Edicola – Opinioni

La spending review e il bluff delle centrali di acquisto

La spending review e il bluff delle centrali di acquisto

Gustavo Piga – Panorama

Partirà in ritardo il tavolo degli aggregatori degli appalti pubblici voluto da Matteo Renzi: i decreti attuativi non arrivano e l’urgenza per una mossa istituzionale apparentemente epocale che doveva generare risparmi di spesa per lo sviluppo e per la riduzione delle tasse sembra essere svanita. Ma non c’è solo il ritardo che infastidisce: c’è anche il messaggio che appare oggi troppo ottimistico rispetto alle intenzioni annunciate. Se qualcuno avesse infatti capito che dovevano essere ridotte a 35 le stazioni appaltanti del Paese (la Consip del Tesoro, le 20 «Consip regionali» e alcune «Consip metropolitane») dalle migliaia attuali, quel qualcuno si deve ricredere. Perché l’obbligo di acquistare presso queste 35 varrà solo per alcune categorie di beni e servizi, non varrà per i Comuni capoluoghi di provincia o nemmeno per l’enorme galassia dei lavori pubblici.

Certo il decreto di aprile (aprile!) di quest’anno prevede di nuovo (come da anni è previsto e mai avvenuto) che i Comuni più piccoli si aggreghino e non possano più acquistare in solitudine, ma non è possibile prevedere quando avverrà un tale miracolo. In realtà qualcosa di buono ci sarebbe: l’idea di far diventare le Province (poco più di 100) l’unità amministrativa di riferimento per accentrare le gare di beni, servizi e lavori. Perché dentro le Province albergano le migliori competenze come stazioni appaltanti (hanno fatto per decenni la cura di ambiente, strade e scuole) e come personale (gli uffici tecnici provinciali hanno personale qualificato) e proprio loro sono anche l’unità più vicina culturalmente al territorio e alle piccole imprese. Ma tutto appare molto confuso e privo di un progetto deciso e coinvolgente per rivoluzionare il modo con cui compra il settore pubblico.

Per uscire dalla corruzione e dall’incompetenza ci vorrebbe un solido piano per investire tanti soldi nelle competenze di chi lavora nelle stazioni appaltanti, per rafforzare i controlli che scoraggiano la corruzione, per creare database che permettano il paragone delle performance tra diversi centri di costo. Fantascienza che questo governo, come i precedenti, non sa rendere reale, impantanando il Paese sempre più nella morsa del declino.

La montagna e il topolino

La montagna e il topolino

Giuliano Cazzola – La Nazione

All’avvicinarsi della ‘prova del fuoco’ dei decreti delegati (gli schemi saranno predisposti nel Cdm della vigilia di Natale) emerge con chiarezza la caratteristica del Jobs Act Poletti 2.0, almeno per quanto riguarda la questione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annessa la disciplina del licenziamento individuale. Per diversi motivi, durante il travagliato percorso della legge delega, si è assistito a un duro scontro politico che non trovava riscontro nelle norme che venivano profilandosi nella ‘navetta’ tra le due Camere. Il governo e la maggioranza dichiaravano intenti innovatori non riscontrabili nei principi e criteri direttivi; le opposizioni (a partire da quelle interne al Pd e dalla Cgil) denunciavano gravi abusi di cui non venivano ravvisate tracce nei testi. Alla fine, si è arrivati alla seguente mediazione: «… escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

Se è pacifico che, nel caso di nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, il licenziamento economico ingiustificato sarà sanzionato soltanto con un indennizzo (si sta discutendo sulla misura e se, oltre a un tetto massimo, debba essere prevista una soglia minima) è altrettanto chiaro che, per «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato» il giudice potrà ordinare la reintegra. Corre voce che il governo si stia orientando a sanzionare così i casi in cui venga accertata l’insussistenza del fatto che ha determinato il recesso. Più o meno quanto già previsto nella legge Fornero. La montagna si appresta a partorire il topolino, come denunciano settori della maggioranza? Forse sarebbe stato meglio vigilare sulle mediazioni che il Pd conduceva al proprio interno, piuttosto che sperare di ignorarne la portata al momento dei decreti. Sarebbe almeno importante riconoscere al datore soccombente l’alternativa di optare per un’indennità risarcitoria, anziché attenersi all’ordine di reintegra.

Basta illusioni

Basta illusioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ci risiamo. Ancora una volta chiudiamo un anno colmo di promesse – profuse a piene mani 12 mesi fa e reiterate fino all’inizio dell’autunno, quando è stato chiaro a chi non aveva voluto vedere la realtà che anche il 2014 avrebbe chiuso con il segno meno davanti – con la sola certezza di aver buttato l’ennesima occasione. Ancora una volta, la realtà dei fatti è peggiore di ogni previsione, bruciando cosi, oltre alla ricchezza, gli ultimi residui di fiducia nella ripresa, individuale e collettiva. Ma, come al solito prima di Natale e Capodanno, ci viene raccontato, proprio mentre rotoliamo senza freni nel declino, che l’anno successivo sara finalmente quello della svolta. Già, ma che credibilità può avere una simile asserzione se il gioco del posticipo all’anno successivo dell’uscita dalla recessione fa a pugni con un consuntivo di 17 trimestri, sui 28 trascorsi da inizio 2008, di pil in caduta libera?

