immaginiamo ustionanti, che il commissario avrebbe già voluto pubblicare ma che invece restano nei cassetti. E la ragione è semplice: Cottarelli non ha ancora avuto il permesso del governo per renderli noti. Perché dopo tanti mesi non sia arrivato il via libera di Palazzo Chigi si può soltanto ipotizzare. Forse le conclusioni contenute in quei rapporti non sono del tutto condivise? Forse. Il che ci starebbe pure, ma è improbabile che il commissario, e lo stesso governo, non l’avessero calcolato.

Di sicuro la mancata pubblicazione dei 25 dossier ha reso ancora più evidenti, se ce ne fosse stato il bisogno, le difficoltà con cui Cottarelli si deve confrontare. A cominciare con quella forse più importante. Va benissimo intervenire sulle ottomila aziende pubbliche: è un buco nero gigantesco come dimostra l’esistenza di 2.761 società con più amministratori che dipendenti. Ma come si fa a individuare tagli per 17 miliardi di euro, almeno di tanto la spesa pubblica dovrebbe essere ridotta nel 2015, se non si possono nemmeno sfiorare i due capitoli più grossi? La sanità è uscita di fatto dalla spending review con il patto della Salute: un accordo fra il governo e le Regioni. Mentre le pensioni, per esplicita volontà dell’esecutivo, non ci sono mai entrate. L’agenzia «Adn Kronos» ieri ha fatto sapere che Cottarelli «continua a lavorare, come sempre, a stretto contatto con i suoi interlocutori naturali». E che «potrebbe presto affidare al suo blog, fermo all’ultimo intervento del 7 luglio, un post per tornare a evidenziare la necessità di tagli selettivi e non lineari, con riferimento anche al caso del pensionamento dei quota 96, appena affrontato nel decreto P.a.». Proprio le pensioni, guarda un po’… Poche ore dopo, sul blog c’era l’intervento annunciato dall’agenzia di stampa che ha subito suscitato reazioni politiche. Forse la sua ultima testimonianza (nemmeno questa autorizzata?) da commissario, magari prima dell’annuncio ufficiale del divorzio. Con il risultato che il prossimo taglio alla spesa pubblica frutto del lavoro di Cottarelli sarà il suo stipendio.

Spending review azzoppata: addio centrali uniche di acquisto, i sindaci ottengono il rinvio

Spending review azzoppata: addio centrali uniche di acquisto, i sindaci ottengono il rinvio

Federico Fubini – La Repubblica

La scure era arrivata in un passaggio del decreto Irpef del 24 aprile scorso, all’articolo 9, comma 5. Senza sconti per nessuno: «Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35». In altri termini, bisognava chiudere una volta per tutte con la vecchia abitudine delle 34mila piccole centrali d’acquisto distribuite per Province e Comuni d’Italia e capaci di distribuire a pioggia appalti, contratti pubblici di fornitura, incarichi di consulenza per conto delle amministrazioni pubbliche. Questa riforma era, e resta, un architrave della spending review e dunque della legge di Stabilità da presentare dopo l’estate: niente più piccole commesse pulviscolari dai costi spesso superiori al necessario, ma solo operazioni uniche per gli uffici pubblici condotte attraverso grandi centri d’acquisto specializzati. Più scrivanie, computer, stampanti e benzina per le giunte comunali si comprano allo stesso tempo, tramite un unico acquirente, meno le si paga.

Fin qui la teoria. Nella pratiche invece le migliori intenzioni del governo si sono già arenate sulla resistenza del partito dei sindaci, che è riuscito con un’abile azione di lobby a rinviare la riforma delle centrali d’acquisto. È avvenuto un po’ alla chetichella lo scorso 10 luglio, ma in una sede altamente formale: presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, nella conferenza tra Stato, città e autonomie locali. L’incontro, presieduto per il governo dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, era stato preceduto da una mossa dell’Anci, l’associazione dei Comuni d’Italia guidata da Piero Fassino. L’Anci ha scritto al governo e ha fatto presente che la riforma delle centrali d’acquisto, che doveva entrare in vigore un mese fa, è inapplicabile. La tesi è che i Comuni non capoluogo di provincia non avrebbero avuto tempo di coalizzarsi in grandi centrali appaltanti. In questo caso la legge prevederebbe che si riforniscano di ciò che serve presso la Consip, la società del Tesoro che funge da maxi acquirente unico per lo Stato a prezzi molto competitivi. Purtroppo però per l’associazione dei sindaci neppure questo è possibile: «Consip e le altre principali centrali d’acquisto non coprono tutte le esigenze degli enti locali».

