Edicola – Opinioni

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nei giorni in cui tutti azzardano stime sugli effetti del Quantitative Easing (Q.E.), volgiamo lo sguardo a cosa fare per rendere efficaci le “misure monetarie non convenzionali” varate il 22 gennaio dalla Banca centrale europee. Non solo mi concentro sulle materie strettamente nel nostro campo: ciò che possono (e che debbono) fare Parlamento e Governo della Repubblica Italiana mentre gli altri 18 membri dell’eurozona molto probabilmente si accapiglieranno su questa o quella virgola del compromesso raggiunto.

A mio avviso, il tema più urgente è quello delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Il Q.E. può darci lo spazio di manovra per farlo anche se i suoi effetti saranno inferiori a un tasso di crescita complessivo dell’1,8 % sui prossimi due anni (ossia, mediamente, 0,75% l’anno) come stimato dal Centro Studi Confindustria. La crescita sarà probabilmente – è la media delle proiezioni dei 20 maggiori istituti econometrici internazioni, tutti privati, nessuno italiano – sullo 0,4% nel 2015 e sul 0,6% nel 2016, pur sempre un’inversione di tendenza dopo tre lustri in cui alla stagnazione hanno fatto seguito una recessione ed una deflazione.

Le privatizzazioni (e la chiusura di enti inutili) sono particolarmente urgenti sia per contribuire a ridurre lo stock di debito (sarebbe illusorio, ove non puerile, fare conto, a questo scopo solo o principalmente sul Q.E.) sia per rendere più snello quello che un tempo si chiamava (grazie ad una definizione molto appropriata di Franco Reviglio) “settore pubblico allargato” sia per contribuire, in tal modo, ad aumentare la produttività dei settori di produzione (da quindici anni rasoterra). È un campo particolarmente ostico: basti pensare che l’unica privatizzazione portata a termine nel 2014 è quella dell’Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo e che dal 2011 il Ministero dell’Economia e delle Finanze non mette in rete la Relazione Annuale al Parlamento sulle Privatizzazioni (forse perché non riuscirebbe a riempire neanche una pagina). Anzi, stiamo andando verso la nazionalizzazione (tramite una SpA contenitore) per le aziende in crisi. Non solo ma la nostra proposta è di cominciare non con operazioni relativamente facili (cessioni di quote dell’Enel, dell’Eni, delle Poste), e neanche da quella giudicata come la “madre di tutte le privatizzazioni” dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (la RAI, per cui si potrebbe stilare un programma tecnico dettagliato) ma dal terreno più difficile: quello del capitalismo (o socialismo) regionale e municipale.

Il campo è tanto ispido che il documento stilato dal buon, e caro, Carlo Cottarelli (chiamato a rimettere ordine e presto rispedito, dal Presidente del Consiglio, oltre-oceano, dove non potesse sapere troppo su ciò che avviene in Italia) è stato “segretato” come se svelasse segreti di Stato sul terrorismo mondiale. Interpolando dalle informazioni apparse sulla stampa a proposito del documento segretato, analisi apparse sulla bella rivista Amministrazione Civile del Ministero dell’Interno (ha cessato le pubblicazioni subito dopo avere toccato l’argomento), studi dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma e un saggio recente pubblicato dal Chief Economist della Cassa Depositi e Prestiti Edoardo Reviglio sulla rivista Economia Italiana, si giunge ad una base conoscitiva essenziale per trarre direttive operative.

In breve le “partecipate” a livello locale sono circa 25.000 mila (Cottarelli ne ha censite 8000), di un centinaio partecipate totalitarie, un migliaio aziende in cui la mano pubblica ha la maggioranza , 22.000 partecipate in cui gli enti pubblici hanno una quota inferiore al 49%, e ben 16.000 con una quota inferiore al 4%. Numerosissime sono mere scatole cinesi in cui sovente il numero dei dipendenti è inferiore a quello dei componenti degli organi di indirizzo di gestione. Secondo Giovanni Montemartini, che in età giolittiana teorizzò le municipalizzate, avrebbero dovuto generare reddito da utilizzare a fini sociali a beneficio degli ‘incapienti’, i più poveri dei poveri’. Molte di esse, invece, sono macchine per fare debiti (si parla di circa 120 miliardi l’anno).

Occorre dire che all’interno del Governo era stato proposto di fare pulizia, portando a non più di mille (nell’arco di tre anni) il numero delle partecipate e di dismettere quelle con disavanzi per due anni consecutivi, nonché un drastico dimagrimento degli organi di indirizzo e di gestione e chiusura delle ‘scatole cinesi’. Alcune norme erano stato nelle legge di stabilità. Tuttavia, con un emendamento all’articolo 15 della legge di stabilità al Senato, il Governo cancella con un colpo di spugna i tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli ultimi anni. Niente vendite obbligatorie per le aziende dei Comuni fino a 50mila abitanti, previste dal 2010 e poi rinviate da una serie di proroghe, e niente privatizzazione delle società strumentali, cioè quelle che lavorano quasi solo con le amministrazioni controllanti, e che la spending review varata nel 2012 dal Governo Monti chiedeva di vendere o chiudere entro il prossimo 31 dicembre. Tutto abrogato: il panorama attuale delle società di enti locali, Regioni e ministeri può tranquillamente rimanere quello attuale.

Al posto delle sforbiciate, sempre rimaste sulla carta, il governo tenta la strada del controllo dei bilanci, imponendo agli enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in rosso per quattro anni consecutivi. Confermata, ma solo a partire dal 2015, la possibilità di “licenziare” gli amministratori delle partecipate che chiudono in perdita per due anni consecutivi. Sempre dal 2015, arriva un taglio del 30% ai compensi dei manager delle società controllate e titolari di affidamento in house che chiudono in perdita per tre anni consecutivi.

