Edicola – Opinioni

Tempo buttato

Tempo buttato

Davide Giacalone – Libero

La lezione greca è chiara: sono stati buttati quattro anni. Il problema non è il contagio, ma l’infezione mai curata, solo lenita con farmaci sintomatici. La Banca centrale europea ha comprato tempo. I governi europei lo hanno sprecato. Quattro anni dopo siamo a chiederci: cosa succederà alle elezioni greche? Come all’inizio di questa storia. E come all’inizio la risposta legittima è una sola: i greci votano come pare a loro, se la cosa ha riflessi negativi fuori dai loro confini è perché i guasti strutturali dell’euro sono rimasti quelli che erano.

Tre cose le sappiamo, fin dall’inizio: a. se un debito nazionale non è sostenibile (come nel caso greco) o esagerato (come nel nostro), la moneta unica non fa da scudo contro il rialzo dei tassi d’interesse, perché proprio per metterne alla prova la tenuta i mercati li spingeranno verso l’alto, rendendo la situazione ulteriormente insostenibile; b. avendo accettato di avere dentro una stessa moneta dei debiti diversi, venduti a tassi diversi, non è pensabile che le democrazie resistano a una svalutazione forzosa e drammatica non della moneta, ma del tenore di vita interno a un Paese, per quanto tale svalutazione possa essere fondata e legittimata dalla pregressa dissolutezza; c. la soluzione, del resto, non può consistere nel trasferire ricchezza verso il Paese a rischio bancarotta, salvo portargliela via quale costo del debito stesso. Alla Grecia sono già stati dati 240 miliardi di euro, ma se solo si fa finta che quei soldi non dovranno essere restituiti, il che richiede l’applicazione immediata di politiche restrittive che aggravano la recessione, si ottiene il risultato che altri popoli d’Europa, altri elettorati, si domanderanno perché non ricevere il medesimo trattamento. O perché regalare soldi ai dissoluti. Se, all’opposto, si fa valere il principio della restituzione e del controllo sulle politiche del debitore, allora quel Paese perde immediatamente sovranità. Cedendola ad ambiti che non hanno nulla di democratico.

Questo è il vicolo cieco che vedemmo quattro anni fa. Conservatosi immutato. È evidente che le politiche proposte dalla sinistra antieuropea, in Grecia, sono bubbole populistiche, così come lo sono le parole d’ordine della destra di eguale conio, altrove per le lande europee. Ma gli elettori che alternative vedono? Per offrirle, e perché la politica torni alla razionalità, occorre che i due processi procedano di concerto: da una parte si cede (tutti) sovranità, dall’altra i debiti (di tutti) si federalizzano, almeno in parte. Se d’imboccare questa strada non si ha la forza, o la voglia, continueremo a buttare via il tempo, senza che la diga della Bce possa funzionare in eterno.

Dal primo di gennaio (non dal 13, data esistente solo nel dibattito italiano) la presidenza dell’Unione europea sarà affidata alla Lettonia. Lo stesso giorno la Lituania farà il suo ingresso nell’euro, festeggiando l’evento come una conquista e vedendo l’integrazione come un successo e una garanzia. Lettonia e Lituania! Basterà riflettere sul significato di quel giorno per rendersi conto che l’Europa degli ideali viaggia su un binario diverso da quello in cui procedono problemi e conflitti. Se i due binari non dovessero incontrarsi mai, l’Europa resterà un animale incompiuto. Se dovessero incrociarsi potrebbe esserci una pericolosa collisione. Questo è il problema da affrontare. Fin qui s’è solo rinviato. E mai come in questo caso è vero che il tempo è denaro.

Cordata Italia

Cordata Italia

Davide Giacalone – Libero

Arrivare in fondo all’anno è l’occasione per misurarsi con il passato e prendere le misure al futuro reale. Se guardate le previsioni che ci riguardano, relative al prodotto interno lordo 2015, vi accorgete che non hanno senso. Variano troppo, andando da una crescita dello 0,1 a una dello 0,8. La migliore è troppo poco. E allora? Se immaginiamo l’anno che finisce come ad una scalata, ci accorgiamo che alcuni membri della cordata sono riusciti a salire più su, mentre altri sono andati più giù. Il baricentro complessivo s’è abbassato, segno che non solo il corpaccione non tiene il ritmo dei più bravi, ma costituisce un peso morto che scende più velocemente di quanto quelli salgano. Dato che il problema collettivo è quello di riagguantare non la crescita dei cinesi, ma l’arrampicarsi degli italiani che stanno in cima, la prima domanda da porci è: chi sono? Sono quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno stretto i denti, tirandosi su anziché lasciarsi pendolare.