Si può cercare di immaginare quale specifico tipo di fotocopiatrice o sedia di ufficio, che la Consip non può fornire, richieda un certo Comune da 800 abitanti sull’Appennino tosco-emiliano o sulla Sila. Ma la sostanza non cambia: la conferenza Stato-città ha già ottenuto il primo rinvio della riforma appena varata. L’aggregazione dei centri di spesa viene posticipata di sei mesi per gli acquisti di beni e servizi, di un anno intero per gi appalti sui lavori pubblici. I Comuni anche più piccoli potranno continuare a determinare da soli le proprie commesse, ovviamente pagando più del necessario, presumibilmente premiando imprenditori amici e grandi elettori dei sindaci. Le centrali uniche d’acquisto dovevano debellare i sistemi clientelari locali e ridurre gli sprechi di denaro del contribuente, ma per ora non succederà.

La marcia indietro del governo c’è stata. In teoria l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone non avrebbe dovuto concedere i codici per eseguire gli appalti ai Comuni che non si fossero adeguati alle maxi centrali d’acquisto. Ma anche questo divieto è stato congelato. Non è un segnale positivo per la finanza pubblica. Il passaggio da 34mila a sole 35 centrali pubbliche d’acquisto in Italia dovrebbe far risparmiare almeno il 10% dei circa 130 miliardi che lo Stato ogni anno spende in acquisti di beni o servizi e in appalti. Per certe categorie di merci – arredamento, computer, convenzioni telefoniche – comprare tramite Consip può far risparmiare fino all’85% del costo. Ma soprattutto la riforma delle centrali d’acquisto era un esame per misurare la capacità del governo di avanzare sulla spending review contro la resistenza dei vari gruppi d’interesse. La legge di Stabilità del prossimo autunno, quanto a questo, prevede tagli di spesa per circa 14 miliardi. E a giudicare dalle prime mosse, non sarà una passeggiata.

Matteo e quei sei milioni “buttati”

Matteo e quei sei milioni “buttati”

Nicola Imberti – Il Tempo

Il documento è datato maggio 2012. Qualche settimana dopo, l’8 giugno, Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, avvierà l’iter per le primarie di coalizione. Solo a settembre Matteo Renzi, arrembante sindaco di Firenze, romperà gli indugi e ufficializzerà la propria candidatura.

Dopo mesi passati a «rottamare» ha deciso di giocarsi la sua grande occasione. Se vince sarà lui a guidare il centrosinistra alle elezioni Politiche del febbraio 2013. Renzi è lanciatissimo eppure a maggio il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato del ministero dell’Economia e delle Finanze (il titolare è ancora Mario Monti che a luglio passerà il timone a Vittorio Grilli ndr ), invia un documento che riguarda una «verifica amministrativo-contabile alla Provincia di Firenze».

Il periodo sotto esame è quello in cui Matteo governava, il quinquennio 2004-2009. E il quadro dipinto da via XX Settembre è tutt’altro che entusiasmante. Ci si sofferma, in particolare, sul ruolo giocato da Florence Multimedia, la società esterna nata nel 2005 per volere dello stesso Renzi che ha preso il posto dell’ufficio stampa della Provincia.

L’accusa è pesante. Secondo il ministero dal 2006 al 2009 «sono stati contrattualizzati, nella forma di contratto, convenzione, disciplinare di servizio, affidamenti al lordo per euro 9.213.644,69».

Nessun problema se non fosse che subito dopo si legge: «Ovviamente, non essendo stata prodotta alcuna evidenza documentale a supporto di quanto asserito, si può solo prendere atto». Insomma non ci sono documenti. Per questo la relazione sottolinea che «sarebbe interessante sapere quale grado di contezza abbia avuto l’Organo Consiliare di questi affidamenti “complementari” il cui importo, a ben vedere, triplica quello dei “Contratti di servizio base”».

Tradotto per i non addetti ai lavori il presidente-sindaco, forse all’insaputa dell’istituzione, avrebbe allegramente «buttato» 6 milioni di euro. Non certo una bazzecola. Per altro «ricondotta ad altre fattispecie piuttosto evanescenti (“integrazioni economiche di precedenti contratti” o “affidamenti con contestuale approvazione di un progetto contenente gli elementi essenziali della prestazione”)».

Non avete capito niente? Normale. Nemmeno gli ispettori del ministero. Proprio per questo invitavano a «fornire ulteriori elementi in ordine ai rilievi ancora da regolarizzare». La vicenda, infatti, era iniziata a dicembre del 2011. Ma a maggio restavano dei punti oscuri da chiarire.