Dal 2015 è previsto che anche società partecipate, aziende speciali e istituzioni, anche di regioni e camere di commercio, debbano dare una mano nel «conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Come? In primo luogo, la norma promette di individuare “parametri standard” dei costi e dei rendimenti dei servizi, traducendo in termini societari il percorso dei fabbisogni standard degli enti locali che però al momento si mantiene lontano dal traguardo. Più immediato è invece l’obbligo per gli enti proprietari di accantonare in bilancio fondi di riserva, a garanzia delle perdite accumulate dalle società. Le regole di questi fondi procederanno in due tempi: nel 2014, ogni ente dovrà accantonare una somma pari alla perdita registrata dalla sua società nel 2013. Nel 2015-2017, invece, le regole dividono le società in due gruppi, a seconda del risultato medio del 2011-2013: se è positivo, l’accantonamento sarà pari a una quota della perdita conseguita nell’ultimo anno, altrimenti si calcolerà sulla media degli ultimi tre. Troppo poco e troppo tardi.

Tafazzieconomy

Tafazzieconomy

Davide Giacalone – Libero

Non capita spesso che i creditori si compiacciano dell’ipotesi che i debitori non paghino i loro debiti, quindi non perdete lo spettacolo offerto dai tanti dichiaratori e commentatori che festeggiano ciò di cui dovrebbero preoccuparsi. Bei tempi quando a orecchio si parlava di calcio, usando la pancia di politica e solo alla memoria di sesso. Ora son tutti economisti, esponenti di spicco della Tafazzieconomy. Grazie alla Grecia, allora, si porrà fine all’eurorigore? No. Intanto perché le politiche monetarie europee sono espansioniste, ovvero il contrario del rigore. Non si può porre fine a una cosa che non c’è. I greci lo sanno e il loro nuovo governo ribadisce: nell’euro siamo e ci restiamo. Alcuni degli scalmanati anti-euro, come Costas Lapavitsas, economista di spicco nel gruppo di Alexis Tsipras, già tirano il freno: dicevo che sarebbe stato meglio uscire, ma ora è diverso. Appunto. I greci, dunque, intendono restare nell’euro, ma vogliono rinegoziare il debito pubblico. E qui ci si deve intendere.

Un negoziato è necessario, perché così come è strutturato non possono pagarlo. Ma l’ipotesi della denuncia del debito, del suo disconoscimento, non solo sarebbe contro ogni regola europea, o anche solo di civile convivenza, sarebbe un danno per l’Italia, visto che i soldi li abbiamo prestati noi. Non solo: mentre le banche tedesche e francesi si alleggerirono dei titoli del debito greci, cedendoli al fondo salva stati, da noi cofinanziato, così sottraendosi a tagli del debito che sono già stati fatti (anche se sembra ci se ne sia dimenticati), mentre questo accadeva si è anche deciso che gli altri europei avrebbero prestato soldi ai greci a un tasso agevolato, solo che i tedeschi presero i soldi dal mercato, pagandoli meno di quanto venivano remunerati, mentre noi li prendemmo pagandoli più di quel che avremmo riscosso. Noi, al contrario dei tedeschi, abbiamo già fatto regali alla Grecia, sicché è demenziale festeggiare l’ipotesi che non restituiscano neanche il poco cui sono obbligati.

Ma mentre un negoziato sulla struttura del debito è necessario, ciò non significa che la Grecia possa tornare all’andazzo pre-crisi, quando la copertura dell’euro rese possibile una spesa pubblica torrentizia e clientelare, priva di compatibilità con la ricchezza reale prodotta dalla Grecia. E’ qui che i festeggianti italiani fanno confusione, confondendo il debito con la spesa. Fraintendimento sul quale trionfa la Tafazzieconomy, sicché si lanciano gridolini di soddisfazione all’idea di essere colpiti colà ove non batte sole. Il rigore nella spesa è non solo necessario, ma salutare. Se lo si perde si compromette il dolore subito e ogni prospettiva futura. Se si torna a scambiare l’investimento produttivo con la spesa produttrice di voti si otterrà solo la crescita del debito e la moltiplicazione della miseria, mediante satanismo fiscale. E questo concetto potete dirlo in greco tanto quanto dovete dirlo in italiano.

Alcuni gioiscono, da noi, perché sentono i tedeschi lamentarsi. Solo che in Germania si lamentano perché rivogliono indietro quello su cui hanno già guadagnato, mentre qui sembra che si goda a mollare quello su cui abbiamo già perso. A guardare questa scena capisci la differenza: in Germania si governa e si suppone di risponderne, qui si starnazza per cercare di non doverne rispondere. I tedeschi usano la posizione dei greci per mettere in forse la politica della Bce, cui si sono inutilmente opposti, perdendo. Noi dovremmo fare l’opposto, avendo vitale convenienza a che quella politica si sviluppi fino in fondo. Invece cerchiamo di dare loro ragione, sebbene ghignando del crucco disappunto. E dimostrando di avere capito poco e niente.

Mi spiace che Syriza non abbia preso la maggioranza assoluta. Il governo di coalizione potrà rivelarsi un rischio, se fra sinistra e destra partirà la concorrenza e si protrarrà la campagna elettorale. Sarebbe una maledizione, perché c’è più consapevolezza della realtà in chi ha vinto le elezioni greche che in tanti orecchianti italici, presi dal disorientamento di vedere l’estrema destra e l’estrema sinistra, in giro per il continente, dire le stesse cose. Motivo in più per non parlare a vanvera.

I buoni propositi, le occasioni sprecate

I buoni propositi, le occasioni sprecate

Angelo Cremonese – Il Sole 24 Ore

Una delle semplificazioni più rivoluzionarie che il governo si appresta a varare è costituita dalla dichiarazione precompilata. Nei prossimi mesi, infatti, circa 20 milioni di italiani, lavoratori dipendenti e pensionati, non dovranno più provvedere alla compilazione della dichiarazione dei redditi che a partire dal 15 aprile sarà messa a disposizione dall’agenzia delle Entrate. Sulla scia delle esperienze vissute negli ultimi anni da diversi paesi europei ed extraeuropei, che nel tempo ne hanno esteso l’operatività a molte altre categorie di redditi, questo nuovo servizio si propone di semplificare gli adempimenti per alcune fasce di contribuenti, ridurre gli oneri di controlli e verifiche su una vasta platea di soggetti, diminuire il rischio di errori e, soprattutto, migliorare il senso di fiducia del cittadino verso le istituzioni tributarie.

