Edicola – Opinioni

Il Paese soffocato

Il Paese soffocato

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri l’Istat ha certificato che l’Italia è tornata in recessione: la sua ricchezza diminuisce. Negli ultimi tre anni non ci eravamo ancora accorti di esserne usciti. Oggi gli economisti ci spiegheranno perché. Non ascoltateli. La gran parte sono diventati come i becchini, ci spiegano semmai perché il paziente è deceduto a tragedia avvenuta. Bella forza.

Ci permettiamo di fare un elenco micro (economico) per far capire come mai le questioni macro (economiche) non girano per il verso giusto. Tutti si affannano a parlare di numeri (macro), ma il problema è di comportamenti. È del tutto evidente che il buon senso, pensando all’attuale premier, ci sia, ma che per paura del senso comune venga sconfitto. Andiamo per ordine.

Il Pil non cresce perché a quattro sindacalisti si permette di bloccare i bagagli dell’Alitalia, a un violinista e qualche suo socio si consente di fermare le rappresentazioni dell’opera di Roma e alla minoranza dei metalmeccanici è stato consentito di mettere in discussione in tribunale le decisioni di Marchionne sulla Fiat. Chiaro? Siamo un po’ duri e antisindacali? E chissenefrega di questo senso comune. Il buonsenso dice che l’occupazione la creano le imprese e che la parte debole e da tutelare oggi siano loro.

Il Pil non cresce perché un guru della cultura italiana, Setis, scrive su Repubblica che è disgustato dalle file al Louvre; perché un vicepresidente emerito della Corte costituzionale, Maddalena, scrive che i giovani che occupano il Teatro Valle sono dei volenterosi; perché invece di ringraziare uno come Della Valle che ha messo qualche milioncino per pulire il Colosseo lo abbiamo ostacolato in tutit i modi; perché il sindaco Marino ha trovato un paio di milioncini per la festa dell’orgoglio Rom e non un euro bucato per celebrare i 2000 anni del mausoleo di Augusto. Siamo un po’ tranchant? Se aveste un albergo a Roma, pagando una supertassa di soggiorno, e dovendo difendere i vostri clienti dagli assalti alla stazione Termini, la pensereste come noi. Se vi fate un mazzo così e vi dicono che i vostri tavolini a piazza Navona sono illegali, e nel frattempo si dà spazio a bivacchi di evasori totali con borsette di marca ma false, be’ allora il vostro spirito sarebbe simile al nostro.

Il Pil non cresce perché siamo riusciti a indagare Finmeccanica, una delle nostre poche industrie manifatturiere, e poi dopo qualche anno ci siamo accorti aver esagerato. Abbiamo praticamente ucciso, senza ancora una sentenza che sia una, una delle più importanti industrie siderurgiche europee, come l’Ilva. Non trivelliamo l’Adriatico dove c’è un mare di petrolio e 15 miliardi di investimenti privati da fare perché si rovinerebbe il panorama. La Regione Toscana ha di fatto messo per strada 20mila lavoratori delle cave di marmo, le stesse del monte Altissimo di Michelangelo, per fare un parco naturale. Un grande scultore come Giovanni Manganelli ha definito il nostro sfruttamento di quelle aree come un misero graffio su montagne impetuose. Un altro regalo ai nostri concorrenti.

Il Pil non cresce perché dobbiamo aderire all’embargo dell’unico Paese che ha una buna dose di miliardari che ci amano, come la Russia; perché abbiamo spernacchiato l’intesa con la Libia di Gheddafi subendo le prevaricazioni dei francesi e oggi facciamo fatica con i nostri interessi là, mentre siamo inondati di clandestini qui; perché al nostro ministero della Sanità si occupano del colore della pelle della fecondazione eterologa e non della peste suina in Sardegna che ci impedisce di esportare i nostri insaccati in ricchi mercati esteri. Il buonsenso direbbe che la nostra politica estera sia rivolta a fare business, noi pensiamo a utilizzarla per liberare un posticino all’interno del governo per procedere ad un possibile rimpasto.

La lista, incompleta, potrebbe durare molto. E chi attribuisce al solo premier Renzi la colpa della recessione fa un gioco miope. Certo era meglio piazzare i dieci miliardi di sgravi fiscali alle imprese. Ma non sarebbe bastato comunque a raddrizzare il legno storto della nostra economia. Ha ragione il premier a perseguire con forza riforme istituzionali che spuntino i poteri delle regioni e rendano l’esecutivo più forte e il bicameralismo più debole. Ma la vera battaglia per riprendere a crescere è quella del buonsenso. È riprendere a credere che i quattrini e l’occupazione vengono fatti solo dalle imprese e che lo Stato deve fare di tutto per metterle nelle condizioni di competere al meglio. Meno tasse certo, ma è tutto il resto che oggi ci soffoca. Prima l’impresa e poi lo Stato, prima l’individuo e poi il burocrate e la sua norma.

