Edicola – Opinioni

In Rai non vale il contratto di lavoro

In Rai non vale il contratto di lavoro

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

La Rai è una repubblica a parte. Il dg Gubitosi, che è un gran manager (e lo ha ampiamente dimostrato in aziende che si lasciavano gestire) fa quel che può. Ma è più legato di Laocoonte. I lacci che deve sopportare, non se li è certo inventati lui. È la politica che glieli ha imposti e che adesso deve toglierglieli. A lui o a chicchessia dovesse succedergli. Riuscire a gestire un azienda con quegli impedimenti sarebbe infatti un miracolo. E i miracoli, si sa, non sono degli uomini. La Rai, del resto, è diventata un falansterio che non obbedisce più nemmeno alla logica. Adesso, per esempio, mentre tutti possono constatare che l’ente è oberato di personale in eccesso, la Rai sta bandendo un concorso per assumere un centinaio di nuovi giornalisti, nonostante che il Tg1 abbia in servizio 160 giornalisti, il Tg2 150, il Tg3 130, Rai news 190, i Tg regionali 700 e così via.

In un’azienda normale, oberata di personale a tal punto, si farebbe cassa integrazione (come succede anche ad Alitalia, per non parlare di decine di migliaia di altre aziende di cui non si conosce nemmeno il nome perché non ne parla nessuno). In un’azienda generosa, si terrebbero, con i denti, i posti di lavoro esistenti. Ma in nessuna azienda al mondo, di fronte a un eccesso di personale di questo tipo, si provvederebbe ad assumerne dell’altro. Questo succede in Rai senza che nessuno alzi il ciglio di un’obiezione.

Ma c’è un altro aspetto che dimostra l’extraterritorialità della Rai. Il contratto nazionale di lavoro giornalistico viene disapplicato. Esso prevede (al pari di ciò che succede per i tutti i dirigenti degli altri settori economici) la licenziabilità senza giusta causa (ma con lauto indennizzo, predeterminato) del direttore e del vicedirettore di qualsiasi testata. Questa norma viene applicata da tutti i media italiani. Ma non in Rai, dove il direttore (o vice) esonerato, resta a disposizione, conservando però retribuzione e benefit e dedicandosi, al massimo, a piccole attività paravento. In tal modo il parco dei generali si arricchisce per stratificazione. Il sindacato dice che la non applicazione del contratto si giustifica perché i direttori vengono cambiati quando cambia il governo. Se ciò fosse vero vorrebbe dire che sono i partiti che comandano direttamente la Rai, che è ciò che i sindacati della Rai negano con convinzione.

Brunetta al traino della Lega

Brunetta al traino della Lega

Giuliano Cazzola – Italia Oggi

Caro Renato, tra noi esisteva un sodalizio ultradecennale fatto di amicizia, stime e collaborazione che veniva da lontano fin da quando entrambi militavamo nel Psi. L’amicizia e la stima sono rimaste, almeno per me. Con franchezza devo comunque dirti che trovo singolare che una persona della tua levatura intellettuale, delle tua conoscenza dei problemi e del tuo coraggio politico, abbia aderito di fatto (mi auguro solo per banali ragioni di partito) ai referendum della Lega, inserendo l’abolizione della legge Fornero fra i 6 punti programmatici del futuro centrodestra.

Così sono andato a ricercare nel mio archivio un documento che, a mio avviso costituisce il punto più qualificato della nostra collaborazione: la Nota per una «Maastricht delle pensioni» che preparammo insieme nel maggio del 2003 come «Work in progress» in occasione del semestre di presidenza italiana della Ue. Quella «Nota» – ricorderai certamente – ebbe l’accoglienza che meritava soprattutto per merito tuo che, oltre ad essere un vulcano di idee ed iniziative, possiedi le doti e la fantasia di un grande comunicatore. Ma lo studio era serio e ben argomentato, a sostegno di un progetto forte ed innovativo: affidare all’Unione europea un ruolo di coordinamento delle riforme delle pensioni (una nuova Maastricht, con tanto di parametri da rispettare). Il punto chiave della «Nota» era sintetizzato nella seguente proposta: «Si dovrebbe indicare per ciascuno Stato membro, in relazione al suo modello pensionistico, sia il livello ideale in termini di sostenibilità finanziaria sia di adeguata compresenza dei tre pilastri del sistema previdenziale. Il sistema dovrebbe essere progressivo sulla base di un programma nazionale di adeguatezza, sostenibilità e modernizzazione, corredato da piani annuali che saranno oggetto di analisi da parte della Commissione e sottoposti al Consiglio e al Parlamento europeo».

In quello stesso documento denunciavamo con forza che «le riforme fino ad ore attuate sono caratterizzate da una fase di transizione troppo lunga e da misure ancora troppo generose per le generazioni vicine alla pensione, rispetto ai trattamenti previsti, per le generazioni più giovani, nel momento in cui i cambiamenti andranno a regime. In sostanza, il risanamento del sistema pensionistico avviene in larga misura a spese delle nuove generazioni». Questa fase di transizione troppo lunga è dipesa sostanzialmente dalla difesa ad oltranza delle pensioni di anzianità, la prestazione previdenziale che è alla base degli squilibri del sistema e a cui si deve – lo sai benissimo – una quota consistente del debito pubblico. La riforma Fornero andrebbe difesa soltanto perché ha abolito questo istituto.