E sì, perché sono anni che incede la litania di un imminente e prossimo ritorno agli antichi fasti: “I ristoranti sono pieni”, ha ripetuto alla noia Berlusconi; “l’Italia sta meglio degli altri”, sosteneva saccente Tremonti per tutto il periodo che, dal 2001, ha fatto il ministro dell’Economia; “l’anno prossimo arriverà la crescita”, vaticinava Monti a dicembre 2012. E se Letta vedeva “la luce in fondo al tunnel”, Renzi ha subito twittato su #lasvoltabuona. Ecco, non so se per imperizia o malafede – temo sia la prima delle due cause, il che rende più grave la cosa – ma avevano tutti torto marcio, con l’ulteriore e grave responsabilità di aver mentito agli italiani, millantando inesistenti riprese dietro l’angolo, Così, anche questo Natale sotto l’albero troviamo sia la recessione – i dati più freschi che lo certificano sono quelli di Confindustria, secondo cui chiuderemo il 2014 con un calo del pil dello 0,5 per cento e la disoccupazione (se si considera la cassa integrazione) al 14,2 per cento, con 8,6 milioni di persone a cui manca totalmente o parzialmente il lavoro – sia la garanzia che nel 2015 s’invertirà la tendenza. Le indicazioni sono prudenti – almeno questo – ma ci assicurano che già nel primo trimestre del nuovo anno registreremo un +0,2 per cento, che poi si consoliderà in un +0,5 a fine 2015, per arrivare a fine 2016 a +1,1. E comunque un po’ tutti fanno previsioni positive: Fmi +0,8 per cento, Ocse +0,2 per cento, Ue +0,6 per cento, Moody’s +0,5, Fitch +0,6,

Víene da chiedere: su che si basano? Ma soprattutto viene da dire che se anche fosse, ci sarebbe ben poco da “stare sereni”. Anzi, suonano sarcastiche le previsioni di 12 mesi prima della stessa Confindustria, quando si ipotizzava una crescita dello 0,7 per cento per il 2014 e dell’1,2 per il 2015. Come anche quelle di fine 2012, quando si annunciava la ripresa alla fine di un 2013 chiuso poi con un triste -1,9 per cento. Ma non è solo colpa dei calcoli di Confindustria se ai tanti annunci dei governi di centrodestra, alle slide di quelli di centrosinistra o all’ottimismo di maniera dei tecnici è poi seguito solo il timoroso immobilismo della politica e la perenne caduta della nostra economia. Le previsioni le hanno sovrastimate tutti. Per esempio, se un anno fa la Ue prevedeva per l’Italia +0,7 per cento nel 2014, ora stima -0,3. E se l’Ocse scommetteva su un +0,6 per cento nel 2014 e +1,4 nel 2015, oggi rispettivamente -0,4 e +0,2 per cento. E non è un caso che tra tanti numeri il più positivo (Bankitalia, +1,3 per cento) sia anche il più lontano nel tempo. Ma le cantonate peggiori, ça va sans dire, sono state quelle dei governi. Letta scrisse che quest’anno avremmo guadagnato un punto di pil (e 1,7 nel 2015, bum!), Monti azzardò l’1,3, la coppia (scoppia) Berlusconi-Tremonti addirittura l’1,6, mentre lo stesso Renzi, solo qualche mese fa, ipotizzò lo 0,8.

Purtroppo questa abitudine degli esecutivi di annunciare rose che non fìoriranno, oltre a mistificare la realtà, esclude una vera presa di coscienza della realtà e ogni possibilità di cogliere le occasioni che si presentano, che non mancano ora come non sono mancate in passato. Dopo il flusso positivo della prima metà del 2014 dovuto alla favorevole congiuntura internazionale e a un’apertura di credito al governo Renzi, i capitali stranieri sono ora tornati a scappare dall’Italia (saldo negativo di 30,3 miliardi ad agosto e di 37 a settembre) e non basteranno le rassicurazioni di Padoan rivolte in un seminario a porte chiuse a decine di grandi investitori internazionali.

Adesso, però, contrariamente agli anni scorsi, c’è da sfruttare una congerie di fattori favorevoli. Prima di tutto il dimezzamento del prezzo del petrolio, che secondo Confindustria potrebbe generare un risparmio di 14 miliardi annui e 3 decimi di punto sul pil 2015 e mezzo punto nel 2016, Poi il cambio dell’euro sul dollaro (dall’1,38 di gennaio all’1,22 odierno, -11 per cento) che ha già spinto l’export extra-europeo (+6,2 miliardi nel 2014, una performance che non si vedeva dal 1993). Quindi i tassi d’interesse, mai così bassi e destinati a rimanere tali (salvo impennate dello spread per ragioni politiche). Nel 2014 il combinato disposto di questi tre fattori ha portato vantaggi esigui rispetto alle potenzialità. Ora tocca a noi metterli a frutto. Come? Una cosa è sicura: evitare di avere già il risultato in tasca. Tanti auguri e arrivederci al 2015.