Poca chiarezza su fisco e lavoro, consumatori e imprese disorientati

Poca chiarezza su fisco e lavoro, consumatori e imprese disorientati

Andrea Tavecchio – Corriere della Sera

Per chi vive il mondo delle imprese il dato negativo del Prodotto interno lordo (Pil) nel secondo trimestre del 2014 non è una sorpresa: lo si vedeva già negli andamenti di questi mesi delle aziende legate al mercato interno. In Italia, purtroppo, la domanda rimane molto debole. Il brutto dato comunicato ieri dall’Istat rende più complicato il percorso che dobbiamo fare e più lontano l’obiettivo – necessario e prioritario – di tornare al più presto alla crescita economica. L’Italia non è in grado di reggere ancora a lungo una crisi che dura da sette anni, di cui gli ultimi tre drammatici, soprattutto per l’occupazione.

Nessuno ha la bacchetta magica, specie in un Paese con il debito pari al 130 per cento del Pil – ed è prevedibile che verso il governo si alzino critiche strumentali. È indubbio, però, che l’esecutivo abbia bisogno di chiarire quale visione ha in campo economico e poi agire in modo concreto e conseguente. La mancanza di chiarezza di questi mesi, specie in campo fiscale e del mercato del lavoro, ha sicuramente disorientato consumatori e imprese. Non è coerente, ad esempio, voler far ripartire la domanda interna e alzare – in modo non selettivo – la tassazione sulle rendite finanziarie. Quest’ultima, per il piccolo imprenditore, in Italia è già altissima: bisogna abbassarla, non aumentarla. Così come non è accettabile per famiglie e imprese il balletto su Imu e Tasi. Anche il cosiddetto “bonus Renzi” da 80 euro, pur apprezzabile nello spirito, è tecnicamente infelice perché non copre i non protetti, mentre viene garantito anche a chi ha redditi familiari ingenti.

Il governo Renzi sta giocando la sua partita, specie in questi ultimi mesi, sulla necessità di modificare i meccanismi decisionali per poter cambiare poi – finalmente – la politica e le policy che questa elabora. Speriamo. Ma per tornare alla crescita economica non esistono scorciatoie: bisogna dare fiducia alle famiglie e alle imprese. Senza una visione e una agenda – in campo fiscale ed economico – chiara, concreta e coerente, questo però è impossibile. Attenzione, si rischia l’avvitamento.

Bagno nella realtà

Bagno nella realtà

Dario Di Vico – Corriere della Sera

È andata peggio del previsto. I dati Istat ci restituiscono l’immagine di un Paese in recessione. Lo 0,2 in meno di Pil rispetto al trimestre precedente è una botta e non ha senso tentare di minimizzare. Una botta che azzera i segnali di cauta speranza che pure venivano da settori industriali vivaci (macchine utensili, occhialeria), dai territori più dinamici (Padova, Vicenza e l’Emilia), dall’indice di fiducia delle imprese e persino dagli ultimi dati sull’occupazione. La verità è che in questi anni sono state le esportazioni a salvare il Paese e quando qualcuno dei mercati-chiave per i nostri prodotti batte in testa i riflessi negativi sull’Italia sono immediati. Poi, che la misurazione a mezzo Pil non sia uno strumento perfetto e che i meccanismi di previsione/valutazione siano invecchiati davanti agli sconvolgimenti della Grande Crisi è più che un’ipotesi, che vale anche per economie come l’inglese e la spagnola che comunque crescono.

Sul breve però dobbiamo capire che cosa questo dato ci comunica e individuare un percorso per uscire dallo stallo. Cominciamo sgomberando il campo da un equivoco: la comunicazione governativa sta esagerando nel danno di immagine procurato ai gufi, che sono animali miti, saggi e considerati nel Medioevo come dei portafortuna. Non è colpa loro se l’effetto Renzi ha una provata efficacia nella raccolta del consenso (il Pd oggi è valutato attorno al 42%) ma non si trasmette all’economia. Del resto è dal tempo di Pietro Nenni che dovremmo sapere che non esistono le stanze dei bottoni, tanto più in presenza di economie che si sono autonomizzate, globalizzate e che usciranno dalla recessione diverse rispetto a come sono entrate. Un’amministrazione responsabile però ha alcuni doveri. Primo: evitare la bulimia legislativa e curare meglio l’accompagnamento dei provvedimenti che sceglie o ha ereditato.

Degli 80 euro finora non abbiamo usufruito in termini di crescita del mercato interno causa le tante tasse da pagare, dei provvedimenti di politica industriale spicciola varati anche dai governi Monti e Letta veniamo a sapere che per la maggior parte sono fermi causa la mancanza di decreti attuativi e il rimpallo di carte tra ministero dello Sviluppo e Tesoro. Potremmo continuare, la fenomenologia è ricca e persino gli addetti ai lavori fanno fatica a districarsi tra i tanti decreti/pacchetti annunciati e solo formalmente approvati. Nella confusione normativa e nella delusione da Pil calante c’è il rischio di buttare al macero gli ultimi mesi del 2014: siccome le previsioni ci dicono che incroceremo la ripresa solo nel 2015 potremmo cadere nella tentazione di un ritorno dalle ferie a bassa intensità. Si provi, invece, a imbastire accanto a quello europeo un semestre italiano. Chiamando alla mobilitazione e alla responsabilità tutte le componenti dell’economia. Anche tra loro serpeggia la disillusione, si accontentano di compilare periodicamente i quaderni delle lagnanze e non prendono invece veri impegni. L’hashtag per loro è #inclusione.

