Opinioni

Roccella (Idea): “Per salvare le famiglie, il welfare non basta”

Roccella (Idea): “Per salvare le famiglie, il welfare non basta”

di Eugenia Roccella*

L’Italia da molto tempo investe poco nella famiglia, probabilmente perché i governi hanno dato per scontata la buona salute della famiglia italiana. I dati, a parte un preoccupante declino della natalità, confermavano finora questo giudizio, ma negli ultimi anni i segnali di crisi si sono moltiplicati.

Quella che Giovanni Paolo II definiva l’eccezione italiana (e che si leggeva nei numeri: meno divorzi e separazioni, meno aborti, in particolare tra le minori, meno figli nati fuori dal matrimonio, meno madri single degli altri paesi europei) è oggi a rischio. È urgente quindi intervenire con provvedimenti pesanti, e non occasionali come il bonus bebé. Ma bisogna avere chiaro che le facilitazioni fiscali e il welfare pro-family servono solo in minima parte a fermare l’inverno demografico.

Tutta l’Europa è ormai sotto il tasso di sostituzione, anche i paesi in cui c’è stata e c’è ancora una storica attenzione al problema, come dimostra lo studio di ImpresaLavoro (per esempio la Francia o la Svezia, che investono molto più di noi su famiglia e figli). Per confermarlo basta verificare come l’unico paese europeo che fa meno bambini di noi è la ricca Germania: le cause principali della denatalità europea non sono economiche, ma culturali. In Italia, poi, come dimostrano le ricerche del sociologo Roberto Volpi, i figli si fanno ancora all’interno del matrimonio: se, come accade oggi, i matrimoni sono in calo, c’è poca speranza di risalire la china demografica.

Investire nella famiglia è necessario per motivi di equità, per migliorare la vita delle donne, su cui pesa ancora la gran parte del lavoro di cura,  e per dare un segnale forte di cambiamento; ma bisogna essere consapevoli che non si tornerà a fare figli solo con incentivi economici o con un welfare più generoso, se non c’è anche un investimento culturale per promuovere famiglia e matrimonio.

*Deputato di “Idea”, ex Sottosegretario al Ministero della Salute

Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”

Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”

di Alessandro Pagano*

I dati pubblicati dal Centro Studi “ImpresaLavoro” non mi sorprendono più di tanto. Anzi, paradossalmente mi rallegro del fatto che questi numeri possano essere diffusi, così da sottolineare tutte le contraddizioni interne di una sterile retorica – presente in ampi strati del mondo politico e governativo – su aiuti, bonus e previdenza in genere. Si tratta, per carità, di iniziative utili e meritorie, ma che troppo spesso non sono in grado di realizzare gli obiettivi per cui sono state messe in campo. È sempre positivo, dunqe, che osservatori neutrali siano in grado di raccogliere dati capaci di far esplodere queste contraddizioni. Perché è proprio su queste contraddizioni che diventa possibile fare qualche ragionamento serio.

Per esempio, è impossibile non notare come la nostra spesa per il welfare sia quasi sempre indirizzata – anche giustamente, da un certo punto di vista – nei confronti di coloro che restano disoccupati in seguito a crisi di lavoro. Questo, però, produce degli elementi fortemente distorsivi per la nostra economia. È normale, oltre che giusto, concedere un sussidio di disoccupazione a persone che, a 55-60 anni, hanno difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro. Ma quando lo stesso sussidio viene concesso in contesti molto differenti, questo provoca inevitabilmente delle distorsioni. Mi spiego meglio, perché si tratta di casi concreti che ho toccato con mano: segni di un malcostume che una volta riguardava soprattutto il Mezzogiorno ma che oggi si è diffuso anche nel Nord del Paese. Parlo dei giovani che si fanno assumere, lavorano per 7-8 mesi e poi, appena raggiunti i requisiti di legge, fanno di tutto per farsi licenziare. E lucrare sull’indennità di disoccupazione. Questa abitudine, più comune di quanto non si pensi abitualmente, porta a una distorsione di tutto il meccanismo del welfare. Le persone che lavorano “in nero” mentre percepiscono il sussidio di disoccupazione (o, peggio, si limitano a poltrire) non solo provocano un danno alla nostra economia, ma anche al tessuto culturale del Paese.

