Edicola – Opinioni

Per risparmiare non serve il commissario

Per risparmiare non serve il commissario

Francesco Forte – Il Giornale

Le dimissioni annunciate di Carlo Cottarelli e pubblicizzate da autorevoli quotidiani non credo creeranno grandi problemi a Renzi. Il compito affidato al commissario era estraneo al suo curriculum di esperto di alto livello di Economia monetaria. Il governo Letta aveva inventato questo incarico privo di precedenti per dilazionare la riduzione selettiva delle spese. Non era in grado di farla perché non voleva toccare le oltre 8mila tra aziende ed enti pubblici in buona parte in perdita o senza utili, in cui i sindacato contano moltissimo, anche perché portano voti per vincere le elezioni. Il governo letta non aveva chiamato a questo compito inedito, che spetterebbe ai ministeri, né un esperto di bilanci e di spese dello Stato, come alla Corte dei Conti, né un economista che avesse vissuto in Italia almeno negli ultimi dieci anni bensì Carlo Cottarelli, che aveva lasciato Bankitalia nel 1988 dopo 10 mesi all’Eni. È di alta caratura ma in un campo diverso, ed è prossimo alla pensione al Fmi. E gli poteva far piacere tornare in Italia. La tesi allora corrente era che non bisognava fare i “tagli lineari” delle spese o degli esoneri fiscali regalati a gruppi di interesse influenti ma uno sfoltimento selettivo di spese chiamata spending review, non “rassegna delle spese” perché il latino è stato sostituito dall’inglese quando si vuole incantare il pubblico.

Cottarelli, a quanto risulta, non ha proposto tagli selettivi negli 8mila enti e imprese. Si è focalizzato su sanità e pensioni, suggerendo per la sanità dei tagli mentre si tratta di adottare i costi standard, procedura che richiede tempo e compete agli specialisti del settore. Per le pensioni ha avuto l’idea di modificare la legge vigente, toccando a quanto pare le pensioni già maturate, il che è contrario ai princìpi dello Stato di diritto. La questione degli “esodati”, invece, sarebbe suscettibile di una analisi selettiva, per accertare quanti contratti di pensionamento anticipato andrebbero annullati perché fatti mente la nuova legge Fornero sulle pensioni veniva approvata e si voleva creare un artificioso diritto a una deroga. Anche le pensioni di invalidità ed altri benefici previdenziali sono suscettibili di “analisi delle spese”. E così pure gli investimenti pubblici in edifici che i governi possono acquistare in leasing con le spese correnti e quelli per cui si potrebbe fare un contratto misto pubblico-privato. La spesa di investimento finanziata dal governo può essere eliminata quotando in Borsa l’impresa pubblica.

Se Cottarelli ha dei dossier sul taglio delle spese oltre a quelle di 7 miliardi giù presentate al governo è bene che lo faccia sapere prima. È agli italiani e agli organi democratici che deve spiegare le sue dimissioni, non è una questione riservata su cui si possa mettere il segreto di Stato. Per ridurre le spese senza bisogno di un alto commissario, il governo può riprendere la spending review del professor Giavazzi, rimasta nel cassetto perché non gradita al Pd e al capitalismo assistito. E può chiedere il sostegno del centrodestra alla riduzione spese su cui Cottarelli dice che c’è un veto della maggioranza attuale. Una riforma del mercato del lavoro fatta dando piena validità dei contratti aziendali e col ritorno alla legge Biagi consentirebbe più crescita, quindi più gettiti con minori tasse.

Tagli, dare più potere al commissario

Tagli, dare più potere al commissario

Franco Bruni – La Stampa

Il governo Renzi ha avuto finora molto appoggio dall’opinione pubblica. Ma ha almeno due debolezze, in parte nascoste da due corrispondenti forze. Nascosta dal gran successo alle europee è la prima debolezza: un supporto parlamentare ancora fragile. Nascosta dal chiaro impeto strategico del suo presidente è la seconda debolezza. L’insufficiente precisione tecnica, la fretta con cui sorvola sui dettagli dei disegni e delle procedure di riforma del Paese, soprattutto dell’economia. Il caso Cottarelli sembra all’incrocio fra le due debolezze: da un lato i tagli del commissario sono boicottati e sprecati da un Parlamento che offre ancora coperture alle lobby, dall’altro il suo lavoro soffre delle carenze, tecniche e procedurali, con cui ne sono stati decisi il mandato, i poteri, i supporti tecnici, e con cui viene curato il suo collegamento con le decisioni politiche. Un commissario alla revisione della spesa non è indispensabile: ma se c’è deve poter lavorare con efficacia.

Cominciamo dai problemi politici. In Italia gli sprechi della spesa pubblica sono talmente grandi che in parte si possono eliminare alla svelta anche senza progetti di riorganizzazione ben definiti. Quando si buttano i soldi dalle finestre basta chiudere le finestre. Occorre però almeno la forza politica per farlo: disboscare le imprese pubbliche e gli enti locali non è tecnicamente difficile, basta che, diversamente a quel che succede ai suggerimenti di Cottarelli, ci sia una maggioranza pronta a vincere le resistenze del bosco. Il terreno politico-burocratico-parlamentare non è pronto a digerire quella rivoluzione dell’economia che Renzi continua giustamente a promettere incontrando il favore dell’elettorato. Lo mostra la grossolanità con cui i risparmi individuati dal commissario vengono destinati alla spesa prima di essere realizzati, usando, oltretutto, la clausola di salvaguardia che dispone, qualora i risparmi non avvenissero, di procurarsi le risorse proprio con quei tagli lineari per evitare i quali è stato chiamato un commissario. Lo mostrano i passi indietro fatti dal Parlamento sulle pensioni, con gravi e costose deroghe alla riforma Fornero. C’è disordine, troppo: il fatto che sia colpa del Parlamento o anche del governo non cambia molto. Renzi non è sul pezzo, in altre importantissime faccende affaccendato, ha chiarito la sua strategia economica ma non pare in grado di presidiare la disciplina delle singole cose che servono per evitare che si cammini all’incontrario.