Perché il piano Juncker non serve a niente

Perché il piano Juncker non serve a niente

Innocenzo Cipolletta – L’Espresso

Se ci aspettiamo una ripresa dell’Europa basata sul piano Juncker di rilancio degli investimenti, allora dovremo aspettare per molto tempo. Il piano Juncker è non solo inesistente per la pochezza dei mezzi messi a disposizione (21 miliardi di euro in tre anni) e per la fantasiosa ipotesi di un moltiplicatore pari a 15 che dovrebbe eccitare 315 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati, ma è proprio sbagliato nelle sue ipotesi di base.

Nel suo desiderio di ricevere un voto favorevole al Parlamento europeo, Junker ha annunciato un piano per 300 miliardi di euro per investimenti in infrastrutture. Poi nella realtà. una volta nominato, ha scoperto le carte: il piano non esiste. Infatti gli investimenti che si spera di sollecitare devono tutti essere “bancabili”, ossia devono poter essere finanziati attraverso un sistema di prestito di tipo bancario. In altre parole devono essere investimenti capaci di produrre in tempi relativamente brevi un reddito sufficiente a ripagare le somme stanziate. Ma per questi investimenti c’è già il mercato che oggi ha sufficiente liquidità (anche in eccesso) per finanziare progetti che siano redditizi. Non c’è bisogno di alcuno strumento europeo per favorirli. Se non ci sono abbastanza investimenti vuol solo dire che non ci sono progetti validi.

In realtà quello che manca in Europa è proprio l’intenzione di investire. Le imprese hanno un eccesso di capacità produttiva in seguito a una recessione che di fatto dura da sette anni. In queste condizioni, non è l’assenza di credito che frena gli investimenti, ma l’assenza di prospettive di crescita. Fare investimenti produttivi per un’impresa che non vede crescere il suo mercato di sbocco rappresenterebbe un errore che rischierebbe di portarla al fallimento. Ridurre il rischio per un simile investimento significa aumentare le probabilità di fallimento. In queste condizioni, solo investimenti che si sarebbero comunque fatti anche in assenza di tali sostegni finirebbero per essere avviati. Con qualche vantaggio per le imprese coinvolte, ma con nessun vantaggio per l’economia nel suo insieme. Resta la possibilità di finanziare investimenti pubblici in infrastrutture. Ma quali tra questi sono bancabili? Non certo quelli più utili ed urgenti, come la messa in sicurezza del territorio contro le esondazioni dei fiumi (fenomeno che riguarda tutti i paesi europei) o contro i rischi di terremoti, e neppure il disinquinamento di parti del territorio o il recupero delle periferie urbane. Opere che avrebbero un elevato ritorno sociale e anche economico nel lungo termine, ma non generano redditi con cui assicurare la restituzione dei prestiti. E perciò l’area delle possibilità si restringe di molto.

Se parliamo di investimenti che possono produrre un reddito (autostrade a pedaggio, aeroporti, porti) allora si tratta di spese tuttte utili ma che, nuovamente, possono trovare finanziamenti sul mercato senza bisogno di agevolazioni particolari, a condizione che i progetti siano ben strutturati. Se finora non si sono manifestati, vuol dire che non ci sono. Ma, dice Juncker, nulla vieta di aggiungere risorse nazionali allo strumento europeo. Tutto vero. Però le risorse aggiuntive possono essere messe solo da quei paesi che non hanno uno stress nei conti pubblici. Cioè paesi che già adesso potrebbero, se volessero, rilanciare la loro domanda di investimenti infrastrutturali. Se non lo fanno è perché hanno deciso così. E se lo facessero solo per approfittare delle agevolazioni finiremmo per favorire chi non ne ha bisogno senza molti vantaggi per l’Europa.

In queste condizioni, spiace vedere le nostre autorità insistere a dare una qualche fiducia a questo piano. Si capisce che lo fanno per correttezza politica più che per convincimento. Ma l’Europa uscirà dalla crisi solo con una vera politica di rilancio della domanda interna che coinvolga tutti i paesi. E se la Germania insiste a sottolineare che non vuole assumersi i debiti degli altri paesi, occorre ricordarle che, in tale caso, non avrebbe neanche dovuto prendersi la parte di mercato di beni che le è arrivata in dote grazie all’istituzione del mercato unico a cui tutti abbiamo aderito.

L’impresa al centro

L’impresa al centro

Bruno Villois – La Nazione

Il Centro Studi di Confindustria azzarda una previsione di Pil lievemente positivo per il 2015, con un +0,5%. Stessa ipotesi di ripresa, però, era stata fatta per l’anno in corso e per il precedente. L’analisi parla anche di consumi che risalgono, dono sei anni di crisi, recuperando un mezzo punto percentuale. A breve uscirà anche la previsione di Confcommercio e si vedrà se va anch’essa verso un orizzonte economico con mini squarci di sereno. Di certo qualche segnale di miglioramento è già arrivato quest’anno dalle vendita delle auto con un + 5%, dal calo della cassa integrazione, positivo però solo dal trimestre in corso, e infine dalla ripresa delle trattazioni immobiliari, anche per i livelli medi. Quindi la previsione di Confindustria, che ha nei suoi capisaldi anche gli ordini dell’industria e la fiducia degli imprenditori, potrebbe avere piu fondamenta degli anni precedenti. Con una ripresa di 0,5% succederà ben poco dal punto di vista reale e la disoccupazione continuerà a crescere, sfondando i record attuali. La disoccupazione rappresenta il primo effetto della crisi del nostro sistema imprenditoriale, schiacciato dalla crisi globale e da una debolezza dovuta ad imprese troppo piccole, fortemente indebitate e con serie difficoltà ad investire in modernizzazione e quindi innovazione, ricerca, formazione permanente.