Anche quando il sussidio di disoccupazione è concesso a chi veramente ne ha bisogno, però, gli effetti distorsivi sono sempre dietro l’angolo. Perché queste persone, di fronte all’incertezza nei confronti del futuro, non hanno certo la tendenza a spendere, ma piuttosto cercano di risparmiare il più possibile. Il denaro dei contribuenti, dunque, non va ad alimentare i consumi o gli investimenti, ma viene messo da parte e immobilizzato.

Queste risorse – che oggi in gran parte servono ad alimentare effetti negativi sotto il profilo culturale ed economico – potrebbero essere utilizzate molto meglio se utilizzate a favore della famiglia. Quando lo Stato indirizza la spesa pubblica direttamente verso le famiglie, per esempio stimolandole ad avere figli, si crea inevitabilmente un effetto volano per tutta l’economia, perché i genitori spenderanno quel denaro per i figli: spendono per migliorare la loro qualità di vita, per attività extrascolastiche che altrimenti non potrebbero permettersi, per mandarli in una scuola migliore, per viaggi studio all’estero che possono arricchire in modo decisivo la loro esperienza. Da parte dei genitori, insomma, c’è una propensione virtuosa al consumo. E anche quando si preferisce il risparmio, si tratta di risparmio orientato verso il futuro dei propri figli, non immobilizzato in un cassetto proprio per paura del futuro. Si tratta di spesa pubblica, dunque, che crea effetti positivi sotto il profilo sia economico che culturale.

È chiaro che, partendo da questa prospettiva, è lo stesso modello di welfare del nostro Paese che va completamente ripensato. L’assistenzialismo italiano, così com’è, serve soltanto a trasformarci nella “Calabria d’Europa”, cioè in una macroregione assistita in cui la spesa pubblica serve solo a garantire un’economia minima di sussistenza (e magari i voti sufficienti a mantenere la propria rendita di posizione), ma che non riesce a diventare volano per la crescita. È possibile, invece, immaginare un welfare intelligente, che punta sui figli come risorsa primaria per la nostra società. I numeri della demografia, del resto, ci inchiodano a questa necessità: con 1,1 figli per coppia siamo destinati all’impoverimento. Ed è sotto gli occhi di tutti la banalità della retorica terzomondista che vorrebbe affidarsi ai flussi migratori per correggere questa tendenza: da noi ormai arrivano immigrati che non rappresentano un valore aggiunto significativo, in termini economici o culturali; mentre i nostri ragazzi migliori sono costretti a fuggire dall’Italia per arricchire, in tutti i sensi, gli altri Paesi.

Concludendo, i soldi investiti direttamente nelle famiglie – per esempio con quello che una volta si chiamava “quoziente familiare” – sono qualcosa di molto distante dall’assistenzialismo a cui purtroppo siamo abituati. E questo tipo di spesa pubblica deve crescere, non soltanto per portare l’Italia almeno ai livelli della media europea (e già questa sarebbe, di per sé, una motivazione sufficiente), ma perché si tratta di una spesa capace di avere effetti di moltiplicazione, sia in termini di consumo immediato, sia in termini di progresso culturale. Con una popolazione giovanile schiacciata da pensioni, sanità e assistenzialismo, i conti non tornano. Mentre allargando la base demografica si creano le condizioni per far ripartire il sistema produttivo, tornando a poter contare su una prospettiva di lungo periodo. Lo dico da cattolico: la famiglia non è soltanto la cellula fondamentale su cui è costruita la società, ma anche il destinatario ideale per una spesa pubblica virtuosa, capace di diventare una leva straordinaria per la crescita economica.

* Deputato nazionale di Area Popolare, componente della Commissione Finanze e della Commissione Giustizia

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

di Giuseppe Pennisi*

Per oltre tre lustri ho scritto il capitolo sulle privatizzazioni del rapporto annuale sulla liberalizzazione della società italiana dell’Associazione Società Libera. È parso evidente sin dalla fine degli Anni Novanta che nel processo di privatizzazione molta poca attenzione è stata alle partecipate delle autonomie locali, spesso con il pretesto che si trattava di materie unicamente di competenza delle Regioni, delle Province (quando esistevano) e dei Comuni. Sono stati compiuti studi egregi sul capitalismo municipale, alcuni pubblicati sulla stessa rivista del Ministero dell’Interno “Amministrazione Civile”.