Cosa sia successo poi non è dato sapere. C’è un processo avviato davanti alla Corte dei Conti, ma riguarda la nomina di quattro direttori generali (anche di questi si parlava nella relazione del maggio 2012). L’ipotesi è che si sia configurato un danno erariale e la prossima udienza è fissata per settembre.

Ma dei soldi alla Florence Multimedia nessuno ha più parlato. Nel frattempo il «rottamatore» ha perso le primarie del 2012, si è leccato le ferite, è tornato in pista per quelle del 2013, è diventato leader del Pd e poi, per via extraparlamentare, è arrivato a Palazzo Chigi. Un’ascesa fulminea su cui oggi si allunga l’ombra di quei 6 milioni. Il documento del ministero dell’Economia, infatti, dovrebbe essere parte integrante della denuncia che l’avvocato Carlo Taormina, difensore del dipendente comunale Alessandro Maiorano (il «nemico pubblico numero uno» di Renzi), sta preparando e presenterà nei prossimi giorni. L’obiettivo è capire perché quei soldi siano stati spesi e perché, nonostante la richiesta di chiarimenti, nulla si sia mosso. Chissà se stavolta le spiegazioni saranno più convincenti. E documentate.

Crescono le aziende esportatrici in Italia: performance superiori a Francia e Spagna

Crescono le aziende esportatrici in Italia: performance superiori a Francia e Spagna

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

A piccoli passa avanza il plotone degli esportatori italiani. L’annuario Istat-Ice 2014, presentato ieri, segnala un aumento dell’1,3% degli operatori all’esportazione nel 2013, incluse le semplici partite Iva. Cresce dunque la propensione a tentare la strada dei mercati internazionali, complice anche la stagnazione della domanda interna.

In tutto siamo a 211.756 operatori, numero che il governo punta ora a incrementare con il piano straordinario per il made in Italy che potrebbe approdare già al consiglio dei ministri di domani, agganciato al decreto sblocca-Italia (si veda altro articolo in pagina).
L’analisi del presidente Istat, Giorgio Alleva, mostra ancora un certo grado di frammentazione a testimonianza di un’avanguardia a cui si deve buona parte delle performance del nostro export. Questa caratteristica diventa più evidente in termini di redditività, crescente al crescere dell’apertura internazionale dell’impresa: dal 18,7% delle non esportatrici si passa al 22,9% per quelle che esportano meno del 5% della produzione fino a un massimo del 31,3% per le unità che vendono all’estero oltre l’80% della produzione. Per il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, il lavoro che il governo deve portare a termine è soprattutto finalizzato a trasformare in esportatori stabili le imprese che hanno maggiori potenzialità. Sono 10-15mila le imprese più integrate sui mercati esteri, 30mila quella in posizione intermedia e «70mila che esportano in modo saltuario: è proprio su quest’ultime che dobbiamo lavorare».

I nuovi esportatori si troveranno a competere in uno scenario con diversi elementi instabili ma comunque ancora con ottime prospettive per il made in Italy. Nel 2013 le esportazioni di merci dell’Italia sono rimaste all’incirca stazionarie (-0,1%) mentre sono aumentate dell’1,4% quelle di servizi. L’avanzo commerciale è notevolmente aumentato, passando da 9,9 a 30,4 miliardi – anche per effetto del calo delle importazioni –: il dato più elevato dell’ultimo decennio.

Venendo alle tendenze recenti, il dato cumulato dei primi cinque mesi del 2014 rispetto allo stesso periodo del 2013 mostra un aumento dell’export italiano dell’1,3% ma con un’ampia divaricazione per aree (+4,1% verso la Ue, -2% verso l’extra Ue). Da notare come il contributo alla crescita dell’export totale da parte degli operatori con processi di export più collaudati sia in ulteriore crescita, al 3,1%, dopo il 2,1% del 2013 e il 2,5% del 2012.
E sale, anche se si parla di decimali, la competitività generale del Paese, sottolinea il presidente dell’Ice Riccardo Monti. Nel 2013 la quota di mercato dell’Italia sulle esportazioni mondiali è passata dal 2,74 al 2,79% a fronte di un aumento più risicato della Germania e di una crescita zero della Francia. «Rispetto agli altri concorrenti dell’area euro – osserva Monti – le esportazioni hanno guadagnato quota soprattutto nella farmaceutica, nella pelletteria, nei mobili e nei macchinari». Lo spaccato per aree geografiche, invece, vede miglioramenti in Medio Oriente e Nord Africa, ma anche in aree tradizionali come il Nordamerica e l’Asia orientale. L’aumento sebbene limitato delle quote – mette in evidenza il presidente dell’Ice – è particolarmente significativo perché conseguito malgrado l’andamento sfavorevole dei cambi e il limitato accesso al credito all’esportazione.