Veniamo ora ai problemi tecnico-procedurali. C’è una parte dell’eccesso di spesa pubblica che non si elimina tagliando sprechi clamorosi ma dettagliando bene certe riforme strutturali: sanità, scuola, lavoro, enti locali, ecc.. Il risparmio di spesa è parte della riforma. La quale comprende spesso anche la decisione circa l’impiego dei risparmi che consente. Perché è inutile insistere sul fatto che in Italia la spesa pubblica è eccessiva, senza riconoscere che, soprattutto sul fronte investimenti, ci sono tanti capitoli in cui la spesa è troppo scarsa. La giusta riduzione complessiva della spesa non basta per ridurre le tasse più dannose per la crescita. Per abbassare quelle tasse, come quelle sul lavoro, bisogna alzarne altre, riformare cioè l’insieme della tassazione e, soprattutto, ridurre drasticamente l’evasione. Perciò il lavoro di Cottarelli dovrebbe essere strettamente collegato al disegno e all’attuazione di piani di riforma generale dell’economia, pubblica e privata. Ciò richiede, in primo luogo, che i poteri e gli strumenti del commissario siano rafforzati e meglio definiti. È istruttivo il caso del commissario anticorruzione all’Expo: anche Cantone ha dovuto lamentarsi per evitare di essere scagliato allo sbaraglio senza chiarezza nel mandato e nei poteri. In secondo luogo serve che i piani di riforma generale dell’economia esistano davvero e siano tempificati e cifrati credibilmente, nelle spese, nelle entrate e nei risparmi che comportano. Il commissario alla revisione della spesa può anche contribuire ad accelerare la preparazione di questi piani: come semplice tagliatore di sprechi è sprecato.

Per far buone riforme occorre competenza tecnica, precisione e consapevolezza dell’importanza dei dettagli, abitudine non a improvvisare ma a elaborare e controllare procedure e regole da applicare con regolarità. Sono caratteristiche che non mancano a Carlo Cottarelli. E nemmeno gli manca la convinzione politica che deve firmare le scelte tecniche. Renzi ha ragione quando insiste che la politica e le sue scelte devono essere in prima fila. Ma sbaglia se presenta la scelta politica come un obiettivo privo di dettaglio tecnico, se esagera nel tenere politica e tecnica separate, se si circonda di tecnici ai quali non riconosce l’influenza politica che meritano. Cottarelli ha commissionato a gruppi di esperti diversi rapporti su singoli capitoli della revisione della spesa; non ha avuto l’autorizzazione a diffonderli: una mancata trasparenza che è anche mancanza di rispetto per chi ha lavorato, oltre che con competenza, con passione civile e convinzione politica.

È augurabile che Carlo Cottarelli rimanga e, soprattutto, che la revisione della spesa sia inserita con chiare responsabilità nell’apparato tecnico-politico dedito all’approntamento e all’avvio, concreto e ben contabilizzato, di un piano organico e pluriennale di riforme economiche che è l’unica cosa che l’Europa ci chiede per poter guardare al nostro debito pubblico con minor preoccupazione.

Chi ha svuotato la spending review

Chi ha svuotato la spending review

Tito Boeri – La Repubblica

In un Paese ad alto debito pubblico come il nostro, ogni realistico e sostenibile piano di riduzione delle tasse richiede di essere sostenuto da tagli della spesa pubblica di almeno pari importo. Se si vogliono ridurre le tasse di 30 miliardi, occorre tagliare la spesa di 30 miliardi. Bisogna anche tagliare bene, senza pregiudicare entrate future e senza limitarsi a spostare spese da un esercizio all’altro. È un’operazione politicamente costosa, piena di insidie, ma non ci sono altre strade percorribili. Nessuno sin qui vi è riuscito. Nonostante tanti proclami, la spesa corrente primaria continua a crescere, non solo in rapporto al Pil ma anche in cifre assolute: si avvicina sempre più, inesorabilmente, alla soglia dei 700 miliardi. Il compito affidato a Carlo Cottarelli, la cosiddetta spending review, è perciò in questo momento la priorità numero uno per l’azione politica economica di qualunque governo che voglia rilanciare l’economia italiana, un obiettivo non secondario in un Paese che manifesta a tutti i livelli crescenti segnali di un declino apparentemente inarrestabile. I precedenti di analoghe spending review condotte in Paesi con una struttura decisionale più decentrata della nostra (si pensi al Canada, ma anche alla Spagna che ha già attuato un terzo del suo programma) sono incoraggianti.

Il bonus di 80 euro introdotto nelle buste paga da maggio doveva servire a creare una constituency a favore della spending review, mostrando a tutti quali possano essere i suoi frutti: più si taglia, maggiori le riduzioni delle tasse, che non devono a loro volta essere sostituite da altre tasse. Così non è stato. Il Parlamento, complici ministri distratti o incompetenti e nonostante il parere contrario della Ragioneria dello Stato, ha ben quattro volte aumentato le spese invocando come coperture i risparmi futuri associati alla rassegna della spesa. Lo ha fatto con la Legge di Stabilità per il 2014, il decreto fiscale di gennaio, il decreto legge sulla Pa e, dulcis in fundo, la controriforma delle pensioni passata con il voto di fiducia della Camera l’altro ieri. In altre parole, la spending review è stata svuotata prima ancora che potesse cominciare a dare qualche frutto. I primi tagli serviranno a coprire altre spese anziché a ridurre le tasse. Siamo pienamente nel solco di governi che si limitano a cambiare marginalmente la composizione della spesa senza riuscire a ridurla e che modificano la denominazione delle tasse senza ridurre la pressione fiscale, magari aumentandola.

