Edicola – Opinioni

Ci vuole un fisco bestiale

Ci vuole un fisco bestiale

Il Foglio

Non ascoltate i soliti autoproclamati “realisti”: di “tassa piatta” è bene che si parli nell’Italia di oggi. Proprio ieri infatti prim’ancora che il fondatore e leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, lanciasse la sua proposta di politica fiscale, la Banca d’ltalia ha confermato che la pressione fiscale nel nostro paese ha raggiunto un nuovo quanto scontato record attestandosi al 43 per cento del pil. Due punti in più rispetto alla media europea. È così folle dunque rimettere in discussione l’attuale struttura dell’Irpef, imposta cardine del nostro sistema fiscale?

L’idea lanciata da Berlusconi, quella della “flat tax” appunto, prevede un’unica aliquota sul reddito fissata al 20 per cento – invece che gli attuali cinque scaglioni che arrivano fino al 43 per cento – e un’area di esenzione totale per i redditi fino a una certa soglia, 13 mila euro secondo la proposta di Forza Italia. I “pro”, evidenti, sono almeno due. Un’aliquota così bassa, accompagnata da una semplificazione del sistema di detrazioni e deduzioni, eviterebbe a tanti italiani complicazioni e vessazioni che oggi frenano inutilmente chiunque produca ricchezza. Inoltre la presenza di una “no tax area” garantirebbe il mantenimento di un criterio di progressività per i redditi più bassi, come da dettato costituzionale.

Una rivoluzione fiscale di questa portata avrebbe tuttavia un costo. Certo, il gettito fiscale nel breve termine aumenterebbe. Nonostante ciò, con un’aliquota unica al 20 per cento, ma anche con una soglia più realistica al 25 per cento, si registrerebbe un ammanco nei conti statali di almeno 40 miliardi di euro l’anno. Forza Italia è disponibile a individuare e poi proporre al governo Renzi tagli di spesa pubblica di questa entità? Ce ne sarebbe davvero bisogno.

Sugli ogm scelte europee troppo provinciali

Sugli ogm scelte europee troppo provinciali

Davide Giacalone – Libero

L’Unione europea favorisce le coltivazioni Ogm, ma uno Stato aderente all’Ue può proibirle. Questo non è un compromesso, è il fallimento dell’idea stessa di Unione. Una regressione a prima del Mec, Mercato comune europeo. Una decisione eurodemolitoria, perché fa dell’Unione il luogo in cui i doveri sono inderogabili, mentre i diritti negabili. Essendo una conclusione cui si è giunti durante la presidenza italiana, il nostro ministro dell’ambiente, Gian Luca Galletti, la racconta come un successo, il frutto del duro lavoro di mediazione. Avrebbe fatto meglio a riposarsi.

Per capite le dimensioni e il significato di questa porcheria ci si deve mettere nei panni del cittadino europeo (i nostri), non in quelli dei governanti di turno. Perché ha un senso positivo essere parte e cittadini dell’Unione? Perché consente maggiori libertà, a cominciare dalla circolazione delle persone e delle cose. Certo, comporta dei vincoli nella spesa pubblica, ma anche quelli sono un bene, visto che senza freni abbiamo prodotto il più grande debito pubblico del continente. L’Ue non è solo un ideale di pace e convivenza, il cui senso si sbiadisce nel tempo, mano a mano che le tragedie del secolo scorso s’allontanano dalla memoria, deve essere anche conveniente. In tal senso la coltivazione degli Organismi geneticamente modificati è esemplare.

É ovvio che sia accettata in ambito europeo. Perché già la si pratica e perché non c’è nulla, sulla nostra tavola, che non sia Ogm. Siccome ci sono Paesi, come purtroppo l’Italia, in cui la grandezza delle superstizioni e la pochezza della classe politica comportano la coltivazione di miti geneticamente regressivi, siccome ci sono ignorantoni che credono il riso Carnaroli esista in natura, nonché sbadati che dimenticano quanto le carni che mastichiamo, anche allevate interamente in Italia, sono nutrite per la quasi totalità con mais Ogm, ecco che ha senso ed è conveniente una decisione presa non più in dialetto, ma in lingua europea. Decisione che allarga il diritto dei coltivatori italiani e allarga la convenienza dei consumatori, altrimenti costretti a donare all’estero una parte del valore delle merci che digeriscono. Il consumatore ci guadagna anche in salute, perché le modifiche genetiche non vengono introdotte da un’occulta centrale del male, ma per evitare che le coltivazioni siano protette con diluvi di insetticidi. E ne guadagna l’ambiente. Ma se la mediazione politica europea, indotta da governi adusi più a farsi leggere la mano dalla chiromante che a studiare costituzioni e dichiarazioni dei diritti, consiste nel mantenere il potere feudatario di proibire nel contado castellano quel che è consentito nei campi altrui, allora non si capisce più che ci stiamo a lare in Ue. E manco cosa sia, l’Ue.