Sono gli italiani che hanno spinto la crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+15% a novembre, dati Istat) e verso il Sud Est asiatico (+19,7). Siamo cresciuti esportando verso i paesi Opec (+ 3,8), come anche in Svizzera (+4). Siamo scesi dove le crisi politiche o economiche hanno lasciato il segno: Russia, Giappone, Mercosur. L’esportazione di prodotti per la cosmesi ha segnato, nel 2014, un +5,5%. In Cina siamo cresciuti meno che nel passato, ma più di quanto siano cresciuti i tedeschi, le cui aziende hanno un accesso al credito più facile e meno costoso. In Cina, poi, abbiamo messo a segno importanti successi nel settore alimentare, rendendo proceduralmente sicura l’esportazione di latte, prosciutti e insaccati. Nel settore navale Fincantieri si consolida protagonista globale. Questo, e altro, non significa che in testa alla cordata sia una passeggiata. Si suda e sbuffa, ma non si molla.

Tre categorie di italiani che lo rendono possibile. Le imprese, che diminuiscono i margini di guadagno, pur di non perdere quote di mercato e clienti. Che migliorano continuamente il prodotto, interpretando correttamente la globalizzazione. I lavoratori, che aumentano impegno, professionalità e flessibilità (si pensi a molti giovani e alle partite Iva, irragionevolmente bastonate), pur di non perdere il lavoro. Le famiglie, che quando possono aumentano il risparmio, sapendo che la sicurezza futura dipende da loro stesse. Non è un’Italia deamicisiana, ma di quello stampo ricorda l’impegno, la serietà e la previdenza.

Questi italiani, attaccati alla roccia e interpreti di un destino antico e nobile, hanno alla vita una corda che lo Stato continua a strattonare verso il basso. Non sono un sostenitore delle teorie anti-Stato (semmai il contrario), ma vedo una scena raccapricciante: cittadini che aumentano sforzi e diminuiscono pretese, zavorrati da uno Stato che accresce le pretese fiscali diminuendo (se possibile) la qualità dei servizi che rende. A cominciare da giustizia e burocrazia. E siccome molti pensano che lo Stato sia la soluzione, e non il problema, ecco che l’andazzo fa da alibi a quanti (troppi) suppongono che la loro condizione di disagio non dipende dal fatto che non producono un accidente, ma dalla eccessiva velocità e cupidigia con cui si muovono quelli che stanno in cima. E’ l’alibi mortale: fermare i veloci, anziché mettere pepe al sedere dei bradipi. Questa massa inerte viene illusa da chi le fa credere che nessuna colpa sia nostra e tutte siano altrui. Si coltiva la corruzione della memoria, facendo credere l’incredibile, ovvero che con una valuta nazionale potremmo svalutare e inflazionare impunemente. Come se questa non fosse proprio la condizione che ci ha ficcati nel toboga del declino. Tale sciocca e colpevole illusione fa credere che si debbano adottare politiche premianti i discendenti anziché gli ascendenti. Tutto qui.

Guardando verso l’alto abbiamo la certezza di un’Italia che può e sa correre, trascinando tutti verso nuove vette. Guardando verso il basso si è presi dalla vertigine di un declino che degenera in degrado, alimentando rabbia e insensata rivalsa. Avendo smarrito il senso politico e cardinale di destra e sinistra, sarebbe saggio adottare un orientamento fatto di alto e basso. Farlo è più facile che dirlo. Non farlo è assai più pericoloso che ignorarlo. Perché la lussuria dell’abisso porta con sé il precipitare nell’imbarbarimento. Se consapevoli, lungo tutta la cordata, non ci farà paura mollare i pesi inutili e dannosi, ma il tenerceli stretti. Come molti continuano a fare.

Errori e balocchi

Errori e balocchi

Davide Giacalone – Libero

Ammettere gli errori è onesto e può essere segno di forza. Ma può anche essere una sgusciante furbata. Dice Matteo Renzi, ai microfoni di Rtl 102.5, che “un intervento correttivo sulle partite Iva è sacrosanto e me ne assumo la responsabilità”. Dell’errore commesso o della correzione? Di entrambe, suppongo. Bene, gliene renderemo volentieri merito. Non è per non fidarsi, però ci sono cose che non tornano.

L’errore, ora ammesso come tale, è stato qui segnalato quando la legge di stabilità era ancora in discussione. Per correggere quelli accumulati nell’iter parlamentare, diversi dei quali indotti da emendamenti presentati da ministri, il governo ha elaborato un mostruoso maxi emendamento, in totale continuità con i (peggiori) costumi di sempre. In quel testo, caotico, colmo di strafalcioni e scritto in un linguaggio che (teoricamente) la legge proibisce, l’errore non solo c’era ancora, ma aggravato. Anche questo lo abbiamo qui scritto, in tempo utile per la correzione. Niente. Su quel frullato legislativo hanno posto la fiducia. Teoricamente si sarebbe potuto intervenire alla Camera dei deputati, visto che è questo il lato positivo del bicameralismo (consustanziale alla “Costituzione più bella del mondo”, anche se ora va di moda oltraggiarlo). Obiettano: così si sarebbe arrivati all’esercizio provvisorio. Primo: non è una tragedia. Secondo: meglio quello delle norme abborracciate e sbagliate. Niente. La mattina dopo l’approvazione definitiva ecco Renzi: è un errore, va corretto. Poteva accorgersene prima. Sarebbe bastato leggere.

