Edicola – Opinioni

Se non ci riesce lei…

Se non ci riesce lei…

Paolo Giacomin – QuotidianoNet

Rossella Orlandi, nuova direttrice dell’Agenzia delle Entrate fresca di nomina, ha messo un’ironica pietra tombale sulle tasse in Italia. Con queste parole: «Io che sono una esperta, ho perso un pomeriggio per cercare di capire che cavolo dovevo fare con l’Imu di casa mia». C’è poco da aggiungere e quel pizzico sono i conti sulla pressione fiscale secondo Confcommercio: il 53,2% al netto del sommerso. Una spremuta record per la zona Ocse resa ancora più aspra dalle difficoltà che da anni cittadini e imprese devono affrontare per pagare quanto lo Stato chiede per i propri bisogni di cassa. Ostacoli impietosamente fotografati dal rapporto “Paying Taxes 2014” elaborato da Pwc e Banca Mondiale: dal confronto tra i sistemi fiscali di 189 Paesi risulta, per esempio, che un’impresa in Italia impiega mediamente 269 ore all’anno per pagare le tasse, contro una media europea di 179 ore. A fronte di un’imposizione fiscale complessiva sulle aziende pari al 65,8% (contro il 41% del Vecchio Continente e peggio di quanto misurato da Confcommercio) spalmata in 20,3% sui profitti, 43,4% sul lavoro e 2% in altri balzelli. Vista la pessima situazione di partenza, far meglio non dovrebbe essere impossibile.

La riforma annunciata da Renzi ha offerto alla Orlandi la ribalta per spiegare novità che dovrebbero rendere l’Erario più civile e gentile con il contribuente. Liquidare le buone intenzioni sarebbe prematuro (e un po’ ingiusto), dubitare del buon esito della rivoluzione fiscale è lecito viste le scottature passate, sperare che sia la volta buona è dolorosa necessità perché è dalle strade del Fisco che passano le possibilità di ripresa: riportando la pressione fiscale a livelli più equi (un taglio di cinque punti in cinque anni?), lasciando un po’ di soldi in più in tasca alle persone sperando si riversino almeno in parte sui consumi. E rendendo il pagamento dei tributi meno incerto e imprevedibile. Perché evadere è reato, pagare il Fisco è un dovere, ma non è tollerabile che in Italia persino il proverbio «Nella vita vi sono solo due certezze: la morte e le tasse» ormai si limiti solo all’unica ipotesi inevitabile: sperando che almeno su quella non arrivino altri balzelli.

Tagli sbagliati se c’è la crisi

Tagli sbagliati se c’è la crisi

Alberto Bagnai – Il Tempo

L’allarme di Confcommercio sulla pressione fiscale merita più di un commento. Certo, in Italia la pressione fiscale è elevata, e lo è anche perché ci sono molti evasori, che commettono reato e vanno perseguiti. Detta questa cosa, sacrosanta, forse banale ma ovvia, evitiamo due errori ideologici. Il primo consiste nel credere che la nostra sia una crisi di debito pubblico, causata dagli evasori, che non pagando le tasse avrebbero fatto lievitare il debito. Le cose non stanno così: i dati mostrano che prima della crisi il debito italiano diminuiva costantemente (-10 punti di Pil dal 1999 al 2007) eppure l’evasione c’era. Il vicepresidente della Bce ha ricordato nel maggio scorso che la crisi è stata causata dall’imprudenza delle banche private, che ora devono essere salvate coi soldi dei contribuenti. La crociata contro il barista che non fa lo scontrino è una delle tante armi di distrazione di massa che i governi stanno usando per nascondere le cause della crisi (un’altra è la «riforma» del Senato).

Il secondo errore consiste nell’affermare che i problemi si risolverebbero tagliando la spesa per tagliare le tasse. Intanto, la spesa pubblica italiana in proporzione al Pil storicamente è in media con quella europea: gli sprechi vanno combattuti, ma non c’è alcuna evidenza seria di spesa «eccessiva». Poi, la spesa pubblica si rivolge comunque all’acquisto di beni privati, quindi è reddito privato. Qualsiasi manuale di economia spiega che in recessione i tagli, pur se accompagnati da diminuzioni di tasse, sono nefasti, perché riducono il denaro in circolazione. Insomma, chiedendo di tagliare la spesa pubblica, Sangalli di Confcommercio chiede anche di ridurre gli incassi dei commercianti. Gli auguriamo di fare sul tema una riflessione più approfondita, prima che la facciano i suoi associati.

Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Giovanni Scanagatta – Il Sole 24 Ore

Il Terzo Rapporto UCID 2013/2014 “La coscienza imprenditoriale nella costruzione del bene comune” (Libreria Editrice Vaticana, 2014) afferma che per il nostro futuro abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa, ma di una Europa diversa. È più che mai valido il vecchio dilemma di Thomas Mann: si riuscirà ad abbandonare l’idea di «un’Europa tedesca» per sviluppare invece una «Germania europea», più aperta alle esigenze degli altri popoli?

I destini dell’Italia e della Germania sono incrociati e i tedeschi sono il nostro primo partner commerciale. Ma un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro più vicino a 1,50 che a 1,00, risponde certamente molto di più agli interessi della Germania che a quelli dell’Italia.

Nonostante queste condizioni ed altre fortemente penalizzanti come il fisco e la burocrazia asfissiante, le nostre imprese riescono ad esportare circa il 30% del prodotto interno lordo, una percentuale simile a quella della Cina.
Dal 2000, la nostra competitività rispetto alla Germania in termini di costo del lavoro per unità di prodotto (clup) è molto penalizzata, in relazione ad una dinamica della produttività molto bassa.

Migliora invece in modo notevole la nostra competitività rispetto alla Germania, se misurata rispetto ai prezzi alla produzione, mediante la contrazione dei margini di profitto che però non è sostenibile nel medio-lungo periodo perché viene intaccato il risparmio di impresa e le possibilità di accumulazione e sviluppo.
Un ruolo cruciale, ai fini della competitività, gioca la qualità delle esportazioni italiane decisamente superiore a quella delle esportazioni tedesche. In questi ultimi anni, il contributo delle nostre esportazioni nette alla crescita del prodotto interno lordo è stato largamente positivo, a fronte di un contributo negativo della domanda interna per consumi e investimenti. Senza il contributo delle esportazioni, la crescita della nostra economia sarebbe precipitata su valori negativi pericolosi.
Di fronte a questo quadro e a quello altrettanto difficile dei paesi del Sud dell’Unione europea, la Germania deve essere più europea e meno rigida sulla moneta e sui parametri di Maastricht, soprattutto quelli fiscali (deficit e debito pubblico rispetto al Pil), per favorire la crescita e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Nel nostro paese il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 40 % e nel Sud il 60 per cento.

Un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro vicino alla parità, darebbe una forte spinta alle nostre esportazioni e alla crescita, senza temere per i prezzi perché ora siamo in deflazione. Per il futuro dell’Europa abbiamo bisogno di leader, come è avvenuto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, con la nascita della Ceca e poi del Mercato Comune, ad opera di statisti illuminati dal cristianesimo come Adenauer, De Gasperi e Schuman. Altrimenti, come stiamo vedendo, prevalgono i burocrati della Commissione europea che ingessano e soffocano tutto con un eccesso di regole e direttive.

Dicevamo prima che i destini dell’Italia e della Germania sono incrociati, anche se gli italiani non amano i tedeschi ma ammirano la Germania, mentre i tedeschi non ammirano gli italiani ma amano l’Italia, come è avvenuto per Goethe e oggi per Angela Merkel che sceglie Ischia per le proprie vacanze. La Germania ha veramente una grandissima responsabilità verso l’Europa. Molti sono coloro che non la ritengono all’altezza del compito: a cominciare dal filosofo tedesco Habermas. Volenti o nolenti, dobbiamo riporre le nostre speranze nella Germania. Se poi la Germania non volesse o non potesse realizzarle, sarebbe un disastro per tutti, a cominciare dai tedeschi destinati a soccombere, ancora una volta, ai sogni di grandezza.

Quando la multinazionale ci fa del bene

Quando la multinazionale ci fa del bene

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Sapete qual è la maggiore impresa italiana esportatrice di prodotti ad alta tecnologia, con circa 10 miliardi di euro? L’americana General Electric, tramite le sue controllate italiane Nuovo Pignone (turbine a gas per centrali e condotte), e Avio (componentistica aerospaziale e aeronautica).

Così Riccardo Monti, presidente della nuova Agenzia-Ice, ha sorpreso una buona parte del pubblico che ieri mattina ascoltava la presentazione del rapporto annuale Ice-Istat “L’Italia nell’economia internazionale 2013-2014”. Sotto lo stesso profilo avrebbe potuto citare anche la italo-francese STMicroelectronics, uno dei maggiori produttori mondiali di circuiti integrati capaci di accogliere le esigenze degli utilizzatori più sofisticati. Del resto l’Istat ci ricorda ogni anno che il 24 per cento delle spese di R&S in Italia e circa il 25 per cento delle esportazioni origina dalle imprese a controllo di capitale estero, le quali generano l’11 per cento del valore aggiunto di industria e servizi.
Un’analisi su quasi 500 acquisizioni estere di imprese italiane negli ultimi 10 anni, commissionata a Prometeia dal viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda e illustrata nella stessa occasione dal suo capo Segreteria Marco Simoni, conferma quanto emerge sistematicamente da studi settoriali e da microdati in diversi paesi, cioè che le imprese a controllo estero realizzano migliori performance di crescita del prodotto e maggiore dinamica occupazionale. L’impatto del controllo estero su imprese a precedente controllo italiano si fa sentire non tanto sull’impianto generale dell’attività produttiva (tipo di prodotti, design, canali di approvvigionamento ecc.) quanto su efficienza gestionale, crescita dimensionale, nuovi mercati di sbocco, solidità e articolazione finanziaria (minor dipendenza dal canale puramente bancario), organizzazione e selezione dei canali distributivi. Dite poco?