Ricordi certamente l’estate del 2011, quando la Bce, in quella lettera del 5 agosto che per me è come la Bibbia, chiese al governo italiano di superare i trattamenti pensionistici anticipati. La Lega si mise di traverso. E il governo Berlusconi fece un altro definitivo passo verso la fossa. Abolire la legge Fornero realizzerebbe un solo obiettivo, che è poi quello a cui aspirano i «padani»: ripristinare l’istituto dell’anzianità consentendo a centinaia di migliaia di persone (nel corso degli anni passati sono stati milioni) di andare in quiescenza da cinquantenni e comunque prima di aver compiuto 60 anni. Ancora nel 2010, l’età media dei pensionati di anzianità era di poco superiore a 58 anni. È vero che nella passata legislatura il governo Berlusconi aveva adottato una misura importante di stabilizzazione del sistema attraverso l’adeguamento automatico dell’età di pensionamento all’evoluzione dell’attesa di vita: misura confermata nella riforma Fornero. Ma quel governo e quella maggioranza non erano stati in grado di suturare la piaga infetta del pensionamento di anzianità.

Maurizio Sacconi, in quell’estate drammatica, aveva provato a mettere in discussione il canale di accesso legato al requisito dei 40 anni di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica (che era la scorciatoia per il pensionamento, in barba allo stesso regime delle quote). Ma quel nostro coraggioso amico venne subissato da critiche disoneste a partire dai tuoi sodali della Lega. E, per favore, non farmi la manfrina degli esodati. Da autorevole deputato e presidente di un importante gruppo (oltreché persona competente) sai benissimo che quel «dramma» è esistito soltanto nei talk show di regime (e negli incubi notturni di Cesare Damiano), perché – compatibilmente con le disponibilità finanziarie – la grande maggioranza dei casi meritevoli di tutela ha trovato adeguate risposte in ben sei provvedimenti di salvaguardia, due dei quali (il secondo e il quarto) sono risultati persino più generosi del fabbisogno, al punto di realizzare dei risparmi che permesso il sesto intervento.

Caro Renato, io mi fermo qui. So benissimo che queste mie parole non sortiranno alcun effetto. Ma so anche di non avere più niente da spartire con la Lega e Fratelli d’Italia. Se ti fa piacere, ti confermo i sensi della mia stima e della mia amicizia. Poiché sono più anziano di te, anche se molto meno autorevole, ti ricordo quanto tu mi hai insegnato. La tattica in politica è importante. Ma come diceva Lady Margaret Thatcher i principi lo sono di più.

Il 28esimo trimestre

Il 28esimo trimestre

Enrico Cisnetto – Il Foglio

È destino. L’Italia si occupa sempre di altro rispetto a quello che sarebbe più urgente e necessario. Ora, per esempio, l’attenzione è morbosamente focalizzata sulla “rottamazione” politico-istituzionale in corso – di cui tra l’altro stiamo ancora aspettando la traduzione delle intenzioni, peraltro non sempre encomiabili, in fatti concreti – mentre, viceversa, troppo poco concentrata sul florilegio di dati negativi che sul fronte della congiuntura economica escono quotidianamente. Ultimi quelli di ieri sulla caduta delle vendite al dettaglio e la diminuzione della fiducia dei consumatori, con ciliegina sulla torta la previsione del Fmi di un pil in crescita solo di tre decimi di punto a fine anno (e speriamo sia quella giusta, visto che per Bankitalia sarà dello 0,2 per cento e per Confindustria sarà “piatta”). Ma, ancor più importanti sono i dati sull’export, cui è stato dedicato un centesimo dello spazio giornalistico riservato alla riforma del Senato o a quella della legge elettorale (entrambe pessime, senza per questo sposare le assurde tesi sulla “dittatura di Renzi”). Infatti, le esportazioni italiane verso i paesi fuori dai confini europei a giugno sono calate del 4,3 per cento rispetto a maggio e del 2,8 per cento nei confronti del giugno 2013, considerato che la flessione annuale è stata particolarmente intensa per i beni di consumo durevoli (-9,7 per cento), l’energia (-5,6 per cento) e i beni strumentali (-4,4 per cento). Questi dati fanno scopa con quelli sulla produzione industriale. A maggio è stato certificato il peggior risultato della produzione industriale da novembre 2012 (con un calo dell’1,2 per cento su aprile e dell’1,8 per cento sull’anno precedente) e il peggior dato degli ultimi otto mesi sugli ordini industriali (-2,1 per cento su base mensile e -2,5 per cento annuo), con un allarmante calo del 4,5 per cento degli ordinativi esteri.

Basta guardare i numeri sciorinati da Francesco Daveri su LaVoce.info per capire la dimensione epocale del fenomeno: fatto 100 l’indice della produzione industriale dell’aprile 2008 (pre-crisi), lo scorso maggio il dato depurato dalle componenti stagionali ha fatto registrare un deludente 74,7. Mancano cioè 25,3 punti di produzione rispetto a prima dello tsunami. Una voragine che non solo non si chiude, ma rischia di allargarsi ulteriormente se anche le imprese che esportano, cioè che stanno sull’unica frontiera che ha retto alla crisi e su cui si può ragionevolmente contare per i prossimi anni, danno segni di cedimento. E quel quarto di capacità produttiva andata perduta – e che è inutile pensare di poter recuperare – è una media, perché ci sono settori in cui la caduta è ancora più forte. Per esempio quello dei beni di consumo durevole (automobili ed elettrodomestici bianchi in particolare) che fanno segnare 63,3 punti, cioè quasi 38 in meno rispetto all’aprile 2008. Ma sotto la media è stata anche la produzione di beni strumentali (per esempio mezzi di locomozione acquistati da imprese, non da consumatori) e di beni intermedi (produzione di componenti). Questo significa che non si fanno investimenti (si rinviano al futuro o si eliminano del tutto) e che le imprese maggiori usano sempre meno l’indotto italiano, preferendo il ricorso alle delocalizzazioni di intere filiere sub-produttive.