Forse Galletti fa fatica a capirlo. Forse questa notizia finirà fra le cronache per addetti ai lavori, ove non sia del tutto ignorata. Ma la partita giocata è di grande rilevanza. Peccato che l’Ue l’abbia persa e che l’Italia sarà la più penalizzata, avendo feudatari menomati dall’ignoranza e afflitti da furbizia beota. Se quella roba dovesse andare in porto (c’è ancora la possibilità di far saltare tutto) non solo il giardino del vicino sarà più verde, ma ci vivrà gente più ricca e più sana. Sicché diventa ragionevole la tentazione di saltare la siepe e andare a far loro compagnia.

Più Stato più mercato

Più Stato più mercato

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Più stato meno mercato (D’Alema). No alla disintermediazione delle rappresentanze, alla delegittimazione degli enti e dei soggetti intermedi, alla rottamazione delle varie forme di concertazione (De Rita)! Dopo un periodo in cui il dibattito politico si è limitato a osservare la prevalenza delle “emergenze”, ora, pur senza essere ancora usciti dalle tenebre della crisi, si torna finalmente a ragionare con un minimo di logica prospettica. La discussione, purtroppo, è inquinata dalla lotta in atto tra Renzi e il resto d’Italia (inteso come somma di tutti i vecchi poteri), ma ciò non toglie che sia il caso – depurandola – di prenderla sul serio. Anzi, il primo che dovrebbe farlo è proprio il presidente del Consiglio, specie se vuole portare fino in fondo il lavoro che ha intrapreso – sempre al netto delle guerre interne – di riconversione culturale (stavo per scrivere ideologica) del Pd.

Credo che non si possano affrontare le questioni sollevate dall’intervista di D’Alema e dall’intervento di De Rita (entrambi sul Corriere della Sera) se non si parte dai molti fallimenti di cui stiamo pagando, tutti insieme, il prezzo. Il primo è quello, generale, dell’Italia, intesa come economia assistita dalla spesa pubblica (improduttiva), come società (fallimento delle élite e più in generale della borghesia) e come sistema politico-istituzionale (la Seconda Repubblica). Il secondo, più specifico, è il default del federalismo, cioè del mantra più ripetuto negli ultimi due decenni, e cioè che la soluzione dei nostri problemi sarebbe consistita nello svuotare lo Stato centrale decentrandone i poteri in una iper ramificata struttura di amministrazioni locali. Il terzo è un fallimento planetario – ma che in Italia ha trovato la sua massima espressione, per via delle nostre contraddizioni – ed è quello del turbo-liberismo, cioè la (sana) cultura liberale del mercato ridotta a ideologia (sì allo stato minimo, no alla politica industriale) e messa al servizio della delegittimazione della politica e delle istituzioni. Siamo riusciti nell’impossibile impresa di predicare il liberismo più sfrenato e di praticare il collettivismo più becero. Abbiamo costruito i mostri del socialismo asociale, dello statalismo antistatale e del satanismo fiscale. Ma lo abbiamo fatto – e la sinistra più di altri, dovendosi purificare per essere stata comunista fino alla caduta del Muro – negando la necessità di investimenti pubblici e la legittimità di scelte di politica industriale.

Allora, è solo partendo da questo tragico consuntivo che si puo valutare la “ropture” di Renzi. E appare assolutamente indispensabile. Forse potrà non essere sufficiente, e certamente lui finora non ha mostrato la necessaria capacità di tradurla gestionalmente e calarla nell’amministrazione, né la sua azione politica (molto politicista) è innestata su un solido impianto teorico e programmatico. È probabile, insomma, che Renzi incarni solo la fase destruens, e che quella costruens sia di là da venire. Ma tutto questo non toglie nulla al fatto che “rompere con il passato” sia un’esigenza assoluta e improrogabile. Nello stesso tempo, è evidente che se fin d’ora si riesce a dare un po’ di ordine concettuale al pensiero ricostruttivo, tanto di guadagnato.