Vogliamo credere che Renzi capisca la centralità della spending review, sia consapevole dell’opportunità unica che gli è stata concessa dall’investitura popolare col voto alle europee e che, al di là di quelle che saranno le scelte personali di Carlo Cottarelli, voglia imparare dagli errori compiuti. In un Paese senza memoria storica è bene ricordare che ci sono stati, dal 2006 in poi, ben tre tentativi di passare in rassegna la spesa pubblica cercando di ridurla, migliorandone l’efficacia e l’efficienza. La spending review era stata il cavallo di battaglia del ministro Padoa-Schioppa, che l’affidò alla Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ctfp) attiva presso il ministero dell’Economia e delle Finanze tra l’aprile 2007 e il maggio 2008. Purtroppo al cambiamento di governo, il lavoro della Commissione fu bloccato. Rimase solo un voluminoso rapporto, che dopo ripetute pressioni su queste colonne il ministro Tremonti si decise a rendere pubblico. Il secondo tentativo è stato compiuto con il governo Monti con l’affidamento a Enrico Bondi del ruolo di commissario alla spending review. C’è stato in quella stagione anche un provvedimento di legge, il d.l. n. 95 del 6 luglio 2012, che ha ereditato il nome di spending review. Ma si tratta, in realtà, di un provvedimento che ripropone la tecnica dei tagli lineari, dunque non ha nulla a che vedere con una rassegna della spesa che porti a tagli selettivi, incentrati sulle aree di spreco e inefficienza. Il terzo tentativo è quello tuttora in atto con la nomina di Cottarelli a commissario alla spending review da parte del governo Letta e la sua riconferma da parte dell’attuale presidente del Consiglio. Cottarelli, al contrario di Bondi, ha passato al setaccio in nove mesi tutta la spesa corrente primaria, sviluppando proposte su tutto. Un grande passo in avanti che rischia però, come si è detto, di essere svuotato del suo significato, mentre non possiamo più permetterci battute d’arresto.

Il tratto comune di tutti questi tentativi è stata l’idea che si possa affidare un’impresa titanica come la spending review a un uomo solo al comando, a un tecnico per quanto di grande valore o anche a un gruppo di tecnici, senza un forte supporto politico. Questo supporto è fondamentale non solo per vincere le resistenze delle amministrazioni coinvolte e delle lobby locali, ma anche perché solo una parte delle misure contemplate dalla rassegna della spesa è di carattere amministrativo. Molti interventi, quelli che fruttano i miliardi anziché i milioni di risparmi, richiedono misure legislative e alcuni anche modifiche costituzionali, come la revisione del Titolo V per riguadagnare controllo delle spese folli di alcune Regioni. E non si può lasciare fuori nulla, tanto meno comparti come pensioni e sanità, fortemente presidiati da rappresentanze di interesse, che contano per il 40 per cento della spesa complessiva. È un’operazione che richiede anche il coinvolgimento pieno della Ragioneria generale dello Stato e un sistema di incentivi e disincentivi per le amministrazioni decentrate, che penalizzi i dirigenti che non cooperano nell’operazione di contenimento della spesa.

Se oggi Renzi vuole essere preso sul serio quando dice di voler tagliare le tasse, andando ben oltre il finanziamento in modo strutturale degli 80 euro, bene che si assuma in prima persona, a tutti gli effetti, la responsabilità di condurre in porto la spending review. È il compito principale di un primo ministro in un Paese indebitato come il nostro. Deve essere lui a risponderne davanti al paese, non un commissario. Non ci interessa leggere i documenti tecnici dei tavoli di lavoro. Ci interessa leggere i provvedimenti che il governo adotterà sulla base di questi materiali. Il vuoto di democrazia è nelle leggi annunciate senza che ci sia un testo, non nei documenti dei tavoli non resi pubblici.

I tecnici servono e vanno scelti i migliori, come Cottarelli, ma solo l’impegno diretto del presidente del Consiglio e quello collegiale dell’esecutivo nel suo complesso può impedire che l’operazione fallisca come in passato. La rassegna della spesa è un’operazione politica, che comporta scelte difficili e dolorose, anche tagli delle retribuzioni nominali, come quelli decisi in Spagna per i professori universitari. Queste scelte competono solo a chi ha ricevuto la fiducia degli elettori.

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Senza tagli alla spesa, o in presenza di un drastico ridimensionamento, la prossima legge di stabilità perderebbe la sua principale fonte di finanziamento, rendendo di fatto impossibile onorare tutti gli impegni in lista di attesa. Si va dalla stabilizzazione del bonus Irpef, ai nuovi capitoli di spesa che sarà necessario affrontare (dal costo delle missioni internazionali al finanziamento di altre spese inderogabili), per finire con gli impegni già contenuti nella legislazione vigente. Dulcis in fundo, la necessità di garantire – come chiede Bruxelles – che il deficit strutturale venga ridotto già dal 2015 in modo da garantire il rispetto dell’obiettivo di medio termine, in sostanza il pareggio di bilancio. La somma dei diversi addendi fa salire l’importo complessivo della manovra d’autunno nei dintorni dei 20 miliardi. E sono almeno 14 miliardi i tagli strutturali alla spesa corrente da realizzare tutti con la prossima legge di stabilità, che salgono a 17 miliardi se si aggiungono gli impegni finanziari già assunti dal governo Letta, quando ancora devono essere realizzati i tagli da 2,6 miliardi inseriti sotto forma di copertura di parte del bonus Irpef per l’anno in corso. La mission che attende il Governo è questa, e la partita si annuncia a dir poco complessa, ora che i dissensi tra il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, Palazzo Chigi e parte del Parlamento sono emersi in tutta la loro evidenza.