Tutto questo con conseguenze disastrose sull’occupazione. Un po’ meno pesanti per i fatturati aziendali, che hanno comunque almeno parzialmente beneficiato delle riduzione delle materie prime, delle riduzioni di costo consentite dalla delocalizzazione nell’est Europa e in Asia e, in alcuni casi, dall’apertura di nuovi mercati. Come testimonia l’indagine campionaria di Bankitalia su industria e servizi: per il 2014 le imprese si attendono infatti una ripresa del fatturato nella misura del 2,1 per cento, mentre la dinamica dell’occupazione rimarrebbe negativa, scendendo di un 1 per cento come lo scorso anno. Se a questo si aggiunge che lo scenario mondiale non aiuta – il Fondo Monetario, preso atto della frenata americana e delle prospettive meno rosee relativi ad alcuni mercati emergenti, ha rivisto al ribasso di tre decimi di punto la crescita del pil planetario, che nel 2014 sarà del 3,4 per cento per poi accelerare al +4,0 per cento (stima confermata) nel 2015 – è evidente che il nostro ritorno a un tangibile livello di ripresa e crescita è sfumato per quest’anno e si fa molto incerto per il prossimo, quando entreremo nel 28esimo trimestre dall’inizio della “grande crisi”. Che tale ormai non si può più definire, perché la parola crisi presuppone una fase – necessariamente non troppo lunga – di frattura di una traiettoria, che poi si va a ricomporre per consentire a quella curva di riprendere la sua precedente tendenza. No, qui la frattura è ormai tra un prima e un dopo, e quest’ultimo non potrà mai più essere come fu. Ecco perché si sente l’urgenza dell’azione politica, cui spetta il compito di resettare il paese e la sua economia su basi nuove, obbligatoriamente diverse da quelle precedenti. Solo che mentre essa diventa sempre meno rinviabile, il sistema politico-istituzionale si divide su ben altre questioni e pensa di risolvere le proprie contraddizioni ricorrendo all’arma delle elezioni anticipate. Occhio, perché potrebbe rivelarsi un’arma letale. Per il paese, ma prima di tutto per chi la usa.

 

Ufficio respingimento investimenti stranieri

Ufficio respingimento investimenti stranieri

Oscar Giannino – Panorama

Più un paese è civile, più le sue leggi dovrebbero essere non retroattive. «La legge non dispone che per l’avvenire» recita l’articolo 11 delle Disposizioni sulla legge in generale premesse al Codice civile. Ma l’Italia tanto civile. Da noi la retroattività delle leggi è ammessa in materia civile, amministrativa e tributaria con l’eccezione del penale, tranne che in favore del reo. Le leggi retroattive intervengono a modificare rapporti economici, civili, amministrativi nel cui ambito cittadini e imprese hanno fatto scelte pluriennali spesso molto impegnative per le proprie finanze. In un mondo in cui i capitali sono molto più liberi e mobili delle persone, più la legge retroattiva, e soprattutto in materie ad alta densità di investimenti, più i capitali diffidano e si volgono altrove.

Era questo il quadro di fronte al governo Renzi quando a metà giugno è intervenuto per decreto legge modificando gli incentivi energetici. Buono il fine: un taglio a regime del 10 per cento della bolletta per le piccole imprese e famiglie, pari a circa 1,5 miliardi. Tra gli strumenti, alcuni anch’essi ottimi: come il taglio agli sconti in bolletta ai dipendenti Enel, San Marino e Vaticano, a Fs e Ntv o il potenziamento dei controlli sui molti, troppi, che beneficiano di sussidi.

Ma il punto dolente sono i 500 milioni attesi dalla rimodulazione incentivi ai “grandi” operatori del fotovoltaico, sopra i 200 kilowatt. Sono circa 8.600 imprese a cui andavano circa 4,1 miliardi di incentivi l’anno sui 6,7 complessivi al settore. Per loro, un’alternativa secca: o l’aiuto si spalma in 24 anni invece di 20, o resta a 20 ma con un taglio dell’8 per cento. Stiamo parlando della parte di solare in cui sono impegnate imprese medio grandi, italiane ed estere, e fondi internazionali. L’Italia è reduce già da 5 diversi “conti energia” dal 2006 in avanti, e dal 2012 si è imboccata la via di una riduzione di aiuti troppo generosi, alla luce della sovraccapacità complessiva elettrica in Italia. Questa volta però il taglio è secco. La protesta di Assorinnovabili è fortissima, a suo giudizio si rischiano dai 10 ai 20mila posti di lavoro. I fondi esteri hanno tuonato su Financial Times e Wall Street Journal. L’ambasciatore britannico Christopher Prentice si è detto preoccupato. Nel Regno Unito in un caso analogo il Tesoro si è trovato esposto a risarcimenti per 130 milioni di sterline. Assorinnovabili ha annunciato ricorsi alla Commissione Ue e alla Corte costituzionale, forte del ricorso analogo presentato dalle imprese spagnole alla Corte di Giustizia Ue.