Più in generale, l’ingresso del controllo estero nella pianificazione e gestione promuove un più incisivo inserimento nelle cosiddette catene globali del valore, in cui l’impresa acquisita viene spinta a processi di diversificazione e specializzazione con un respiro globale. Un sia pur sommario confronto internazionale negli ultimi anni suggerisce che il Prodotto interno lordo dei paesi che hanno attratto quote maggiori di investimenti dall’estero è cresciuto più della media.
Certo la storia economica italiana recente ha visto casi di acquisizioni dall’estero che, lungi dallo scatenare processi virtuosi, hanno concorso a dimagrire, ridimensionare e talora disintegrare pre-esistenti significative eredità di eccellenze tecnologiche. Eccellenze spesso accumulate sotto l’ombrello delle nostre Partecipazioni statali, poi cedute al miglior offerente, senza alcun disegno di politica industriale, in mancanza di imprenditori nostrani disposti a mettere capitale proprio e scommettere sul loro futuro (come Farmitalia Carlo Erba, Olivetti, Italtel, Telettra, pezzi della chimica fine di Eni e Montedison).

Ma un sano giornalismo non farà mai abbastanza nel contraddire con fatti e opinioni una rozza mentalità, purtroppo abbastanza diffusa anche presso esponenti politici e sindacali mediamente illuminati, e peraltro in palese contraddizione con se stessa, secondo cui bisogna andare in giro per il mondo ad attirare investitori esteri nei nostri territori, ma quando grandi gruppi industriali e fondi di investimento di tutto rispetto si fanno avanti, per subentrare a proprietà familiari italiane ormai indebolite e talora prigioniere di conflitti interni inter-generazionali (magari dopo la terza generazione imprenditoriale), gridano all’invasione dello straniero e alla dissipazione del glorioso “made in Italy”. Quasi che lo straniero fosse dominato da un cinico desiderio di rivalsa, e non dal concreto interesse a valorizzare il potenziale di business ancora non pienamente espresso di quel medesimo “made in Italy”, che da solo è in grado di colmare i gusti dei consumatori, fino a imporre un “premium price” rispetto alla concorrenza che viene dal basso.

Euro forte, la svalutazione da sola non basta

Euro forte, la svalutazione da sola non basta

Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

L’impatto di un eventuale deprezzamento dell’euro sulla nostra economia sarebbe piuttosto ambiguo. Non migliorerebbe necessariamente il saldo di bilancia commerciale facendo aumentare la quantità dei beni esportati e riducendo quelli importati; né permetterebbe alle nostre imprese di aumentare i margini di profitto e accrescere gli investimenti. In tutti i paesi industrializzati storicamente le esportazioni reagiscono poco a un deprezzamento del tasso di cambio. La ragione è che una svalutazione pone le imprese di fronte alla scelta di aumentare le quantità vendute a parità di prezzo in valuta nazionale o di lasciare i prezzi in valuta estera e le quantità vendute invariate, aumentando i profitti in valuta nazionale per ogni unità venduta.

Il trasferimento della svalutazione in una riduzione dei prezzi in valuta estera è generalmente limitato. Il che significa che le imprese esportatrici hanno abbastanza potere di mercato per aumentare i margini di profitto. Sono imprese medio grandi che fanno leva su una competitività basata su brand, qualità e tecnologie e riescono a tradurre in maggior prezzi e margini di profitto i benefici di una svalutazione.
Il tasso di cambio dollaro/euro è cambiato molto poco tra l’inizio della crisi e oggi. Le imprese italiane sono da anni abituate a esportare con un euro forte e nonostante ciò sono riuscite ad accrescere le proprie vendite estere anche in volumi. È comunque un numero limitato di aziende medio-grandi che è riuscito a posizionare i propri beni in nicchie poco sensibili alle oscillazioni del cambio.