Impensabile realizzare interventi di tale portata senza l’apporto decisivo dell’azione complessiva di razionalizzazione della spesa pubblica, che comunque dovrà garantire risparmi strutturali e a regime per non meno di 32 miliardi. Il punto di rottura e il vero banco di prova per la tenuta del governo è proprio qui, su questo terreno, perché va a investire frontalmente scelte politiche (non certo indolori, anche sul fronte del taglio delle agevolazioni fiscali), da adottare e difendere in Parlamento, quando in autunno Camera e Senato saranno chiamate ad approvare un così consistente piano di revisione dei meccanismi stessi che presiedono alla formazione della spesa. Il ruolo di Cottarelli, o di chi sarà chiamato a sostituirlo, è tutt’altro che secondario, e non si limita a un semplice esercizio ricognitivo.

Si tratta – ed è quello che lo stesso Cottarelli si accingeva a fare – di indicare con precisione dove e come far scattare il bisturi dei tagli selettivi. Così da creare di conseguenza gli spazi finanziari per ridurre le tasse sul lavoro. Ma se si esclude – per evidenti ragioni politiche e di consenso – di intervenire in settori nodali come la sanità (materia di intese bilateraili tra governo e Regioni all’interno del Patto della salute), la previdenza (argomento ad alta valenza politico-elettorale), se il disboscamento delle municipalizzate si riduce a una semplice azione di “manutenzione”, dove intervenire? Possibile ipotizzare che si agisca in via esclusiva sul fronte degli acquisti di beni e servizi, settore in cui magna pars è costituita proprio dalle spese sanitarie? Possibile intervenire senza riaprire il dossier dei costi e fabbisogni standard? Se poi – come ha denunciato lo stesso Cottarelli – si prenotano ex ante risparmi ancora da realizzare per finanziare nuova spesa corrente (la cosiddetta «quota 96» per 4mila insegnanti), il vero rischio è che la stessa mission della spending review venga vanificata, aprendo di fatto la strada alla vecchia, abusata prassi dei tagli lineari. Ecco perché il vero nodo è tutto politico, e non sarà agevole districarlo. Sono interrogativi che andranno sciolti in fretta, la cui soluzione va oltre la «questione personale» che sta dietro il caso Cottarelli, come definita ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. L’impegno – fa sapere Delrio – è a continuare sulla spending review «senza nessun problema. È un obiettivo del governo e non dipende dalle persone che la conducono». E il premier Matteo Renzi aggiunge: la spending si farà anche senza Cottarelli.

Il punto è che dal lato del deficit non vi sono margini. In attesa che l’Istat renda noti, il prossimo 6 agosto, i dati relativi al Pil del secondo semestre, al ministero dell’Economia si stanno già facendo i conti con una previsione di crescita che – se andrà bene – risulterà almeno dimezzata rispetto alle stime del Def di aprile (0,8%). Ne consegue che il deficit nominale scivolerà di fatto verso il limite massimo del 3%, contro il 2,6% previsto in primavera. Ogni ulteriore sforamento imporrebbe il ricorso a una manovra correttiva dei saldi di finanza pubblica, che a ottobre con ogni probabilità dovrebbe concretizzarsi in aumenti d’imposta. Ipotesi da scongiurare, per non aggravare ulteriormente gli andamenti attuali dell’economia reale. Scenari che impongono massima vigilanza e determinazione, anche nel caso in cui possa venire in soccorso una minore spesa per interessi grazie al calo dello spread.

Meglio tardi che mai. Non è Cottarelli ad aver sbagliato, è fallimentare l’idea stessa di un commissario alla spesa pubblica

Meglio tardi che mai. Non è Cottarelli ad aver sbagliato, è fallimentare l’idea stessa di un commissario alla spesa pubblica

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non ne sentiremo la mancanza. Se è vero che “mister spending review”, alias Carlo Cottarelli, lascerà l’incarico per riapprodare al Fondo monetario, da dove proveniva prima che qualcuno avesse la fessa idea di chiamarlo a sforbiciare la nostra spesa pubblica, inefficiente prima ancora che eccessiva, trattasi di una buona notizia. Anzi, potrei dire meglio tardi che mai, visto che a marzo in questo stesso spazio scrissi una sorta di lettera aperta a Renzi suggerendogli di “rottamare” il commissario alla revisione della spesa come primo costo da tagliare. Ma non per Cottarelli, che non conosco personalmente e nei confronti del quale non ho alcuna riserva tranne quella derivante dal fatto che a suo tempo avesse accettato un siffatto incarico. Anche perché non fu Renzi ad aver avuto la cervellotica pensata di nominare un commissario che con un lanternino si mettesse a cercare eccessi di spesa e di sprechi – sia chiaro, non per i 258mila euro del suo emolumento, che queste sono le miserie populiste cui si attaccano coloro che non hanno idee in zucca – e dunque decidere che a dover essere rottamato non è Carlo Cottarelli ma la figura stessa del commissario non rappresenterebbe per il presidente del Consiglio alcuna forma di autocritica (pratica cui non sembra avvezzo).