La stessa mattina, però, il Corriere della Sera pubblica una nota firmata da Yoram Gutgeld, consigliere economico del medesimo Renzi, il quale sostiene che non solo non è un errore, ma un’ottima e giusta cosa, una conquista fiscale e semplificatoria (!?). Ovviamente dissento, avendo sostenuto il contrario, ma mi educarono a rispettare opinioni e tesi altrui, salvo confutarle. Qui, però, il problema è che due opinioni opposte risiedono in due stanze attigue, a Palazzo Chigi. La domanda è: stanno parlando dello stesso testo? Oppure, nel caos, hanno ancora in mano bozze e riassuntini diversi? Difficile credere che Gutgeld potrà consigliare la correzione di quello che gli sembra ben fatto. Ma, allora, chi si sbaglia? È comunque disdicevole la dottrina per cui le leggi si fanno insalsicciando di tutto, anche a caso, salvo poi intervenire con altre leggi per correggerne i più macroscopici errori. Si deve a tale dottrina la non credibilità e affidabilità delle leggi. Il tutto senza dimenticare che si continua a dare per fatta la diminuzione della pressione fiscale, il che non trova fondamento nel testo e, con ogni probabilità, serve ad alimentare una suggestione. Occhio, perché poi si trasforma in disillusione. Difficile da indirizzare.

Renzi ha fatto riferimento anche all’Ilva, altro tema qui sollevato, avvertendo noi che si sta andando in direzione opposta al necessario, nazionalizzando laddove si dovrebbe privatizzare. Ha detto che l’Unione europea non può impedirci di salvare i bambini di Taranto. Siamo abituati alle parole e ai toni della propaganda, ma queste superano il tollerabile. Sembra il piccino cui la mamma non compra i balocchi, salvo che è cresciutello e vuole imporsi per ruzzare, ma senza che la mamma smetta di dilapidare in profumi e il babbo scommettendo all’ippodromo. Invocare il superamento di parametri agitando l’immagine dei bimbi equivale a dire che non si è capaci di porre limite alcuno ai loro dissennati genitori. Si è sodali degli sperperanti, tentando di far credere che i cattivoni stiano altrove. Forse Renzi non lo ha chiaro, ma è esattamente questa la ragione per cui la legge di stabilità non solo non cambia affatto verso, ma fa il verso al peggio del passato. Pur al netto degli strafalcioni. Suggerisco un criterio facile: finché non sarà tagliata la spesa pubblica è escluso che scenda la pressione fiscale, senza che cresca il debito. Statalizzare l’Ilva è l’opposto.

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

Davide Giacalone – Libero

Al celebrato «popolo delle partite Iva» arriva la polpetta avvelenata. Gli obiettivi annunciati erano: a) diminuzione della pressione fiscale; b) semplificazione; c) elasticità. La legge di stabilità impone gli opposti. Prima 30.000 euro era il limite massimo entro cui forfettizzare un prelievo del 5%, ora si scende alla metà (15.000), ma con aliquota al 15%. Il reddito, però, è tassabile al 78%, supponendo costi al 22. Supposizione frutto di esoterismo burocratico, basata sul nulla, il cui unico effetto sarà quello di mettere fuori mercato le iniziative coraggiose di chi si spende oggi per guadagni futuri. Dovendo mettere fra i costi un fisco che non tassa solo il profitto, ma anche quel che si spende per raggiungerlo, chiuderanno bottega. Impoverendoci tutti.

Con il vecchio sistema forfettario un reddito autonomo di 30.000 euro ne pagava 1.500 di Irpef, con il nuovo ne pagherà 7.000. Queste stesse partite lva, inoltre, scopriranno che non conviene più il regime forfettario, talché sarà saggio tornare a quello ordinario. ll tutto mettendo nel conto anche la crescita della pressione previdenziale, generata dalla gestione separata Inps: 2 punti in più nel 2015, poi uno in più all’anno, fino a toccare il 33,72%. Morale: la promessa diminuzione della pressione fiscale ha generato il suo incremento e l’annunciata semplificazione ha partorito le complicazioni.

Veniamo all’elasticità: per quanto sembri strano, è la guancia su cui è stato assestato il più bruciante ceffone. Il governo aveva annunciato di voler puntare sull’elasticizzazione del mercato del lavoro, premiando chi ha meno protezioni con meno oneri e meno vincoli. Ricordate la storia di Marta? La giovane precaria cui si voleva assicurare una maternità serena, evitando che sia un privilegio delle sole lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato? Ebbene, la Marta che ha una partita Iva non solo non ha alcuna protezione, avrà una maternità interamente a proprio carico,e contabilizzerà come minor reddito il tempo in cui non lavorerà. Ora pagherà più tasse e non potrà più scalare dal reddito tutte le spese sostenute per l’attività, ma solo il 22%. Volevano festeggiare Marta, l’hanno conciata per le feste.