Per quanto l’effetto sulle quantità della svalutazione non fosse rilevante ci sarebbe un effetto positivo sui margini di profitto. Ma l’impatto sarebbe concentrato solo sulle aziende che riescano a sfuggire alla competitività di prezzo e non diffuso a tutto il sistema. Inoltre, la ricaduta della svalutazione sui profitti dipenderebbe anche dalla valuta in cui le imprese acquistano materie prime e componenti. Una svalutazione farebbe aumentare la bolletta energetica per tutti. E la produzione di componenti e semilavorati è oramai molto frammentata tra aree valutarie diverse. I benefici derivanti dai prezzi di vendita potrebbero essere in parte o in tutto compensati da un aumento dei costi di produzione.
In sintesi, una svalutazione significa una perdita di potere di acquisto e un impoverimento relativo nei confronti delle altre aree valutarie. A questo costo certo possono corrispondono benefici incerti che non è semplice quantificare. Sperare dunque che la linfa vitale che manca alla nostra crescita economica possa derivare da una svalutazione dell’euro è fuorviante e ci allontana dai problemi veri del Paese.

L’Italia degli imboscati

L’Italia degli imboscati

Maurizio Belpietro – Libero

La Cgil si è accorta che in Italia non c’è lavoro. Meglio tardi che mai: sono anni che il totale delle persone occupate diminuisce, ma finora la situazione non aveva indotto il principale sindacato a uno studio approfondito del fenomeno. Adesso a colmare la lacuna pare abbia provveduto l’Associazione Bruno Trentin, ovvero l’ufficio studi della confederazione rossa. Elaborando i dati Istat, i ricercatori hanno scoperto che dal 2007 ad oggi il tasso di occupazione è passato dal 51,4 per cento al 48,2, ma ciò che è peggio è che il confronto con l’Europa ci dà sotto e di parecchio alla media dei Paesi della Ue. Sette punti e mezzo percentuali ci separano infatti dal tasso di occupazione dell’Eurozona, della quale fanno parte non solo la Germania o altri Paesi del Nord la cui economia fila come un treno ad alta velocità, ma anche Spagna, Portogallo e Irlanda, posti dove la crisi ha colpito duro e il cui tasso di occupazione risulta comunque superiore al nostro.

Già questo basta e avanza a capire che in Italia c’è qualcosa che non va: se infatti meno di un abitante su due lavora significa che uno su due campa sulle spalle di chi un posto ce l’ha, con tutto ciò che ne consegue. In realtà però la ricerca della Cgil non dice tutta la verità, perché ad approfondire la statistica si scopre che non tiene conto delle persone che ufficialmente un posto di lavoro ce l’hanno ma è come se non l’avessero. Si può infatti considerare regolarmente occupato un lavoratore che sta in cassa integrazione da anni? È possibile continuare a far figurare nei censimenti della pubblica amministrazione quei dipendenti di società municipalizzate o servizi regionali che sono stati chiaramente assunti anche se non servono? Insomma, se si togliessero dal 48 per cento stimato dalla Cgil i posti finti o quelli precari, probabilmente in Europa batteremmo ogni record di disoccupazione.

E però oltre a questo forse è il caso di cominciare a parlare di chi il posto di lavoro ce l’ha ma si guarda bene dal lavorare. In questi giorni ha suscitato scandalo un rapporto interno del Comune di Napoli. A Palazzo San Giacomo hanno radiografato il servizio di vigilanza urbana, scoprendo che su duemila guardie municipali in servizio soltanto 900 lavorano. Gli altri non sono imboscati i ufficio, come spesso capita: sono proprio imboscati, cioè assenti. Chi per malattia, chi in permesso sindacale, chi per assistere un parente, chi per assistere gli affari suoi. Risultato, a dirigere il traffico e multare gli automobilisti indisciplinati rimangono meno della metà di quelli che sono pagati per fare tutto ciò.