Agenzia delle Entrate, la promessa di ricostruire il rapporto con i cittadini

Agenzia delle Entrate, la promessa di ricostruire il rapporto con i cittadini

Marco Mobili – Il Sole 24 Ore

Si deve riconoscere al neo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi che nella sua prima uscita pubblica ha toccato i tasti giusti. Di certo, ha posto l’accento su almeno due aspetti dell’attuale sistema fiscale responsabili di aver compromesso, negli ultimi anni, il rapporto tra Fisco e contribuenti.

Da un lato, l’eterno problema dell’incertezza di norme e regole con cui i contribuenti e i loro consulenti devono fare i conti. Modifiche e correzioni dell’ultima ora, spesso a ridosso delle scadenze, oppure sul filo di lana della fine dell’anno: è anche per questo che il peso della burocrazia fiscale, in termini di maggiori oneri e costi per le imprese, è diventato insopportabile. Ora però è la stessa Agenzia delle Entrate a preoccuparsi di bloccare i cambi di regole dell’ultima ora. Pena, come ha detto la stessa Orlandi, non essere più in grado di consegnare a domicilio il 730 precompilato. Un alleato in più – e di “peso” – per tutti i contribuenti che come un disco rotto chiedono da anni un fisco semplice oltre che equo.

Dall’altro lato, sentir dire dal neo direttore che l’evasore di professione non può stare sullo stesso piano di chi sbaglia la dichiarazione o di chi omette i versamenti per pagare gli stipendi ai dipendenti, rappresenta un cambio di indirizzo che non può che essere accolto con favore. Un conto è un accertamento di 20 euro sulla tassa dei telefonini; altro conto è parlare di esportazione illecita di capitali all’estero, di frode fiscale, di fatture false. Parlare insomma di chi evadendo o eludendo il fisco falsa il mercato e crea concorrenza sleale.

Musica per le orecchie dei cittadini onesti che chiedono di pagare il giusto e di poterlo fare in un sistema più trasparente e in grado di distinguere l’errore – anche quello imputabile a una diversa interpretazione della norma – dall’evasione vera e propria.

Abbiamo le tasse più alte del mondo

Abbiamo le tasse più alte del mondo

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un record mondiale imbarazzante per l’Italia e del quale la maggior parte della classe politica (soprattutto di governo) non prova nessuna vergogna. È quello della pressione fiscale effettiva che vede il nostro Paese in cima alla classifica Ocse con il 53,2% del prodotto interno lordo. È quanto emerge da un’elaborazione dell’Ufficio studi di Confcommercio sui dati del 2013.

Come si giunga a questa performance da guinness è presto detto. Se si considera la pressione fiscale apparente, cioè il gettito in relazione al reddito prodotto, l’Italia si trova al quarto posto tra i Paesi più industrializzati con il 44,1%, superata da Danimarca (50,1%), Belgio (48,7%), Francia (47,8%) e Svezia (45%) che, effettivamente, tassano a più non posso ma, in generale, restituiscono servizi pubblici di buona qualità. L’Italia, però, detiene un altro record ed è quello dell’economia sommersa che produce il 17,3% del reddito nazionale. Il combinato disposto delle due realtà è che in Italia su ogni euro dichiarato si pagano 53,2 centesimi di imposte.
Al danno delle stangate si aggiunge la beffa della depressione. L’Italia, infatti, è uno dei Paesi che maggiormente ha subito gli effetti negativi della recessione: lo sbilancio dei conti pubblici è stato, infatti, curato da quasi tutti i governi con nuove tasse che hanno ucciso la competitività e la produttività della nostra economia. Nel periodo 2000-2013 la pressione fiscale italiana è aumentata del 5% mentre il Pil reale pro capite è diminuito del 7 per cento. Non è questione di «euro sì» contro «euro no»: sia la Germania, regina di Eurolandia, sia la Svezia, che s’è tenuta la corona, sono cresciute nello stesso periodo rispettivamente del 15 e del 21% solo perché hanno ridotto la pressione fiscale (del 6% Berlino e del 14% Stoccolma). La situazione è talmente triste che, propone Confcommercio, con l’inclusione di traffico di droga, prostituzione e contrabbando nei metodi internazionali di calcolo del Pil si possono sbloccare 1,68 miliardi di risorse con cui si potrebbero destinare 250-300 euro a testa per ciascuno dei sei milioni di italiani poveri assoluti.
Il peggio deve ancora venire. L’Ufficio studi di Confcommercio ha, infatti, tagliato le stime di crescita per il 2014 dallo 0,5 allo 0,3% a causa del crollo degli investimenti (-0,9%). Ecco perché il presidente della confederazione, Carlo Sangalli, ha ribadito la sua ricetta anti-declino: «Per far ripartire l’economia bisogna realizzare subito una poderosa operazione: meno tasse e meno spesa pubblica, più riforme e più lavoro». La propensione al consumo è in calo e il «mix esplosivo Tasi-Imu-Tari» sta complicando la vita di famiglie e imprese. «Tenere i conti in ordine non può ostacolare la crescita» perché, altrimenti, i problemi si acuiscono e «non si può escludere a ottobre una manovra correttiva», ha concluso. «Serve un’operazione-verità», ha chiosato il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, intervenuto al convegno, aggiungendo che «gli ultimi due trimestri 2014 di crescita piatta o negativa trascineranno i loro effetti anche nel 2015», rischiando di compromettere anche la mini-ripresa. Di qui la mano tesa a Renzi. «Il governo faccia una vera riforma fiscale sfruttando la delega e abbassando le tasse e, allo stesso tempo, riformi seriamente il mercato del lavoro», ha detto Brunetta promettendo collaborazione. Il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, però, ha replicato che «non c’è bisogno di una manovra correttiva». Se, però, non si attuerà una vera spending review, Renzi rischia di perdere la faccia.