Il vero problema, infatti, sta nell’aver immaginato che il governo potesse delegare il compito di ridurre e riqualificare la spesa pubblica – perché di entrambe le cose c’è bisogno, in Italia – a un soggetto privo di rappresentanza e responsabilità politica. E non solo perché ciò denuncia la tendenza della politica a sfuggire ai propri obblighi, cosa che contribuisce in modo devastante al processo di delegittimazione delle istituzioni già in atto, ma anche e soprattutto perché non è così che si ottengono i risultati che si dice di voler perseguire. La spesa pubblica è stata per decenni ed è tuttora il perno intorno a cui ha ruotato buona parte dell’economia italiana e su cui si è retto l’equilibrio sociale del Paese. Ora, renzianamente parlando, il sistema va “rivoluzionato”, e ciò si ottiene solo con le riforme strutturali, non con la ricerca dello spreco qui e della corruzione là, importante nella comunicazione politica ma del tutto secondaria nella realtà macro dei fatti. La rivoluzione non si fa tagliando il numero di auto blu e mettendone qualcuna all’asta. Tantomeno si realizza con i tali lineari, che incidono carne morta e viva allo stesso modo. Anzi, l’obiettivo primario non è neppure la riduzione della spesa bensì le riforme di sistema. Nel senso che quei 7-8 punti di spesa sul Pil di cui dovremmo liberarci diventano conseguenza delle riforme stesse. Le quali non possono che essere concepite e realizzate da governo e Parlamento. Anche perché altrimenti si finisce con scrivere manovre di bilancio che prevedono riduzioni di spesa immaginarie. Come i 14 miliardi ipotizzati per il 2015, di cui non si vede neppure l’ombra.

Prendiamo la previdenza, che nella classifica della spesa è al primo posto. Non va bene che eventuali tagli alle pensioni siano immaginati per ridurre la spesa corrente in modo da far rientrare nei pagamenti il deficit, perché l’equilibrio della spesa previdenziale deve essere calcolato nel lungo periodo. Né tantomeno ha senso che interventi, anche piccoli e una tantum, siano oggetto di spending review – come quelli indicati nello stesso studio presentato da Cottarelli al governo – perché non possono e non devono essere concepiti al di fuori delle sedi istituzionali proprie.

Altro esempio: la sanità, che è al secondo posto in classifica. Ora il commissario può anche scoprire che il posto letto o la siringa in Calabria costano molto di più che in Lombardia, ma la questione va affrontata alla radice a monte. Ha senso che esistano venti sanità diverse? Ha funzionato il passaggio delle competenze alle Regioni, visto che ben sei sono commissariate e almeno altrettante dovrebbero esserlo? No. E allora si faccia la (contro)riforma del Titolo V avendo il coraggio di riportare in capo allo Stato centrale una spesa regionalizzata che in molti casi è del tutto fuori controllo. E già che ci siamo, semplifichiamo un decentramento amministrativo elefantiaco che produce burocrazia e corruzione. L’obiettivo è ridare efficienza alla macchina amministrativa e ripensare il fallimentare Sistema sanitario. Ma vedrete che, come conseguenza, avremm anche un risparmio di spesa, a regime, di almeno 100-120 miliardi. Un lavoro che non può essere affidato ad alcun commissario, neppure fosse il miglior tagliatore di costi del mondo e per di più lavorasse gratis.

Dunque, Renzi approfitti dell’addio di Cottarelli per cambiare strada. Anche perché, se non gli riuscirà di andare a elezioni in autunno – cosa difficile, anche se i maghi del filibustering ce la stanno mettendo tutta per dargli una mano – gli toccherà fare una manovra correttiva prima di fine anno che non potrà certo essere fatta di maggiori entrate fiscali da lotta all’evasione e minori spese da spending review. Non se le beve più nessuno.

Non farsene una ragione

Non farsene una ragione

Giuseppe De Rita – Corriere della Sera

Tempo fa per andare oltre chi dissentiva o si allontanava da lui, Matteo Renzi usò un orgoglioso e definitivo «ce ne faremo una ragione». Sapeva che avrebbe ripetuto altre volte quella frase, ma certo non si aspettava che essa sarebbe diventata una ricorrente litania nazionale.
Se la ripresa, l’occupazione e i consumi non tornano a crescere, ce ne faremo una ragione; se crescono il «nero», l’economia sommersa e l’evasione fiscale, ce ne faremo una ragione; se non riusciremo a comprimere il nostro debito pubblico, ce ne faremo una ragione; se la tecnoburocrazia europea ci prospetterà una qualche forma di rigoroso commissariamento, ce ne faremo una ragione; se dovremo accettare l’influenza di poteri forti e trasversali (europei e globalizzati, cinesi e tedeschi, bancari e telematici, ecc.), ce ne faremo una ragione; se la classe dirigente risulterà sempre più inadeguata, ce ne faremo una ragione; se per effetto di alcune riforme non avremo più Camere di commercio, Province, Comunità montane, Prefetture, ce ne faremo una ragione; se vinceranno le riforme di verticalizzazione del potere, ce ne faremo una ragione; se la questione meridionale uscirà dall’agenda del Paese, ce ne faremo una ragione; se qualche nostra impresa storica prescinde dall’Italia, ce ne faremo una ragione; se aumenta l’entità delle immigrazioni (un lago ormai, non un flusso) ce ne faremo una ragione; se il nostro sistema continua a occupare gli ultimi posti nelle graduatorie internazionali di modernità ed efficienza, ce ne faremo una ragione.
Chiunque frequenti giornali e televisione potrebbe aggiungere altre situazioni esemplari, magari con qualche nobile negazione o correzione; ma nel complesso resta l’impressione di una società ironicamente apatica, quasi che le cose che ci capitano siano più grandi di noi, non contrastabili dalla nostra cultura, per cui rifuggiamo da un atteggiamento proattivo ed esprimiamo un realistico adattamento.
Si può quindi arrivare alla ipotesi che la frase di Renzi citata all’inizio non sia l’avvio di un’onda di moda, ma piuttosto la messa in circuito di un diffuso impotente disincanto. Forse il declino della lunga cavalcata del «fai da te» (che ha per decenni fatto da base allo sviluppo italiano) ha lasciato il campo a una forma sbiadita ed estenuata di soggettività individuale, che diventa un rinserramento in se stessi e un’apatica indifferenza, molto lontana da quell’orgoglio di essere artefici del proprio destino che ci ha supportato nel recente passato.
C’è spazio per invertire questa tendenza e riproporre quell’orgogliosa catena di impegni che ci ha fatto grandi nella seconda metà del secolo scorso? Non c’è dubbio che la giovinezza orgogliosa di un premier e la sua voglia di essere artefice solitario dei comuni destini sono un input giusto per far capire cosa si voglia anche dal sentire della gente. Ma di solito la gente non vede come proprio obbligato paradigma l’impeto di chi comanda, preferisce delegare, stare a guardare, aspettare, sommergersi in una moltitudine adattativa e deresponsabilizzata. È una prospettiva forse più grave degli avvisi di calamità che si rincorrono in queste settimane. E sarà anche più difficile farsene una ragione.