Correggere e migliorare il sistema imprenditoriale nostrano sarà opera complessa. Il governo dovrebbe mettere al centro della sua agenda l’impresa e come sostenerne, attraverso una politica industriale ancor oggi inesistente, il rafforzamento, facilitando fusioni, incorporazioni, quotazioni in Borsa. In assenza di un progetto complessivo che contenga la riduzione delle pressione fiscale, il ridimensionamento e lo snellimento della burocrazia, l’accesso al credito, almeno parzialmente, garantito da Cassa Depositi e Prestiti, sarà molto difficile se non impossibile ridare smalto al nostro Pil. Senza un ‘impresa più forte e quindi maggiormente in grado di competere in ogni dove, non si può realizzare una consistente e duratura ripresa, con un’occupazione stabile e una adeguata redditività in modo da ottenere flussi di cassa fondamentali per poter investire e quindi modernizzarsi e crescere.

Tra privatizzazioni e mano pubblica

Tra privatizzazioni e mano pubblica

Oscar Giannino – Il Messaggero

È importante la conferma venuta ieri dal ministro Padoan al Messaggero del programma di quotazioni pubbliche. Nel 2015 il governo collocherà sul mercato il 40% di Poste e Ferrovie, e il 49% di Enav. Per evitare sussidi incrociati sarebbe meglio per Poste e Ferrovie prima separare le attività di servizio universale da quelle gestite in concorrenza con privati. Ma in ogni caso è un bene quotarle pur senza cederne all’inizio il controllo. La disciplina e il premio ai risultati che vengono dai mercati finanziari rappresenta comunque un passo avanti rispetto all’opacità gestionale della mano pubblica (basti vedere l’efficienza guadagnata da Eni ed Enel quotati, rispetto a quando non lo erano). Due osservazioni sono però essenziali. La prima su una cosa che manca al suo elenco. La seconda su una cosa che invece si appresta a fare.

Alla lista di dismissioni di Padoan mancava un pezzo che la settimana scorsa Renzi ha annunciato: la decisione di metter mano alle quasi 10mila controllate e partecipate pubbliche di primo livello di Comuni e Regioni. Ad aprile scorso, tutto il lavoro di ricognizione e classificazione svolto da Cottarelli, nonché le sue proposte concrete già scritte per intervenire, sono rimasti nei cassetti. Sappiamo tutto quel che c’e da sapere. Che solo un terzo di esse sono nei 5 settori tradizionali delle utilities locali – elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto – e che di loro oltre i due terzi sono sotto una soglia minima di fatturato che le possa rendere efficienti. Sappiamo quante complessivamente sono in perdita e di quanto, e si tratta di miliardi. L’indagine in corso a Roma, dove con Atac e Ama si concentrano 2 delle municipalizzate storicamente più produttrici di debito e clientelismo, ha spinto palazzo Chigi a dire che ora è il momento giusto per rompere gli indugi. Il governo si muova, allora. Come speriamo che già nella legge di stabilità vengano approvate proposte come quella avanzata da Linda Lanzillotta, che vincola le risorse per il risanamento di Roma Capitale alla cessione, secondo alcuni criteri di garanzia, delle partecipate a cominciare da quelle in perdita.

Anche perché tra pochi giorni ci troveremo di fronte a un intervento del governo che non è di privatizzazione, ma di rinazionalizzazione: dell’Ilva a Taranto. Il commissario Gnudi ha detto un’elementare verità: “nessun privato rileverebbe ora l’Ilva, sequestrata dai magistrati”. È impossibile a chiunque non sia dietro l’egida dello Stato avanzare oggi un piano industriale per quella che era la più grande acciaieria a ciclo continuo d’Europa. I pm hanno nel tempo esercitato la facoltà di espropriare il patrimonio sociale, la liquidità dell’azienda, gli input di produzione, i prodotti finiti, anche il patrimonio dei soci privati fuori dal gruppo. E ora si tratta anche di espropriare il restante titolo di nuda proprietà, dei Riva e degli Amenduni. Il modo in cui Renzi e Padoan interverranno sull’Ilva è essenziale: a seconda di come la rinazionalizzazione verrà decisa, rischia di compromettere la fiducia verso l’Italia invece di consolidarla. Ci sono dunque tre condizioni.