Il primo taglio delle accise, sui fiammiferi

Il primo taglio delle accise, sui fiammiferi

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Non basterà certo questo a farci perdere il record mondiale di pressione fiscale. Ma nel Consiglio dei ministri di domani il governo si prepara addirittura a cancellare una tassa. Non tagliare ma cancellare del tutto. Purtroppo si tratta solo dell’accisa sui fiammiferi. Decisione indolore perché da quel bollino sulle scatoline di cartone lo Stato incassa ogni anno appena due milioni e mezzo di euro. Briciole. E perché quella somma sarà più che compensata dall’aumento delle accise sulle sigarette, comprese quelle elettroniche, che porterà in dote una somma ben più alta. Nel Paese in cui il taglio delle tasse viene solo annunciato da anni (con l’eccezione non trascurabile del bonus da 80 euro), la speranza è che la prossima sforbiciata alla pressione fiscale finisca un po’ meno in fumo.

Imprese, risale la fiducia

Imprese, risale la fiducia

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

A luglio è risalito verso i massimi degli ultimi tre anni l’indicatore di fiducia dell’insieme delle aziende italiane, passando a quota 90,9 da 88,2 di giugno (il 2005 è base=100). È un segnale positivo e lascia sperare che, dopo due trimestri di stagnazione, nel terzo trimestre del 2014 possa rendersi percepibile qualche refolo di ripresa economica. L’Istat precisa tuttavia che dietro al miglioramento complessivo delle attese, vi sono in realtà aspettative diverse nei vari settori dell’economia: «L’indice complessivo – spiega infatti l’Istituto di statistica – è la sintesi di aumenti della fiducia delle imprese dei servizi, delle costruzioni, del commercio al dettaglio e della lieve diminuzione della fiducia delle imprese manifatturiere». In effetti, se si considera il solo settore manifatturiero, che era stato il primo nei mesi scorsi a registrare dei miglioramenti di aspettative, si vede che quello di luglio è il secondo calo consecutivo, perché peggiorano le valutazioni delle imprese sull’andamento corrente degli ordini (in particolare di quelli sul mercato interno) e della produzione; quanto al futuro, sono stabili le aspettative delle aziende manifatturiere sugli ordinativi mentre migliorano le attese sulla produzione; peggiorano, però, le valutazioni sull’economia in generale e sull’occupazione. Il tono del sentiment delle imprese manifatturiere è inoltre piuttosto differenziato sia se si considerano i raggruppamenti principali di industrie sia se si fa riferimento alle aree geografiche: a luglio la fiducia peggiora in tutti i macrosettori, tranne che in quello dei beni di consumo; sale nel Nordest e nel Centro Italia, mentre scende nel Nord ovest e nel Mezzogiorno.