Con il Jobs act si vuol portare maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, ma intanto si bastona chi ne è l’incarnazione. Il lavoratore autonomo porta sulle proprie spalle l’intero carico del rischio e modula il proprio lavoro in rapporto alle esigenze del cliente. Per questo non ha un orario di lavoro, dato che potrebbe semplicemente non avere mai sosta. Questo esercito di lavoratori (circa 6 milioni e mezzo) rende ancora fluido il sangue che circola nel corpo produttivo. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è quella che si è fatta: punirlo.

Conosco a memoria (se non altro per esperienza diretta) il copione della polemica inutile: i lavoratori dipendenti pagano le tasse, mentre gli autonomi le evadono. Nessuna delle due cose è vera. I lavoratori dipendenti possono evadere le tasse, ad esempio i docenti facendo ripetizioni private in nero. Mentre i controlli sugli autonomi sono severi. Certo che c’è l’evasione fiscale, ma il conto reso intollerabilmente salato dalla legge di stabilità non lo pagheranno mica gli evasori, bensì le persone per bene. Fino a rompere l’elastico. La ciliegina sulla torta, la beffa dopo il danno, è il sentire i governanti continuare a pavoneggiarsi: abbiamo diminuito la pressione fiscale. È falso per tutti. Per i lavoratori autonomi è vero il contrario: è cresciuta e crescerà. Tutto per finanziare la spesa pubblica corrente, che continua intonsa la sua corsa verso l’abisso.

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

Giuseppe Pennisi – Il Sussidiario.net

Sarebbe ingeneroso commentare il semestre in cui l’Italia ha avuto il compito di presiedere gli organi di governo dell’Unione europea raffrontando le aspettative suscitate dalle promesse dello scorso maggio/giugno con i risultati quali si possono constatare a fine dicembre. Le promesse contengono sempre una buona dose di retorica e si è puntato molto in alto (un’interpretazione  e tensiva di trattati e di accordi inter-governativi in materia di flessibilità) allo scopo di raggiungere  obiettivi più modesti, quali lo scomputo degli investimenti pubblici dal calcolo dei parametri  attinenti al rapporto tra indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Prodotto interno lordo (Pil). In effetti di concreto si è ottenuto molto poco: lo “scomputo” sarà consentito all’Italia, e ai nostri partner, unicamente per gli investimenti attinenti al quel “piano Juncker” che, come abbiamo scritto, si regge su complicate e strane alchimie e forse non decollerà mai.

Occorre dare atto alla tenacia e all’energia del Presidente del Consiglio, tuttavia, di aver contribuito alle richieste di altri Capi di Stato e di Governo di riportare il tema della crescita nell’agenda europea. Dobbiamo anche dare atto che il semestre ha avuto luogo in un momento particolarmente infausto caratterizzato dal cambiamento della Commissione europea, da un’eurozona additata dal G20 come il grande malato dell’economia mondiale, da una guerra al confine orientale (Ucraina-Russia) e dal Medio Oriente in subbuglio con il sorgere dell’Isis.

La crescita è tornata tra i temi dell’agenda europea, ma non è certo che ne sia l’argomento centrale. Perché l’Italia possa proporre, in seno agli organi Ue, che la crescita abbia un ruolo maggiore deve, innanzitutto, uscire dalla condizione di ultimo della classe, “rimandato e declassato” come ricordato su queste pagine. È necessario ammettere che Governo e Parlamento non hanno dato un bello spettacolo nel completare la Legge di stabilità con il voto di fiducia su un maxiemendamento le cui coperture non sono certe.

Ci sono casi, specialmente se si è stati rimandati agli esami di riparazione, in cui è preferibile qualche settimana di esercizio provvisorio per mettere bene a punto la normativa e presentarsi agli “esaminatori” con un compito ben fatto. Sarebbe disastroso se la prima relazione di cassa, coincidente con la verifica europea del “caso Italia”, mostrasse che siamo stati frettolosi e pasticcioni. Inoltre, le prospettive per il futuro non sono rassicuranti. Abbiamo spesso fatto riferimento alle stime del gruppo del consensus (20 istituti privati econometrici) che, però, hanno una durata di 24 mesi. Rivolgiamoci ad alcune a medio e lungo periodo approvate dai rappresentanti ufficiali del Governo italiano. Le più ottimiste sono quelle della Commissione europea, che mostrano una graduale ripresa sino a raggiungere il tasso di crescita dell’1,1% nell’ipotesi di energiche riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi e di un serio programma di privatizzazione. L’Ocse vede un ritorno a un tasso crescita del 2% verso il lontano 2025 , sotto l’ipotesi di politiche ottimali, per poi riprendere a scendere a ragione dell’invecchiamento della popolazione. Per il Fondo monetario internazionale si giungerebbe a un tasso di crescita dell’1,3% (sempre con politiche ottimali) ma subito dopo tornerebbe il declino. L’ufficio studi economici ci vede ansimanti alla ricerca di un tasso di crescita dell’1% l’anno. Se dai grafici e dalle tabelle si passa ai testi, due sono i temi di fondo: la produttività dei fattori e il peso del debito. Sono stati affrontati con l’energia del caso nel corso del semestre? Ce lo chiediamo.