Può stare in piedi l’economia di un Paese dove uno lavora e l’altro incassa senza lavorare? Può crescere il Pil di una nazionale che avendo più siti archeologici di tutto il mondo messo insieme organizza un concerto, attirando visitatori paganti da ogni dove, ma sul più bello, quando c’è da tirar fuori gli strumenti i violinisti se ne vanno e dicono buonanotte ai suonatori? Eppure questo è ciò che è successo nei giorni scorsi a Caracalla, di fronte a spettatori venuti dall’America per assistere allo spettacolo. Spesso ci lamentiamo delle difficoltà in cui l’Italia si dibatte, registrando anno dopo anno gli insuccessi economici che ci spingono ad avere il minimo della crescita e il massimo delle tasse. Tuttavia, se stiamo in questa situazione, gran parte della colpa la si deve agli italiani. O meglio: a quegli italiani che si imboscano. Perché oltre che un popolo di santi, sognatori e poeti siamo anche un popolo di furbi che appena può se ne approfitta, o per scioperare oppure per non lavorare. In qualche caso evitare di faticare è addirittura diventato un mestiere, ovviamente retribuito a caro prezzo dallo Stato. Non si spiega diversamente l’alto tasso di pensioni di invalidità registrato in alcune zone della Penisola. Possibile che le dieci Province con il più alto numero di invalidi siano tutte concentrate al Sud? Perché a Bolzano gli invalidi superano di poco l’1 per cento della popolazione residente e a Oristano o Nuoro, ma anche a Lecce e Reggio Calabria ci si avvicina al 10 per cento? Difficile pensare che in certe località ci sia stata un’epidemia. Più facile ritenere che lì, come al Comune di Napoli, fra i tanti che marcano visita ci sia un’epidemia di approfittatori. Di gente che ha imparato a godersela a sbafo, alla faccia dell’articolo 18 e di chi davvero ha bisogno di assistenza. Tanto, alla fine c’è sempre qualcuno che paga per tutti.

L’Italia è come l’URSS, solo un collasso potrà trasformarla

L’Italia è come l’URSS, solo un collasso potrà trasformarla

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Il premier si era illuso di poter sistemare il ciclo economico mettendo in tasca agli italiani con redditi medio-bassi 80 euro in più al mese. Ma, quando le aspettative volgono verso la deflazione, non sono gli stimoli di questo tipo, come insegna bene il Giappone, a fare la differenza. Se dopodomani o tra un mese, grazie alla deflazione, potrò comprare a prezzi migliori, allora non spendo oggi ma rinvio la decisione. Matteo Renzi con gli 80 euro ha vinto le elezioni europee ma ha anche, inconsapevolmente, attivato un pericoloso moltiplicatore della deflazione. E adesso con il pil inchiodato in area 0% di crescita e la Bce che non stamperà moneta per venire incontro al problema della deflazione italica, Renzi deve iniziare a occuparsi delle riforme che i mercati e gli investitori si attendono e a breve: mercato del lavoro e art.18; liberalizzazioni delle municipalizzate; abbattimento del cuneo fiscale per rilanciare l’occupazione; una vera e seria spending review; tagliadebito.

Ora l’Italia e i suoi Btp sono ancora una volta nel mirino della speculazione e delle tastiere dei trader internazionali, proprio come nell’estate del 2011. Con due differenze importanti: che stavolta sotto attacco ci sarà solo l’irriformabile Italia e che lo spread non dovrà più schizzare a quota 500 per metterci in ginocchio. Già in area 230/240 scatterà l’allarme rosso che segnalerà i 100 punti base di differenza tra i Bonos di Madrid e i Btp.

Insomma la situazione è molto critica. Soprattutto perché l’Italia dei governi a ripetizione, nessun paese dell’eurozona in crisi ha cambiato quattro governi dal luglio 2011 a oggi come il Belpaese, segnala al resto del mondo che non è riformabile. L’Italia, vista da Londra o da Singapore, appare come un clone dell’Urss. Un sistema pieno zeppo di rendite, più o meno privilegiate, che si sono divorate il bene comune e l’interesse nazionale e che sono più forti, nel loro essere lobby, di qualsiasi tentativo riformista. Le palesi e pubbliche contestazioni dei dipendenti della camera al loro presidente, reo di aver deciso un tetto di 240 mila euro lordi (più i contributi pensionistici dell’8,8%) alla retribuzione, sono l’immagine più plastica della resistenza delle rendite al cambiamento. Un burocrate che ha vinto un concorso e che già guadagna molto di più del governatore della Fed Usa, Janet Yellen, trova ingiustificato che il suo stipendio venga equiparato a quello del presidente della repubblica. Come ai tempi dell’Urss, quando la nomenklatura aveva ogni diritto sulle tasse e i beni altrui. E allora, al pari dell’Urss, solo un collasso sistemico, uno shock esterno definitivo, potrà far arrivare l’Italia nella terra promessa delle riforme. Il percorso poteva essere meno traumatico, ma adesso è bene prepararsi al terremoto.

Una moratoria legislativa per attrarre capitali esteri

Una moratoria legislativa per attrarre capitali esteri

Gianluca Comin – Il Messaggero

L’Italia continua ad essere un Paese attrattivo per gli investimenti esteri. Circa un quinto del prodotto interno lordo viene, infatti, da acquisizioni e fondi internazionali ma ancora poco rispetto a Francia, Spagna e Germania. A tirare il freno a mano alle imprese e istituzioni finanziarie straniere sono quei vincoli che, da sempre, denunciamo e che con fatica il governo Renzi cerca di smantellare: una burocrazia barocca e lenta, una giustizia amministrativa imprevedibile ed una civile interminabile, una legislazione faraonica, l’incertezza dei tempi di autorizzazioni e permessi e una moltiplicazione infinita di poteri di approvazioni e di veto. Ma soprattutto una regolazione incerta e mutevole. Basterebbe infatti che ciascun dirigente pubblico, amministratore centrale o locale con responsabilità o politico in carica provasse, almeno una volta nella vita, a spiegare ad un top manager straniero la complessità del nostro sistema per capire il senso di frustrazione di chi intende avviare una impresa nel nostro Paese.