Il tema è stato posto all’attenzione dei Governi dai vari Commissari alla spending review che si sono succeduti in questi anni. Ma ancora oggi non è chiaro quale sia il numero totale (si parla di circa ottomila, che il Governo in carica avrebbe voluto ridurre a mille). Numerose sono in perdita da anni o richiedono forti sovvenzioni per operare. Altre sono costituite unicamente da organi di governo, ossia i CdA, e da manager ma non hanno personale. È chiaro che sono una delle determinanti dell’enorme debito pubblico che frena l’Italia. È un’area dove, per fare pulizia, occorre utilizzare la scure non il bisturi.

* presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Considerazione sulle elezioni americane dopo il voto in Iowa

Considerazione sulle elezioni americane dopo il voto in Iowa

di Pietro Masci*

I risultati delle c.d. Iowa Caucuses – molteplici assemble di cittadini registrati per votare i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti – sono sorprendenti. Tuttavia, per avere una più precisa idea delle preferenze a livello nazionale, occorre, perlomeno, attendere il voto in New Hampshire (9 febbraio),  i caucuses in Nevada (20 e 23 febbraio), le primarie in South Carolina (20 e 27 Febbraio) e soprattutto il c.d. SuperTuesday con le primarie in 15 stati (Primo di Marzo).

Tra i repubblicani, è sorprendente la vittoria di Cruz, con il 28%, ma forse ancora di più il terzo posto di Rubio (23%) a solo un punto percentuale da Trump (24%). Tra i democratici, è strabiliante che Clinton e Sanders siano terminati praticamente alla pari.

I risultati confermano che esiste una domanda di cambiamento rappresentata sopratutto da candidati all’opposto -Sanders e Trump – che insieme costituirebbero di gran lunga la maggioranza assoluta. A differenza di altri paesi, dove i politici al potere cercano di evitare il voto quando forze considerate fuori dal sistema possono vincere – gli Stati Uniti sono più disponibili al cambio e alle novità; alla resa dei conti, le soluzioni pilotate debbono misurarsi con la partecipazione e la decisione dei cittadini. I candidati ed i rappresentanti in genere non emergono solo per una scelta dall’alto e non vengono eletti da altri apparati. Credo che questi siano importanti principi democratici che portano, alla lunga, ad esiti favorevoli.

La richiesta di cambiamento deriva dalla circostanza che negli Stati Uniti sta decelerando la forza propulsiva di una società basata sulle opportunità. Nel corso del tempo, le opportunità hanno creato posizioni di rendita che però ora favoriscono la conservazione e negano di fatto il principio delle opportunità sempre dichiarato. Si rafforzano gli interessi al potere e le c.d. lobbies. Gli esempi sono molti, tra questi alcuni dei più importanti interessi: attorno alle armi e al complesso militare e industriale; alle istituzioni finanziarie e Wall Street. Questi interessi costituiscono un potere finanziario sproporzionato capace d’influenzare i risultati politici con contribuzioni illimitate e anonime (la famosa decisione Citizens United della Suprema Corte che, appunto, permette contributi illimitati e anonimi ai candidati). Inoltre, il sistema educativo, che dovrebbe essere alla base di una società delle opportunità, comporta dei costi esorbitanti che riducono l’accesso all’istruzione.

Il cambiamento richiesto non si dirige verso Rand Paul – candidato repubblicano che ha appena abbandonato la corsa alla Presidenza – che propone una società libertaria, economia di libero mercato con minimo intervento dello Stato. Si tratta di un’impostazione in linea con la tradizione Americana, ma che ha pochi riscontri concreti, non stimola l’immaginazione e viene considerata troppo intelletuale.

Gli elettori si rivolgono, invece, verso candidati che hanno maggiore capacità comunicativa e presentano proposte che hanno un impatto tangibile più immediato e contenuti meno astratti. Al di là degli aspetti teatrali, le differenze sostanziali tra i candidati di ciascun partito non sono molto significative.