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Li “scarteremo” sotto l’albero. I decreti attuativi del Jobs act sono in fase di elaborazione avanzata e verranno divulgati nel Consiglio dei ministri di mercoledì. Alle parti sociali è stato detto poco. C’è il sospetto che, via via che si entra nel dettaglio delle complessità del mercato del lavoro, la riforma prenda atto dei rischi possibili se l’approccio è poco sistemico e troppo contingente. Il contratto a tutele crescenti fa il conto con la fatidica soglia dei 15 dipendenti e costringe il Governo a pensare a una forma “scontata” per gli indennizzi a carico delle piccole imprese, altrimenti penalizzate dalla nuova disciplina. E ciò naturalmente riproporrà una nuova forma di dualismo nel mercato che già sconta quello tra vecchi e nuovi assunti perché la riforma non si è spinta fino a generalizzare le nuove regole. E si affianca all’altro dualismo tra contratti a termine, versione riforma Poletti, e i contratti a tempo indeterminato senza contribuzione che il Governo vuole più convenienti e che entreranno in vigore dal 1° gennaio.

Il pendant del superamento dell’articolo 18 è la creazione di nuovi ammortizzatori sociali e il disboscamento delle forme di precariato. Ma anche in questo caso sono possibili rischi di incongruenza. L’aver annunciato di voler superare i contratti di collaborazione e, allo stesso tempo, di volerli includere tra i possibili beneficiari del nuovo ammortizzatore sociale universale (l’Aspi) non sembra improntato a coerenza e, soprattutto, rischia di avere un costo che nessuna Ragioneria generale potrà mai bollinare. La riforma è un importante passo avanti; va però inserita in un orizzonte più generale. È tempo di ripensare l’idea di ammortizzatori sociali che ha portato ai paradossi di lavoratori con anzianità aziendale di 20 anni dei quali solo 6 o 7 lavorati effettivamente. Non ha senso immaginare vite lavorative fatte di un rosario di cassa integrazione ordinaria, straordinaria, contratti di solidarietà, mobilità, mobilità lunga, prepensionamenti. La riforma deve diventare l’occasione per rendere efficiente il mercato del lavoro e viverlo come tale, un bacino dove si creano e si distruggono posizioni in continuazione, e dove conta facilitare al meglio l’incontro tra domanda e offerta tramite la collaborazione tra pubblico e privato. Più facile a dirsi che a farsi. Ma il riformismo vero sta tutto nel far coincidere il detto con il fatto.

Non pago le tasse, mi autorizza la Costituzione

Non pago le tasse, mi autorizza la Costituzione

Giuseppe Barresi – Il Giornale

Mi chiamo Giuseppe Barresi, lavoratore e prima ancora padre e nonno di famiglia, dichiaro apertamente di non riuscire più a pagare, con i miei incassi, tutte quelle tasse che lo Stato mi chiede. Mi appello ai principi dello stato di necessità e della capacità contributiva proporzionale al proprio reddito, stabiliti rispettivamente dagli articoli 54 del Codice penale e 53 della Costituzione per legittimare il mio rifiuto categorico di continuare a contribuire, attraverso le tasse, alle spese per il mantenimento dei privilegi della classe politica che ci governa, vera protagonista di questa crisi economica.

Con le loro scelte hanno mantenuto uno Stato parassitario, e scaricato le proprie responsabilità verso le categorie più deboli, in particolare piccoli commercianti e artigiani. Tassa dopo tassa ci hanno portato allo stremo e oltre, spesso inducendoci a pensare seriamente al suicidio. E questa è l’accusa maggiore che faccio ai nostri governanti: induzione al suicidio. In questi anni ho cercato di pagare le bollette, che sono quadruplicate, ho cercato di pagare le tasse comunque quadruplicate, ho cercato di mantenere in vita la mia attività portando al minimo i costi di gestione e riducendo le mie entrate, perché costretto ad abbassare i prezzi (nonostante l’Iva) per mantenere la clientela.

Di conseguenza ribadisco apertamente di non poter più pagare ulteriori tasse: non sono un delinquente, non sono un ladro e non voglio essere un evasore, ma davanti a una politica che continua insensatamente a mantenere privilegi e costi sproporzionati, vergognosi e irrispettosi nei confronti di tutti i lavoratori di questo Paese, inizio questa protesta economica appellandomi ai due sopracitati principi: Articolo 54 comma 1 del Codice penale: stato di necessità. Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Il vertiginoso e incontrollato aumento delle tasse ha prodotto un danno grave e attuale alla mia famiglia mettendo in pericolo soprattutto il futuro dei miei figli e nipoti.