Macché Destinazione Italia di cui parlava Enrico Letta o le nuove misure per attirare i capitali esteri come annuncia Matteo Renzi. L’affidabilità della parola data dallo Stato è criterio essenziale per vincere la gara degli investimenti esteri. Noi non siamo affidabili. Direte voi: ma allora come si fa, quando gli incentivi dati ai privati sono troppi e si vuole correggere? Bisogna ricordare due cose. La prima è il criterio della proporzione e del tempo, altrimenti si perde in sede giudiziale europea. La seconda è che uno Stato che non mostra alcuna energia a tagliare i propri sovraccosti non è credibile se usa le forbici sugli investimenti privati.

Franceschini parla, il consumatore paga

Franceschini parla, il consumatore paga

Nicola Porro – Il Giornale

Il celebre telefonino della Apple costerà in Italia qualche euro in più. Il decreto Franceschini, dal nome del ministro della Cultura, ha stabilito l’aumento della tassa sulle memorie elettroniche. Così agli autori di opere di ingegno (contanti, registi e così via) si deve riconoscere un contributo forfettario per il loro lavoro, anche quando esso venga copiato dal supporto originale a quello vergine. Vabbè, lasciamo agli esperti la lista dei beni colpiti e le contraddizioni di questa norma. A noi interessa il principio. La regola d’oro delle tasse è che queste ultime vengono pagate sempre e solo dai contribuenti. Non c’è il mago Zurlì che se ne faccia carico.

Quando il governo Berlusconi introdusse con Tremonti la Robin tax si disse che si beccavano i ricchi petrolieri. Balle. Le imprese ribaltarono su clienti finali la nuova imposizione (circa tre milairdi di costi in più per il sistema). L’authority ha addirittura trovato un’ottantina di casi in cui la procedura di rialzo dei prezzi (vietata dalla norma) fu fatta direttamente, senza alcun sotterfugio. Quando si aumentano le imposte sulle banche (e le nostre sono tra le più tassate d’Europa), queste ultime hanno buon gioco a tenere alti i costi dei conti correnti. Quando si introduce la Tobin tax (regalo assurdo del governo Monti) dicendo che si tassa così la speculazione, si ottiene il favoloso effetto di pizzicare i piccoli risparmiatori cassettisti e lasciare liberi i grandi speculatori in derivati che pagano in somma fissa e ridicola. Non esistono la finanza, le banche, i produttori di telefonini e così via. Esistono i loro clienti, sui quali vengono trasferite le tasse che i politici fingono di voler applicare alle grandi e cattive imprese.

In un umoristico comunicato un’associazione di consumatori scriveva, riguardo all’ultima tassa sulle memorie elettroniche: «I prezzi debbono restare inalterati – così come chiesto da Federconsumatori ed Adusbef al tavolo di discussione ministeriale – e tutto dev’essere risolto in una redistribuzione dei profitti a scapito dei produttori che già lucrano abbondantemente sul prezzo di vendita». Questi geni dei consumatori oggi piagnucolano perché era stato loro assicurato che gli imprenditori cattivi non avrebbero «lucrato» e disquisiscono sulla «redistribuzione dei profitti». Questi il mercato non sanno neanche dove sia di casa. E non capiscono che la bestia da affamare non sono le imprese (che si fanno i loro affari) ma lo Stato (che si fa i nostri, di affari).

Stupirci diventa sempre più difficile

Stupirci diventa sempre più difficile

Ester Faia* – Panorama

Renzi scopre che non si può fare una riforma al mese in un Paese con un conflitto sociale acuito da anni di esasperazione e stagnazione. Le prospettive di crescita non migliorano. Non ci sono solo i tempi dilatati delle riforme, ma una mancanza di proposte creative. Pensare che 80 euro al mese facciano ripartire la crescita è ingenuo e semplicistico: la propensione al consumo è alta per redditi bassi, ma diventa nulla se non si dà certezza che la misura sia permanente. Vi è poi da considerare che in periodi di recessione/stagnazione il risparmio precauzionale sale e che gli 80 euro andranno a compensare aumenti di tasse come la Tasi. Renzi ha continuato a finanziare i deficit non con tagli di spesa (per ora ci sono proposte di tagli) ma con aumenti di tasse sul risparmio. In un Paese gravato da tasse su imprese, consumo e reddito gli ultimi governi hanno fatto cassa con i risparmiatori (di ricchezza immobiliare e mobiliare). Le ragioni addotte sono tante: è difficile evadere tasse su beni visibili come le case; si tratta di tasse redistributive e così via. Purtroppo sono argomenti fallaci: le molte case abusive non sono tassabili; le tasse sul risparmio sono spesso regressive; la progressività si ottiene aumentando gli scaglioni delle tasse sul reddito. Il lato più oscuro di questi aumenti è che, scoraggiando il risparmio, rischiano di deprimere la crescita. In un Paese dove le protezioni sociali sono inesistenti, risparmio e ricchezza sono spesso l’unico modo per far fronte alle difficoltà. In Grecia per pagare gli aumenti di tasse sugli immobili i disoccupati hanno preso a prestito: il risultato è stato inesigibilità delle tasse e nuove insolvenze. Diventa sempre meno probabile che Renzi ci possa stupire.

 

* professore di Economia monetaria e fiscale alla Goethe University, Francoforte

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Tino Oldani Italia Oggi

Ancora pochi giorni fa, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, e il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, si sono trovati a sostenere tesi contrapposte. La Lagarde, con una invasione di campo ormai abituale, ha esortato la Bce a imitare il «quantitative easing» della Federal reserve Usa, acquistando direttamente titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona con problemi di bilancio, convinta che sia un modo più efficace, rispetto ai prestiti Bce a buon mercato, per vincere la deflazione dilagante in Europa. Draghi, che forse si è stancato di polemizzare con la Lagarde per le intromissioni nella propria sfera d’azione, non le ha neppure risposto, preferendo rilanciare una sua tesi recente, per cui «serve una governance europea per le riforme». A prima vista, un classico dialogo tra sordi.