Da parte mia, offro alla riflessione quella che io chiamo la ricetta “liberal-keynesiana”, chiarendo agli scettici che le due definizioni non sono in contraddizione. Perché, da un lato, la componente “liberal” significa avere l’obiettivo di sconfiggere quella modalità burocratica che rende il mercato e l’economia italiana assolutamente arretrati, tagliando i viveri all’assistenzialismo, che genera incapacità a competere e costi economici e sociali alti, per restituire ossigeno a quella parte, purtroppo minoritaria, dell’economia, che ha fatto numeri straordinari nelle esportazioni. Ma, dall’altro lato, è pacifico quanto siano necessari tanto gli investimenti pubblici – che nessun “pensiero unico” cancella, considerato che non si è mai vista una ripresa per decreto o solo grazie ai consumi – quanto la valenza strategica della politica industriale, visto che abbiamo l’assoluta necessità di ricostruire un capitalismo italiano frantumato.

Più Stato e più mercato è dunque la ricetta giusta – che poi sia la “terza via” di vecchia memoria o di nuovo conio, poco importa – all’interno di un progetto che torna a rivalutare lo stato centrale, anche in funzione di una progressiva cessione di sovranità in sede europea che speriamo si metta in moto al più presto (Draghi docet), e asciuga il decentramento improduttivo. Si tratta poi di definire, dentro questo schema, quale ruolo si debba assegnare alle rappresentanze degli interessi e che modalità sia più utile per mediarli in chiave di interesse generale. Qui la fase destruens renziana prevede necessariamente un forte tasso di disintermediazione. Ma non c’è dubbio che il ponte diretto gente-leader produce solo alti livelli di populismo e amplifica le pulsioni di uomini e soluzioni forti, da sempre presenti nella società italiana e da cui occorre rifuggire. Quindi occorre lavorare alla ridefinizione della politica e delle rappresentanze. Domani leggetevi il rapporto Censis e troverete qualche prima risposta.

Quello che la Bce non dice

Quello che la Bce non dice

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Con la riunione di dicembre del comitato esecutivo della Banca centrale europea si è chiusa un’epoca: quella delle garanzie verbali del suo presidente sulla tenuta dell’eurozona. Negli ultimi due anni, solo con parole di rassicurazione, la Bce di Mario Draghi aveva ridato fiducia alla moneta unica e, nello stesso momento, garantito tempo all’eurozona. Ai politici serviva un periodo per avviare l’attuazione delle riforme promesse e alle banche per adeguare le loro procedure interne alla supervisione di Francoforte.

Quella delle garanzie verbali incondizionate di Francoforte è stata una stagione di grande successo che ha riportato il capitale in Europa dopo la crisi del 2011. Ieri però, dopo le consuete frasi di Draghi che annunciava con parole scarne ma significative il passaggio alla fase due della sua strategia (l’intenzione di attuare rapidamente il piano di acquisto di titoli compresi quelli di Stato), sui mercati è partita un’ondata di vendite che ha spinto le Borse in territorio negativo.

A pesare sui mercati c’è l’economia. Le parole non bastano più se accompagnate da dati che mostrano l’anemia dell’eurozona, incapace di andare oltre l’uno per cento di crescita nel 2014-15, malgrado la recessione del biennio precedente C’è l’inflazione che pesa anch’essa essendo in viaggio verso lo zero e ormai lontana dall’obiettivo del 2% che la Bce dovrebbe realizzare per mandato. L’azzeramento dell’inflazione è spiegata per più dell’80% dalla rapida discesa dei prezzi delle materie prime, il che potrebbe non durare. Ma con prezzi in calo i debitori pubblici e privati rischiano di veder salire il costo reale del loro debito e l’Europa di dire addio a nuovi investimenti e quindi alla crescita.

Con sviluppo e inflazione vicini allo zero oggi e in prospettiva, si riducono i margini per altri rinvii. Draghi non dispone di un mandato politico forte come quello della Federal Reserve americana. E si trova di fronte economie fiaccate da anni di crisi e quindi meno ricettive agli stimoli. Ma, in presenza di passi troppo timidi della politica europea (per la quale la montagna «sperata» dei 300 miliardi di investimenti si è tradotta per il momento nella «certezza» del topolino di 21 miliardi garantiti del piano Juncker) la richiesta di fare di più non può che rimbalzare al presidente della Bce. E il fare di più per un banchiere centrale si misura con un solo numero: la dimensione del bilancio della banca che presiede, cioè il volume di titoli e altre attività che può acquistare sui mercati in cambio di liquidità. Volume che crescerà e tanto.