Articolo 53 comma 1 della Costituzione italiana: tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Io non incasso abbastanza per pagare tutte queste tasse e se non incasso abbastanza vuol dire che c’è qualcosa nei conti dello Stato che non funziona e quindi essendo cittadino italiano esigo che lo Stato si faccia garante della mia condizione familiare. #IOnonMIammazzo.

Natale in casa Ilva

Natale in casa Ilva

Davide Giacalone – Libero

Il Natale all’Ilva sarà l’epifania dello statalismo. Il futuro agognato consiste nel resuscitare il passato. Il nuovo che avanza s’acconcia al ritorno del vecchio che disavanza. Non si tratta di pensare male, ma di leggere bene: il 24 dicembre l’Ilva sarà nazionalizzata, con un’operazione ritenuta esemplare e, pertanto, da replicarsi anche in altri casi, a tale scopo adattando la Cassa depositi e prestiti. In una stagione in cui si dovrebbe privatizzare, dismettendo patrimonio pubblico per abbattere il debito, il governo ha in animo di far divenire pubblico quel che è privato. Dodici anni dopo la liquidazione dell’Iri si torna a volere lo Stato azionista. Diciannove anni dopo lo sbaraccamento dell’Italsider e la cessione dell’Ilva ai privati s’ingrana la retromarcia e si torna al punto di partenza.

Ciò che si deve leggere bene è l’intervista rilasciata dal presidente del Consiglio all’ottimo Claudio Cerasa, per Il Foglio. Il primo passaggio illuminante è quello in cui Matteo Renzi afferma che, ripresa la proprietà pubblica dell’Ilva, il prossimo 24, questa avrà lo scopo di “salvarla, rimetterla a regime e rivenderla in un arco di tempo che va dai due ai cinque anni”. A leggerla così sembrerebbe che la proprietà privata dell’Ilva era fallita, sicché, per salvare l’occupazione, lo Stato debba sacrificarsi. Ma non è così. La verità è che lo Stato può essere l’unico acquirente dell’Ilva per la semplice ragione che l’attività dell’acciaieria è interdetta dallo Stato stesso. Lo Stato ha bloccato l’acciaieria con la sua mano giudiziaria, raccattandola poi con quella finanziaria.

Noi non ci sostituiamo ai tribunali, né per accusare né per assolvere, il fatto è che qui il tribunale non s’è ancora visto. È la procura che ha progressivamente immobilizzato l’attività produttiva, al punto che il governo dovette intervenire con un decreto legge affinché l’intera attività non si fermasse. Gli esiti processuali li vedremo quando ci sarà un processo, ma quel che oggi innesca il ritorno dello Stato nella proprietà è proprio l’incertezza del diritto a potere produrre acciaio, incertezza indotta dall’azione dello Stato. Stanti così le cose, delle due l’una: o le azioni della procura si dimostreranno infondate, sicché si sarà proceduto a un esproprio senza alcuna ragione di diritto; oppure si dimostreranno ottime, quindi necessari investimenti ulteriori per la bonifica ambientale. Nel primo caso si sarà tradito un principio costituzionale, relativo alla tutela della proprietà. Nel secondo si spenderanno soldi pubblici per porre rimedio, senza alcuna garanzia che il risultato finale, fra due o cinque anni (ma l’esperienza insegna che i tempi s’allungano in modo inquietante), sarà vendibile e si troverà un acquirente. Perché il mercato corre e la dirigenza pubblica ha già dato costosa prova della propria incapacità a comprenderlo e seguirlo.

Tanto non si tratta di una spiacevole e passeggera necessità, bensì di una scelta ritenuta saggia e ripetibile, che, più oltre nell’intervista, Renzi dice, a proposito di Cassa depositi e prestiti: “anche attraverso l’operazione Ilva, in cui Cdp indirettamente collabora, credo sia necessario pensare a come farla cambiare e come renderla adatta a risolvere altre potenziali situazioni come quella di Taranto”. Chiarissimo: Cdp deve servire a far tornare alla grande lo Stato imprenditore. E siccome ti voglio vedere a rifiutare l’intervento laddove ci saranno fallimenti reali, ovviamente comportanti licenziamenti, quello che s’appronta è il tipico carrozzone di gestioni clientelari e fallimentari.

Già è pazzesco in sé, ma è anche l’esatto opposto di quel che si dovrebbe fare. La cosa di cui l’Ilva e Taranto hanno il più urgente bisogno è sapere se c’è stata attività criminale e se la produzione può continuare nella legalità. Su questo fronte il governo ritiene utile non accorciare i tempi, ma allungarli, come dimostrano le corbellerie dette a proposito della prescrizione. Siccome così nessuno può operare, raccatta i cocci e li mette in conto alla collettività. Non contento, afferma che è solo l’inizio e per il futuro ci stiamo attrezzando. Nel frattempo si va dicendo che quei fetenti dei burocrati europei non dovrebbero permettersi di rompere le scatole sui nostri conti e sul debito crescente. Lasciateci liberi di tornare al passato, con approccio nostalgico non privo di potenziali sdrucciolamenti: l’Iri (ditelo ai giovin toschi) non fu fondato sotto il governo di Amintore Fanfani, ma di Benito Mussolini.

