Edicola – Opinioni

La prima e decisiva riforma di Renzi

La prima e decisiva riforma di Renzi

Il Foglio

Non si sa ancora cosa accadrà in Parlamento sulla legge di stabilità ma una cosa è certa: l’incontro fra sindacati e rappresentanti del governo ha sancito la fine della concertazione come politica economica dello stato. I ministri delegati ad ascoltare i sindacati hanno risposto a monosillabi sulle loro richieste di “concessioni”. Il succo era: i sindacati facciano le passerelle in piazza e indichino le loro correzioni specifiche, poi noi vedremo se tenerne conto ma non contrattiamo il loro consenso. Renzi ha chiarito il concetto dicendo che il governo non chiede “permesso” perché “le leggi non si scrivono con i sindacati ma in Parlamento”. E ha aggiunto: “Forse in Italia è arrivato il momento che ciascuno torni a fare il suo mestiere”. La frase più significativa è quella finale: “Le trattative le organizzazioni sindacali devono invece farle, giustamente, con le imprese”. Il premier invita i sindacati a dialogare con le aziende e non solo con la Confindustria che tiene al suo monopolio dei contratti di lavoro e si cura delle grandi imprese. L’esecutivo vuole la disintermediazione, rompere il filo tra politica e parti sociali, per approdare a un mercato del lavoro che privilegi i contratti aziendali. La Confindustria fatica ad ammettere che la concertazione è finita anche per lei tant’è che plaude alla deduzione dell’Irap per i contratti a tempo indeterminato, graditi alle grandi società, ma poi glissa sugli incentivi per i contratti di produttività, rivolti alle piccole. Se lo dicesse, apparirebbe chiaro pure ai mercati che il governo Renzi ha avviato la madre di tutte le riforme: la fine della concertazione che garantiva impropri poteri sia sindacali sia confindustriali.

Vincoli Ue, partiamo col bonus

Vincoli Ue, partiamo col bonus

Gaetano Pedullà – La Notizia

Speriamo che duri. In altri tempi e con altri governi mica ce la cavavamo con un minuscolo Consiglio dei ministri e un aggiustamento di quattro miliardi e mezzo spostati con la punta di matita da una pagina all’altra della nostra Legge di Stabilità. Il piede con cui parte la nuova Commissione europea è però quello giusto. E di fronte a una crisi senza precedenti, che i trattati su cui si basa la stessa Unione non potevano immaginare nemmeno, il responsabile degli affari economici Katainen ieri si è scordato di essere stato messo li dove sta per fare il falco. Italia e Francia partono quindi con il bonus. Nessuno però si illude che questo sarà sufficiente a invertire un ciclo drammatico. Basta guardare i dati dello Svimez sul Mezzogiorno per capire che qui serve ben altro che l’aspirina dello zero virgola in più o in meno sul deficit con cui destinare qualche spicciolo alla ripresa. L’Italia e l’Europa hanno bisogno di un grandissimo piano di rilancio. Juncker ha promesso 300 miliardi. Ma consentire agli Stati di derogare un po’ di più ai vincoli riuscirebbe ad amplificare enormemente questo sforzo. Senza far finta di credere ai conti scritti a matita.

Renzi rimette i sindacati al loro posto, finalmente

Renzi rimette i sindacati al loro posto, finalmente

Massimo Tosti – Italia Oggi

Qualche giorno fa si era diffusa l’opinione che Matteo Renzi parlasse unicamente alla destra del paese: l’intervista compiacente di Barbara D’Urso al premier e l’annuncio (nella sede domenicale di Mediaset) del bonus alle neo mamme avevano confortato questa tesi. Ma Renzi ha di nuovo sorpreso gli opinionisti e gli elettori (di destra e di sinistra), scegliendo il salotto di Lilli Gruber per rimettere a posto i rapporti istituzionali. «I sindacati trattano con gli imprenditori per migliorare la condizione dei lavoratori», ha spiegato. «Il governo è disposto ad ascoltare le proposte dei sindacati tese a migliorare gli indirizzi legislativi dell’esecutivo, ma non tratta con loro». Le leggi, ha precisato, si discutono in parlamento e non con le rappresentanze di categoria. Ha spiegato quella che è una verità assoluta, travolta (purtroppo) 40 o 50 anni fa dalla debolezza dei governanti di allora che accettarono di discutere con i Luciano Lama e i Pierre Carniti (gli antenati delle Camusso, delle Furlan e degli Angeletti) ogni iniziativa della politica (che di fatto abdicava alle proprie prerogative, consentendo ai sindacati di occupare uno spazio enorme che non era di loro pertinenza).