Compiti per tutti

Compiti per tutti

Leonardo Becchetti – Avvenire

Come purtroppo previsto, il dato sul Pil del secondo semestre (meno 0,2%) conferma che l’Italia continua a essere in recessione o, più ottimisticamente, a camminare su un sentiero di crescita zero che, sommato alla dinamica dell’inflazione anch’essa prossima allo zero, ci allontana da quel 4% (crescita più inflazione) che renderebbe teoricamente possibile il rispetto del Fiscal Compact nei prossimi anni. Con il cappello in mano chiederemo alla Ue altra flessibilità che ci verrà concessa per non far saltare il banco dell’euro, ma saremo tenuti in perenne condizione di inferiorità negoziale.

Pur non dimenticando gli interventi preziosi in materia di cooperazione e di Terzo settore, in questi primi mesi di azione il governo ha ottenuto la fiducia degli elettori promettendo attivismo e moto perpetuo in economia, dedicando però poi la parte preponderante delle sue notevoli energie ad un obiettivo: la riforma del Senato. Venivamo da 20 anni di inazione ed era dunque necessario intervenire per riportare il nostro sistema istituzionale fuori dalle secche dell’inefficienza, ma è chiaro che i dossier chiave per far ripartire il Sistema Italia sono altri: la riforma della giustizia civile (la durata abnorme dei procedimenti è la prima causa che allontana le imprese dal nostro Paese); la lotta all’evasione ed elusione destinando i proventi alla riduzione dell’enorme pressione fiscale su cittadini e imprese; l’incremento della capacità del sistema delle imprese di godere dei benefici dello sviluppo delle reti informatiche. Finisce per servire a poco il bonus di 80 euro nel rilanciare la domanda se lo stesso viene compensato dall’aumento di altre imposte che, sommate al quadro d’incertezza, spingono i beneficiari al risparmio e non al consumo. Farne una bandiera può rivelarsi poi un boomerang se i risultati non tornano. Dovremmo inoltre ridurre le imposte sulle imprese, ma è irragionevole pensare di poter trovare le risorse per farlo con il pareggio di bilancio anche operando drastici tagli alla spesa che peraltro deprimerebbero ulteriormente la domanda.
Il dovere morale della nostra classe dirigente è dunque mettere la stessa decisione e dedicare le stesse energie profuse per la riforma del Senato nella riduzione dei famosi 50 spread di economia reale tra l’Italia e la Germania (oltre a quelli descritti sopra, inefficienza della burocrazia, costo dell’energia e molti altri). Ma dobbiamo essere consapevoli che neppure fare nel modo migliore possibile i “compiti a casa” è sufficiente. Se lo scalatore Nibali (recente vincitore del Tour de France) e un passista decidono di fare una passeggiata in bicicletta, per tenere insieme il gruppo è ragionevole trovare un terreno intermedio piuttosto che fare la scalata dello Stelvio. E se il passista (l’Italia) con l’ottimismo della volontà pensa di poter fare rapidamente un po’ di gamba e recuperare il gap con Nibali (la Germania) allora la colpa del sicuro fallimento è solo sua.

Il sistema dell’euro appare oggi profondamente squilibrato, costruito ad hoc per portare benefici per i Paesi del Nord e deve essere urgentemente riformato per evitare una deriva sempre più grave. La moneta unica in Paesi a diversa velocità genera asimmetrie commerciali tra nazioni in surplus e nazioni in deficit consentendo a questi ultime di aggiustare la situazione unicamente con riduzioni salariali che deprimono ulteriormente la domanda interna. Tra i fattori che possono aiutare a trovare una soluzione ci sono una politica monetaria della Bce più espansiva, una maggiore armonizzazione delle politiche fiscali, penalità simmetriche per i deficit e i surplus commerciali. Infine, l’introduzione graduale di un sussidio europeo di disoccupazione, che sarebbe un importante stabilizzatore automatico in grado di rilanciare la domanda nei Paesi in crisi.

Se ne è cominciato a discutere, grazie all’iniziativa italiana, all’ultimo incontro informale dei ministri del lavoro della Ue a Milano ma siamo ancora lontani da una possibile attuazione. Approfittando di questo momento particolare, in cui l’abbondante liquidità mantiene bassi i tassi, si dovrebbe poi aprire subito un dibattito sulla ristrutturazione morbida dei debiti pubblici dei Paesi Ue attraverso uno dei tanti meccanismi proposti negli ultimi tempi.

La qualità della nostra classe dirigente e il giudizio degli elettori sul governo si misurerà nei prossimi anni sulla capacità di progredire efficacemente nelle direzioni sopra indicate in Italia e in Europa. Se, come è purtroppo prevedibile, nessuno avrà interesse ad alzare il tono dell’allarme e della sfida fino alla prossima crisi finanziaria, dovremo aspettarla per poter vedere forse, una volta messi con le spalle al muro, la realizzazione di alcuni di questi punti.

Il costo delle riforme mancate

Il costo delle riforme mancate

Luca Ricolfi – La Stampa

La lezione è semplice. Renzi ha la testa dura, ma i numeri hanno la testa ancora più dura. Sbeffeggiata dal premier fino a pochi giorni fa, l’economia si sta riprendendo un’amara rivincita. L’Istat ha annunciato che l’Italia è di nuovo in recessione (altroché ripresa nel 2014!), lo spread ha ricominciato a salire, la fiducia nell’Italia è gravemente compromessa sia sui mercati finanziari sia nelle cancellerie europee. Dopo aver trattato con sufficienza chi considera importante qualche decimale in più o in meno, ora Renzi può toccare con mano che è vero l’esatto contrario: crescere o invece decrescere dello 0,2% fa differenza, avere un debito pubblico in diminuzione o in aumento fa differenza, entrare in recessione piuttosto che uscirne fa differenza. Una differenza enorme.