Semestre sbagliato

Semestre sbagliato

Davide Giacalone – Libero

Non è deludente il bilancio del semestre italiano di presidenza Ue, ne è stata sbagliata l’impostazione. Si è puntato tutto sul concetto di “flessibilità”, in modo da farci stare conti che non tornano, ma questo ha prodotto impotenza. Dire, come ha fatto Matteo Renzi, che l’ultimo vertice è stato vincente per i flessibilisti, dato che i contributi nel fondo per il piano Juncker non saranno contabilizzati in deficit, significa prendere in giro. O, peggio, prendersi in giro: quei soldi sono un’inezia, mentre l’occasione è stata colta per ribadire che ogni altra spesa pubblica va nei conti normali. Il che è ovvio, ma pur sempre l’opposto di quel che il governo italiano ha inutilmente cercato di sostenere.

Mentre il vertice europeo si chiudeva nell’inconcludenza, varando un piano senza fondi, mentre le previsioni economiche per il 2015 oscillano fra l’immobilità e il dinamismo dei bradipi, e mentre le agenzie di rating continuano a declassare stati, società e banche europee, i giornali hanno avvertito che i titoli del debito pubblico toccano record per i bassi tassi d’interesse e gli spread si rattrappiscono. Come è possibile che il male produca il bene? Tecnicamente: perché le iniziative della Banca centrale europea funzionano. Evviva. Ma la faccenda ha un risvolto inquietante, perché in Europa dove c’è potere non c’è politica e dove c’è politica non c’è potere. Pessimo.

Dove agiscono i governi, con alle spalle i parlamenti e alla base gli elettori, si producono rinvii e compromessi dilatori. Dove agisce la Bce si ottengono risultati positivi e immediatamente contabilizzabili. Se la politica degli europei, e il semestre italiano, si fossero posti il problema di colmare questo pericoloso divario, per tanto o poco che si fosse riusciti a fare ci si sarebbe mossi nella giusta direzione. Invece ciascuno vive l’Unione come vincolo o come pericolo, rivolgendo la propria attenzione ai conti interni e cercando di mascherarne le debolezze per non pagarne il prezzo elettorale. Da qui il macroscopico paradosso: il continente più ricco che brancola accecato.

È veramente prevalsa la flessibilità? A Palazzo Chigi tendono a dimenticare anche le cose che dicono, forse perché troppe. Sostennero che la flessibilità era dovuta in quanto già prevista dai trattati. E così è, ma, appunto, necessita di azioni e riforme conseguenti. Hanno anche detto che l’Italia avrebbe fatto valere lo svantaggio congiunturale (la recessione), per sfuggire alla morsa del fiscal compact. Agli sgoccioli del semestre resta l’appuntamento a immediatamente dopo l’inizio dell’anno, per rifare i conti e finalizzare l’esame a marzo. Detto in modo diverso: la bocciatura che poteva essere impartita a novembre s’è trasformata in un mero rinvio. Che ne produrrà altri, perché l’Italia è troppo grossa per essere commissariata. Ma i rinvii allungano l’agonia di politiche prive di visione e di governi incapaci di tagliare la spesa pubblica e la pressione fiscale, con il che la ripresa è indotta solo dalle esportazioni, la produttività resta bassa, il costo del lavoro (non il salario) alto, la sicurezza remota e il riassorbimento della disoccupazione spostata sempre di un anno più in là.

Questa non è la politica dei piccoli passi, ma l’immobilità con la politica a spasso. Questa è la ricetta per allontanare sempre di più l’urgenza dei rimedi, pagando il tempo con il progressivo indebolimento. Più la ricetta ha successo e più sarà duro il ritorno alla realtà. Ma noi ci raccontiamo come urgenti riforme che si dice di volere fare entrare in vigore fra tre anni. Noi c’interroghiamo sulla corsa al Colle, strologando di nomi e dimenticando sia la funzione che la cosa più importante: qual è la missione che si assegna al nuovo inquilino? Noi crediamo che mostrarsi presi da queste faccende, e scaricarvi tutta la pettoruta determinazione, posponga o addirittura evapori i pericoli che corre il Paese. E, del resto, quando si esprimono classi dirigenti del genere, non solo in politica, è segno che i guasti non sono superficiali. Continuo a credere che non ci sia ragione perché l’Italia debba rassegnarsi all’accartocciamento, essendoci cose serie da farsi subito, per evitarlo. Ma continuo a vedere che tale modo di pensare è considerato solo un fastidio da isolare.