Primo: deve trattarsi di un intervento a tempo, in vista del risanamento ambientale e della restituzione poi del controllo dell’Ilva a privati. Non basterà dirlo a voce, bisogna dirlo in un cronoprogramma scritto nello stesso decreto. Beneduce, il grandissimo manager pubblico che pur da socialista riformista collaborò con Mussolini e s’inventò l’Iri nel 1933, disse in lungo e in largo che era solo a tempo, la nazionalizzazione delle industrie compromesse dalla crisi e finite ad affondare le stesse banche che le partecipavano. E che l’Iri, restituitele al mercato, sarebbe stato a quel punto liquidato. Ma Beneduce morì, e l’Iri è durato 69 anni, fino al 2010, giungendo a sfiorare il mezzo milione di dipendenti. Evitiamo di ripetere l’errore.

Secondo: proprio nell’acciaio lo Stato si è mostrato un pessimo gestore. La Finsider, che realizzò l’attuale Ilva di Taranto, perse oltre 20mila miliardi di lire nei 15 anni pre-privatizzazione. L’Iri alla fine fu travolto proprio per i debiti contratti nell’acciaio. Lo Stato non può credere di avere oggi manager capaci di interpretare il difficile mercato mondiale dell’acciaio, spostatosi tutto verso il Far East asiatico, meglio dei grandi gruppi privati che con l’acciaio si misurano ogni giorno.

Terzo: la mano pubblica a tempo deve servire a fare della bonifica delle cokerie e del parco minerario un banco di prova europeo, visto che in Germania e Polonia esistono impianti con caratteristiche analoghe (ma non espropriati…). Uscire dal ciclo continuo con altiforni, per produrre acciaio con syngas o preridotto, stride con l’interesse di un paese manifatturiero come il nostro, ed è incompatibile con gli 11mila dipendenti di Taranto e con le migliaia nell’indotto. Saremmo l’unico paese al mondo in cui le modalità produttive vengono decise da un pm in sede di indagine preliminare. Lo Stato deve riaccompagnare l’Ilva a produttività e utili che esprimeva. Tenendo la guardia alta, perché il rischio è che si riscateni chi pensa che lo Stato deve tornare a fare anche i panettoni.

La paura che paralizza famiglie e imprese

La paura che paralizza famiglie e imprese

Giuseppe De Rita – Corriere della Sera

Siamo ormai assuefatti alla massa di valutazioni e previsioni ansiogene che si affollano nel dibattito sul nostro futuro economico con il protagonismo costante di agenzie di rating, presidenti di enti internazionali, capi di governo, opinionisti di ogni competenza ed orientamento. Gli unici assenti finiscono per risultare i due grandi soggetti presenti e futuri del nostro sviluppo, le imprese e le famiglie, dalla cui silenziosa presenza non si può prescindere, anche perché sono loro che hanno nelle mani una crescente ricchezza finanziaria, anche se non la usano, non la mettono in movimento. Viene spontanea la citazione di San Bernardino da Feltre, che scriveva: «moneta potest esse considerata vel rei; vel, si movimentata est, capitale», cioè: la moneta può essere considerata una cosa o, se viene movimentata, capitale. A parte la curiosità di vedere questo termine, «capitale», usato da un santo veneto mezzo millennio prima di Marx, la citazione serve bene a descrivere la attuale situazione italiana: mettiamo in cantina sempre più ricchezza finanziaria, ma non riusciamo a immetterla in circuiti e politiche di sviluppo.

Pensiamo anzitutto alle famiglie: stanno negli ultimi mesi tenacemente incrementando il risparmio e la ricchezza finanziaria netta, attraverso la crescita dei depositi bancari, delle sottoscrizioni di polizze vita, dei flussi del risparmio gestito (110 miliardi in più nei primi undici mesi di quest’anno); cosicché a fine anno arriveremo ben più in alto della vetta di ricchezza che avevamo raggiunto nel 2006. Un capitale però «inagito», bloccato certo dalla paura di cosa ci può portare il futuro, ma che è anche, e forse specialmente, il sintomo che le famiglie non hanno aspettative e desideri, e non riescono quindi a esprimere una domanda significativa di beni e servizi.

Dal canto loro le imprese non vedono opportunità di investimento e si rifugiano anche loro nel risparmio, sempre più propense a diventare finanziariamente autonome e solide; ed aumentando quindi negli ultimi mesi il proprio patrimonio, la propria disponibilità finanziaria, la propria liquidità. E non investono sulla potenziale dinamica del sistema, così come del resto fanno minoranze imprenditoriali che lavorano sull’estero, che certo concorrono a fare un buon terzo del reddito nazionale ma che il proprio capitale se lo agiscono per conto loro, senza reale efficacia sul complessivo sviluppo nazionale. Se poi dalla trasparenza dei dati ufflciali si passa a considerare il grande mondo del sommerso (familiare e imprenditoriale) si resta sorpresi dalla forte crescita del lavoro e dei redditi sommersi, e quindi della consistenza del risparmio cash (chi si fa pagare in nero i soldi non li mette in banca) che è gestito in proprio secondo i propri bisogni, e senza molta voglia di rimetterlo in giuoco.