Le note davvero positive del report dell’Istat si rintracciano invece nei dati trimestrali sulla capacità produttiva (il grado di utilizzo degli impianti è salito al 72,6 per cento nel secondo trimestre contro il 71,6 del primo) e, soprattutto, si desumono dall’indagine sulle aziende non manifatturiere: il sentiment migliora sia nelle costruzioni, sia nei servizi, sia nel commercio. E migliora, in particolare, per il secondo mese consecutivo, il morale delle aziende dell’edilizia, che risale da livelli molto depressi. «Si tratta nel complesso di un buon dato – osserva il chief economist di Nomisma, Sergio De Nardis – ma è da prendere con cautela, tenendo conto della perdita di spinta dell’industria e, soprattutto, dell’esperienza del passato». Da circa un anno, infatti, le indagini campionarie stanno segnalando miglioramenti economici in arrivo senza che questo si sia tradotto sinora in concreti aumenti di prodotto: c’è stato quindi, sinora, uno scollamento fra attese e realtà effettiva dell’attività produttiva. Intanto ieri anche l’Abi ha diffuso le più aggiornate previsioni provenienti dagli uffici studi delle aziende di credito attraverso il suo rapporto Afo. Le stime confermano che nel 2014 la crescita media del Pil italiano difficilmente supererà lo 0,3 per cento: il numero appare più o meno in linea con quanto hanno già previsto Bankitalia, Fondo monetario, Centro studi Confindustria, Prometeia e Cer, mentre il Ref di Milano ha parlato di crescita zero tout court per il 2014.Tuttavia, stima l’Abi, la ripresa arriverà entro l’anno e nel biennio 2015-2016 il Pil dovrebbe aumentare dell’1,3-1,4%, a un ritmo decisamente migliore delle recenti esperienze.

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Federico Fubini – La Repubblica

Umberto Angeloni e Gustavo Ascione non si conoscono, ma da qualche anno le loro vite scorrono in parallelo. All’inizio della crisi entrambi hanno puntato tutto sul made in Italy, hanno esportato e creato (o difeso) dei posti di lavoro. Quando poi credevano di avercela fatta, hanno ricevuto una visita dell’Agenzia delle Entrate e delle contestazioni tali che a entrambi è parso di entrare in una sorta di mondo kafkiano.

È probabile che di casi come i loro si parli oggi, quando il nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi farà il suo debutto in un’audizione parlamentare. Non sono esempi isolati, a giudicare dalle cifre del ministero dell’Economia. Nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con esito favorevole ai contribuenti contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi di euro: una somma lievemente superiore a quella su cui la vittoria è stata invece dello Stato. L’anno scorso gli imprenditori in Italia hanno presentato 250mila ricorsi contro accuse di evasione, affrontando costi e rischi legali, evidentemente perché ritengono di poter vincere. Almeno una parte di loro fa parte del popolo di mezzo, quello dei produttori schiacciati fra un’evasione endemica che supera i 100 miliardi e gli uffici incaricati dal governo di falcidiarla. Il problema sorge quando il diserbante non colpisce solo i parassiti ma anche le piante più sane e produttive.

Angeloni ha rilevato nel 2007 la Caruso Menswear di Parma, un’azienda di 600 addetti che produce moda da uomo per alcuni dei grandi gruppi globali del lusso. In quattro anni l’ha riportata in utile, ha fatto entrare con il 35% Fosun, il più grande fondo privato cinese, e ha sviluppato un marchio proprio. Fino a quando l’Agenzia delle Entrate ha suonato alla porta questa primavera. I controlli in azienda sono durati due mesi e al termine le accuse si sono concentrate su certi incarichi per la comunicazione affidati nel 2009 a consulenti esterni. Le imprese di moda di solito spendono in promozione fra il 5% e il 10% del fatturato, la Caruso appena l’1%. Ma l’Agenzia delle Entrate nel suo verbale giudica il piano di comunicazione della Caruso «non determinante per la strategia aziendale» e definisce le prestazioni dei consulenti «impersonali e generiche», tale che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Suona come una valutazione di merito sugli spazi commerciali comprati dalla Caruso, ma su questa base è partita una richiesta di versare al fisco circa 100.000 euro in più. Per l’Agenzia delle Entrate, in altri termini, quell’investimento in comunicazione era «non determinante» e quindi fittizio. «Mettere in discussione la strategia dell’azienda per poi rigettarne le spese viola lo spirito della legge, lascia l’impresa vulnerabile all’abuso e distrugge la fiducia fra l’autorità fiscale e il contribuente» ribatte Angeloni, che ne frattempo ha speso già 50mila euro per difendersi.

Ancora più del collega, Gustavo Ascione è rimasto colpito dalla sordità dei funzionari dell’Agenzia quando ha avuto un accertamento nel 2012. Ascione ha fondato nel 2007 la Silk&Beyond, un’azienda casertana di 9 addetti che esporta tessuti da arredamento in Russia e Medio Oriente. Sulla base dei chili di filo ordinati e dei metri di tessuto venduto, gli hanno contestato una produzione in nero e chiesto di pagare oltre 60mila euro. La multa poteva far chiudere l’azienda. «Ho cercato di spiegare che i tessuti hanno pesi e orditi diversi secondo le tipologie e che del filo avanza sempre in fondo ai rocchetti. Ma non mi hanno ascoltato» dice.