Questi principi appartengono senz’altro a un modo nuovo e più moderno di gestire la materia fiscale e vanno dunque valutati positivamente. Va peraltro ricordato che, soprattutto per il mondo delle imprese, la semplificazione vera resta una pagina ancora tutta da scrivere, per la quale è urgente una profonda riforma. È infatti difficile immaginare un rapporto sereno tra fisco e imprese con un livello del prelievo effettivo che raggiunge il 68,5% (total tax rate, Rapporto Paying Taxes 2013), ancora più elevato per le piccole e medie imprese, una giungla di norme spesso di difficile comprensione, adempimenti così complessi che rendono gli oneri tributari indiretti insostenibili, un sistema di giustizia tributaria lento e dai costi elevati con esiti spesso imprevedibili e contrastanti, un sistema sanzionatorio incapace di rispondere a criteri di proporzionalità. L’auspicio, dunque, è che con i decreti delegati si sia solo iniziato a percorrere, nella giusta direzione, il cammino della semplificazione. Un obiettivo fondamentale che, pur mantenendo invariato il livello complessivo del prelievo, potrebbe costituire una importante risorsa per lo Stato e per i cittadini, facendo realizzare forti risparmi in termini di oneri amministrativi.

Dalla sola dichiarazione precompilata, a regime, sono previsti benefici per oltre un miliardo di euro. Appare quindi poco comprensibile come, in un clima che spinge fortemente verso l’alleggerimento degli adempimenti per i contribuenti, proprio in questi giorni si sia sprecata una prima importante occasione per far esordire gli effetti del “nuovo corso”. L’invio con un modulo già precompilato della dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), da trasmettere all’Inps al fine di ottenere il nuovo Isee, avrebbe infatti evitato il caos che stanno vivendo tutti coloro che, già svantaggiati economicamente, cercano di non perdere il diritto all’accesso a servizi sociali quali asili nido, prestazioni socio-assistenziali, mense scolastiche ecc, e sono costretti a rimbalzare, come una pallina del flipper, fra siti web dell’Inps, Caf in rivolta e uffici comunali. La modifica dei parametri del cosiddetto riccometro, dopo oltre 17 anni dal suo varo, risponde alla giusta esigenza di ottenere una fotografia più chiara e aggiornata delle reali condizioni economiche dei cittadini e di riservare il welfare ai soggetti realmente bisognosi. Considerando, però, che la maggior parte dei dati richiesti sono già disponibili nei sistemi informativi, fiscali e contributivi, dell’Amministrazione, si sarebbe potuto pensare di utilizzare il nuovo metodo, inviando una dichiarazione precompilata, con il solo onere per il contribuente di completarne il contenuto inserendo i dati eventualmente sconosciuti al fisco.

Guardando al prossimo futuro un limite del nuovo modello 730 inviato direttamente dalle Entrate è che, almeno sino al 2016, non terrà conto delle spese sanitarie. In questa prima fase, pertanto, si prevede un’alta percentuale, superiore al 70%, di soggetti che saranno costretti ad effettuare integrazioni. Successivamente questa percentuale è destinata a scendere drasticamente, come è anche auspicabile che si possa allargare la platea di soggetti che potranno usufruire di questo servizio. Il modello sono i paesi del nord Europa, la Danimarca su tutti, dove, dopo oltre 25 anni, il 100% dei contribuenti individuali riceve annualmente la propria dichiarazione dei redditi completa di stipendio, interessi, dividendi, capital gain, detrazioni, esenzioni e deduzioni, con una percentuale di richieste d’integrazione scesa sotto il 6%. Anche in Francia si è attuato questo esperimento da circa 10 anni e, pur con risultati molto diversi, si è ormai instaurata una linea di comunicazione diretta con i contribuenti, attivando canali telematici con cui l’Amministrazione è in grado di fornire risposte in tempo reale.

Per creare anche nel nostro Paese i presupposti di un rapporto tra fisco e contribuente diverso, ispirato a principi di trasparenza e di modernità non sono necessarie rivoluzioni o ricette nuove e sorprendenti, occorre solo perseverare sulla strada della semplificazione con serietà, coerenza e determinazione.

Quando semplificare fa rima con complicare

Quando semplificare fa rima con complicare

Giampiero Falasca – Il Sole 24 Ore

Con il Jobs Act il processo del lavoro viene riformato ancora una volta, dopo le novità del 2012, e ancora una volta le nuove norme si caratterizzano per un buon livello di complessità applicativa. Un fardello che il diritto del lavoro italiano si porta dietro da tanti, troppi, anni, e che riemerge sempre, anche quando – come fa l’attuale riforma – vengono approvate regole che mirano a semplificare in maniera importante il sistema normativo.

Il paradosso – che potremmo definire della “semplificazione complessa” – ruota intorno ai concetti di “vecchi assunti” e “nuovi assunti”, che nel Jobs act segnano la linea di demarcazione tra i lavoratori per i quali la riforma non si applica e quelli interessati dalle nuove regole. Chiunque nei prossimi anni avrà l’esigenza di cimentarsi con il processo del lavoro dovrà sempre verificare se un dipendente rientra nell’una o nell’altra categoria.

Se il licenziamento sarà impugnato da un “vecchio assunto”, nulla cambierà rispetto alle regole processuali (e no) oggi vigenti, introdotte nel 2012 dalla riforma Fornero; se invece la causa sarà promossa da un “nuovo assunto” (cioè un lavoratore impiegato a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore della riforma), si applicherà il rito ordinario, tornando a quanto accadeva prima del 2012. I motivi di questo ritorno al passo sono da ricercare nei risultati modesti prodotti dal rito sommario della legge Fornero, che era nato con lo scopo di velocizzare il processo e ha finito per allungare le liti, introducendo di fatto un quarto grado di giudizio. I nuovi assunti saranno interessati anche dall’abrogazione della norma che, prima della causa, imponeva l’attivazione procedura di conciliazione preventiva, in caso di licenziamenti economici: l’obbligo resterà in vita solo per i vecchi assunti, per gli altri verrà meno, ma si apriranno le porte del nuovo istituto della conciliazione volontaria.