Non sono mancate in questi anni le analisi, i libri bianchi e le riforme. Tuttavia è ancora sorprendente quanto siamo in larga parte inconsapevoli di questo gap che ci distanzia dai principali competitor europei. L’ultimo rapporto è stato presentato qualche giorno fa dall’American Chamber of Commerce in Italy ed ha il titolo alquanto esplicativo di “Il rischio regolatorio in Italia”. Una analisi certo parziale ma significativa perché effettuata su un campione di medie e grandi imprese che operano in Italia in diversi settori industriali, commerciali e dei servizi. Il quadro che emerge non è che la conferma di quanto assistiamo da anni. La regolazione incide profondamente sulla redditività delle imprese. Più di un quarto delle aziende intervistate ritiene, infatti, che oltre la metà del proprio margine operativo, cioè la capacità di fare reddito della propria impresa, dipende dal quadro regolatorio. Per circa un terzo delle aziende questa quota è compresa tra il 20 ed il 50 per cento. La capacità di influenza delle decisioni legislative e regolatorie è addirittura aumentata nel corso degli ultimi anni ed in particolare dall’inizio della Grande Crisi che ha visto una maggiore attitudine dei governi ad intervenire in economia.

Che l’Italia sia un Paese iper-regolato non è nuovo. Un recente rapporto del World Economic Forum poneva l’Italia al 146° posto su 148 economie considerate (davanti solo a Brasile e Venezuela) per peso della regolazione. E sempre secondo Amcham sono le industrie chimiche e farmaceutiche, seguite da quelle dell’energia e dai servizi finanziari quelle che si ritengono operare in un ambiente «altamente regolamentato e con un rischio regolatorio ai diversi livelli amministrativi». Più della metà degli intervistati ritiene infatti che il peso burocratico derivi soprattutto dalle decisioni prese a livello regionale e locale. Gli esempi possono essere molti: leggi che cambiano, anche retroattivamente, le regole del gioco dopo la decisione di investimento (norme sul fotovoltaico, regolazione del farmaco, affitti pubblici, spending review), variazioni alla legislazione fiscale, norme su permessi ed autorizzazioni.

Per i manager stranieri la frustrazione è alta. Spiegare ai loro headquarter dall’altra parte del mondo la particolarità del sistema italiano è spesso impossibile e così il “rischio Paese” diventa la variabile principale nelle scelte di investimento, ancor più della legislazione sul lavoro o il deficit infrastrutturale. Una frustrazione che emerge dalle risposte alla ricerca dell’Amcham quando ben il 54% dei manager intervistati dichiara di «non essere mai riusciti a influenzare la produzione di politiche nel proprio settore di attività», il 16% solo raramente, il 29% qualche volta. Le aziende straniere, ma anche quelle italiane, riscontrano un problema di accesso al policy maker: 7 su 10 dichiarano che è difficile anche solo entrare in contatto con il governo/regolatore. Ma c’è anche un problema di comprensione da parte del decisore pubblico delle istanze poste dalle aziende. Problema di trasparenza del rapporto innanzitutto, come sottolinea ancora il Wef che pone l’Italia al 140° posto su 148 per «trasparenza del processo di produzione delle politiche e del quadro normativo».

Come aggredire il debito pubblico senza i soliti provvedimenti demagogici

Come aggredire il debito pubblico senza i soliti provvedimenti demagogici

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Mentre Roma discute Sagunto brucia, scriveva Tito Livio diversi secoli or sono. E mai come ora Sagunto è l’Italia che polarizza energie, tensioni, scontri su temi decisamente importanti come la riforma del Senato e più ancora del titolo V (le competenze delle Regioni, tanto per intenderci) ma certamente meno urgenti della messa a punto di una politica economica che metta al centro la ripresa di una crescita economica assente da quasi 20 anni. Ed invece su quest’ultimo terreno emerge da un lato una sorta di non consapevolezza dello stato drammatico dell’economia del paese e dall’altro per l’ennesima volta si affaccia il tema di una manovra correttiva per avere un deficit di bilancio al di sotto del 3 per cento. Sono venti anni che tutti si interessano del numeratore nel rapporto deficit Pil e mai nessuno del denominatore la cui crescita è il vero strumento per risanare stabilmente la finanza pubblica. Allora è bene chiarire subito come stanno le cose per non aggiungere errori ad errori.