L’Agenzia delle Entrate non commenta su questi casi e, di certo, il suo ruolo è stato determinante nell’evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi del debito. Gli incassi da «attività di controllo» in un Paese piagato dall’evasione sono saliti da 2,1 miliardi nel 2004 a 13,1 nel 2013. Alcuni però pensano che offrire bonus ai funzionari dell’Agenzia in base alle somme che riscuotono sia un errore. «Non dovrebbero avere incentivi per fare quello che è il loro dovere e per cui sono pagati comunque» osserva Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze del centrosinistra, è anche più critico: «Spero che Orlandi, il nuovo direttore, cambi linea rispetto al passato: pagare gli ispettori in base ai risultati può portare ad atteggiamenti molto aggressivi. Si costringono sotto ricatto gli imprenditori a fare adesioni (patteggiamenti sulle multe, ndr) in base a violazioni che in parte non c’erano o non c’erano per niente».

Anche su questo l’Agenzia non commenta e sicuramente è difficile attrarre professionalità di alto livello nella lotta all’evasione senza paghe adeguate. Ma solo per il 2011, ultimo anno reso noto, per i dirigenti di seconda fascia dell’Agenzia la spesa nella parte fissa è stata di 30 milioni di euro e quella dei bonus variabili di 25. I premi sono legati alle somme passate in giudicato e con Ascione non ha funzionato: ha speso 7mila euro in avvocati e moltissimo tempo sottratto alla cura del prodotto e dei mercati, ma una commissione tributaria ha prima sospeso e poi annullato la contestazione contro di lui. Angeloni invece è a un bivio: si ritiene innocente e sa che, se ricorre, dovrà comunque pagare un terzo dell’ammenda in via preliminare, poi scatteranno le stesse multe anche sugli anni dal 2010 al 2013. C’è però una buona notizia. Nel 2010 ha vinto un ricorso per 50mila euro di tasse non dovute. Quattro anni dopo aspetta ancora con fiducia il rimborso.

Nei labirinti del 5 per mille si perde anche la Corte dei Conti

Nei labirinti del 5 per mille si perde anche la Corte dei Conti

Valentina Melis – Il Sole 24 Ore

Il cinque per mille ha portato in dote al mondo del non profit tre miliardi e mezzo di euro, dal 2006 a oggi. Sulla destinazione dei fondi, però, la Corte dei conti adesso vuole vederci chiaro. I beneficiari, ormai, sono quasi 50mila, dagli enti di ricerca alle associazioni sportive dilettantistiche, e si contendono le firme degli italiani sulla dichiarazione dei redditi a colpi di pubblicità, newsletter e altre iniziative.

Ma le scelte dei contribuenti sono veramente “libere”, come prevedono le regole? Perché non tutti gli enti rendono pubblica la gestione degli incassi? E non sarebbe forse il caso di selezionare in maniera più rigorosa i potenziali beneficiari? Se lo chiedono anche i magistrati contabili, che hanno preso carta e penna e hanno scritto a sette ministeri, alle Entrate, al Coni, agli Ordini dei commercialisti e dei consulenti del lavoro e alla Consulta dei Caf, per chiedere quali iniziative metteranno in campo per una maggiore trasparenza.

La Corte dei conti dice che sì, semplificare le farraginose procedure del cinque per mille sarebbe opportuno, ma anche imporre alle organizzazioni l’obbligo di pubblicare i bilanci, usando «schemi chiari, trasparenti e di facile comprensione». E qui sta il primo nodo. Accanto a grandi organizzazioni, come l’Airc, Emergency, l’Associazione italiana contro le leucemie (solo per citarne alcune), che sul proprio sito spiegano come hanno speso i soldi assegnati dai contribuenti, ce ne sono altre, anche nelle prime posizioni della classifica, che non pubblicano un numero.

In effetti, mettere in rete il rendiconto non è obbligatorio: il documento deve essere mandato ai ministeri che erogano il contributo solo dagli enti che incassano più di 20mila euro. Ma questo passaggio rischia di essere solo formale, senza alcuna informazione chiara per i contribuenti che hanno premiato un’organizzazione con la propria firma.
La scelta, poi, dovrebbe essere libera, ma secondo la Corte dei conti non sempre lo è. Nella sua lettera ai ministeri, la Corte sottolinea che «risulterebbe assai utile un’attività di audit dell’agenzia delle Entrate sul comportamento degli intermediari, allo scopo di individuare eventuali scorrettezze».