Dopo la fine dell’epoca delle parole, nei primi mesi del 2015 arriverà dunque il test più importante per la Bce. Mercati e cittadini europei cominceranno a misurare l’efficacia delle politiche di supporto al credito messe in cantiere dallo scorso giugno e in via di attuazione oggi e in futuro. Misureranno se la Bce sarà davvero in grado di acquistare tanti titoli da aumentare il suo bilancio di mille miliardi, su fino ai livelli della fine del 2012. Ma da oggi quella di Draghi non è più solo una promessa o un’aspettativa, è un’intenzione di attuazione. C’è da stare certi però che senza quello che Draghi chiede da tempo ai governi in termini di riforme e sostegno alla ripresa , difficilmente le mosse della Bce potranno essere sufficienti a favorire la crescita.

Con il Jobs Act arriva l’apartheid

Con il Jobs Act arriva l’apartheid

Michele Tiraboschi – Panorama

La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Richiamare la celebre massima di Karl Marx per commentare il discusso superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, vero e proprio totem della sinistra ortodossa italiana, non vuole avere nulla di provocatorio e tanto meno di ironico. Semmai è un tentativo di fare chiarezza sulla reale portata del tanto atteso Jobs act di Matteo Renzi: un provvedimento giunto al nastro di partenza non senza, tuttavia, qualche incidente di percorso che ne ha ampiamente compromesso l’efficacia.

Di riforma dell’art. 18 si parla da anni. E non è certo il caso di richiamare vere e proprie tragedie (come l’omicidio di Marco Biagi) per segnalare quanto sia tormentata la strada del processo di modernizzazione di un mercato del lavoro, quello italiano, tra i peggiori d’Europa per numero di occupati e per reali opportunità di accesso specie per i giovani e le donne. In un Paese dalla memoria corta come il nostro, dove autorevoli dirigenti politici e sindacali che attaccavano la legge Biagi hanno oggi votato in Parlamento il testo del Jobs act, è sufficiente fare pochi passi indietro nel passato. Perché la tragedia inizia nel 2012, con le altisonanti promesse della legge Fornero, enfaticamente titolata: «Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita».

Crescita che nessuno ha visto e che anzi si è subito tramutata, per colpa dei gravi errori del ministro del Lavoro di Mario Monti, in un drastico peggioramento di tutti i principali indicatori del mercato del lavoro. Un impianto, quello della legge Fornero, che poco o nulla si discosta dal Jobs act di Renzi: con un’immancabile enfasi su quelle politiche attive che nel nostro Paese non ci sono, come bene dimostra il flop di Garanzia giovani, e con nuove rigidità per le imprese, specie quelle di piccole dimensioni, in termini di (maggiori) costi e (minori) flessibilità contrattuali dovute al tentativo, del tutto antistorico, di ribadire la centralità dei contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Nel non comprendere la vera natura del lavoro del futuro, la tragedia si trasforma ora in farsa col Jobs act. Perché la promessa di superare l’art, 18, come tributo alla modernità, è solo nelle intenzioni.

L’ambiguo compromesso parlamentare che ha consentito l’approvazione del testo di legge non supera affatto l’art. 18 e il conseguente spazio di intervento della magistratura che mantiene ampi margini per ordinare al datore di lavoro la reintegra nel posto di lavoro. Nessuna reale semplificazione delle regole del diritto del lavoro pare del resto possibile in un contesto normativo che vedrà convivere, almeno per i prossimi 15-20 anni, due diversi regimi di tutele tra loro profondamente differenziate a seconda della data di assunzione, prima o dopo il 2015. Oltre a inevitabili dubbi di legittimità costituzionale, la scelta di mantenere il vecchio art. 18 per chi già oggi è assunto a tempo indeterminato finirà anzi per ridurre la propensione a cambiare lavoro anche per il rischio oggettivo, nel passaggio a rapporti meno stabili, di pregiudicare la piena maturazione dei requisiti pensionistici.

Insomma, poco o nulla cambia rispetto al passato. Se non che si introduce ora una nuova e più odiosa forma di apartheid nel nostro mercato del lavoro: quella trai nuovi e i vecchi assunti. Con questi ultimi che, esclusi dal campo di applicazione del nuovo art. 18, manterranno a vita le tutele ereditate dal Novecento industriale contribuendo cosi alla creazione di nuove e insospettate barriere per i giovani nell’accesso al mercato del lavoro.

Reato sponsorizzato

Reato sponsorizzato

Davide Giacalone – Libero

Occupare una scuola, come un edificio o del suolo pubblico, è un reato. Elogiare pubblicamente un reato può avere un preciso significato politico e civile: siccome credo che sia sbagliato considerarlo un reato allora ne faccio l’apologia, o addirittura lo commetto, chiamando su di me la punizione proprio per mettere in evidenza quanto sia sbagliata. Si chiama disobbedienza civile. Ma qui siamo di fronte a un componente del governo (il sottosegretario all’istruzione, il democratico Davide Faraone), che esalta il valore formativo del commettere un reato, ma non lo fa per chiamare su di sé la punizione, che già non subì quando (a sua detta) commise il reato, bensì per attirare su di sé l’attenzione. Si chiama esibizionismo incivile.