Come si vede, la riforma introduce semplificazioni importanti, ma solo per alcuni gruppi di lavoratori, con la conseguenza che per molti anni conviveranno nel mercato del lavoro due processi del lavoro, due procedure conciliative, due regimi di impugnazione dei licenziamenti. Questo doppio binario potrebbe frenare molto la portata innovativa delle nuove regole. Una semplificazione così importante ed efficace come quella contenuta nel decreto attuativo del Jobs act meriterebbe invece di essere applicata a tutti, senza distinzioni, anche per evitare di allungare la lista già corposa dei muri che separano i lavoratori più garantiti da quelli meno tutelati, e per scongiurare l’ennesima sovrapposizione di norme, che crea delle complicazioni poco comprensibili agli investitori, italiani e stranieri.

Italia, Cottarelli “batte” Draghi

Italia, Cottarelli “batte” Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Tutti coloro che in questi giorni cantano le lodi del bazooka probabilmente non sanno cos’è un bazooka. All’inizio della Seconda guerra mondiale, i fanti avevano contro i carri armati ultimamente usando i fucili anticarro della Grande Guerra, praticamente impotenti: quando i carri migliorarono mobilità e protezione, infatti, i fucili diventarono solo un peso inutile per i fanti. A quel punto fu necessario utilizzare un tipo diverso di arma, i lanciarazzi, che furono sviluppati sia dai tedeschi che da inglesi e americani Quello degli yankee era il M1 Rocket Launcher 2.36 in Bazooka, che diede risultati soddisfacenti negli ultimi anni di guerra, ideato da Edward Uhl nel 1942. Il soprannome bazooka deriva dal fatto che un uomo, addetto ai collaudi, disse che il tubo assomigliava a uno strano strumento musicale, usato dall’attore radio Bob Burns per creare effetti comici. In effetti, il bazooka, se non è parte di una strategia ben pensata e di una tattica ben coordinata, ha effetti limitati. Vi ricordate il detto di Totò: Bazooka, ogni colpo una buca, ossia più si spara e meno si centra il bersaglio?

Eppure i mercati esultano. Non occorre essere il Premio Nobel Robert Shiller che con una fine teoria ha dimostrato come l’esuberanza delle piazze finanziarie possa essere “irrazionale”. I mercati brindano perché in caso di mancato accordo si sarebbe andati allo sfascio. Alla Banca centrale europea le bocche sono cucite, ma nei felpati saloni del Frankfurter Hof si bisbiglia che Draghi avrebbe minacciato le dimissioni, mettendo in crisi Bce ed eurozona. Ci sarebbe un accordo segreto – da lui smentito – con Renzi per farlo eleggere Presidente della Repubblica italiana, proprio per farlo andare lontano dalle rive del Meno.

In effetti, nella storia degli ultimi due secoli, i mercati hanno esultato solo per pochi giorni o settimane ad accordi monetari redatti unicamente da tecnici e politici, tranne che dopo una guerra mondiale, quando si doveva ricostruire il sistema dalle fondamenta, e quindi la politica, aiutata da grande tecnica (Keynes, White), doveva scendere in campo. Vi ricordate l’intesa del Smithsonian Institution del dicembre 1971, pubblicizzata dal Presidente degli Stati Uniti a reti unificate come “il più grande accordo monetario della storia dell’umanità” e lodato con pari enfasi dalla Commissione europea? Ebbe vita breve (tre mesi) e contrastata, arricchendo la speculazione sui cambi. Anche il Trattato di Maastricht venne esaltato come veicolo di crescita nella stabilità per gli Stati dell’unione monetaria. Soprattutto, sei mesi dopo la firma, Gran Bretagna, Danimarca e Italia ne chiesero la sospensione (dopo che molti, anche loro concittadini, si erano gonfiati i portafogli alle spalle di governi e banche centrali). Londra e Copenhagen restarono i fuori. Roma prese la via del rientro, un percorso come quello per andare al Santuario di Compostela. Lo guidava Carlo Azeglio Ciampi, che fece pagare agli italiani un dazio di un aumento di sette punti percentuali della pressione fiscale sul Pil. Da allora siamo a sviluppo rasoterra.

Oggi nessuno sa come i mercati reagiranno a un accordo contro il quale forze politiche dello stesso azionista di maggioranza (la Repubblica Federale Tedesca, unitamente ad Austria, Finlandia, Estonia, Lettonia) hanno espresso una tale opposizione che un gruppo di distinti cattedratici del diritto e dell’economia ha fatto ricorso alla Corte Suprema (che attende pazientemente sulla riva del Reno superiore, a Karlsruhe, l’evolversi degli eventi). Il problema è politico, non giuridico. Lo esprime con grande chiarezza Antonio Luca Riso dell’ufficio legale Bce nel documento pubblicato nel numero speciale di Imfs (Interdisciplinary Studies in Monetary anf Financial Stability) dedicato alle Outright Monetary Transactions (OMT) e pubblicato a metà gennaio.

Per “politico” deve intendersi che tutto dipende dalle altre politiche che gli Stati dell’eurozona metteranno in campo per dare corpo alla possibile politica di ripresa. Ovviamente, il tasso d’integrazione nell’eurozona sta nel fatto che le politiche di uno Stato incidono anche su quelle degli altri. Ad esempio, si dovrebbe dare maggiore attenzione alla crescita della propria domanda aggregata che, pur se in misura minore di quanto sostengono numerosi media e tanti politici poco informati, può avere un effetto di trazione su altri soci del club. In Italia, tuttavia, ci siamo inflitti dei nostri mali: uno studio del Centro Studi Impresa Lavorodocumenta che dal 2011 l’imposizione su conti correnti e investimenti è aumentata del 130% da 6,9 a 15,9 miliardi di gettito, azzoppando imprenditori e consumatori proprio in una fase in cui da recessione si scivolava in deflazione.