Dopo 5 anni di recessione e uno di stagnazione economica la prima cosa da non fare è tagliare la spesa pubblica perché qualunque taglio manda all’economia reale un nuovo imput recessivo. Altra cosa è, naturalmente, la diversa allocazione delle poste di bilancio per recuperare una diversa efficacia della spesa pubblica il cui taglio può, al contrario, avvenire solo quando la crescita si sia consolidata a livelli almeno del 2 per cento l’anno. Se a nostro giudizio non va fatta, dunque, una manovra correttiva per tagliare la spesa pubblica va rapidamente messa a punto una manovra di finanza straordinaria per aggredire il debito e liberare risorse dall’unico bacino disponibile, quello della spesa per interessi forte di oltre 85 miliardi di euro l’anno. Ciò che sfugge al governo e alla maggioranza, ma in verità anche alle opposizioni, è che se anche riuscissimo a restare al di sotto del 3 per cento cosa cambierebbe per l’economia italiana? Nulla. Alla stessa maniera sarebbe un disastro immaginare per un periodo di poter rilanciare l’economia del debito che può essere una soluzione transitoria ma in un paese che non abbia un debito alto come quello italiano (è il caso di molti paesi europei, a cominciare dalla Francia). Basterebbe guardare gli ultimi 20 anni in cui l’Italia si è avviata in un circuito perverso fatto di bassa crescita e di un debito che aumentava in maniera esponenziale senza che nella società vi fossero tensioni sociali come quella vissuta nella stagione del terrorismo e men che meno livelli inflazionistici allarmanti. È tempo, dunque, di cambiare linea e di immaginare una attenzione esclusiva verso l’aumento della crescita, che ha bisogno di risorse nuove capaci di consentire di ridurre la pressione fiscale e contributiva su famiglie e imprese e di accentuare investimenti pubblici concentrati su obiettivi specifici capaci di trascinare con sé investimenti privati a fronte della ripresa di una domanda interna figlia a sua volta di un aumento dell’occupazione.

Il dibattito demagogico di questa settimana parla di tagliare le pensioni al di sopra di 3mila o di 5mila euro mensili, quasi che questo taglio consentisse l’aumento dei trattamenti pensionistici bassi. L’unica cosa che produrrebbe una misura demagogica di questo tipo è che gli italiani sarebbero tutti più eguali nella povertà. L’alternativa coraggiosa, invece, è l’aggressione al debito pubblico accompagnata da misure minori e da nuovi strumenti capaci di accelerare la spesa di investimenti pubblici e di quelli privati per far ripartire la crescita. Proposte in questa direzione sono state avanzate da più parti ma è il governo a dover prendere una iniziativa adeguata. Il superamento del bicameralismo paritario è una linea ormai condivisa ma lungo quella direzione vanno garantiti il rapporto eletto-elettore e un equilibrio tra poteri ma quel tema, lo ripetiamo, importante nel medio periodo per un ammodernamento delle istituzioni democratiche, è certamente meno urgente e può tranquillamente coesistere con una nuova politica economica per evitare che l’Italia, come Segunto, bruci nell’angoscia di una povertà crescente mentre discute di un periodo lontano nel quale il paese rischia di arrivarci con implosioni sociali devastanti.

L’altra faccia del precariato che a volte i giovani non vedono

L’altra faccia del precariato che a volte i giovani non vedono

Roger Abravanel – Corriere della Sera

Che in Italia il precariato sia molto aumentato non è una novità per nessuno. È anche cosa nota che in Italia il precariato sia particolarmente ingiusto, perché la normativa sul lavoro ha creato un «apartheid» – secondo la definizione di Pietro Ichino – tra precari «cronici» (partite Iva, contratti a progetto), soprattutto giovani e donne, e lavoratori garantiti come in nessun altro Paese al mondo – lavoratori maschi di età media che lavorano in fabbriche che si stanno chiudendo in tutti i Paesi sviluppati e nel settore pubblico.

Eppure esiste anche un’altra faccia del precariato: per cento persone che perdono il lavoro ce ne sono 98 che il lavoro lo trovano. Come è possibile? Per capirlo basta analizzare le statistiche dei nuovi contratti di lavoro, per esempio quelle del 2012, quando sono state registrate ben 10 milioni di nuove assunzioni. Molte hanno brevissima durata, 3 milioni sono sotto il mese, ma ce ne sono almeno 2 milioni che durano più di un anno, un numero pari a quello dei lavoratori a tempo indeterminato. In media le persone che trovano lavoro ne trovano due all’anno, e quindi i 10 milioni di assunzioni corrispondono a 5 milioni di persone che cambiano due lavori all’anno.