Ma poiché la Lagarde non è l’ultima arrivata, è giusto chiedersi a quale titolo intervenga sulla politica monetaria della Bce, e di riflesso sull’economia europea. La sua invasione di campo è davvero tale, priva di giustificazione? La risposta corretta è: no. La spiegazione è in una parola di origine russa, divenuta di moda in Europoa: troika. Da un paio d’anni, essa indica un triumvirato istituzionale, formato da Fmi, Bce e Ce (Commissione europea), che controlla il rispetto non tanto dei Trattati europei (materia che non potrebbe riguardare il Fmi), bensì quello delle regole introdotte con alcune modifiche dei Trattati, regole ferree, contenute in due distinti accordi intergovernativi: il Fiscal compact e il Mes (Meccanismo europeo di stabilità).

Dei due, il Fiscal compact è il più conosciuto. In sintesi, obbliga i Paesi dell’eurozona a rispettare il parametro del 3% nel rapporto deficit-pil, a non sforare un deficit strutturale dello 0,5% l’anno, e impone ai Paesi con debito eccessivo di abbattere ogni anno di un ventesimo la quota di debito pubblico che supera il 60% del pil. Per l’Italia significa l’obbligo per 20 anni, a partire dal 2015, di manovre annuali di circa 50 miliardi di euro, considerate da tutti insostenibili. Per completezza, il Fiscal compact è stato approvato dal governo di Mario Monti nel 2012, e inserito a razzo nella Costituzione, con l’avallo pressoché unanime del Parlamento, sotto la sferza di uno spread a 570 punti. Una cessione totale di sovranità nazionale, destinata a costare molto cara.

Meno note sono le novità introdotte dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità), deciso dal Consiglio dei capi di Stato e di governo nel 2010 per fare fronte alla crisi dell’euro, ed entrato in vigore nel settembre 2012. Mes e Fiscal compact sono complementari e, di fatto, hanno creato una nuova governance europea che scavalca i singoli governi per gestire le crisi finanziarie e salvare gli Stati a rischio di tracollo. Volendo semplificare, il Mes è una riproduzione europea del Fmi, sia pure con una minore potenza di fuoco (ha 700 miliardi di euro di capitale, versati dai paesi euro, di cui 500 prestabili). Ed è proprio al Fmi che il Mes si affianca nell’effettuare i prestiti ai Paesi in difficoltà e nel controllare in modo rigoroso l’applicazione delle regole di austerità per riportare i bilanci statali in pareggio. In questa azione, il Mes e il Fmi operano di concerto con la Commissione europea, formando la famosa Troika. Attenzione però ai dettagli, perché è sempre lì che si nascondono le trappole. Il Mes ha una propria personalità giuridica, i suoi dirigenti e i suoi beni godono di totale immunità, e di fatto, quando concede un prestito a un paese in difficoltà che ne abbia fatto richiesta, si sostituisce insieme ai soci della Troika nella gestione della politica economica del Paese debitore. Lo Stato debitore deve sottostare a tutte le imposizioni contenute nel piano di aggiustamento finanziario della Troika, costi quel che costi. È stato così in Grecia, con effetti sociali disastrosi. Ed è stato così in Spagna, Portogallo e Cipro.

Dunque, se la signora Lagarde si permette di dare consigli alla Bce, o addirittura di criticarla, lo si deve proprio alla sua presenza nella Troika, che nella gestione dei paesi Ue in crisi (e commissariati) conta ormai più degli stessi governi interessati, nonché del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Una cessione totale della sovranità nazionale.

Il bilancio dei primi due anni del Mes non appare affatto esaltante. In Grecia, grazie ai prestiti della Troika, l’unico beneficio è andato alle banche del Nord Europa, che hanno potuto recuperare per intero i loro crediti, mentre al governo di Atene sono rimaste le briciole (circa il 19% degli aiuti).

Anche per questo il Mes, ufficialmente un Fondo salva Stati, viene definito dai critici un Fondo salva banche. Definizione tanto più appropriata se si considera che alle riunioni del Mes in cui si valutano le concessioni dei prestiti ai Paesi richiedenti, sono ammessi come osservatori i maggiori istituti finanziari privati del mondo, come Nomura, Goldman Sachs, Merril Lynch, e così via. Con il risultato che le politiche economiche di austerità rischiano di essere dettate non dagli organismi democratici liberamente eletti dai paesi in crisi, bensì dalle grandi banche mondiali.

Quest’ultimo aspetto mette i brividi. Soprattutto quando un Paese inizia ad entrare nelle ipotesi di commissariamento. «Italia commissariata? Non esiste» ha detto il premier Matteo Renzi in una recente intervista. Ma pochi giorni dopo ha fatto specie che Elmar Brok, uno dei consiglieri più autorevoli di Angela Merkel, abbia detto al Corriere della sera: «Se rispetta le regole e fa le riforme, l’Italia non tema il commissariamento». Sarà pure un eccesso di pessimismo, ma sembra una conferma del fatto che l’ipotesi era nell’aria, e forse lo è. Una brutta aria.