Dal momento che è da gennaio, ossia da ancor prima che Renzi disarcionasse Letta, che insisto sull’imprudenza delle scelte di Renzi, oggi vorrei provare a lasciarlo in pace. Non è tempo di recriminazioni e di impietosi «io l’avevo detto». Quello su cui vorrei soffermarmi, semmai, è l’ambiente in cui Renzi e i suoi fedeli operano, dove per «ambiente» intendo il complesso di credenze, convinzioni, abiti mentali che finora gli hanno reso così facile procedere come uno schiacciasassi. Sono esse, a mio parere, le vere responsabili dell’incapacità dell’Italia di risollevarsi; sono esse il male che neutralizza (o «gattopardizza», direbbe Alan Friedman) ogni vero cambiamento; sono esse l’acqua in cui il pesce Renzi nuota. Di che cosa è fatta l’acqua in cui, come un banco di gagliardi tonnetti, si muovono i nuovi governanti?

Il primo ingrediente è la credenza che il cambiamento delle regole generali (legge elettorale, forma di governo, tipo di federalismo), un’attività in cui politici, giornalisti e diversi tipi di intellettuali si trovano tremendamente a proprio agio, sia più importante della bassa cucina delle politiche economico-sociali. Che bello discutere di bicameralismo, Senato elettivo o non elettivo, democrazia, rappresentanza, soglie, preferenze, sbarramenti e premi di maggioranza! Che barba la spending review di Cottarelli, le regole del mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, le privatizzazioni, le pensioni! Qui c’è un’incredibile leggerezza e confusione, come se su una nave che affonda, con i passeggeri che si dibattono fra i flutti, le scialuppe di salvataggio che non bastano a recuperare tutti, il comandante stesse appassionatamente discutendo come sostituire la vecchia radio di bordo con un modernissimo, e sicuramente utilissimo in futuro, sistema di navigazione satellitare.

Il secondo ingrediente, spesso imputato a Tremonti ma evidentemente molto radicato nella mentalità del Paese, è l’idea che buona parte dei nostri guai economici vengano dall’esterno e che, di conseguenza, anche la nostra salvezza sia destinata a venire da fuori. È l’Europa che impone l’austerità, è l’euro che è sopravvalutato e frena le nostre esportazioni, è la congiuntura nell’eurozona che è in ritardo. Dunque è la Commissione europea che deve allentare il rigore, è Mario Draghi che deve indebolire l’euro, e quanto alla ripresa si tratta solo di aspettare. Con le parole del premier: «È un po’ come l’estate: non è che è arrivata quando volevamo, magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in ritardo ma arriva» (esercizio: provate a immaginare che cosa sarebbe successo se, dopo 7 anni di crisi, una rassicurazione del genere l’avesse data Berlusconi). Questa visione vagamente fatalistica e attendista, che verosimilmente ha le sue radici nella storia d’Italia, con la sua lunga soggezione a invasori e popoli stranieri, è di per sé un potente fattore di sottovalutazione dell’urgenza e dell’impatto delle riforme economico-sociali. Se, almeno nel breve periodo, quasi tutto dipende da quel che succede nel mondo esterno, se il vero problema è l’Europa, beh allora perché tanta fretta sulle riforme economico-sociali? Meglio dare un segnale di cambiamento (ma i governanti preferiscono chiamarlo «svolta epocale») sul terreno delle regole, sul resto ci si annoierà più avanti. Il guaio è che questa diagnosi è difficilmente conciliabile con i dati. È vero che l’Europa cresce di meno di altre aree del mondo, ma il punto è che le differenze interne all’Europa, comprese quelle interne all’eurozona, sono enormi: la differenza fra i tassi di crescita dei Paesi-gazzella e quelli dei Paesi-lumaca è di 7-8 punti, l’Italia cresce meno della media degli altri Paesi, e la sua posizione in graduatoria è oggi esattamente quella di prima della crisi: solo 2 Paesi su 30 fanno peggio di noi.

C’è anche un terzo ingrediente, però. È il keynesismo di comodo che si impadronisce di chiunque, di destra o di sinistra, si trovi a dover governare il Paese. Che cos’è il keynesismo di comodo? È la convinzione che, nonostante lo stato drammatico dei nostri conti pubblici, la via maestra per far ripartire l’economia sia qualche forma di sostegno alla domanda di consumo, come gli 80 euro in busta paga o l’allentamento del patto di stabilità, non importa se al prezzo di aumentare il debito pubblico, ossia il fardello che lasceremo alle generazioni future. Che questa convinzione sia sostenuta, oltre che dagli interessi elettorali dei governanti, da più o meno sofisticate teorie economiche, poco toglie alla sua radicale mancanza di senso della realtà. Solo chi non ha la minima idea dei problemi di chi conduce un’impresa può pensare che la decisione di chiudere o non chiudere, di licenziare o di assumere, possa dipendere da un aumento dello 0,2% o anche dello 0,5% della domanda di consumo, e non da un sostanzioso recupero di redditività, sotto forma di riduzione del prelievo fiscale sui redditi di impresa. Per questo mettere 10 miliardi sull’Irpef anziché sull’Irap è stata una mossa geniale sul piano elettorale, ma stolta sul piano economico.