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Mariastella Gelmini – Libero

Le previsioni sull’economia italiana segnalano un autunno di burrasca e le parole del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, devono essere motivo di riflessione per tutti. Non sono che l‘ultimo campanello di allarme. La prospettiva di una manovra autunnale è reale, è particolarmente preoccupante alla luce dell’affaticamento economico del Paese. Dopo il governo Berlusconi, l’ultimo scelto direttamente dagli elettori, i tre successivi hanno fatto manovre per quasi 90 miliardi di imposte. Nello stesso periodo prima l’allora ministro Giarda, poi un manager di valore come Enrico Bondi, quindi Cottarelli, che ha guidato il dipartimento di finanza pubblica del fondo monetario, hanno lavorato al cantiere della «spending review».

Il bilancio dello Stato é una cosa tremendamente complicata, ci vuole una vita di studi per venirne a capo, molto spesso ministri e governi sono spettatori passivi rispetto alle dinamiche di spesa. Per questo, è stato giusto ricorrere all’esperienza di tecnici preparati. Ma il risultato, davvero poco confortante, è che se alcuni tagli, peraltro minimi, alla spesa sono stati individuati, sin ora non e stato tagliato neanche un centesimo. L’Italia ha una spesa pubblica, al netto degli interessi, di poco superiore al 50% del Pil. Ogni volta che sentiamo interessi di parte chiedere più risorse, ogni volta che ascoltiamo autorevoli colleghi parlamentari tuonare contro il pareggio di bilancio e il fiscal compact, ogni volta che qualcuno paventa l’ipotetica «ritirata dello Stato» che avrebbe avuto luogo negli scorsi anni, ricordiamoci di questo dato di fatto. La spesa pubblica supera la metà del prodotto interno lordo: neanche nell’Egitto del faraoni!

La Germania ha una spesa pubblica che nel decennio 2002-2012 si è sempre attestata attorno al 44,7%, misurata. In più, negli ultimi anni, quel Paese è vistosamente cresciuto, cosa che noi non abbiamo fatto. Potrebbe quindi permettersi, per così dire, più spesa pubblica. Il che è invece, oggi, al di là delle nostre possibilità.

Interventi incisivi e fruttuosi sulla spesa pubblica vanno fatti «per cassa», devono cioè produrre benefici immediati in termini di deficit e, nel medio termine, sul debito. Quando ero ministro dell’Istruzione sollevai il problema di uno squilibrio di spesa in quel settore. A parte la scarsità di risorse, posi una questione di fondo rimasta ancora senza risposta: quale tipo di istruzione e di crescita civile può assicurare un Paese se l’80% delle risorse se ne vanno in stipendi e soltanto il 20% in infrastrutture, manutenzione e investimenti? Quella situazione non riguardava e non riguarda soltanto quel dicastero. Si pensi alla Sanità dove, con l’eccezione di alcune Regioni del Nord, la spesa è assorbita per il 75% dagli stipendi (nel Sud si arriva fino all’85-90%).

Renzi pensa alla staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Si è chiesto a carico di chi andranno le maggiori spese? Quali saranno i costi? Per ridurre sensibilmente la spesa pubblica, vanno almeno chiarite due questioni di metodo e di merito, sulle quali purtroppo nessuna rassicurazione ci giunge da questo governo.

In primo luogo, proprio per quanto scrivevo poc’anzi, per ridurre la spesa pubblica serve una buona riforma della Pa. Una buona riforma della Pa è una riforma che ne riduce i costi. L’attuale esecutivo parla di riforma della Pubblica Amministrazione eludendo sapientemente il tema dell’impatto economico. È probabile che la nostra Pa abbia bisogno di assorbire nuove persone e nuove competenze. Ma in assenza di un disegno di razionalizzazione, non si tratta di altro che di un disegno fanfaniano di «occupazione» dello Stato.

In seconda battuta, la spending review non può prescindere da un’altra questione, alla quale il governo Renzi ha messo la sordina: le privatizzazioni. È giusto e opportuno che il presidente del Consiglio ascolti esperti ed economisti, ma la riduzione della spesa è una questione eminentemente politica. La domanda alla quale rispondere è: quanto e quale Stato vogliamo? Che cosa desideriamo che faccia, lo Stato? Che cosa altri possono fare meglio di lui? E sotto questo profilo, è del tutto illogico considerare revisione della spesa e privatizzazioni come questioni del tutto indipendenti l’una dall’altra.