La Corte evidenzia inoltre il «potenziale conflitto di interesse con gli optanti» da parte di quelle realtà che gestiscono direttamente una rete di Caf (come le Acli e il Movimento cristiano dei lavoratori) o di quelle associazioni «che possono fruire dei Caf dei sindacati di cui sono emanazione». E qui i magistrati contabili citano gli esempi della Cgil (Auser e Federconsumatori) e della Cisl (Adiconsum e Iscos). Alcuni di questi soggetti si piazzano da sempre in ottime posizioni della classifica per fondi ricevuti, ma questo ovviamente non dimostra niente di illecito: piuttosto, è la prova che le regole attuali tendono a favorire i soggetti più grandi (per numero di uffici, risorse da investire in pubblicità e così via).

Ma ci sono altri casi che balzano agli occhi. La Federazione nazionale agricoltura, in una comunicazione ufficiale inviata dal segretario generale Cosimo Nesci ai dirigenti del sindacato, ai responsabili del patronato Epas – presieduto dal figlio Denis Nesci – e ai responsabili dei centri di raccolta Caf Italia Srl (legati alla stessa Fna), garantisce che riconoscerà un euro in più di rimborso per ciascun modello 730 «riportante l’adesione volontaria del contribuente del 5 per mille a favore della Assipromos». Quest’ultima è un’associazione di promozione sociale che ha come unica fonte di finanziamento il cinque per mille, ed è nata nel 2007, l’anno successivo all’introduzione del contributo. L’Assipromos ha visto crescere continuamente i fondi assegnati dai contribuenti, passando da 154mila euro del 2007 a 1,5 milioni del 2012.

Tra le migliaia di organizzazioni del “volontariato” presenti negli elenchi, si piazza al quindicesimo posto. In tutto, contando anche la tranche 2012 (non ancora versata, ma attribuita dall’agenzia delle Entrate), l’Assipromos ha ottenuto 4,4 milioni. Ma come è stato speso questo robusto finanziamento? Sul sito dell’associazione, alla pagina «iniziative», ci sono solo due progetti: il bando «Crea il tuo futuro», uno stage di sei mesi per 50 ragazzi presso la stessa associazione (con un rimborso spese di 400 euro al mese), che si è concluso pochi giorni fa, e un corso di italiano per stranieri.

Dai rendiconti inviati al ministero del Lavoro, risulta che l’Assipromos ha acquistato un immobile a Roma, in via Falcognana, per 1.350.000 euro, con l’obiettivo di creare una «casa di riposo a prevalente accoglienza alberghiera». Obiettivo però non raggiunto, perché, secondo il Comune di Roma, l’immobile non è adatto a questo utilizzo. L’Assipromos ha dunque sottoscritto un preliminare d’acquisto per un altro immobile, sempre a Roma, in via Omboni, con lo scopo di creare una piscina per persone disabili e uno studio medico riservato a pazienti che si trovino in disagio economico. «Vorrei sottolineare – precisa la presidente di Assipromos Maria Mamone (subentrata nel ruolo a settembre 2013 allo stesso Cosimo Nesci) – che neanche un euro è stato utilizzato per versare un’indennità al presidente o ai consiglieri dell’associazione, e che tutti i fondi del cinque per mille sono impiegati per progetti sociali».

Passando all’elenco degli enti di ricerca scientifica, non mancano altre sorprese. L’Università telematica «Pegaso» di Napoli si piazza all’undicesimo posto, sorpassando tutti gli atenei pubblici e privati d’Italia, escluso il Politecnico di Milano. Per il 2012, grazie alla scelta di 224mila contribuenti, la Pegaso incasserà 421.895 euro, il 380% in più rispetto all’anno prima, quando il contributo era stato di 108.435 euro. Qual è il segreto di un simile balzo in avanti?
Un aiuto potrebbe essere arrivato da decine di convenzioni sottoscritte dall’Università Pegaso con Ordini professionali e con i sindacati sul territorio, anche se – precisa il direttore generale dell’ateneo online Elio Pariota – queste convenzioni nulla hanno a che vedere con il cinque per mille, ma solo con la formazione».
Nella sua lettera, la Corte dei conti cita esplicitamente un altro esempio: l’intesa tra il centro di ricerca Biogem di Ariano Irpino e l’Ordine dei dottori commercialisti di Avellino. Il presidente di Biogem, Ortensio Zecchino, ha dichiarato (come riporta la stessa Corte): «Ci rivolgiamo ai commercialisti perché hanno una grande forza di orientamento». Con buona pace della libertà di scelta.