Quanti occupano illegalmente le case popolari commettono un reato ed è giusto che si sgomberi. Eppure quelle persone hanno violato la legge in nome di un bene primario, ovvero il tetto sopra la testa. Perché le forze dell’ordine dovrebbero intervenire contro quelli e lasciar correre se le occupazioni di edifici pubblici non rispondono ad alcun bisogno reale? Quegli istituti hanno dei responsabili, che si chiamano presidi. Il compito dei presidi sarebbe quello di chiedere l’intervento delle forze dell’ordine. È naturale che nessuno assennato voglia far precipitare le cose o procurare guai ai ragazzi, ed è per questo che molti presidi provano a continuare il dialogo, chiudendo un occhio sull’occupazione purché si torni in fretta alla normalità. Ma che succede se il responsabile politico dell’istituzione afferma che è più formativa l’occupazione, ovvero un reato, della normale didattica? Succede che i presidi desiderosi di fare il preside si ritrovano pugnalati alle spalle, mentre quelli desiderosi di non fare niente ottengono l’avallo ministeriale. Bella roba.

La preside di un liceo romano, il Tasso, ha voluto impuntarsi. È andata al ministero, con una delegazione di genitori e di studenti. Sono stati ricevuti da un collaboratore del sottosegretario ed è stato, parole loro, un «dialogo fra sordi». Cioè: chi lavora per lo Stato ed è tenuto a far rispettare le leggi, accompagnato da chi manda i figli a scuola e dai figli che ci vanno, chiede udienza a chi dirige il settore dell’istruzione e manco li stanno a sentire, delegando un collaboratore del sottosegretario. Di quello stesso sottosegretario che aveva chiesto di essere invitato alle assemblee studentesche che si tengono durante le occupazioni, in modo da portare la solidarietà del governo alla commissione di un reato. Assemblee cui desidera partecipare per confrontarsi sul disegno di riforma della scuola, che gli studenti occupanti avversano, che il governo propugna, ma che ha un’esilarante caratteristica: non c’è. Non l’hanno scritto. Ci sono dei punti, a confronto dei quali nei Baci Perugina c’è vera letteratura.

Ho molte volte ripetuto che sono favorevole alla cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ma sono in minoranza, quindi rimane. Chiedo: posto che occupare è un reato e posto che le notizie di occupazione sono pubbliche, come anche il commosso plauso ministeriale, per quale ragione le procure non aprono dei fascicoli? Magari riusciamo, per questa via, a dimostrare quel che sosteniamo da molto: nulla è più facoltativo di quella presunta obbligazione, utile solo a mascherare indagini farlocche, quando non pretestuose.

Ma c’è un altro corollario, discendente da quello che capita. Se dal ministero si può sostenere che l’occupazione ha valore formativo superiore a quello della scuola normale è perché quest’ultima sembra avere valore quasi nullo. E a giudicare dai risultati governativi, la tesi ha un suo fascino. Adesso, però, dirò una cosa che non so se sia di destra o di sinistra, ma profondamente giusta: senza una scuola formativa e duramente selettiva andranno ancora avanti i deficienti chiacchieroni e privilegiati, a tutto discapito dei bravi svantaggiati. La scuola di Faraone, la scuola delle occupazioni formative, è vigliaccamente classista, perché condanna gli ultimi a restare tali, togliendo loro l’ascensore sociale della selezione per merito.

Feci la scuola a Palermo, come Faraone. Ci furono le occupazioni, come ogni anno. A scuola mia gli occupanti furono arrestati, di notte. E mi dispiacque, molto. Se ricapita sapete a chi presentare il conto: a quel sottosegretario che ha scritto di avere scoperto, in quelle notti non scolastiche, il sesso e la politica. Spero solo che la prima cosa gli sia riuscita in modo meno imbarazzante della seconda.

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Giuseppe Pennisi – Formiche

Un seminario di studi organizzato da Febaf e da Economia Reale, le proposte per uscire dalla crisi e un paio di perplessità… Il 3 dicembre, proprio mentre il disegno di legge di stabilità approvato (ricorrendo al voto di fiducia) dalla Camera approda in Senato, la Federazione Banche Assicurazioni e Finanza (FeBaF) presieduta da Luigi Abete e l’Associazione Economia Reale hanno organizzato una riflessione sulla strategia di politica economica.