Nei 5 anni di crisi si è perso 1 milione di posti di lavoro, il che equivale a 4.000 ogni settimana. Dato però che ogni settimana 200.000 persone vengono assunte (10 milioni diviso 52 settimane), vuole dire che per cento persone che vedono terminare il proprio contratto ce ne sono 98 che, invece, trovano una occupazione (200.000 su 204.000). Molte di queste saranno diverse dai 100 che hanno perso il lavoro, ed è anche possibile che alcuni tra questi ultimi non lo ritrovino più.

Ovviamente, per le cento persone che si ritrovano senza un’occupazione, questo è un male: i trenta-quarantenni che rimangono disoccupati non possono pianificare la propria vita, e per i cinquantenni si tratta di una vera tragedia. Ma la stessa situazione non è invece così negativa per le 98 persone che trovano lavoro. Molti di loro hanno perso il proprio impiego solo la settimana o il mese prima e rientrano nella categoria dei «precari a vita», vittime dell’«apartheid» cui si faceva riferimento. Ma molti di costoro tornano a cercare un lavoro per la prima volta dai tempi del loro debutto nel mercato del lavoro: e per questi ultimi si tratta di una vera opportunità. In particolare, questa rotazione dovrebbe aprire grandi opportunità ai giovani tra i 18 e 24 anni, che hanno meno bisogno di pianificare il proprio futuro.

E invece questo non avviene, perché i giovani rappresentano solo una piccola parte di quei dieci milioni di assunzioni che avvengono ogni anno: una parte molto inferiore a quella che dovrebbe essere. Questo avviene perché molti giovani non sono preparati e non possiedono quelle «soft skills» che i datori di lavoro ritengono necessarie: capacità di comunicare, risolvere problemi, lavorare in team e una forte etica del lavoro. La scuola italiana non insegna loro queste abilità. Ciò che avviene, quindi, è che alla fine il datore di lavoro si orienti sull’«usato sicuro» e non assuma i giovani.

I ragazzi e le ragazze italiani che possiedono queste competenze perché hanno avuto la fortuna di studiare in una buona scuola e/o università, hanno lavorato durante gli studi e si sono presentati non troppo tardi sul mercato del lavoro, hanno invece molte possibilità: ma anche loro devono rivedere l’approccio alla ricerca di una occupazione. Devono soprattutto dimenticare lo Stato e le sue agenzie del lavoro – che non funzionano -, oltre alle raccomandazioni di parenti e degli amici. Come sempre, dove lo Stato non funziona subentrano il mercato e l’innovazione. Le agenzie interinali come Adecco e Manpower si sono trasformate in questi anni in veri e propri protagonisti del mercato del lavoro, con un ruolo ben più ampio di quello, più tradizionale, di assumere i lavoratori di cui l’azienda non vuole farsi carico direttamente per risparmiare i contributi e mantenere la flessibilità di licenziarli. Sono dei gestori della vita professionale di un lavoratore capace, che, se si dimostra serio e con le giuste competenze , alla fine, con il loro aiuto, può rimediare un lavoro, anche a tempo indeterminato. Queste agenzie sono infatti diventate dei veri esperti della selezione del personale, perché hanno dei professionisti molto capaci a capire quelle soft skills che per le aziende oggi sono più importanti delle competenze professionali e che non si possono leggere in un curriculum. Eppure molti giovani italiani ancora oggi le considerano solo come agenzie «interinali».

C’è, inoltre, Internet che aiuta a rendere enormemente più trasparente il mercato del lavoro. Per esempio, gli italiani stanno scoprendo i social network non solo per la vita personale, ma anche per quella professionale. Ben 7 milioni hanno messo il proprio curriculum su LinkedIn, una piattaforma digitale che permette a un datore di lavoro di «pescare» un lavoratore navigando nelle rete alla ricerca delle caratteristiche giuste e chiedendo referenze a chi lo conosce. Grazie alla tecnologia, LinkedIn «distruggerà» il mondo delle raccomandazioni all’italiana.

Eppure, di questi 7 milioni i giovani sono una minoranza. Più in generale non sfruttano a sufficienza la Rete, anche se dovrebbero essere avvantaggiati. Preferiscono «usare Facebook per mostrare i propri muscoli o le proprie curve, piuttosto che LinkedIn per trovare un lavoro», dice il responsabile delle risorse umane di una grande azienda italiana. Il precariato è drammatico per molti lavoratori. Ma presenta anche un’ altra faccia che dovrebbe favorire i giovani. Eppure questo non avviene, essenzialmente per colpa del nostro sistema educativo che non li prepara al mondo del lavoro.