E anche qui, non si creda che Renzi sia stato particolarmente innovativo: la stessa scelta, rinunciare a mettere tutte le risorse sull’Irap, fu fatta già da Prodi nel 2007, contro il parere del suo ministro dell’Economia, il compianto Tommaso Padoa Schioppa. E’ una vecchia storia. Ai politici piace spostare risorse, ridistribuire da un gruppo sociale (nemico) all’altro (amico), perché in cuor loro sono convinti che l’ampiezza della torta da spartirsi in fondo non dipenda dalle loro scelte, mentre è vero il contrario: la politica ha fatto molto per soffocare l’economia, e molto potrebbe fare per cominciare a riparare il danno. Ma questo qualcosa si chiama riforme economico-sociali, a partire dalla dimenticata riforma del mercato del lavoro, spostata alle calende greche perché troppo scottante, o meglio troppo divisiva per il Pd. E’ sulle riforme difficili, sulle misure necessarie ma impopolari, che passa il confine fra spavalderia e coraggio, fra la retorica delle «svolte epocali» e la prosa delle scelte che contano.

 Ci sarebbe poi, se vogliamo dirla tutta, anche un ultimo ingrediente che fornisce il suo speciale sapore all’acqua delle non-riforme in cui i nostri governanti nuotano con tanta disinvolta naturalezza. Quell’ingrediente è la nostra facilità a passare da un modello al modello opposto, il nostro bisogno di affidarci a qualcuno, la nostra attrazione per ciò che appare vincente, la nostra perenne oscillazione fra indignazione e indifferenza, fra entusiasmo e apatia. Insomma, lo stato dei nostri media e della nostra opinione pubblica. Ma questo, ne convengo, è un altro discorso.

La strada sbagliata

La strada sbagliata

Alberto Bisin – La Repubblica

E così il Paese è in recessione, dice l’Istat: -0,2% nel secondo trimestre. Non è vero, come ha dichiarato il primo ministro Renzi, che «la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». Cambia moltissimo. Ma è vero che gli ultimi dati Istat poco aggiungono a chiarire la drammaticità conclamata della situazione economica del Paese. L’economia italiana è bloccata e non accenna a ripartire. Ma questo è vero da molti anni, ben prima della crisi, di Renzi, di Letta e di Monti. La verità è che il governo Renzi ha preso in mano una patata bollente e complessa. Lo ha fatto con grande energia mandando segnali contrastanti sulle linee di politica economica che avrebbe intrapreso. Questo ha dato qualche speranza che il governo riuscisse a trasmettere con successo il proprio ottimismo, attraverso politiche nuove ed incisive, anche se necessariamente, in un primo tempo, di portata limitata come gli 80 euro. Segnali positivi in un contesto in cui le economie del resto del mondo stanno iniziando a muoversi possono fare miracoli, dando fiducia e imprese e consumatori. L’effetto segnale si è spento presto però, purtroppo.

Già a fine marzo la prima reazione di Renzi al piano Cottarelli, quella del «come mamma e papà in famiglia diciamo noi cosa tagliare», aveva suggerito che le sue parole sugli interventi dal lato della spesa fossero solo parole, appunto. Il comportamento di Renzi sulla scena europea, l’insistenza sulla flessibilità, aveva poi chiarito (tranne a chi davvero non volesse vedere) che le linee della politica economica di Renzi non si sarebbero discostate dalle vecchie attitudini care al nostro Paese: di nuovo ci sarebbe stata solo spesa pubblica. L’urlo di dolore del commissario Cottarelli, che ha rivelato come il governo stesse spendendo risparmi di spesa previsti futuri ma non realizzati, è stata solo la cliegina sulla torta.

La questione concettuale importante da porsi è perché una prevista politica di domanda aggregata, di nuovi investimenti pubblici (suggerita dalla richiesta all’Europa di non includere gli investimenti nel computo del deficit) non abbia avuto gli effetti desiderati. Vi sono due ragioni, o anche tre. La prima è che la spesa pubblica nel nostro Paese è tradizionalmente inefficiente, di natura clientelare. Intervenire sulla riforma Fornero per regalare a categorie amiche qualche anno in più di pensione, come sta cercando di fare il governo in questi giorni, è esattamente questo, né più né meno. Inoltre, corruzione e scandali connessi ai grandi appalti, dal Mose all’Expo, non aiutano certo a considerare positivi gli effetti economici di nuova spesa.

La seconda ragione è che la spesa pubblica va ripagata prima o poi, attraverso nuove tasse (il canale del debito è strettissimo per ovvie ragioni), e il livello di tassazione nel nostro Paese è così elevato (e concentrato a causa dell’evasione) che nuove tasse sono un suicidio economico. La terza ragione è che politiche di domanda aggregata è quello che l’Italia fa da sempre, da quando erano di moda fino a quando non lo sono state più. I risultati sono davanti agli occhi di tutti e la ragione è che questo tipo di politiche sono fatte apposta per essere distorte dal sistema politico che le usa a dismisura per allargare la dimensione del proprio controllo.