Le riforme istituzionali sono importanti, noi siamo i primi a crederlo, è un merito di Renzi averle messe al centro del dibattito. Ma il silenzio del presidente del Consiglio, altrimenti assai loquace, su questi temi ci lascia sospettare che egli non abbia un pensiero in merito. O perlomeno che non abbia una maggioranza, in grado, quel pensiero, di seguirlo e sostenerlo.

Si vince o si perde tutti insieme

Si vince o si perde tutti insieme

Alfonso Ruffo – Il Sole 24 Ore

Se tutto va bene siamo rovinati. Cinquant’anni di politiche straordinarie, speciali, di vero o presunto favore, sono stati gettati al vento da una crisi che nel Mezzogiorno dura da sei anni senza interruzioni, promette di resistere anche per i prossimi due e viene paragonata alla Grande Crisi che negli anni Trenta del secolo scorso atterrì l’America. Il risultato è che il divario tra il Nord e il Sud riprende ad allargarsi facendo dell’Italia il Paese con l’economia duale più marcata al mondo, con differenze così forti da un luogo all’altro da rendere la media nazionale un puro dato statistico. Insomma siamo in presenza di due realtà economiche diverse e distanti. Il Rapporto Svimez presentato ieri è in proposito molto eloquente: «Sei anni di recessione ci lasciano un’Italia ancora più divisa e diseguale». Insomma, il Mezzogiorno affonda porta in basso con sé un Centro-Nord che avrebbe ripreso a galleggiare nonostante il perdurare dei marosi. Si spiega così come sia possibile che l’economia italiana nel 2013 sia stata battuta in peggio in Europa solo dalla disgraziata Grecia e dalla piccola Cipro. Le regioni meridionali si avvitano in un circolo vizioso che rischia compromettere qualsiasi capacità di ripresa per una vera e propria dissoluzione della base materiale della crescita come il crollo degli investimenti, in particolare di quelli industriali che risultano dimezzati, fa ragionevolmente temere. La Svimez parla senza mezzi termini di eutanasia.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: i due terzi dei nuovi disoccupati si concentrano al Sud dove i posti di lavoro precipitano al livello di quaranta anni fa e solo un giovane su quattro trova impiego. Il prodotto pro capite torna alla consistenza del 2003 nonostante il progressivo calo degli abitanti. I consumi vanno a tappeto. E non solo quelli voluttuari, come sarebbe naturale, ma anche quelli di prima necessità come gli alimentari. Non è un caso che sia raddoppiato il numero delle famiglie cadute in povertà. Cala la spesa per l’istruzione e per la cura della persona con particolare evidenza su scarpe e vestiti. Chi può abbandona il campo. Sono sempre di più i giovani capaci che lasciano i luoghi di origine e cercano fortuna altrove. Naturalmente non mancano le dovute eccezioni, imprenditori coraggiosi piantati al Sud ma abituati a confrontarsi col mondo; pronti a innovare, sperimentare, conquistare spazio e fatturato. Non hanno nulla da invidiare ai colleghi di qualsiasi parte del globo ma per esistere sanno di diversi sacrificare più degli altri. La preoccupazione è seria. Tanto più che l’interdipendenza tra le due parti del Paese, tra il Sud che sembra afferrato dalle sabbie mobili e il Nord che vorrebbe rimettersi a correre, è più forte di quanto si possa immaginare dal momento che il 75% della produzione settentrionale è ancora rivolto al mercato interno. Il destino dell’Italia è uno. Si vince o si perde tutti insieme. Sullo sfondo ci sono sempre e ancora i fondi europei della vecchia e nuova programmazione che le Regioni dovrebbero imparare a usare bene per migliorare la dotazione d’infrastrutture, materiali e immateriali, e innalzare la capacità di competere.

Ci possono essere stimoli che sanno essere rigorosi

Ci possono essere stimoli che sanno essere rigorosi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Stop all’austerità, sì alla crescita: è il motto dei referendum per abrogare parti della legge che attua il principio costituzionale del pareggio di bilancio. Iniziativa per più versi singolare: non è impresa da poco raccogliere le firme; è controverso che sia “referendabile” una legge approvata con speciali modalità; il pareggio di bilancio è da sempre una bandiera della destra e tra i proponenti ci sono persone che della destra sono stati esponenti di rilievo. E soprattutto si vogliono togliere obbiettivi di bilancio più gravosi di quelli europei: ma non era l’Ue a strangolarci?
Non è austerità il pareggio di bilancio: anche la nuova formulazione, dopo che quella del vecchio art. 81 aveva consentito il formarsi di uno dei maggiori debiti al mondo, consente elasticità per tener conto del ciclo. Il trattato di Maastricht ne fissa il limite nel 3% del Pil, oltre scatta la procedura di infrazione: rispettare quel limite di elasticità viene chiamato austerità. Quanto al debito, doveva essere il 60% del Pil, siamo a più del doppio, abbiamo firmato un trattato che ci impegna a rientrare in 20 anni: rispettare quell’impegno è chiamato austerità. Certo è diverso ripagare i debiti quando l’inflazione è al 2% e la crescita al 3% reale, o quando inflazione e crescita sono entrambi prossimi a zero. Quindi all’inflazione ci pensi la Bce, alla crescita i governi dell’Europa, rendendosi conto che questa è una crisi da domanda, da cui è possibile uscire con interventi che la stimolino: non riconoscere questa soluzione è “austerità”. Ma siccome fare debiti nuovi per meglio pagare quelli vecchi è un’idea che i creditori potrebbero trovare stravagante, si cerca di trovare come, e a spese di chi, sforare sui vincoli senza far sorgere dubbi. Così Paolo Savona sul Sole 24 Ore, considerando che per noi sarebbe un suicidio obbligarsi a decenni di avanzi primari, propone che l’Italia abbatta il debito vendendo cartelle di una maxiprivatizzazione da 400 mld. Jean Claude Juncker, per avere i voti socialdemocratici, promette di spendere 300 mld in infrastrutture. Ma le privatizzazioni dànno soldi veri solo se chi compera può liberamente disporre dei beni acquistati; per le infrastrutture bisogna che i soldi spesi ritornino come profitti.