Riflessione tra economisti
Ad essa hanno preso parte, tra gli altri, il Presidente ed il Segretario Generale della FeBaf (Luigi Abate e Paolo Garonna), il Presidente dell’Associazione Economia Reale (Mario Baldassarri), Emilio Rossi della Oxford Economics, nonché Sergio de Nardi (Nomisma), Stefania Tomasini (Prometeia), Pierluigi Ciocca (Accademia dei Lincei), Marco Simoni (London School of Economics), Marco Fortis (Fondazione Edison), Marcello Messori (Luiss), Paolo Savona (Emerito Luiss) e molti altri. Una riflessione, quindi, tra economisti qualificati.

Il Rapporto
Il documento di base presentato è stato un libro curato da Mario Baldassarri Scacco Matto alla Crisi: Tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa e un aggiornamento per tenere conto degli ultimi sviluppi e delle misure di politica economica all’esame del Parlamento. Non è certo questa la sede per riassumere le 370 pagine del volume e le 80 dell’aggiornamento, oppure diverse ore dibattito. L’analisi del volume e dell’aggiornamento è pienamente condivisibile: l’Italia sembra essere su una china sempre più in discesa – tanto da considerare preoccupanti gli “esami di riparazione” che l’Unione Europea ci ha chiesto di fare in marzo-aprile – e la legge di stabilità non è tale da mordere e fare cambiare marcia.

I 3 consigli
Le tre mosse suggerite nel libro e reiterate nell’aggiornamento sono le seguenti:
a) Un ritorno graduale del rapporto di cambio 1 a 1 tra euro e dollaro.
b) Una politica di bilancio espansionista (tagliando però le spese improduttive delle amministrazioni pubbliche dello Stato e delle autonomie locali, valutate in almeno 40 miliardi di euro l’anno) a supporto, complemento ed integrazione di una politica espansionista della moneta.
c) Una riduzione del fardello del debito pubblico tramite emissioni di titoli di un fondo garantito dal patrimonio immobiliare dello Stato e delle autonomie.
In tal modo, non solo si uscirebbe dalla recessione e deflazione ma si potrebbe progressivamente tornare a tassi di crescita del 3% l’anno e non solo risolvere il problema del debito ma anche e soprattutto rilanciare produzione, produttività ed occupazione. Questa è, senza dubbio, una sintesi di documenti molto articolati e molto ricchi di analisi econometriche.

Le perplessità
Tuttavia, ho perplessità sull’obiettivo (un ritorno ad un tasso di crescita del 3% l’anno) sia sugli strumenti. L’obiettivo non tiene conto che prima della crisi del 2006 la Banca mondiale, la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE ponevano all’1,3% il tasso potenziale di crescita dell’economia italiana a ragione dell’invecchiamento della popolazione, delle dimensioni medie aziendali e dell’obsolescenza degli impianti, Già nei piani triennali del 1981 e del 1982, per le medesime determinanti la crescita potenziale dell’Italia veniva stimata tra il 2% ed il 2,5%. Nel più recente documento Bce viene posta allo 0% a ragione degli effetti devastanti della crisi sull’apparato produttivo nonché dell’ulteriore invecchiamento. Quindi sarebbe più realistico puntare ad un tasso potenziale di crescita pre-crisi (1.3-1.5% per cento).

La questione del cambio
In secondo luogo, il cambio euro-dollaro dipende più dalla politica monetaria americana che da quella europea; se gli Usa continuano sulla strada del benign neglect, è difficile pensare di poter raggiungere, nel breve termine, l’obiettivo della parità tra dollaro ed euro. E’ da condividersi una politica di bilancio espansionista, ma l’attuale Governo non intende né uscire dai binari europei né entrare in aree di spesa di competenza delle autonomie locali (dove c’è molto grasso).

Il nodo del fondo
In terzo luogo, io stesso propongo da anni un fondo (non solo immobiliare) e tale da ridurre il fardello del debito. E’ stato effettuato un esame tra le varie proposte in una giornata seminariale al Cnel ed l’associazione di ricerca Astrid ha presentato un dettagliato documento. Ma a più riprese il presidente del Consiglio ed il ministro dell’Economia e delle Finanze hanno affermato di non considerare quello del debito un argomento prioritario.

Il dibattito è aperto.