In conclusione, la tanto vituperata e ridicolizzata idea dell’austerità espansiva non è affatto una stupidaggine se qualificata e calibrata all’Italia. Se per austerità si intendono nuove tasse o anche minori spese generalizzate, allora ovviamente non ci si può aspettare espansione economica come conseguenza. Ma se l’austerità prendesse la forma di tagli alle spese improduttive allora la questione sarebbe diversa. Ha voglia il viceministro all’Economia Enrico Morando a dichiarare che «non c’è evidenza empirica» che un’alta spesa pubblica e un’alta pressione fiscale si associno a una bassa crescita economica. Ci sarebbe da ridere se non fosse che su queste interpretazioni dei dati si fa politica economica nel nostro Paese. Provi il viceministro a condizionare alla qualità della spesa e delle tasse e poi riguardi all’evidenza empirica.

Naturalmente è facile a dirsi, tagli alle spese improduttive, ma molto più complesso farli. Per questo la capacità propulsiva del governo Renzi muore con Cottarelli. Perché la reazione violentemente negativa del governo ad un piano serio e ben fatto di spending review non può che essere interpretata come mancanza di volontà di procedere realmente (non solo retoricamente) nella direzione dei tagli di spesa. E allora imprese e consumatori sanno cosa li aspetta: nuova spesa improduttiva e nuove tasse (nascoste in qualche trucco contabile). In queste condizioni ci vuole altro che l’entusiasmo e l’ottimismo di Renzi per farle tornare a investire e consumare. E gli 80 euro appaiono per quello che ovviamente sono al di là della loro capacità di segnalare una nuova direzione di politica economica, una manovra ridicolmente inadeguata e mal congegnata.

Renzi è a un bivio, ha due strade davanti a sé, abbia il coraggio di prendere quella mai utilizzata in passato (tutto il credito a Robert Frost per l’immagine). Non cerchi di far credere al Paese che l’ha presa mentre scorrazza amabilmente e comodamente in quell’altra. I dati di oggi dimostrano che imprese e consumatori non se la bevono così facilmente.

Panico da manovra, l’Istat imbarazza R.

Panico da manovra, l’Istat imbarazza R.

Marco Bertoncini – Italia Oggi

La recessione segnalata dall’Istat non è stata certo ben accolta dalla maggioranza. Il timore diffuso, anche nel governo, è la manovra. Da decenni si procede, talora anche più volte in uno stesso anno, con «manovre correttive» che si traducono in incrementi fiscali, mascherati da ritocchi, rimodulazioni, redistribuzioni, ma nella sostanza consistenti in intacchi al portafogli. Ovviamente se il governo Renzi ricorresse a una manovra, verosimilmente robusta (dell’aumento impositivo si è già servito, ma è sfuggito alla pubblica opinione), addio discontinuità.

In effetti, le reazioni subito emerse nella maggioranza hanno badato a ridimensionare o smentire il ricorso alla manovra. Che ci siano problemi di coperture, tuttavia, è evidente: del resto, parla da sé il recente scontro proprio su buchi nelle casse tra palazzo Chigi, da un lato, e la Ragioneria dello stato col sovrappiù del commissario alla revisione della spesa pubblica, dall’altro.

Sul piano strettamente politico, sarà interessante vedere come reagirà Fi. Sono noti i (pur cauti) tentativi di apertura verso R. da alcuni esponenti del movimento berlusconiano: se gli abbiamo dato un aiutone per riforme e italicum, perché non dargli un aiutino per l’economia? C’è una riserva mentale: aiutiamolo anche per la giustizia, per vedere che cosa ci può essere concesso.

Ovviamente Renato Brunetta ha immediatamente rilanciato le polemiche contro la conduzione economica attuata da Renzi&Padoan. Finora il Cav ha lasciato fare al capogruppo dei deputati nelle sue giornaliere (e tutt’altro che campate in aria) offensive. Le nuove cifre lo spingeranno ad avallare ancor più la campagna specifica contro il governo o, all’opposto, a meditare una possibile intesa?

La recessione e le clausole più favorevoli

La recessione e le clausole più favorevoli

Mario Sensini – Corriere della Sera

Ne avrebbero fatto volentieri a meno, ma né Matteo Renzi né Pier Carlo Padoan si strappano i capelli davanti al brutto dato del Pil. Buon viso a cattivo gioco? Può darsi, ma forse c’è anche un’altra spiegazione. Quel meno 0,2% è la conferma che l’Italia è ancora in recessione. E di quelle «circostanze eccezionali», contemplate dai Trattati Ue, che consentono un allentamento del piano di risanamento dei conti pubblici. Il governo Renzi le ha invocate già ad aprile, per giustificare il maggior debito dovuto al pagamento degli arretrati dello Stato, e per spostare il pareggio strutturale di bilancio dal 2015 al 2016. Sono le stesse «circostanze» che restano oggi, e che anzi si aggravano: la crescita, negativa, sempre molto al di sotto del prodotto potenziale, la scarsa liquidità delle imprese, la necessità di varare imponenti riforme strutturali. Se erano motivi validi ad aprile, a maggior ragione lo sono ora. Quella di un ulteriore rinvio del pareggio è una strada percorribile. Il presupposto c’è, mai in base ai nuovi accordi Ue bisognerà rispettare alcune altre condizioni. La prima è quella di mantenersi sempre al di sotto del 3% del deficit. Poi bisogna rispettare la regola della spesa e quella del debito. Sulla prima non dovrebbero esserci problemi, a patto che i tagli previsti si facciano. Per stare a posto anche con il debito, invece, bisognerà fare alcune dismissioni. Nienete di impossibile, comunque, tenuto conto che la stessa crisi dalla quale l’Italia non esce dopo una raffica mostruosa di manovre correttive (solo quelle fatte dal 2011 a oggi pesano sui conti 2014 per 67 miliardi) è di per sé una buona carta da giocare per avere dalla Ue più flessibilità. Resta, tuttavia, un’ultima condizione, la più importante: il gradimento dei mercati, che al di là dei Trattati, può vanificare ogni strategia.  