Degli sprechi il catalogo è questo

Degli sprechi il catalogo è questo

Milena Gabanelli – Corriere della Sera

Non si crescerà mai senza riforme, che vuol dire taglio agli sprechi e investimenti. Il tempo è poco e servono soldi subito. La strada più rapida sarebbe quella del rientro dei 300 miliardi depositati su conti esteri, con versamento delle relative somme evase. Però ci vuole la legge che sanziona pesantemente i grandi evasori, e che esiste in tutti i Paesi civili. Quella legge è pronta sul tavolo da due anni, ma ancora non vede la luce, per non aggredire troppo coloro che hanno impoverito il Paese e le loro aziende trasferendo gli utili su conti cifrati. E allora, oltre ai tagli giustissimi ai superstipendi, agli 80 euro in più per chi ha meno di 1.500 euro al mese, quali sono le idee concrete per evitare la chiusura di migliaia di aziende private, e quali le idee di rilancio delle aziende pubbliche sane?

Fra le tante dichiarazioni di Renzi su come uscire dalla depressione generale c’è anche quella di pensare a una Rai che contribuisca alla rinascita del Paese. Certamente avrà un piano, ma per ora si vuol prendere 150 milioni dal canone. La Rai ha 11.600 dipendenti, circa 4.000 collaboratori, un incalcolabile indotto, è il quinto gruppo culturale d’Europa, il tesoro è l’azionista. Dal canone incassa 1,7 miliardi (il 30% evade), 600 milioni dalla pubblicità, 20 milioni da altri servizi. I conti stanno così così. Tecnologicamente arretrata, mantiene un’infinità di strutture e canali, e nonostante i 1.700 giornalisti Rai News è fra gli ultimi siti web che vengono cliccati per informarsi. Il Direttore generale sta tentando di riorganizzare l’offerta, e intanto taglia su prodotto e stipendi: la falce si sta abbattendo con la stessa neutralità su meritevoli e fannulloni, incluse le partite Iva (cruciali in molti programmi) che si mettono in tasca poco più di 1.000 euro al mese. Tuttavia non basterà. Il premier ha suggerito di vendere qualcosa. L’unica «cosa»che si può collocare sul mercato senza tanto clamore è la società che possiede le torri di trasmissione, RaiWay, ma RaiWay è la Rai, ed ha un solo cliente, la Rai. Questo significa che il Direttore generale non può in autonomia decidere di quotare un pezzo di un’azienda pubblica (ovvero privatizzare) perché occorre seguire un iter parlamentare, e arrivare alla delibera del Consiglio dei ministri. Senza questo passaggio cosa si dovrà inventare sul prospetto informativo per avere l’ok della Consob?

Per tornare efficiente e competitiva, la Rai andrebbe «snellita», ma modifiche radicali saranno possibili solo se si interviene sulla riforma del 1975, meglio nota come lottizzazione. Ogni partito si è preso un canale, e poi ci ha infilato i suoi uomini scegliendo come unico criterio la «fedeltà», non all’azienda ma al partito. Risultato: proliferazione di strutture e incarichi dirigenziali che negli anni si sono stratificati. Non esiste nessuna tv pubblica al mondo dentro la quale convivono 3 telegiornali che hanno come referenti 3 diverse aree politiche; ognuno ha una sua struttura autonoma, i suoi direttori, i suoi inviati, il suo apparato tecnico, i suoi studi, il suo budget. Poi c’è Rai news 24, che non si può dire sia seguitissima, e le 26 sedi per l’informazione regionale. Bisogna «ottimizzare» si dice, ma da dove cominci se non metti mano al contratto di servizio con lo Stato? Le sedi regionali sono nate in funzione dei rapporti con le istituzioni locali. Un modello in crisi poiché le Regioni non rappresentano più il territorio, quindi bisognerà cambiare completamente la prospettiva in funzione delle macroaree. Si prende spesso a modello il miglior servizio pubblico al mondo, ovvero la Bbc, dove però i canali generalisti nazionali sono sostenuti solo dal canone: 174 euro, contro i nostri 113. Se tuttavia il modello a cui ispirarsi è Bbc, confrontiamoci. Le stazioni televisive locali inglesi sono 15, che interagiscono con quelle radiofoniche. I dipendenti sono circa 1.500 contro i nostri quasi 2.000. Le sedi occupano mediamente 2 piani (con una postazione fissa per il giornalista che si connette), la maggior parte sono in affitto. Noi occupiamo edifici giganteschi, quasi tutti di proprietà, con insostenibile spreco di spazi e costi. La loro sede più piccola è quella delle Channel Island: 2 dipendenti; da noi a Campobasso sono in 70. Nella sede di Cosenza lavorano 95 persone, ma il palazzo sembra quello di Viale Mazzini. Tutti i servizi finiscono dentro a Bbc One (la nostra Rai 1), con 4 brevi collegamenti al giorno. Inutile ribadire che la produzione locale del nostro servizio pubblico è perlopiù asservita ad assessori e governatori, che in caso di smantellamento di qualche sede si incateneranno pur di non vedere sottratta una telecamera a loro uso e consumo.