Cosa fare? Uno stop alla pressione tributaria, e se possibile una sua riduzione con paralleli tagli alla spesa corrente. Sono misure che si possono mettere in atto subito agendo su quel capitalismo (o socialismo) regionale e comunale, analizzato dal “segretato” Rapporto Cottarelli (alla faccia della trasparenza e della democrazia). Si può anche mettere in atto immediatamente un programma di privatizzazioni di vaste dimensioni; unitamente alle misure Bce, tale programma dovrebbe portare a una riduzione almeno del 30% dello stock entro il 2015 e rimuovere il blocco principale alla ripresa. In parallelo occorre rilanciare la politica dei prezzi e dei redditi, al fine di porre fine alla discesa nella povertà dei ceti medio bassi e liberalizzare i mercati di merci e di servizi (segnatamente delle professioni un tempo dette “liberali”) per aumentare, tramite la concorrenza, la produttività. Il Governo Renzi è pronto a mettere in atto questa batteria? Altrimenti – ricordiamoci Totò – il bazooka di Draghi farà “buca”.

L’occasione giusta per le imprese italiane

L’occasione giusta per le imprese italiane

Danilo Taino – Corriere della Sera

Com’è possibile che l’economia italiana, in recessione da oltre due anni, abbia continuato a tenere sui mercati esteri? Con un aumento medio annuo delle esportazioni, tra il 2005 e il 2013, del 2% in volume e di quasi il 4% se misurato in dollari (dati Wto)? Ristrutturazione delle aziende, in particolare uso intenso dell’innovazione – sembra essere la risposta. È vero che lo Stato è inefficiente. È vero che il tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro è stato elevato durante gli anni della Grande Crisi. Ma forse proprio per questi vincoli le imprese che hanno voluto sopravvivere non hanno potuto fare altro che innovare, a 360 gradi.

Eurostat ha calcolato che nell’Unione Europea l’Italia è quarta per quota d’imprese considerate innovative. Se la media Ue conta il 48,9% di aziende che tra il 2010 e il 2012 hanno innovato, l’Italia è al 56,1%. Meglio hanno fatto solo Germania (66,9%), Lussemburgo (66,1%) e Irlanda (58,7%). In tutti e quattro i settori considerati, le italiane sono sopra la media Ue. Il 29,1% ha effettuato innovazione di prodotto (sempre nei tre anni 2010-2012), contro una media europea del 23,7%. Nell’innovazione di processo, le percentuali sono rispettivamente del 30,4 e del 21,4. Il 33,5% delle aziende italiane ha cambiato e modernizzato l’organizzazione, mentre in Europa lo ha fatto il 27,5% delle imprese. Nelle novità di marketing, infine, la quota delle italiane è il 31% e la quota europea il 24,3%.

L’Ufficio statistico della Ue fornisce anche dati, aggregati a livello europeo, della differenza di risultati tra le imprese che hanno innovato e quelle che non l’hanno fatto. Tra le innovative, il 60% ha aumentato il fatturato, il 56% ha abbassato i costi, il 51% ha aumentato i margini di profitto e il 42% ha accresciuto la propria quota di mercato. Tra le non innovative, solo il 48% ha aumentato il fatturato e abbassato i costi, il 36% ha aumentato gli utili e il 29% ha conquistato fette di mercato.

A parte l’importanza, ben conosciuta, dell’innovazione, i dati sembrano indicare che l’intreccio tra lo Stato inefficiente e l’euro forte ha costretto a ristrutturazioni serie le imprese italiane. Questo non per dire che ora l’euro indebolito sarà negativo e che le riforme strutturali, se ci saranno, indeboliranno l’energia delle aziende italiane. Al contrario, per dire che siamo su una base solida: l’opportunità del momento può essere notevole.

Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi

Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi

Renato Brunetta – Il Giornale

Finalmente è arrivato il bazooka. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, improbabile Rambo, ha annunciato, infatti, giovedì scorso il lancio di un piano di acquisti di titoli sul mercato secondario da 60 miliardi di euro al mese, a partire da marzo 2015 fino a settembre 2016 (per un totale di circa 1.100 miliardi di euro), salvo continuare se a quella data il tasso di inflazione non avrà raggiunto un livello coerente con l’obiettivo della stabilità dei prezzi (inflazione intorno al 2%).

La strategia per fronteggiare la crisi dell’eurozona adottata dal consiglio direttivo della Bce, presieduto da Mario Draghi è senza dubbio apprezzabile, e vedremo mese dopo mese se l’intervento sarà efficace, le quantità bastevoli, le modalità coerenti. Una sola, amara, riflessione. Se lo stesso sforzo di «acquisto massiccio di titoli» fosse cominciato strategicamente e strutturalmente già nell’estate-autunno del 2011, la storia di questa crisi sarebbe stata diversa.

Fin qui una lettura buonista, e fatta di sole luci, di quanto accaduto. Ma a una lettura più attenta emergono le ombre. Certamente le percentuali di «risk sharing», vale a dire il fatto che il rischio di eventuali perdite sarà per l’80% in capo alle singole banche centrali nazionali, eviteranno che i tedeschi dicano che con i loro soldi si comprano titoli dei Paesi considerati più deboli, ma allo stesso tempo rappresentano una frammentazione della politica monetaria e del sistema finanziario europeo, nonché una sorta di presa di distanze dal debito pubblico dei singoli Stati, e di alcuni in particolare rispetto ad altri. A ciò si aggiunga che la banca centrale nazionale che potrà acquistare il maggior quantitativo di titoli è quella tedesca, vale a dire la banca centrale di quel Paese che meno di tutti ha bisogno che i titoli del proprio debito sovrano vengano acquistati.