Congiura italiana del silenzio sul FACTA

Congiura italiana del silenzio sul FACTA

Giuseppe Pennisi – Formiche

In queste settimane, uno dei temi caldi sulla stampa internazionale riguarda gli effetti del FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act), una norma americana recepita dall’Italia l’estate scorsa sugli intermediari finanziari, sulle famiglie e sugli individui. Due importanti columnist del ‘Project syndacate’, appena effettuati i loro adempimenti con il FATCA, sono andati ai più vicini consolati americani a rinunciare alla loro nazionalità americana (diventando uno tedesco e uno francese, le nazionalità dei coniugi). I consolati americani hanno aumentato da 400 a 3250 euro la fee (tassa) per rinunciare alla cittadinanza.

In Canada, dove la doppia cittadinanza è frequentissima, si è addirittura costituito un partito con il programma di forzare il Governo di uscire dall’Intergovernmental Agreement con cui è stato recepito il FATCA. Gli americani residenti nei Paesi OCSE hanno dato vita ad un’associazione perché siano gli organi dell’organizzazione a far sì che gli Stati Uniti applichino, come tutti, il principio dell’imposizione tributaria sulla base delle ‘residenza’ non della ‘cittadinanza’. Non solo: oggi se ci si rivolge a qualsiasi istituzione finanziaria italiana per acquistare quote di un fondo comune d’investimento, si deve compilare un complesso modulo per certificare che non si è, e non si è mai stati, cittadini americani, e – ove lo si sia stati – occorre esibire copia autenticata dell’atto di rinuncia quale accettato dall’Amministrazione Usa.

Infine, alcuni correntisti italiani stanno ricevendo lettere di disdetta dei loro conto correnti da banche, di cui sono stati clienti per decenni, perché ci sono ‘forti indizi’ di cittadinanza americana. Si tratta spesso di figli di italiani che, dopo un periodo di espatrio, sono rientrati in Patria, di vedovi o vedovi di americani, di persone nate quasi “per caso” negli Usa in quanto figli di diplomatici, funzionari internazionali, italiani che hanno lavorato per periodi più o meno lunghi all’estero.

Cosa è il FATCA? Non è questa la sede per entrare nei dettagli tecnico-tributari. Come scrisse mirabilmente Paul Streeten in un saggio nel lontano 1986 è il frutto della ‘legge del racket’ in base alla quale una buona idea finisce nelle mani delle persone sbagliate e ne creano un incubo burocratico per i propri fini. FATCA nasce da una buona idea: tentare di limitare il riciclaggio e far sì contemporaneamente che i milioni di cittadini americani (spesso inconsapevoli di esserlo) adempiano ai loro obblighi tributari nei confronti degli USA. Su questa buona idea, si sono inserite due componenti: la lobby dei ‘mutual funds’ americani per impedire che i cittadini americani investano in ‘fondi comuni’ esteri, od in mutual funds Usa che operano anche con titoli stranieri, e il desiderio dell’Internal Revenue Service (IRS), l’Agenzia delle Entrate americana di espandere il proprio tentacolare organico. Il tutto è stato condito di una buona dose di populismo.

In estrema sintesi, tutti gli intermediari finanziari devono consegnare all’IRS, tramite le agenzie tributarie nazionali, tutti i dati sui conti di deposito di cittadini americani, anche quelli cointestati con non americani. Un costo enorme per gli intermediari. Ancora maggiore, però, quello che pesa sugli intermediari finanziari (e sui singoli sia individui sia famiglie sia imprese) se gli americani residenti all’estero vogliono mettersi in regola tramite un percorso speciale definito nel FATCA; occorre infatti presentare, per gli ultimi sei anni, i movimenti (spesso quotidiani) di ciascun titolo all’interno di ciascun comparto di mutual fund americano o straniare al fine di determinare capitale,
dividendo o interesse. Un lavoro mostruoso.

Teoricamente, dovrebbe servire all’IRS a determinare se l’imposta sull’aumento di capitale (che negli Usa aveva, sino ad un anno fa, aliquote più alte che in numerosi Paesi OCSE) deve essere conguagliata. Per l’imposta sui redditi,i trattati sulla doppia tassazione fanno sì che unicamente in rarissimi casi ci saranno compensazioni da fare. Quindi molto lavoro per un piccolo gruppo di fiscalisti specializzati in questa materia. Un costo pesantissimo per le istituzioni finanziarie, per gli individui e per le famiglie.

Ci sono alternative migliori e più semplici (nonché meno onerose) per raggiungere i medesimi obiettivi tanto che negli Usa il Partito Repubblicano sta lavorando alla sostituzione del FATCA; con un altro strumento legislativo. Il punto di fondo è perché in Italia non c’è stato il débat publique prima di recepire l’accordo e perché oggi non se parla e non si mettono le strutture pubbliche in condizioni di aiutare individui, famiglie ed imprese? Tanto più che c’è un aspetto molto grave: una legge straniera cambia regole italiane per cittadini italiani e discrimina nei confronti di cittadini italiani come in altri tempi venne fatto nei confronti degli italiani.