Tra i democratici, Sanders offre una chiara visione sul futuro della società americana; punta sopratutto sui temi delle disuguaglianze, della concentrazione della ricchezza, e del ruolo del denaro nella politica che non permettono la realizzazione di una società delle opportunità per tutti. Clinton – che diversamente da Sanders ha votato a favore della guerra in Iraq – si dice una pragmatica capace di “fare in modo che le cose vengano fatte”; ha sposato molti dei temi di Sanders, in forma più moderata e più gradualista – e aggiungo – con minore attrazione per coloro (e non sono pochi) che non ripongono la loro fiducia in Clinton.

I repubblicani sono abbastanza uniti su vari temi: difesa del sogno Americano di una società dove la libertà è sovrana e un economia regolata dal mercato; lotta al terrorismo; politica estera diretta ispirata agli interessi e alla sicurezza nazionale; controllo dell’emigrazione (con gli eccessi di Trump che propone di costruire un muro lungo la frontiera con il Messico, il quarto più importante partner commerciale degli Stati Uniti e parte del sistema Nafta, accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico); aumento delle spese militari; possesso delle armi; avversione alla riforma della sanità e in genere alle politiche del Presidente Obama. Peraltro, Trump critica apertamente le guerre di George W. Bush e le decisioni militari del duo Obama-Clinton e il ruolo del denaro nella politica. Questi temi non sono raccolti da Cruz e Rubio, i candidati – anche dopo il dibattito tra repubblicani del 6 febbraio – che sono, insieme a Trump, i più accreditati alla designazione per le elezioni presidenziali dell’8 novembre 2016.

Tuttavia, in queste come in altre campagne elettorali per la Presidenza, è assente una variabile fondamentale: il Congresso con il quale bisogna fare i conti per introdurre la legislazione che i vari candidati presidenziali propongono.

Le elezioni del 2016 presentano tre aspetti senza precedenti.

Per la prima volta ci sono addirittura due “latinos” – Cruz e Rubio – tra i maggiori contendenti alla designazione repubblicana (senza contare Jeb Bush che parla correntemente lo spagnolo ed è sposato a una messicana, Columba Garnica de Gallo). Anche se occorre fare qualche distinguo sulla percepita latinità di Cruz e Rubio – entrambi giovani senatori di origini cubane, ma con impostazioni diverse particolarmente per quanto riguarda il tema dell’immigrazione –  le loro candidature riflettono la circostanza che i “latinos” negli Stati Uniti sono oltre 50 milioni (di cui probabilmente 7-8 milioni sono illegali) e costituiscono la più numerosa minoranza che – molto di più di altre minoranze – mantiene la lingua e le relazioni con i paesi di origine. In effetti, lo spagnolo negli Stati Uniti è molto diffuso e viene normalmente utilizzato insieme all’inglese.

Il secondo aspetto è che Bernie Sanders – un settantacinquenne che ha il sostegno dei giovani e non riceve sostegni finanziari da parte di interessi precostituiti, ma piccoli contributi da oltre 3 milioni di cittadini – conduce la sua campagna elettorale – finora con successo – proclamando apertamente di essere socialista e di volere una rivoluzione politica. Queste affermazioni 10-20 anni fa avrebbero squalificato qualsiasi candidato da ogni dibattito ed elezione e gli avrebbero alienato gran parte dell’elettorato. Negli anni ’70, l’allora candidato democratico McGovern – secondo una ricostruzione cinematografica di Oliver Stone – fu sconfitto da Nixon nella campagna presidenziale del 1972, non solo grazie alle irregolarità del Watergate, ma anche perché, in piena Guerra Fredda, gli fu affibiata l’etichetta di socialista omosessuale.

Il terzo aspetto riguarda l’età. Alcuni tra i maggiori candidati alla Presidenza – Clinton, Trump e Sanders – hanno rispettivamente 68, 70 e 75 anni e dimostrano grande vitalità fisica e intellettuale, come i vari dibattiti, incluso quello tra Sanders e Clinton del 4 febbraio, ampiamente dimostrano. In aggiunta alla circostanza che uno dei maggiori candidati – Clinton – è per la prima volta una donna (c’e’ anche un’altra donna nel campo repubblicano, Carly Fiorina che non raccoglie molti sostegni), non è mai accaduto che ci fossero tanti anziani e credibili candidati alla Presidenza.