Se i più importanti soggetti dell’economia nazionale (famiglie e imprese, emerse e sommerse) sono quindi titolari sia di una crescente disponibilità finanziaria, sia di una resistenza a immetterla in circuiti e politiche di sviluppo, allora perché vengono trascurati dal dibattito economico e politico? La risposta implicitamente espressa, a loro colpa, è che essi, non avendo né aspettative né opportunità reali, si sono chiusi in se stessi e nel loro statico interesse particolare. Ma forse c’è anche un’altra risposta, cioè che è il dibattito politico che li esclude, occupato com’è dallo strapotere di chi ragiona di parametri, di algoritmi, di vincoli di bilancio, di spread, di stabilità: tutti strumenti e saperi statici, lontanissimi dal bisogno di una politica capace di far rivivere i soggetti, le loro ricchezze, le loro aspettative e i loro spazi di opportunità.

Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni

Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni

Davide Giacalone – Libero

Il motto di De Coubertain vale solo per gli atleti. Per chi organizza le olimpiadi l’importante è vincere. Impossibile se ci si abbandona alle due opposte suggestioni: a) sarà l’immagine dell’Italia e la campana della riscossa (l’ho già sentita, a proposito dell’Expo); b) sara l’orgia della corruzione e delle tangenti. La prima suggestione è il più sicuro viatico per l’inverarsi della seconda. Sebbene a fatica e controcorrente, la faccenda deve essere ricondotta su un piano razionale. Il primo punto da tenere presente è che questo genere di appuntamenti globali non sono un buon affare in sé. La settimana scorsa ero a Nanchino (Cina), per lavoro, il cui traffico pazzesco era stato ulteriormente sconvolto, per un paio d’anni, dalla preparazione delle olimpiadi giovanili, tenutesi nell’agosto scorso. Ho domandato: ci avete guadagnato? Risposta: ci abbiamo perso. Questo è il primo punto: se il conto economico si limita ai giochi è difficile vincere. La scommessa italiana non può essere sbandierata come certamente vittoriosa, ma neanche come sicuramente nefanda. Tutto sta ad avere le idee chiare e a trarre qualche insegnamento dai non pochi errori compiuti. Sono tre le questioni decisive.

1) Il prodotto da vendere non sono i giochi, ma l’Italia. Fin da subito, quindi, si deve togliere la gestione del turismo alle Regioni (responsabilità della sinistra e della folle riforma costituzionale) e capire che non è la Calabria che fa la concorrenza al Piemonte, ma l’Italia alla Spagna o alla Francia. Noi restiamo la prima meta scelta dai turisti che vengono da fuori l’Ue, siamo già un prodotto forte. Le olimpiadi hanno un senso se servono a mettere il turbo in un motore che, invece, perde quote nel mercato interno europeo. Ciò comporta anche un piano trasporti e un piano aeroportuale non concepiti per soddisfare le pulsioni municipali, ma coerenti con la necessità di rendere l’intera Italia raggiungibile da chi vi metta piede.

2) Una partita simile è meglio non cominciarla neanche se non si stabilisce prima chi comanda (e ne risponde). La scena dei terreni Expo, il conflitto fra l’acquisto o l’affitto, lo scornacchiarsi di Regione e Comune, sono la certezza dell’insuccesso. La tendenza italica è quella di darsi regole dissennate, salvo derogarle quando si deve fare qualche cosa. Non funziona e genera corruzione. Alle olimpiadi è lecito pensare solo se il meccanismo decisionale non verrà concepito come un’eccezione, ma come la regola. Nuova e per tutti. Nella regola deve essere compreso il fatto che chi gestisce all’inizio continua a farlo rispondendo del risultato, senza chiedere aumenti del budget. Ma non basta, deve essere diverso il rapporto con i privati, chiamati ai lavori e sanamente desiderosi di far profitto: entra chi offre le condizioni migliori e condivide il progetto. Non possono esserci revisioni prezzi in corso d’opera. Chi partecipa ai lavori garantisce patrimonialmente la loro realizzazione, alle condizioni pattuite. Le incompiute o gli insuccessi comportano la perdita del patrimonio messo a garanzia. Onori, ma anche oneri.

3) Sbagliato creare un’autoiità di garanzia. Peggio ancora una specie di commissario all’onestà. Solo dove la disonestà è l’unico sistema funzionante si adottano simili ricette. Anche in questo campo non si deve creare l’eccezione, ma adottare una regola razionale. E farla rispettare. Gli organi di garanzia giurisdizionale sono quelli esistenti (vanno riformati, ma è questione non affrontabile qui). Il di più deve consistere nel riprodurre il funzionamento dell’audit (controllo) utilizzato nei grandi gruppi e nelle multinazionali: verifica costante dell’allineamento fra preventivo e spesa, nonché dell’avanzamento lavori. Chi bara o rallenta paga, rimettendoci soldi. Sicché eviterà di farlo per arricchirsi. Se bara l’audit ne risponde, patrimonialmente e penalmente. Ci sono affari che riescono bene e altri che falliscono, dipende dalla capacità d’individuare prima quale è il valore che si vuole vendere e dalla serietà nell’esecuzione. Se si parte dal principio che tutti gli affari divengono malaffari si può essere certi solo del disfacimento.