Condannati alla monnezza

Condannati alla monnezza

Davide Giacalone – Libero

Ce la prendiamo con l’invadenza e la costrizione europea o con la deficienza e l’indecenza italiana? Propendo per la seconda ipotesi e trovo che la condanna della Corte di giustizia, per le discariche abusive e inquinanti, sia uno sfregio meritato. Non ci siamo limitati a farci condannare, ci siamo spinti a farci riprendere per non aver dato alcun seguito a quella sentenza. I fatti: nel 2007 la Corte europea ci condanna per le discariche abusive (4866 vergogne, ridottesi a 218 indecenze), in spregio della direttiva europea che regola lo smaltimento dei rifiuti. Come spesso capita, in Unione europea si è fin troppo elastici, sicché, dopo la sentenza, l’Italia ottiene tempo per rimediare. Quante volte reclamiamo elasticità per potere continuare con le rigidità immorali? Passano sette anni e la Commissione deve prendere atto che in Italia non si è ancora rimediato. Ed ecco la pena: 40 milioni da pagare forfettariamente e 42,8 per ogni semestre ulteriore di inadempienza nel rimediare. Considerato che per assolvere al nostro dovere non basta non continuare con le discariche abusive, non basta coprire di terra gli scempi, ma quelle esistenti vanno risanate, ne deriva che ci siamo guadagnati una tassa ulteriore, pari a 85,6 milioni l’anno. Continuando a tenerci la monnezza a cielo aperto. Continuando ad avvelenarci.

Allora: colpa dell’Europa? Si facciano gli affari loro? No: infamante colpa italiana. Dice Gian Luca Galletti, ministro dell’ambiente, che non pagheremo una lira, perché sono stati stanziati i soldi per rimediare. Intanto i 40 milioni li paghiamo. I soldi stanziati sono 60 milioni. Questo significa che, a giudizio del governo, per risolvere il problema ci vogliono meno soldi della multa di un anno, e un terzo in più di quella una tantum. Ammesso che le cose stiano così, perché l’impressione è che la criminalità dei rifiuti non sia in fase di riflusso, ma di straripamento. La colpa è di un Paese in cui il presunto ambientalismo rende impossibile smaltire i rifiuti in modo sensato e regolare, facendo da spalla alla criminalità organizzata delle discariche e delle sostanze tossiche sversate nell’orto. In cui ci sono sindaci no-discarica, no-inceneritore, no-termovalorizzatore, in attesa che arrivi l’era del no-sindaco, nel senso che prima o dopo salta tutto. In cui i movimenti spontanei lo sono come le poesie recitate dai bambini, e compitate tutte con la stessa rima balorda del comune che s’è denuclearizzato (meriterebbero una tassa sulla cretineria), ma non s’è despazzaturizzato. In tal senso l’ideale che s’insegue, una via di mezzo fra scie chimiche frinenti e glocal (globale e locale) per analfabeti, è il mito di rifiuti zero. Tipiche conquiste della cultura usa e getta. Altamente inquinante.

La condanna non è nuova, dunque. La novità è che dal 2007 a oggi non siamo riusciti a chiudere la partita. E le discariche abusive. Senza contare che sono un orrore anche le discariche non abusive, perché la ragionevolezza vorrebbe che i rifiuti da buttarsi in discarica fossero una parte residuale di
quelli riciclati, termovalorizzati o smaltiti. Noi, invece, abbiamo Comuni come la capitale, che impongono ai cittadini la raccolta differenziata e poi buttano tutto nello stesso buco di follia. Il Paese più bello del mondo, la meta ambita da chiunque, riesce a essere il luogo in cui il pattume si monumentalizza. C’è una cosa, però, che alla Corte europea sarà bene non far sapere: non è che siamo inadempienti dal 2007, è che questa situazione già la cantava Aldo Fabrizi, con “Buon giorno monnezza”. Non mi ha mai convinto la teoria dell’Europa come vincolo esterno, opinione che mi consentì di vedere che il problema non sarebbe stato entrare nell’euro, ma restarci. In casi come questi, però, mi piace l’Europa come ceffone esterno. Meritato da ceffi incapaci e tanto moralisti quanto privi di etica.

Equitalia, strozzini di Stato

Equitalia, strozzini di Stato

Franco Bechis – Libero

Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest’ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,56 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?».

Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n. 28 rate mensili». Il piano di ammortamento – scrivono- è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi dimora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano.

Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta.

Il primo gennaio scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: uffici giudiziari applicano il 4,5%. L’ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell’1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l’ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

Disoccupazione record figlia delle riforme mancate

Disoccupazione record figlia delle riforme mancate

Walter Passerini – La Stampa

Non possiamo dare del tutto ragione a Jean Baudrillard, quando diceva che «le statistiche sono una forma di realizzazione del desiderio, proprio come i sogni», ma a volte sembra proprio così. Un’analisi distaccata dopo le recenti polemiche sui dati Istat della disoccupazione in Italia richiede cautela, per non confondere dati veri e interpretazioni forzate, tassi percentuali e valori assoluti, stock di numeri e flussi.