Il significativo ruolo dei “latinos”, l’accettazione dei termini socialista e rivoluzione, la preponderanza di candidati anziani e la presenza femminile evidenziano la dinamica della società americana e quanto sia cambiata e stia cambiando. A proposito di cambiamento, mi sembra significativo riportare una battuta. È stato chiesto a un giovane della generazione Millennium chi è un socialista. La risposta è stata che socialista è qualcuno che usa i social media!!!

In questa spinta verso il cambiamento, tuttavia, un tema di fondo delle elezioni presidenziali riguarda il trattamento degli immigrati e dei rifugiati e in che misura gli americani – impauriti dal terrorismo, scossi dalla crisi economica e finanziaria e non rassicurati dai politici – vorranno confermare la natura multietnica ed aperta della società americana.

La corsa alla Presidenza è lunga, apertissima e affascinante; si preannuncia piena di colpi di scena; e costituisce un momento davvero critico per la definizione di chi desiderano essere gli americani.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

Basta con lo stato immobiliarista

Basta con lo stato immobiliarista

Massimo Blasoni – Metro

Alloggi occupati illegalmente, famiglie che avrebbero diritto a una casa popolare che rimangono per strada, patrimonio immobiliare pubblico dato in affitto a prezzi stracciati agli amici degli amici: la cronaca, romana e non solo, ci propone ciclicamente una pletora di esempi di come lo Stato imprenditore nel settore immobiliare sia completamente fallito. E questo vale sia per gli immobili che Comuni, Regioni, enti pubblici possiedono come proprio patrimonio e fanno rendere pochissimo (lo si venda subito, piuttosto che concederlo a prezzi irrisori a partiti, associazioni amiche, parlamentari dello stesso colore politico) sia con riferimento al più generale tema delle politiche abitative.

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Palmieri (Forza Italia): “Ecco come recuperare il ritardo nell’e-commerce”

Palmieri (Forza Italia): “Ecco come recuperare il ritardo nell’e-commerce”

di Antonio Palmieri*

Il divario che separa l’Italia dal resto d’Europa nell’utilizzo dell’e-commerce deve essere spiegato soprattutto in termini culturali. Troppi italiani, in generale, ancora non conoscono le potenzialità del web. E dunque troppi imprenditori non riescono a comprendere la possibilità di sfruttare la rete come mezzo di comunicazione per accrescere il business della propria impresa o come mezzo per dare vita ad iniziative di commercio elettronico.

C’è poi un dato strutturale, rappresentato dal ritardo nella penetrazione della banda larga in Italia, che non deve essere sottovalutato. A questo fattore si accompagna la forte presenza di piccole e media imprese nell’economia italiana, che non di presta troppo all’ultilizzo dell’e-commerce: non parlo tanto di dimensioni, quanto di tipologia di business. In molti casi, queste imprese non possono permettersi di affrontare il costo principale dello sviluppo di un’attività di commercio elettronico, che è quello cognitivo, soprattutto in termini di tempo e attenzione.

Sarebbe interessante capire quali sono i settori merceologici in cui, in Italia, l’e-commerce è più sviluppato, magari confrontando questi dati con la situazione negli altri paesi europei. Un’analisi di questo tipo potrebbe suggerirci quali siano i settori sui quali potrebbe valere la pena cercare di incidere con investimenti di tipo culturale. In questo senso, da qualche anno alcune associazioni di categoria si stanno muovendo nella giusta direzione. Ma è arrivato il momento di passare dalla formazione all’azione.

Per quanto riguarda le istituzioni, è invece difficile pensare a interventi diretti per incidere sullo status quo. Qualche anno fa avevo proposto una misura che garantisse un minimo incentivo fiscale per le imprese che avessero aperto una propria piattaforma di e-commerce. Poi questa misura si è persa nel labirinto delle leggi di stabilità. Ma credo ancora che la strada degli incentivi fiscali sia quella giusta. Insieme, aggiungo, a campagne informative che raccontino le enormi potenzialità del commercio elettronico, progettate insieme alle associazioni di categorie e ai grandi player del mercato, che già offrono alcune soluzioni interessanti per le piccole e medie imprese.