Come sempre avvenuto negli anni della crisi, anche in questo caso pensiamo sia stato fatto troppo tardi e troppo poco. E quello che giovedì la Bce ha deciso altro non è che cercare di contrastare con un bazooka da oltre mille miliardi l’effetto nefasto delle misure sangue, sudore e lacrime imposte dal 2008 a oggi ai Paesi dell’eurozona da un’Europa a trazione tedesca. Misure recessive che, oltre all’impatto negativo sulle economie degli Stati e all’allargamento del divario tra Paesi del Nord e del Sud Europa, hanno avuto l’effetto collaterale di blocco della trasmissione della politica monetaria che il presidente della Bce, Mario Draghi, ha cercato di far convergere verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre banche centrali mondiali. È così che sono fallite, infatti, le due aste di credito a breve termine al tasso dell’1% alle banche tenutesi il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012 per 1.000 miliardi di euro. Come è fallito il Securities Markets Programme (Smp), vale a dire l’acquisto sul mercato secondario di titoli del debito sovrano dei Paesi dell’area euro sotto attacco speculativo per 213,5 miliardi di euro, di cui circa 103 miliardi di titoli italiani, cominciato a maggio 2010 e terminato a settembre 2012. Lo scorso anno, inoltre, sono state annunciate, da effettuarsi tra giugno 2014 e giugno 2016, otto nuove aste di finanziamento alle banche, simili alle precedenti due del 2011-2012, con una sorta di correzione: gli istituti che prendono in prestito liquidità agevolata dalla Bce devono destinare quelle risorse al credito a famiglie e imprese. Tuttavia, il numero delle banche che ha partecipato al programma si è rivelato fin troppo esiguo, e il totale degli importi assegnati nelle prime due aste è stato pari a 212,4 miliardi di euro: ben inferiore rispetto ai 400 miliardi messi a disposizione dalla Bce. Così come è fallito, infine, ma qui la responsabilità è soprattutto delle istituzioni europee obbedienti ai diktat tedeschi, il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes).

Negli stessi anni in cui la Bce ha provato ad utilizzare almeno sei strumenti di politica monetaria non convenzionale diversi, sbagliandoli tutti e senza produrre effetti significativi in termini di inflazione (obiettivo che è nel suo mandato) e di crescita dell’economia e dell’occupazione nell’area euro, la Federal Reserve, oltre alla riduzione dei tassi di interesse al minimo storico (0%), ne ha messi in campo solo due: da subito, il Quantitative easing, per 4.500 miliardi di dollari tra novembre 2008 e ottobre 2014; e la cosiddetta «operation twist», vale a dire una operazione di vendita di titoli di Stato a breve termine e contestuale acquisto, per lo stesso ammontare (nel caso di specie: 700 miliardi di dollari), di titoli di Stato a lungo termine.

L’immediatezza, la determinazione strategica, la semplicità, il coraggio e, se vogliamo, la ruvidezza del cow-boy americano ha vinto alla grande rispetto alla timidezza, l’incertezza e gli opportunismi egoistici europei. Nulla di nuovo sotto il sole. Nell’Unione europea, infatti, al contrario di quanto avvenuto negli Usa, la risposta alla crisi della moneta unica è stata sempre insufficiente, tardiva, ma, soprattutto, costosa e, guarda caso, sempre a favore di un unico Stato egemone: la Germania. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

In questo contesto, quella di giovedì è una sorta di «ultima spiaggia». La Bce ha sparato l’ultimo colpo a sua disposizione: dopo non vi saranno ulteriori reti di salvataggio. Tanto più che nelle sue decisioni, Mario Draghi ha preferito il più ampio consenso, cedendo alle pressioni, alla miopia e all’egoismo tedesco e «annacquando» il bazooka, piuttosto che il conflitto, che, al contrario, avrebbe rafforzato la potenza di fuoco della sua nuova, e ultima, arma. Il suo sforzo, inoltre, appare già indebolito dal comportamento post-decisione dei rappresentanti della Bundesbank. È qui il vero problema. Basta con la teoria delle riforme «sangue, sudore e lacrime» di cui avrebbero bisogno gli Stati del Vecchio continente, perché a cambiare, invece, dovrebbe essere prima di tutto la «mission» della Bce e l’architettura istituzionale dell’Unione europea. Finiamola con la retorica dei «compiti a casa».

Di questa complessa situazione occorre tener conto sia al fine di un giudizio sui vari protagonisti della vicenda, sia per individuare i possibili sviluppi. Con ogni probabilità l’euro tenderà a svalutarsi ancora. Le conseguenze per le esportazioni europee in generale, e italiane in particolare, saranno positive. Ma per il resto? Dipenderà dal giudizio comparato dei mercati sulle diverse economie. Se una parte della maggiore liquidità continuerà a defluire verso Wall Street, il resto cercherà i migliori rendimenti europei. Sui mercati vi saranno, pertanto, movimenti al rialzo e al ribasso, con conseguenti perdite o guadagni.

Come reagire di fronte a questi rischi? Cambiare la politica economica dell’Italia, per cambiarla in Europa. In questa corsa contro il tempo occorrerà che l’Italia faccia sul serio per riempire il programma di governo degli adeguati contenuti: a partire dalla riforma fiscale e dal Jobs act, fino a cancellare la suicida politica sulla tassazione degli immobili fin qui adottata. Poche cose, dunque: riduzione delle tasse, in particolare sulla casa; liberalizzazione del mercato del lavoro; riforma della burocrazia; riforma della scuola. Sono obiettivi realistici? Lo vedremo nei prossimi giorni. Draghi-Rambo ha fatto il possibile, ma il rischio che l’Europa si assume nell’immissione di denaro fresco per acquistare titoli di Stato è solo del 20%. Ancora una volta troppo poco e troppo tardi. Prima adotteremo in pieno il modello cow-boy della Federal Reserve, meglio sarà. Altro che bazooka caricato ad acqua.

Proibizione & superstizione

Proibizione & superstizione

Davide Giacalone – Libero

Lesti son lesti, quando si tratta di proibire. Garantendo all’Italia un ulteriore elemento d’arretratezza e violazione del diritto dei cittadini. Quando il ministro dell’ambiente, Gian Luca Galletti, tornò trionfante annunciando di avere indotto i colleghi europei a stabilire che, circa le coltivazioni Ogm, ciascun Paese avrebbe deciso per i fatti propri, scrivemmo subito che trattavasi dell’apoteosi dell’antieuropeismo, nonché la premessa, dalle nostre parti, per la proibizione oscurantista. È puntualmente, nonché malauguratamente, accaduto.