La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

Tino Oldani – Italia Oggi

I tedeschi sono convinti che la Germania ha già pagato troppo per aiutare i paesi in difficoltà dell’eurozona. Per questo dicono «nein» ad altre iniziative europee che, a loro avviso, si configurano come aiuti per i vicini spendaccioni, primo fra tutti il quantitative easing proposto da Mario Draghi, presidente della Bce. Contrastare ulteriori finanzia- menti ai paesi cicala è diventato addirittura il cavallo di battaglia di un partito tedesco euroscettico (Alternative fur Deutschland), che sta erodendo consensi alla Cdu di Angela Merkel. Per questo, la cancelliera non perde occasione per bacchettare quei paesi, come la Francia e l’Italia, che, a suo avviso, non fanno abbastanza per tenere i conti pubblici in ordine. A darle man forte, oltre al ministro delle finanze, Wolfgang Schauble, uno dei più solerti è il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che in passato è stato il suo principale consigliere economico.

In questo senso, la recente intervista di Weidmann a Repubblica contiene alcune perle di ipocrisia politica che non devono passare sotto silenzio. A suo dire, «se titoli sovrani di basso rating (come sono ora quelli dell’Italia, ndr) venissero acquistati dalla Bce, rischi di politica finanziaria verrebbero messi in comune dalla Banca centrale, aggirando governi e parlamenti». Per questo il «nein» di Weidmann al quantitative easing di Draghi si configura anche come una lezioncina di democrazia. Peccato che finora nessuno in Italia, governo e Banca d’Italia compresi, abbia rispedito al mittente una simile accusa. Se in Europa c’è un vero specialista nell’aggirare governi e parlamenti per fare i propri interessi, questo paese è proprio la Germania. Ciò è vero soprattutto nel settore finanziario, dove, pur di salvare le proprie banche, che erano sull’orlo del fallimento a causa delle folli speculazioni sui derivati, il governo della signora Merkel non ha esitato a servirsi della Troika (Bce, Ue, Fmi) e dei suoi metodi anti-democratici. Le devastazioni sociali compiute dalla Troika in Irlanda, Spagna e Grecia, fatte con il pretesto dei conti pubblici fuori posto, ma con l’obiettivo tacito di salvare proprio le grandi banche tedesche e francesi, sono lì a dimostrarlo.

Premessa. A questi tre paesi, a partire dal 2000 (introduzione dell’euro), le banche tedesche hanno elargito per anni ingenti prestiti, impiegati per finanziare alcune grandi iniziative immobiliari, oltre all’importazione massiccia di prodotti tedeschi. In questo modo, con una tecnica chiamata «vendor financing», cioè prestando soldi agli acquirenti delle sue esportazioni, la Germania si è autofinanziata in parte il proprio miracolo economico. Ma nel 2008, allo scoppio della crisi dei subprime, le banche tedesche si sono trovate troppo esposte verso i paesi periferici dell’euro, ai quali avevano concesso crediti per 900 miliardi di euro, somma superiore di 2,5 volte il loro stesso capitale.

Come recuperare prestiti così ingenti, dopo che la crisi aveva investito i debiti sovrani dei paesi periferici dell’euro? Come evitare il fallimento? A conti fatti, la Troika è stata il grande alleato delle banche tedesche: i suoi interventi sono stati infatti decisivi per il loro salvataggio, mentre ben poco è rimasto ai paesi «aiutati». Anzi, questi ultimi sono stati costretti a massacrare i loro cittadini con le tasse e con il taglio drastico della spesa pubblica (che ha colpito sanità, pensioni, stipendi e occupati nel pubblico impiego), pur di restituire centinaia di miliardi alle banche tedesche.

I numeri parlano chiaro. L’Irlanda, a partire dal 2010, ha ricevuto dalla Troika 67,5 miliardi di prestiti (soldi di tutti gli europei e non solo dei tedeschi), a fronte dei quali ha poi trasferito 89,5 miliardi al settore finanziario, dei quali 55,8 miliardi sono finiti alle banche creditrici straniere, tutte tedesche e francesi. In Spagna, nel 2012, le banche locali avevano un’esposizione verso le banche tedesche per 40 miliardi. Sommandoli al debito totale del paese verso le banche tedesche, si arrivava a 100 miliardi. Per fare fronte a questi debiti, la Spagna ha chiesto e ottenuto dalla Troika un prestito di 100 miliardi, in cambio di riforme drastiche. Un’operazione che la rivista International Financing Review ha definito «un salvataggio nascosto delle banche tedesche».

In Grecia, la gran parte dei 240 miliardi del «piano di salvataggio» finanziato dalla Ue e dal Fmi è stato dirottato dalla Troika alle banche creditrici, per lo più tedesche e francesi, per circa 160 miliardi. Così il 77% degli aiuti ricevuti sono andati alle banche straniere, mentre alla Grecia sono rimasti solo 46 miliardi per ridurre il proprio debito pubblico, che tuttora ha un buco di 2,5 miliardi nonostante il governo abbia pagato 34 miliardi di soli interessi sul debito, imponendo sacrifici enormi alla popolazione. In pratica, come hanno rivelato i verbali segreti di una riunione del Fmi pubblicati dal Wall Street Journal, il salvataggio della Grecia «è stato concepito solo per salvare i creditori», cioè le banche tedesche. Il tutto, riducendo governo e parlamento greci a tappetini. Che ora Weidmann venga a dare lezioni di democrazia è davvero il colmo!