È un problema di domanda? In Europa, può darsi; da noi, fuor di dubbio che c’è (soprattutto) un problema di offerta. È da prima dell’euro che abbiamo incominciato a perdere competitività: ci stupiremmo se i soldi dello stimolo venissero spesi a comperare Bmw anziché Thesis? Il divario di produttività verso l’estero varia da settore a settore, con picchi di eccellenza e diffusi ritardi, ma quella totale dei fattori grava su tutta la nostra economia, e dipende molto dalla qualità dei servizi pubblici, nazionali e locali. Misure anticicliche potranno esserci utili, riforme strutturali sono essenziali. Non possiamo confondere. Invece c’è chi ha interesse a farlo: perché così i lamenti per i sacrifici che inevitabilmente le riforme comportano vengono a fare tutt’uno con quelli per l’austerità; e perché gli stimoli per contrastare l’austerità possono essere dirottati a evitare riforme.
Un anno fa, l’Istituto Bruno Leoni aveva pubblicato un’idea per uno stimolo, firmata da Natale D’Amico e Alberto Mingardi. Uno schema preciso: un taglio per tre anni di fila delle imposte sui redditi, finanziato con privatizzazioni di pari entità, 30 miliardi l’anno per 3 anni. Nessuna modifica all’elevato grado di progressività del sistema tributario. Dopo tre anni, l’entità da rifinanziare non sarebbe più di 30 mld l’anno: i soldi, ancor più se non intermediati dallo stato, ma messi direttamente nelle mani dei cittadini, avrebbero prodotto benefici per l’economia e per l’erario, come sostengono i promotori degli stimoli. Nel frattempo ai proventi da dismissioni dovrebbero essersi aggiunti anche i risparmi da spending review. Tanto privatizzazioni da 30 mld per tre anni? Il doppio dell’1% previsto dal governo, ma meno di un quarto dei 400 di Savona. Ci saranno da modificare assetti societari, contratti di lavoro, disposizioni di legge. Garantire la contemporaneità tra ricavi e spese sarà impossibile: ma un programma serio e dettagliato troverebbe orecchie attente. Il vero problema è politico: è sostenibile, è credibile un impegno che si estende su un arco di tre anni? Appare evidente come le riforme istituzionali che riducano le tortuosità del processo legislativo e rafforzino l’esecutivo sono condizione indispensabile per le riforme di struttura. E per superare l’austerità.

Sui conti si gioca la credibilità dell’Italia, pericolose le tentazioni sull’articolo 81

Sui conti si gioca la credibilità dell’Italia, pericolose le tentazioni sull’articolo 81

Alberto Mingardi – Corriere della Sera

È noto che gli oppositori delle riforme istituzionali, versione Renzi, vorrebbero che la Costituzione restasse così com’è. Ma fanno un’eccezione: per l’articolo 81, modificato nel 2011 perché prevedesse l’«equilibrio» fra uscite e entrate dello Stato. Nei giorni scorsi ne hanno parlato in due interviste sia Nichi Vendola sia Massimo Mucchetti. È una battaglia tutta simbolica: la sinistra ci legge una sorta di rifiuto costituzionale del keynesismo. Per la verità, la stessa cosa si poteva dire dell’art. 81 originario, che obbligava a indicare i mezzi per far fronte alle nuove spese. Sappiamo come andò a finire: sul punto, la Costituzione più bella del mondo rimase lettera morta. Il nuovo art. 81 esige l’«equilibrio» di bilancio, ma aggiustato al ciclo economico, da quest’anno. Subito le Camere hanno votato per consentire al governo di disattenderlo. Si può considerare eccessivamente inflessibile una norma che si lascia forzare già al momento del debutto?

Gioverebbe forse ricordare perché, nel 2011, ci si affrettò a riscrivere l’art. 81. La marcia apparentemente inarrestabile dello spread imponeva di dare un segnale circa la serietà delle nostre intenzioni, quanto a riordino della finanza pubblica (seguendo l’esempio dei tedeschi, che per primi hanno costituzionalizzato il pareggio). Il percorso di revisione costituzionale ebbe inizio sotto il governo Berlusconi e si concluse con il governo Monti ed è in coerenza con il trattato detto Fiscal compact. Che il legislatore abbia voluto tenersi le mani libere, si capisce dal fatto che si parla di «equilibrio» di bilancio, più rassicurante del «pareggio». Le norme costituzionali sono materia plastica nelle mani del ceto politico: la «sterilizzazione» dell’art. 81, quest’anno, lo conferma. Cosa pensare, però, di una classe politica così ansiosa di divellere un argine, sia pure tanto debole, alla propria voracità? Che ne direbbero investitori e partner europei? Chi vuole riscrivere l’art. 81 intende affermare il principio della più ampia discrezionalità nella spesa pubblica. Principio che in Italia ha un’antica tradizione e solide realizzazioni: a cominciare dai nostri 2.200 miliardi di debito.