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Vittorio Feltri – Il Giornale

Quando si parla di pensioni, in tivù e sui giornali, immancabilmente si prende di mira la ex ministra Elsa Fornero, colpevole, secondo la vulgata, di essersene infischiata degli esodati.

I quali invece sono vittime di un sistema perverso denominato prepensionamento: certi lavoratori si dimettono, incentivati dal datore di lavoro, poi si trovano in brache di tela perché nel frattempo lo Stato ha modificato le regole. Esso ha deciso che non si va più in quiescenza a 63 anni, ma a 68. Di modo che uno sfigato che avesse scelto di collocarsi a riposo in base alle vecchie norme, piomba nella spiacevole situazione di non ricevere più lo stipendio dalla ditta (che lo ha liquidato con fior di quattrini) e neppure l’assegno dell’Inps, in quanto non ha ancora maturato l’età per incassarlo, per effetto delle modifiche nel frattempo intervenute.

Che colpa ne ha la Fornero? Nessuna. Ella infatti si è limitata a varare una legge – da tutti approvata in Parlamento – tenendo conto dei dati forniti dalla Previdenza. Sono sbagliati? L’ente previdenziale si batta il petto.

Negli ultimi tempi, esodati a parte, le cose si sono ulteriormente complicate. L’amministrazione pubblica recentemente si è alleggerita di 260mila dipendenti. E uno è portato a dire: ottimo, tanti stipendi in meno da versare, un bel risparmio. Un corno. Perché un impiegato statale che va in pensione continua a costare allo Stato la stessa cifra: prima riscuoteva lo stipendio, ora incassa l’assegno di quiescenza, e il risultato finale non muta. Sempre soldi pubblici incamera. E così via.

Il problema va affrontato diversamente. Le persone oggi sono più in forma rispetto a 20 o 30 anni fa e possono continuare a prestare servizio sino in tarda età. È da stupidi spedirli a casa quando sono ancora efficienti. Conviene trattenerli e trasferirli, semmai, in uffici carenti di personale e bisognosi di assunzioni. Chi cessa si recarsi al lavoro perché bacucco peserà sui bilanci per qualche anno, poi andrà al Creatore e non costerà più nulla. E chi invece continuerà l’attività fino al limite della vecchiaia si guadagnerà la paga in un settore o in un altro, indifferentemente. È un fatto che il numero complessivo dei dipendenti pubblici vada ridotto al massimo, ma non scaricando gli esuberi sulla cassa pensioni, bensì evitando nuove assunzioni.

Obiezione: e i giovani, a quale occupazione possono aspirare? I mestieri da imparare sono tanti, non esistono solo le scrivanie della burocrazia. In Francia, l’agricoltura è la colonna vertebrale dell’economia, da noi è la cenerentola. Perché? Evidentemente, il contadino, il pastore, l’allevatore, il produttore di formaggi e confetture varie non godono qui di buona fama. È assurdo. Segno che i nostri giovani hanno una mentalità retrograda e non capiscono che lavorare in campagna richiede una cultura specialistica profonda, sicuramente non inferiore dal punto di vista qualitativo a quella di uno che timbra carte e sbriga pratiche allo sportello di un ente (spesso inutile).

Serve una svolta. Occorre passare dal culto della camicia bianca alla gioia del fare. Creare ricchezza e non scartoffie è un’esigenza primaria. Quanto ai pensionati, bisogna selezionare: i minatori (categoria estinta) hanno diritto ad appendere il piccone a 60 anni, ma chi ha maneggiato la penna tutta la vita vada avanti a farlo sino a 68–70 anni. Dov’è il dramma? I calli alle dita? Una volta si diceva: lavorare di meno, lavorare tutti. Aggiornarsi: lavorare di più e fino in tarda età, senza aggravare la spesa sociale che non ci possiamo più permettere. I ragazzi si ingegnino. Emigrino come fecero i nostri padri e i nostri nonni, si inventino nuovi mestieri come noi ci inventammo.

Mi scuso se mi cito. All’inizio degli anni Settanta non esistevano le tivù private. Furono quelli della mia generazione – io compreso – a inaugurare il filone: dal nulla mettemmo in piedi delle antenne. Che all’inizio facevano schifo. Poi ci specializzammo e le emittenti locali spopolarono, fecero fortuna.

Qualcuno di noi guadagnò parecchio, altri – meno bravi o meno fortunati – rimasero al palo, c’est la vie. Il famoso terziario si sviluppò negli anni Ottanta. Prima non si sapeva neanche cosa fosse. Ogni epoca offre occasioni e impone il superamento di vari ostacoli. Darsi da fare è l’unica soluzione. Lo Stato non può e non deve essere una balia. Arrangiatevi, fratelli, nipoti e cugini.