Gli «intrecci armoniosi» si metteranno di traverso anche in caso di accorpamento della lunga lista di strutture a cui hanno dato vita nel corso degli anni, e che pullulano di direttori e personale. Emblematica la genesi di Rai Vaticano. Nel ‘97 una decina di dipendenti occupavano due stanze per preparare gli eventi di Giubileo 2000. Senza budget, il team si relazionava con la Santa Sede per agevolare le reti nella produzione di programmi da trasmettere e vendere in tutto il mondo, e doveva essere operativo per 2 anni. Il Giubileo è finito da tempo, ma la piccola squadra si è trasformata in una struttura con i suoi funzionari e dirigenti per continuare a fare le stesse cose. Rai Expo è l’ultima creatura: una dirigenza, 45 dipendenti, una sede a Milano e una a Roma. Ma per raccontare il grande evento dell’alimentazione mondiale non bastano le sedi regionali e i programmi delle reti? A Expo finita (ottobre 2015) siamo sicuri che quella struttura non diventerà permanente? Anche Rai Quirinale, da postazione informativa è diventata nel tempo un elefantino, con un direttore e 35 dipendenti. Per fare cosa? Trasmettere il messaggio del presidente della Repubblica di fine anno e la cerimonia del 2 giugno.

Per «rinascere» sarà inevitabile eliminare sedi e strutture che non hanno nessun senso, ma non mandando a casa qualche migliaio di persone che hanno famiglia! L’azienda avrebbe bisogno di tutto il suo personale se venisse organizzata in modo produttivo; è pur sempre la più grande industria culturale del Paese! Ricordiamo inoltre che non ha ammortizzatori sociali, e sarebbe paradossale creare disoccupati per dare 80 euro in più a chi uno stipendio (anche se magro) ce l’ha. Certo occorrerà poi liberarsi dai burocrati e intervenire sui contratti collettivi di lavoro. Questo quadro però, determinato dalla politica e dalle sue scelte in 60 anni, non lo ribalta un Direttore generale da solo, senza il supporto del governo. Ricordiamo che la Bbc, così spesso invocata a chiacchiere, ha come unico criterio nella nomina della governance e della dirigenza la competenza e il merito. Anche in Gran Bretagna «il palazzo» interferisce e orienta, ma quando un dirigente sbaglia, va a casa senza tante storie. Per questo il mondo intero considera la Bbc la più autorevole tv pubblica del mondo.

Le buone idee e la zavorra delle (non) riforme

Le buone idee e la zavorra delle (non) riforme

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Alla presentazione del programma della presidenza italiana dell’Unione al Parlamento europeo, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha elencato una lista di cose da fare perché l’Europa torni a crescere. Ce n’è un gran bisogno, nel Vecchio Continente: dopo due anni di recessione, gli investimenti nell’Eurozona sono scesi al 17,7% del Pil, il loro minimo di sempre. L’industria e il mercato “battono in testa” anche in Germania, non solo in Italia e in Francia.

Per crescere, dicono a Bruxelles, servono le riforme strutturali: bisogna ridurre i monopoli sui mercati e le rendite di posizione nel settore pubblico. Ma quei cambiamenti si fanno oggi per ottenere risultati solo domani. Così, secondo Padoan, ai Paesi che si impegnano da subito dovrebbe essere garantita una maggiore flessibilità nel rispetto dei vincoli di bilancio. Senza stravolgere le regole attuali. Fuori dal gergo della politica, le parole del ministro vogliono dire che l’Italia non proporrà iniziative contro la norma sul pareggio di bilancio strutturale cara all’Europa che rispetta i vincoli. Nello stesso tempo, però, l’idea di flessibilità all’italiana si traduce nella richiesta di lasciare da parte i commissariamenti della Troika (Bce, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) nei confronti dei Paesi che non riescono a rimborsare il loro debito pubblico. Alla Troika in effetti c’è un’alternativa: più coordinamento e più monitoraggio reciproco tra i Paesi europei prima, per evitare tardivi, umilianti e a volte inefficaci aggiustamenti imposti dall’alto poi. Sarebbe un netto cambiamento di rotta rispetto agli anni scorsi.

Sono tutte buone idee. Da quando è iniziato il semestre a guida italiana, da Roma fioccano proposte su come migliorare il funzionamento dell’Unione. Eppure oggi le innovazioni avanzate dall’Italia per stimolare l’Europa a fare di più si scontrano con un macigno: il carniere quasi vuoto delle riforme del governo Renzi nei suoi primi 150 giorni di attività. Senza cambiamenti strutturali, la richiesta di flessibilità di Roma viene percepita a Bruxelles e a Berlino come l’intenzione di aumentare ancora un debito pubblico che è già oltre il 135% del Pil. E l’appello ad abbandonare i commissariamenti dei Paesi a rischio di default può essere visto come il sinistro annuncio di chi in definitiva confida nella Bce per essere tirato fuori dai suoi guai. Senza una chiara accelerazione estiva delle tante riforme annunciate ma non approvate né attuate, il rischio concreto è che anche le migliori proposte della presidenza italiana finiscano nel nulla. Perché alla fine, in Europa come in Italia, tutti sanno che il miglior test per capire se un budino è buono sta sempre nel mangiarlo.

Quei prelievi da tagliare

Quei prelievi da tagliare

Tito Boeri – La Repubblica

L’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia ha messo nero su bianco quanto ormai risulta evidente a tutti: il 2014, invece della tanto annunciata ripresa, ci porterà solo crescita zero, stagnazione. Il bonus di 80 euro non sembra aver avuto effetti apprezzabili sui consumi. Ed è illusorio aspettarsi nell’immediato stimoli a livello europeo. Del tutto fuori luogo l’entusiasmo con cui molti politici nostrani hanno celebrato il discorso di investitura di Juncker al Parlamento Europeo. Vero che il Presidente in pectore della Commissione ha detto che crescita e lavoro sono le priorità. Ma quando mai un politico europeo è stato, a parole, contrario alla crescita? In un momento in cui tutto il continente rallenta e ha un tasso di disoccupazione superiore alle due cifre chi potrebbe mai pensare di evitare di esser preso a pomodori esprimendosi contro la crescita? Il vero volto dell’Europa, oggi come oggi, è quello di Katainen, il nuovo commissario agli Affari economici, la cui prima dichiarazione è stata «Il patto di stabilità non si tocca».