L’incubo del tax-day e il fisco da cambiare

L’incubo del tax-day e il fisco da cambiare

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il tax-day delle imposte sugli immobili – entro oggi almeno 30 milioni di proprietari e inquilini devono chiudere i conti con il saldo di Imu e Tasi per il 2014 – restituisce l’istantanea di una delle stagioni più buie del nostro sistema fiscale. Una stagione di caos e grandi complicazioni che non sta risparmiando nessuno e che purtroppo ripropone il vecchio copione dell’ingorgo di scadenze e di versamenti, delle norme retroattive, delle proroghe sul filo di lana, dei controlli di fine anno, redditometro compreso. Una stagione anche di grandi aspettative, che purtroppo, per l’ennesima volta, conferma quanto sia ancora lungo il cammino verso quel “fisco dal volto umano” che continua ad affermarsi solo tra i buoni propositi, con una riforma fiscale che fatica a trovare lo slancio per la sua effettiva attuazione e un livello del prelievo, tra balzelli vecchi e nuovi, che non accenna affatto a diminuire.

La vicenda delle tasse sulla casa è, in questo senso, emblematica. E concentra al suo interno proprio due tra i principali peccati originali del sistema: complicazioni, da un lato; pressione fiscale elevata, dall’altro. Molti contribuenti, in queste ore, hanno toccato con mano non solo che le tasse immobiliari sono più pesanti rispetto al passato ma anche che le difficoltà per trovare aliquote, eventuali esenzioni o detrazioni, codici tributo, modelli per i pagamenti ecc ecc., sono ancor più insidiose dello scorso anno (quando in molti avevano giustamente pensato di aver toccato il fondo). La stessa Rossella Orlandi, durante una delle sue prime uscite pubbliche dopo la nomina alla guida dell’agenzia delle Entrate la scorsa estate, confessò candidamente di aver impiegato un intero pomeriggio per capire come calcolare l’Imu della sua abitazione. Benvenuta tra noi, verrebbe da dire al direttore delle Entrate. Benvenuta tra chi ogni giorno deve fare i conti non solo con il peso del fisco ma anche con le sue regole non sempre trasparenti, con i suoi criteri non sempre limpidi, tanto per non voler infierire. E qui non stiamo più parlando solo di tasse immobiliari. Gli operatori, le imprese, i professionisti sanno bene a quali acrobazie li costringa il fisco, al di là dell’Imu e della Tasi. È appena arrivato un decreto sulle semplificazioni che, a sentire gli addetti ai lavori, risolve solo una parte infinitesimale delle quotidiane difficoltà tributarie. Per il resto poco è cambiato.

Certo, i problemi non finiscono qui. Nonostante le promesse, il nostro paese continua ad avere un sistema fiscale poco orientato alla crescita, che non premia chi investe e chi scommette sull’innovazione e sulla ricerca. È un sistema dove persino il contenzioso tributario non brilla certo per trasparenza e dove manca una reale parità in giudizio tra amministrazione e contribuenti. Il tutto appesantito da livelli di prelievo sempre più insostenibili, con una pressione fiscale sul Pil che raggiunge il 44%, che supera il 50% se si esclude l’economia sommersa (che per definizione non paga tasse) e che totalizza un prelievo reale sulle Pmi pari a 68 euro ogni 100 euro di utili. Sono numeri che conosciamo bene ma che vale sempre la pena di ricordare.

Se questa è la fotografia, che cosa dobbiamo aspettarci per il 2015? Sulla casa, come sappiamo, c’è poco da stare allegri. Il 2015 riproporrà il binomio Imu-Tasi (la local tax sembra destinata a slittare al 2016) e con esso tutte le criticità che abbiamo visto in questi mesi. Con il rischio che nei prossimi mesi si ripresenterà il copione che ha portato alla lievitazione delle tasse locali, con il governo che taglia le risorse ai sindaci e i sindaci che alle riduzioni di spesa rispondono con l’aumento di tasse e tariffe, vuoi per comodità vuoi per effettiva impossibilità a comprimere ulteriormente le spese. Qualche buona notizia arriverà con la legge di stabilità che potrà offrire una prima boccata d’ossigeno alle imprese, grazie al taglio della componente lavoro dall’Irap, e con la conferma del bonus da 80 euro per i dipendenti con reddito medio basso. Ma certamente con maggiore coraggio sui tagli alla spesa i risultati avrebbero potuto essere ben altri.

Sullo sfondo, resta il complicato cammino della delega fiscale. Ieri, su questo giornale, abbiamo messo in luce come a 100 giorni dal termine per l’attuazione della legge delega, i lavori stiano procedendo davvero a rilento (tra l’altro, in un paese in cui si proroga tutto, non sarebbe certo uno scandalo una norma finalizzata a dare più tempo al governo per emanare i decreti legislativi per la riforma, come hanno proposto alcuni parlamentari, tra i quali anche il presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone). L’attuazione della delega non cambierà probabilmente il volto (e il peso) del nostro sistema fiscale. Ma condurla in porto sarà comunque un segnale importante che, una volta tanto, sarebbe bene non farsi sfuggire.