Si deve ragionare su basi razionali, senza accecarsi e farsi accecare da paure e stregonerie mediatiche. La prima domanda è: la coltivazione degli Organismi geneticamente modificati può arrecare danni collaterali o, addirittura, comportare pericoli per la collettività? La risposta è: no. Non è “forse”, è “no”. Non c’è nessuna evidenza scientifica di danni o pericoli. Questo non è un buon motivo per metterci tutti a coltivare Ogm, perché non basta una cosa non sia pericolosa perché sia anche conveniente e utile. Ma è un buon motivo per non proibirla. Oggi, e per la precisione dal luglio del 2013, un agricoltore italiano è meno libero di un agricoltore spagnolo. Ciò vuole dire che un cittadino italiano è meno libero di un cittadino spagnolo. Tanto è evidente la violazione dei diritti, collettivi e individuali, che non hanno il coraggio né la base giuridica per proibire definitivamente quel che altrove non è solo consentito, ma praticato, e allora ricorrono a un trucco: la proroga della proibizione temporanea. Un trucco che serve a evitare che un cittadino italiano si rivolga alla Corte di giustizia e ottenga la sicura condanna dello Stato.

Perché proibiscono? Perché, dopo avere in tutti i possibili modi tassato il settore dell’agricoltura, cedono alla pressione corporativa di organizzazioni che pensano, in questo modo, di tutelare le coltivazioni tradizionali. Tanto è vero che parlano di rispetto dei sapori e dei profumi della nostra tradizione. Il che è comico assai, visto che gli Ogm che taluni pensavano di coltivare erano mais, con cui far mangiare gli animali. Negli allevamenti italiani, del resto, il mais dei mangimi è per la quasi totalità importato e Ogm. E dato che si è quel che si mangia: loro mangiano Ogm e noi mangiamo loro, o beviamo il loro latte. A qualcuno sono spuntate le branchie?

Oltre al danno per il diritto e i diritti, oltre a quello che subiscono gli agricoltori che avrebbero voluto coltivare (e alcuni, in Friuli, già annunciano che lo faranno ugualmente), c’è anche il danno per la ricerca scientifica. Se c’è un problema, sicuramente legato agli Ogm, è che importando le sementi si dipende da chi le ha prodotte (Monsanto, il più delle volte). Poi c’è la fastidiosa cantilena delle lamentazioni per i nostri cervelli che fuggono all’estero. Ebbene, ma come si può pensare di non dipendere dalle multinazionali dell’Ogm, e come si può credere che i ricercatori restino in Italia, se qui è proibito fare quel che altrove sono premiati e pagati per realizzare? Dentro il valore di quelle multinazionali c’è anche il peso dei nostri cervelli che hanno portato le loro capacità e scoperte dove non fosse proibito utilizzarle. Quindi, anche in questo caso, il problema non sono i cervelli che vanno via, ma quelli che rimangono e non funzionano. Uno speciale ringraziamento, allora, ai ministri dell’ambiente, dell’agricoltura e della sanità, che ci hanno conquistato, per altri diciotto mesi, uno spazio d’illibertà, povertà e superstizione.

Potere dell’immaginazione

Potere dell’immaginazione

Davide Giacalone – Libero

Evitiamo di passare dal rigorismo immaginario all’altrettanto immaginario espansionismo. Gli accademici del sentito dire hanno già maledetto qualche milione di volte la dottrina eurorigorista. Peccato che la spesa pubblica continui a crescere (ottime le considerazioni di Alberto Mingardi). Hanno invocato un maggiore deficit, con l’impareggiabile festival della “flessibilità”. Peccato che assieme al deficit, mai mancatoci, cresce il debito, assieme al debito il suo costo, il che porta in alto le tasse. Hanno predicato che l’Unione europea sia la landa della lesina. Peccato che nel frattempo si siano sviluppati stimoli enormi e che l’operazione Ltro abbia ristretto la suicida divaricazione degli spread. Ora, però, si rischia il ribaltamento dell’immaginazione.

Leggo che secondo il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, dopo il varo del Quantitative easing, è bene che le famiglie spendano di più e le imprese maggiormente investano. No, non funziona così. Non basta la pioggia, che cade dal cielo, per passare al raccolto. Dopo anni d’impoverimento non basta dire: sentitevi ricchi e scialate.

Sul lato delle famiglie i dati ci dicono che la forbice s’è allargata. C’è una parte del ceto medio che ha contratto i consumi per potere aumentare il risparmio. Condotta suggerita non solo dalla paura, ma dalla razionale e contabilizzata constatazione che il governo continua a togliere ricchezza tassando il patrimonio più diffuso: la casa. E tassa senza neanche avvertire per tempo. Quindi meglio essere pronti. E c’è un’altra parte del ceto medio che è smottato nella precarietà, trasformando la paura in terrore della povertà. A tutti loro non basta dire: spendete. Perché c’è chi non può e chi non si fida. Si devono prendere i proventi del QE, che porta minore spesa per il debito, unirli a politiche di contenimento e riqualificazione della spesa e tradurli in sgravi fiscali sicuri e permanenti. Altrimenti son chiacchiere.

Sul lato imprese sarà bene ricordare che non veniamo mica da anni in cui sia scarseggiata la liquidità, nei mercati. Anzi, era ed è abbondante. Qui scarseggia il mercato interno (vedi sopra, circa i consumatori) e scarseggia il credito. L’altro programma espansionista, sempre di marca Bce, è il Tltro, finalizzato a fornire liquidi da trasferire alle imprese. Ma da noi rischiano di fermarsi in banca, per debolezza sia delle banche (dal punto di vista patrimoniale) che dei clienti (dal punto di vista dell’affidabilità). Scarseggia anche la certezza del diritto e, tanto per dirne una, dopo mesi di discussioni sulla legislazione del lavoro, ancora oggi un imprenditore non sa in quale regime fiscale e regolamentare assumere. Quindi aspetta. Abbondano, invece, la pressione fiscale e la perversione burocratica. Se non si mette mano a queste cose gli investimenti non ci saranno, o non nella quantità e diffusione tali da lasciare intendere che la ripresa è una realtà, non uno slogan.