Ancora più lontana dalla realtà la pretesa di alcuni di abolire l’austerità con un referendum che abroghi il nuovo articolo 81 della Costituzione, quello che vincola il nostro paese, con tanti se e ma, a tenere il bilancio in pareggio. Com’è possibile attribuire a un articolo che non è stato ancora applicato le colpe delle politiche di austerità degli ultimi anni? Quando mai la Costituzione italiana ha imposto l’austerità? Ricordiamoci che negli anni di esplosione del debito pubblico in Italia, questa imponeva che ogni «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Perché allora sprecare soldi dei contribuenti per organizzare un referendum e abrogare con voto popolare qualcosa che viene sistematicamente disatteso?

Tutte le energie disponibili devono invece essere concentrate attorno all’obiettivo di rendere strutturale il bonus di 80 euro. Deve risultare credibile come un taglio permanente delle tasse finanziato da tagli alla spesa pubblica e non da nuove tasse che graverebbero sulle famiglie. Per farlo, senza incorrere nella procedura di disavanzo eccessivo, il governo deve sulla carta trovare 23 miliardi nel 2015. L’audizione alla Camera del ministro Padoan della scorsa settimana fa pensare che l’esecutivo sia ancora in alto mare. E l’impressione è che nella compagine di governo si stia rafforzando il partito delle nuove tasse su quello dei tagli alla spesa. Il governo Renzi, in verità, ha già aumentato delle tasse, dalle banche alle rendite finanziarie. Sotto la reggenza del presidente del Consiglio gli italiani hanno cominciato anche a pagare la Iuc, facendo conoscenza del trittico Imu, Tari e Tasi. I decreti attuativi della delega fiscale prevedono l’eliminazione di molte detrazioni. Al di là del merito di questa scelta, si tratta pur sempre di tasse più alte.

La sbandierata riforma del terzo settore vuole ampliare i trasferimenti alle imprese sociali definendo in modo più ampio che in passato i perimetri del terzo settore (allargato a imprese con partecipazione rilevante di aziende con fini di lucro). Si tratta di nuove spese che dovranno essere coperte da nuove tasse. A quanto pare questi soldi andranno a finanziare il servizio civile per i giovani quando, fra 18 mesi, si esauriranno le risorse per la Garanzia Giovani. Ma quando mai un servizio civile ha migliorato le prospettive di lavoro dei giovani? Perché allora spendere soldi pubblici? Solo per far finta di aver offerto qualcosa ai giovani? E non si sentiranno presi in giro, gli under 25, se viene loro chiesto di lavorare gratis?

La riforma del pubblico impiego, ammesso che ne esista una, non porta risparmi, semmai aggravi di spesa date le promesse di assunzioni e scivoli verso la pensione del ministro Madia. Si mormora che il commissario Cottarelli sia stato commissariato. Quel che è certo è che gli viene chiesto di tagliare le spese con soli atti amministrativi, senza passaggi parlamentari. Il problema è che c’è un limite a quanto si riesce a tagliare accentrando le autorizzazioni di spesa o intervenendo sulle società partecipate, senza toccare il numero dei dipendenti. Tra l’altro, con le nuove regole Sec molte società partecipate (e relativi debiti) finiranno nel perimetro pubblico. Questo avverrà presumibilmente dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, perché l’Istat ha annunciato che metterà in pratica le nuove definizioni solo dal 3 ottobre. Avremo così una nota di aggiornamento che viene a sua volta aggiornata nel giro di pochi giorni! Siccome siamo gli unici a essere così in ritardo nell’adeguamento contabile, il rischio è quello di alimentare sospetti sui livelli del nostro debito pubblico, la spesa e la pressione fiscale.

Renzi ha già incassato il suo bonus con gli 80 euro. Era dai tempi di De Gasperi che un governo non godeva di un consenso popolare così vasto. Deve essere utilizzato per costruire supporto a un’operazione sistematica e coraggiosa di riduzione della spesa pubblica, che apra la strada a nuovi tagli di imposte. Si possono fin da subito tagliare i cofinanziamenti statali ai fondi strutturali, senza contravvenire alle regole europee. Al contrario, il cofinanziamento è responsabilizzante solo se fatto da chi utilizza i fondi europei, dunque le Regioni. E poi ci sono leggi con tagli normativi alle spese da varare oggi ed attuare gradualmente. Perché un’operazione di razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe permetterci di invocare la cosiddetta “clausola delle riforme” guadagnando tempo prezioso per l’aggiustamento.

Dopotutto, quale migliore riforma strutturale della ristrutturazione della spesa pubblica? Se mostrasse di saper colpire le rendite annidate ai confini tra pubblico e privato, questa operazione risulterebbe più popolare di quanto si pensi. È questo il vero banco di prova dell’esecutivo. Oggi i partner europei chiedono dimostrazioni delle capacità del ministro Mogherini, che abbiamo candidato alla guida, sulla carta, della politica estera europea. Il ministro ha una grande occasione per mostrarsi all’altezza di questo compito: tagli davvero i privilegi della Farnesina, anziché far solo finta di farlo. Dopotutto investire nella politica estera comune significa saper ridurre le spese diplomatiche dei singoli paesi.