Le chiavi di lettura sono importanti ma dovremmo convenire almeno che non si possono attribuire a governi dimissionati o in carica da pochi mesi colpe che vengono da lontano. Un punto di osservazione condiviso può essere l’inizio della crisi, che in sette-otto anni ha cambiato radicalmente il gioco. Dal 2007 il tasso di disoccupazione in Italia è più che raddoppiato: allora era del 6,1%; oggi, come rivela l’Istat, è del 13,2%, un livello insostenibile. Nel primo trimestre 2014 raggiunse addirittura il picco del 13,6%, ma ciò non suscitò guerre. Il Mezzogiorno è passato dall’11% al 21,7% (primo trimestre 2014). Anche il tasso di occupazione segnala l’allarme, passando dal 58,8% del 2007 al 55,6%. In valori assoluti gli occupati passano da 23,3 milioni a 22,3 milioni. I disoccupati dal 1997 al 2007 si sono dimezzati (da 2,7 a 1,5 milioni), ma da 1,5 milioni del 2007 sono più che raddoppiati ai 3,4 milioni di oggi. Questi i numeri.

Oltre che di quantità, che comprendono pur sempre persone in carne e ossa, per capire le sfide del lavoro occorre però parlare anche di qualità: qualità del lavoro e produttività. È a partire dalla metà degli Anni 90 che le riforme del lavoro hanno innovato le regole del gioco, ma i loro effetti oggi appaiono fragili. La riforma Treu (1997) e la riforma Biagi (2003) hanno sicuramente innovato, ma in parallelo con la crisi hanno contribuito al dualismo del mercato del lavoro. Entrambe hanno aumentato l’occupazione, ma al margine, lasciando relativamente invariati gli stock di occupazione stabile, e incentivando a fisarmonica l’occupazione temporanea nelle sue diverse forme, confinandola all’area dei servizi a minore produttività.

Il dualismo del mercato del lavoro italiano, se da un lato ha permesso di far emergere nuovo lavoro, in parte nascosto dal nero, dall’altro ha alimentato un girone infernale di precarietà, disoccupazione di lunga durata e scarse tutele, penalizzando soprattutto i giovani, anche se laureati e masterizzati. Ora è necessario guardare avanti e non polemizzare sul passato. Anche perché l’universo a cui guardare è composto, oltre che da disoccupati ufficiali (3,4 milioni), da cassintegrati senza scampo, part-time involontari, precari e rassegnati, per un totale di circa 9 milioni di persone a forte disagio occupazionale. In un Paese che non cresce da vent’anni, l’occupazione non può certo aumentare.

E non bastano le regole del mercato del lavoro a creare nuovi posti: serve una politica di sostegno degli investimenti e della domanda delle imprese, da cui potrà scaturire nuova occupazione. Lo stesso Job Act, che contiene alcuni positivi cambiamenti, affronta solo in parte il dualismo del mercato con il contratto a tutele crescenti, riproponendo però il rischio di un doppio binario tra nuovi assunti e vecchi tutelati e riducendo, paradossalmente, mobilità e turn-over: difficile che un occupato lasci il suo posto protetto per un posto meno tutelato.

Tre sono le sfide che abbiamo di fronte, che riguardano imprese, lavoratori e politici. La prima è quella del sostegno della domanda senza la quale non si crea lavoro; è necessario abbassare i costi dell’energia e della burocrazia, incentivare le innovazioni per aumentare la produttività, favorire gli investimenti, dare maggiori certezze alle aziende, ridurre il cuneo fiscale. I sindacati e i lavoratori, ed è la seconda sfida, dovranno dimostrare che tra miglioramento della produttività e difesa delle tutele non c’è contraddizione alcuna; una quota del cuneo fiscale servirà a dare una boccata di ossigeno a salari e stipendi, per aiutare i consumi, ma sarà la contrattazione decentrata l’arma per una maggiore produttività. Ai politici e ai governanti, infine, ed è la terza sfida, occorre chiedere di abbandonare il clima e i toni di una permanente battaglia elettorale, che per avere consensi sul breve oscura le visioni sul futuro e la capacità di fare progetti. La guerra su cui orientare le forze è quella dell’innovazione e delle competenze, nella quale si giocano i destini della competitività oltre che del capitale umano. Siamo al bivio di una nuova transizione, dentro la quale il lavoro gioca una partita decisiva: passare alle politiche attive significa liberare risorse, economiche e umane, e liberarsi dal gorgo di una spesa pubblica fuori controllo, per costruire un nuovo welfare a misura di futuro.