Capitali cinesi

Capitali cinesi

Davide Giacalone – Libero

Non mi spaventano i soldi che i cinesi investono in Italia, mi preoccupano quelli che non investono. E’ curioso che ci si agiti, con animo giulivo o contrito, per l’acquisto di pacchetti azionari di società quotate, ovvero per quello che la proprietà aveva già venduto. Semmai si dovrebbe avvertire che la pretesa di vendere e restare proprietari, esercitata mediante artificiali ostacoli al mercato, già esistenti (come le soglie basse per far scattare l’obbligo di segnalazione) o che si vogliono introdurre (come il voto plurimo in capo a chi è già azionista), è uno di quei sintomi che rivela quanto la globalizzazione venga vissuta come minaccia, anziché opportunità. Tre sono le osservazioni che devono essere fatte, per capire quel che succede e per trarne il massimo vantaggio.

1. Considerato che l’Italia è la seconda potenza industriale e la terza economica d’Europa, le operazioni cinesi (e non solo) d’ingresso nel capitale delle grandi società è largamente al di sotto del nostro peso effettivo. Detto in modo diverso: sono poche e per valori bassi. Rothschild Italia calcola che le operazioni fatte da noi sono state 35, su 400 relative all’intera Unione europea. Segno che l’attrattività del nostro mercato è inferiore alla sua importanza e ricchezza. Sicché, a dispetto di quelli che vanno strillando circa l’ipotetica invasione cinese, il problema è opposto: vanno più altrove che qui.

2. Si deve distinguere fra le operazioni attivate da istituzioni finanziarie e quelle che hanno come protagonisti dei soggetti industriali. Se prendiamo gli acquisti che hanno dato luogo a segnalazioni rivolte all’autorità di controllo (Consob), vediamo che banche cinesi hanno investito in titoli come Eni o Enel. In buona sostanza, sono delle rendite. La banca diversifica il rischio, per conto dei propri clienti e correntisti, acquistando quel che assicura un guadagno. Eni ed Enel non ci guadagnano nulla, sono i loro guadagni ad arricchire gli azionisti. Chiunque questi siano. Poi c’è Fca, la fu Fiat, che è quotata anche in Italia, ma è ardito definire italiana. Investire in quel titolo non significa avviare una conquista, piuttosto scommettere sulla riuscita del disegno industriale, sostenuto anche dal mercato cinese. Telecom è azienda mal messa, da tempo priva di strategia e con investimenti bassi. Comprare significa puntare sulla sottovalutazione del titolo, oppure, più realisticamente, sulla convinzione che l’attuale assetto proprietario non è in grado di reggere. Se si avviasse una scalata, quegli acquisti si dimostrerebbero un ottimo affare.

Poi ci sono gli investimenti industriali: State Grid compra il 35% di Cdp reti e Shanghai Eletric compra il 40% di Ansaldo energia, perché fanno mestieri simili. Potenzialmente sinergici. La cosa singolare è che le vendite che comportano una certa cessione di sovranità (perché essere proprietari esclusivi delle reti di distribuzione energia o esserlo in società con altri non è per niente la stessa cosa) vengono fatte dallo Stato. Sia nella versione Cassa depositi e prestiti che in quella Finmeccanica. Il fatto che ciò avvenga dopo un viaggio in Cina del ministro dell’economia e del presidente del Consiglio può essere casuale. Ma anche no. In quei casi sarebbe stato ragionevole che qualcuno avesse da eccepire. Non è succeso. Se i cinesi (o altri) investono in rendite, quali queste sono, si mettono nella condizione d’importare ricchezza (nostra) senza esportarne (loro). Non è un dettaglio.

3. Le istituzioni finanziarie si muovono seguendo i rating, come pollicino seguiva mollichine e sassolini. Il guaio, serio, è che resta fuori dal tracciato la parte succosa e promettente della ricchezza italiana, fatta d’innovazione e prodotti eccellenti, ma assistita da gracilissima o inesistente finanza: la piccola e media impresa. Come restano fuori gli investimenti infrastrutturali. Se al governo stessero cercando crescita, e non solo soldi, dovrebbero subito approntare una seria collaborazione finanziaria con la Cina (e non solo), destinata a portare l’irrigazione verso il terreno più fertile, ma anche più aggredito dall’aridità. Ci guadagnerebbero i cinesi, perché un fondo di quel tipo avrebbe rendimenti non immediati, ma alti. Ci guadagneremmo noi italiani, perché vedremmo crescere la nostra capacità produttiva e d’esportazione, non solo il bisogno e la voglia di vendere pezzi di proprietà.

Questi sono i denari che non vengono investiti. Questi quelli che mi preoccupano. Questo il lavoro che lo Stato potrebbe fare, senza mettere le mani nel mercato, ma aiutandolo ad avere libere e forti le proprie mani. Se restassero cinque minuti liberi, mentre ci si occupa di nomine nei mille enti misteriosi (quando non del tutto inutili), si potrebbe dedicarli a far nascere una politica di cooperazione finanziaria, capace di trasformare in piante d’alto fusto quei germogli e quei cespugli cui, oggi, si nega luce e acqua. O che se le trovano da soli, sperando di non essere visti.