Ma, ripeto, prima di tutto ci sono resistenze culturali da vincere. E questo è un lavoro molto complesso, che si può soltanto immaginare nel lungo periodo.

*responsabile Internet e nuove tecnologie di Forza Italia

Fedriga (Lega Nord): “Cifre impietose, Europa da rifondare”

Fedriga (Lega Nord): “Cifre impietose, Europa da rifondare”

di Massimiliano Fedriga*

L’analisi numerica su costi e benefici della presenza italiana nella comune casa europea negli ultimi 15 anni è impietosa: cifre che evidenziano un vero e proprio salasso per i cittadini, a fronte di ritorni modesti e comunque settoriali. Ma il fallimento dell’Unione Europea non va letto esclusivamente in questi pur preoccupanti e significativi dati, bensì anche nella totale incapacità di una struttura elefantiaca e sempre più lontana dalla gente di mettere in piedi strutture e servizi – penso ad esempio alla Politica Estera di Sicurezza Comune, alla gestione dei flussi migratori e alle politiche del lavoro – per far fronte alle necessità dei popoli anziché di quelle di qualche élite. E lo studio di ImpresaLavoro rappresenta in tal senso un chiaro campanello d’allarme sulla pressante urgenza di rifondare l’Europa ripartendo dalle persone, ponendole al centro di un progetto serio, condiviso e responsabile.

* capogruppo della Lega Nord alla Camera dei Deputati

Bergamini (Forza Italia): “Al Governo manca il coraggio per una vera svolta”

Bergamini (Forza Italia): “Al Governo manca il coraggio per una vera svolta”

di Deborah Bergamini*

La ricerca elaborata dal centro studi ImpresaLavoro evidenzia come sia alquanto fuorviante parlare della situazione economica di un singolo Stato, ad esempio l’Italia, senza confrontarla con quella degli altri Paesi, soprattutto europei, nostri diretti concorrenti. Abbiamo infatti sentito più volte dire dal premier Renzi che l’Italia è finalmente ripartita. Se però si raffronta il Pil italiano con la media dei 28 Stati membri della Ue ci si rende conto che mentre noi abbiamo appena ripreso a camminare, gli altri già corrono.

L’anno appena trascorso, infatti, ha visto la nostra economia crescere appena dello 0,8 per cento, mentre l’Europa è cresciuta più del doppio, precisamente di 1,8 punti percentuali. La crisi economica è stata non solo europea ma mondiale, ha colpito tutti, ma non vi è dubbio che alcuni governi la abbiano affrontata meglio rispetto a noi. È vero che, come dimostra la ricerca, fin dall’introduzione dell’euro il nostro Pil è sempre stato sotto la media Ue e che quindi il nostro ritardo viene da lontano, ma sta di fatto che molti Paesi hanno reagito meglio del nostro e sono già tornati ai livelli pre-crisi mentre per l’Italia, al ritmo di crescita attuale, si dovrà aspettare altri dieci anni. Non ce lo possiamo permettere, non possiamo continuare così.

Al Governo è mancato il coraggio di effettuare un radicale taglio della spesa pubblica improduttiva e una corposa riduzione della pressione fiscale, uniche soluzioni possibili per una ripresa economica vera e duratura. Del resto, questo è un Governo di sinistra e non ci si poteva aspettare certo che mettesse in campo politiche liberali: si è accontentato di una politica dei piccoli passi per raggiungere piccoli orizzonti. E non riesce a raggiungere neppure quelli.

* deputato e responsabile della comunicazione di Forza Italia

Abrignani: “In ritardo sulle riforme, ma adesso siamo sulla strada giusta”

Abrignani: “In ritardo sulle riforme, ma adesso siamo sulla strada giusta”

di Ignazio Abrignani*

Per spiegare l’insoddisfacente andamento del Pil italiano dall’adozione della moneta unica ad oggi, dobbiamo fare due riflessioni preliminari. La prima è di natura economica: l’Italia non doveva accettare il cambio lira/euro che poi è stato adottato. Non mi spingo fino a dire che il cambio sarebbe dovuto essere alla pari, ma certamente il cambio ha penalizzato fortemente l’economia italiana, dimezzando di fatto gli stipendi e comportando anche una brusca diminuzione dei consumi e un conseguente calo della produzione industriale. Questo errore ha avuto forti ripercussioni sull’economia italiana, soprattutto negli anni immediatamente successivi all’entrata nell’eurozona.