Ergo, evitiamo di prenderci in giro da soli. L’operazione della Bce è ottima, per giunta senza limiti di tempo e quantità. Chi si ferma all’80% delle garanzie nazionali non coglie la portata rivoluzionaria del 20% federato. Un passaggio storico. Ma, oltre a essere tutto bancario, che già non è bello, è escluso che provochi quel che si vorrebbe far credere. La saggezza popolare diceva: aiutati che dio ti aiuta. E qui, comunque, non c’è alcun dio intento ad aiutare.

QE della Bce, quel bivio tra euforia e depressione nera

QE della Bce, quel bivio tra euforia e depressione nera

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Sotto una pressione politica e mediatica priva di precedenti, Mario Draghi è riuscito a far approvare a larga maggioranza dal consiglio della Bce un’operazione di allentamento monetario di dimensioni almeno doppie rispetto alle attese. Il sistema europeo delle banche centrali acquisterà titoli sovrani, di agenzie e di istituzioni europee per 60 miliardi al mese fino a settembre 2016 o anche oltre fino a che l’inflazione non sarà su un «sentiero sostenuto» verso il 2%. Il potenziale positivo è molto elevato: sostituendo i titoli pubblici con la nuova liquidità, le banche sono incentivate a finanziarie le imprese nei paesi le cui politiche garantiscano prospettive di crescita; inoltre con un’inflazione più alta calerà il valore reale dei debiti pubblici; infine il mercato dei titoli pubblici sarà meno instabile. La politica monetaria da sola forse non può rilanciare consumi e investimenti la cui mancanza affligge l’economia europea, ma può attenuare la sfiducia ormai radicata che è la prima causa del vuoto di domanda.

Dopo la delusione del piano Juncker per gli investimenti, la Bce offre dunque l’ultimo incentivo ai governi per approvare le riforme, e a banche e imprese per sfruttare il calo dell’euro e del prezzo del petrolio. Le condizioni favorevoli non dureranno in eterno. La data del 2016 assume quindi un significato per la politica e non solo per l’economia. La pressione politica attorno a Draghi era inaudita. Politici di vari paesi avevano aizzato un clima di ostilità che ha finito per far breccia perfino all’interno della Bce. Draghi ha fatto leva sullo statuto della banca, e quindi sui trattati, per far valere l’obiettivo primario della difesa della stabilità dei prezzi. Il principio secondo cui la politica monetaria deve dominare gli obiettivi fiscali, caro alla Bundesbank, è il cilindro da cui Draghi ha potuto estrarre una politica espansiva intesa a modificare le aspettative di deflazione senza eccessivo riguardo alle conseguenze fiscali.

Non è un colpo di magia, ma un esercizio di leadership sovranazionale in un quadro politico sfilacciato in cui governi e opinioni pubbliche si stanno allontanando dal progetto europeo. Non a caso la Bce è diventata il primo bersaglio delle polemiche politiche nazionali. Ieri sera il titolo della “Bild” era «Draghi distrugge i nostri soldi?», il commento della FAZ è «Così Draghi distrugge la fiducia». Non a caso, per mesi l’unico tema dell’allentamento quantitativo è sembrato quello della condivisione dei rischi fiscali tra centro e periferia dell’euro. Due giorni fa, il parlamento olandese ha espresso il parere che i contribuenti dovessero essere tenuti al riparo dal debito italiano. Alla stessa paura rispondono le “stringhe tedesche”, come questo giornale ha battezzato l’opposizione di Berlino alla condivisione dei rischi attraverso gli acquisti di titoli pubblici.

La condivisione formale dei rischi è stata fissata al minimo e avrà come giudice finale il mercato. La Bce acquisterà solo l’8% dei titoli sovrani (un altro 12% di titoli di istituzioni europee), il resto finirà nei bilanci delle banche centrali nazionali. Si accetta quindi il rischio che prosegua la frammentazione dei sistemi finanziari in corso da tre anni, con tassi d’interesse nei paesi deboli più alti che negli altri. Inoltre in caso di crisi fiscale, ogni paese si troverebbe più facilmente isolato. Ma l’eventualità di insolvenza si allontana (benché non sia esclusa dall’annesso tecnico diffuso da Francoforte) ora che la spirale debito-deflazione viene contrastata credibilmente attraverso un intervento che tutti i governatori hanno giudicato al riparo da contestazioni giudiziali.

Il giudizio sul grado di condivisione o di segmentazione degli acquisti di titoli pubblici si capirà meglio a marzo, dopo il completamento della preparazione tecnica e legale. A Francoforte spetta infatti il coordinamento degli acquisti delle banche centrali nazionali secondo proporzioni in linea con le quote di ogni paese nel capitale della Bce. Non è affatto detto che ogni banca centrale acquisti solo titoli del proprio paese, né che la proporzione dei titoli sia fissa (potrebbe essere impossibile nel caso di paesi piccoli e con poco debito). A quanto è possibile capire, viene sancita la centralità dell’organo direttivo della Bce nel decidere le modalità degli acquisti anche modificandole nel corso del tempo. In teoria, come in passato, la Bce potrebbe modificare il programma qualora i governi abusassero del credito facile per non rispettare gli impegni, un’ipotesi che avrà una verifica con il caso greco.

In ultima istanza, se l’intervento della Bce condurrà a un miglioramento dell’economia e a un ricompattamento anche politico dell’euro area, o se invece allargherà la porta d’uscita per i paesi deboli, non dipende dalla banca centrale. Come si ripete di solito, l’intervento della Bce toglie alibi alle responsabilità politiche nazionali. Una volta ribadita l’unicità della politica del sistema di banche centrali, la condivisione dei rischi resta comunque in via indiretta attraverso il sistema dei pagamenti, il potenziale di conflitto politico tra paesi resta dunque elevato. Tutti i governi devono capire la natura “bipolare” della manovra di ieri: darà euforia se le cose andranno bene, o depressione nera se la sfida sarà mancata.