La seconda riflessione è che, rispetto agli altri paesi europei, noi soltanto da pochissimo abbiamo imboccato il sentiero delle riforme. E questo ha fatto la differenza. Una riforma come quella del “jobs act”, molto simile a quella fatta in Germania verso la metà dello scorso decennio, da noi è stata varata soltanto quest’anno. Le riforme dello stato che semplificano la vita dei cittadini, invece, sono ancora in fieri e dovrebbero essere approvate quest’anno. Questo ritardo, a mio avviso, ci ha penalizzato molto.

Se, come noi ci auguriamo, l’Europa continuasse ad avere un trend di crescita, grazie a queste riforme molto probabilmente potremmo riuscire ad agganciare questa ripresa. In ogni caso, la strada intrapresa è quella giusta: cercare di semplificare le regole per rendere tutto più semplice alle imprese e ai cittadini; cercare di far ripartire in l’economia attraverso una minor politica di rigore e una maggior politica di crescita e di consumo.

È comunque evidente che in questo contesto anche la pressione fiscale gioca un ruolo importante. Una pressione che però sconta anche l’alto costo per lo stato dell’apparato burocratico. Per ridurre la pressione fiscale si deve cercare di ridurre questo costo, soprattutto cercando di tagliare la spesa improduttiva (e mi sembra che con questo intervento sulle partecipate in qualche modo ci stiamo andando incontro). Poi bisogna sempre tenere a mente il fatto che la “spending review”, almeno all’inizio, non procura certo crescita, ma decrescita, perché nel momento in cui tagli stipendi e posti di lavoro, riduci necessariamente i consumi. Un altro aspetto fondamentale, infine, è quello del recupero dell’evasione fiscale. Soltanto abbassando il costo dello stato e cercando di far emergere il “sommerso” della nostra economia, si possono creare le condizioni per potersi permettere l’abbassamento (necessario) della pressione fiscale.

* deputato di ALA (Alleanza Liberalpopolare Autonomie) e componente della Commissione Attività produttive, Commercio e Turismo 

 

Siri: “La vera sfida resta la rivoluzione del sistema tributario”

Siri: “La vera sfida resta la rivoluzione del sistema tributario”

di Armando Siri*

I dati della crescita economica reale del nostro Paese negli ultimi anni sono a dir poco sconcertanti e come dimostrato dallo studio di ImpresaLavoro, salvo la parentesi dell’ultimo Governo Berlusconi, il trend del Pil italiano è sempre stato molto al di sotto di quello degli altri Paesi Ue. Prima i governi tecnici, oggi il governo non eletto di Matteo Renzi, non sono stati in grado di invertire la tendenza per inadeguatezza degli interventi e mancanza di visione. La vera sfida era e rimane quella fiscale. Solo una rivoluzione del sistema tributario con l’introduzione di un’unica aliquota fiscale può far decollare il Paese e consentirgli nel giro di un paio di anni di recuperare i quasi dieci punti di Pil perduti dal 2008 ad oggi e creare le premesse per un trend di crescita costante per il futuro.

Non possiamo accontentarci degli zerovirgola che Renzi spaccia per grandi risultati. Questo Governo non vuole capire che la nostra economia asfittica ha bisogno di nuova linfa e nuovo ossigeno che può arrivare solo se allenta il cappio con il quale drena verso lo Stato le risorse dell’economia reale sotto forma di imposte.

Non servono i piccoli interventi a breve scadenza come il Jobs Act e l’abolizione dell’Imu per far ripartire consumi e mercato del lavoro. Questi interventi producono gli stessi risultati che si possono ottenere somministrando l’aspirina ad un malato di polmonite. Qui servono interventi drastici a base di antibiotici e adrenalina, serve coraggio per realizzare la radicale riforma del sistema fiscale. Il resto degli interventi sono solo inutili e frustranti palliativi.

* consigliere economico di Matteo Salvini e responsabile economico della lista “Noi con Salvini”