È chiaro che, in questo modo, Renzi ha bacchettato anche i «reduci» del Pd, nostalgici della Cgil «cinghia di trasmissione» del Pci, accorsi a piazza San Giovanni per applaudire la Camusso: loro condividono il giudizio del segretario della Cgil che ha definito «surreale» l’atteggiamento dei ministri, negli incontri dell’altro ieri che si sono dichiarati non autorizzati a discutere con la controparte (arbitraria) il merito della legge di riforma del mercato del lavoro. Lo scenario surreale era quello precedente: quando i sindacati potevano porre veti su ogni decisione della politica. Quella introdotta l’altra sera da Renzi (davanti alla Gruber) è una controriforma istituzionale decisiva, in quanto ripristina i corretti rapporti che devono intercorrere fra i rappresentanti dei lavoratori e lo stato sovrano. Contro il quale si può ricorrere allo sciopero generale quando non si apprezza una legge, ma non si può pretendere di ostacolarne l’approvazione in corso d’opera.

I ragazzi del ’99

I ragazzi del ’99

Davide Giacalone – Libero

Più morti che nati. La natalità è fiacca in tutta Italia, ma al Sud, nel 2013, sono nati solo 177mila bambini. Meno dei morti. Poco di più degli emigrati: 116mila. Questi dati, pubblicati da Svimez, si accompagnano a quelli dell’economia: sette anni consecutivi di recessione e un 2014 che si chiuderà con un -0,4% del prodotto interno lordo italiano, ma con un -1,5 al Sud. Previsione per il 2015: ottavo anno di recessione, con un -0,7. Se fosse azzeccata, metterebbe in serio dubbio la crescita nazionale dello 0,6%, su cui si regge la legge di stabilità e l’equilibrio dei conti pubblici. Dunque: i numeri dell’economia spiegano la denatalità, la denatalità propizia l’andamento peggiore dell’economia. Meno occupazione genera meno ricchezza, meno ricchezza induce meno consumi, meno consumi giustificano meno investimenti, meno investimenti contraggono l’occupazione. Un cappio che si stringe. Per un giorno, però, lascio l’osservazione dei fatti dal punto di vista economico. Per un giorno provo a leggerli con occhi diversi. Quelli dei ragazzi del ’99.

I ragazzi nati nel 1999 sono i nostri figli e nipoti. Hanno oggi quindici anni. Frequentano una scuola poco selettiva e si preparano a una università poco professionalizzante. Di loro si dice che sono stati derubati del futuro, che dovranno pagare i debiti di quegli sconsiderati che li hanno preceduti, che non potranno avere le sicurezze e le guarentigie dei loro genitori: non avranno il posto fisso, la pensione, l’assistenza sanitaria pronta a spendere anche per i sani. E’ vero. Solo che ci sono anche altri ragazzi del ’99. Alcuni li incontrammo e abbiamo il dovere di conoscere la loro storia. Sono i ragazzi nati nel 1899: un secolo fa vivevano in un’Italia che si apprestava a chiamarli alla guerra. Allora la leva militare era fissata a 21 anni, ma nel 1917 furono chiamati loro, i ragazzi del ’99, appena diciottenni e non maggiorenni, lanciati a sostituire i morti e i feriti nelle sanguinose trincee della prima guerra mondiale. I nostri ragazzi del ’99 hanno in mano terminali digitali che li connettono al mondo, non manca loro l’essenziale ed hanno anche tanto del superfluo, possono viaggiare. Quei ragazzi del ’99 consideravano un successo il consumare almeno un pasto al giorno, erano ignari del mondo, il treno che presero li portò al fronte. Ci dice Svimez che solo nel 1867 e nel 1918 i morti superarono così significativamente i nati. Ma erano morti in guerra (la terza d’indipendenza e la prima mondiale) e i giovani uomini erano da tempo lontani dal “mercato” della natalità.

Fu allora, con la grande guerra, che le donne entrarono massicciamente nel mondo del lavoro. Per sostituire gli uomini che ne erano lontani, o che erano morti. Oggi, al Sud, lavora una percentuale di donne minore di allora. E questo materializza il più grande dei paradossi: si sostiene che la maternità non è accessibile perché non è garantita, nel senso che non è finanziata dal datore di lavoro o dallo stato sociale, ma, a rigor di logica, meno le donne lavorano e più alta dovrebbe essere la propensione a figliare. Avviene il contrario. Avviene il contrario anche in un altro senso: dove le donne lavorano di più, e dove le garanzie sono inferiori, la natalità è più alta. Solo che la spesa pubblica investe in servizi (asili, scuole, sport), non in mance per l’allattamento.

Il Sud è l’esagerazione del resto. Del resto d’Italia, ma anche del resto di un pezzo d’Europa. Quella più ricca, da più tempo libera. Le due generazioni del ’99 la dicono lunga: come fanno a essere più depressi e sfiduciati quelli che stanno incomparabilmente meglio? E se la natalità fosse specchio della fiducia nel futuro, come si spiega che sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale si avviavano più gravidanze che nel diluvio degli happy hours? Guardiamoci nello specchio di questi dati e smettiamola di trovare scuse per le nostre paure. Non nascono da condizioni oggettive, ma dall’avere dimenticato che i diritti sono frutto dei doveri compiuti e i consumi si alimentano con il lavoro e la produzione, non reclamando trasferimenti che a loro volta generano spesa improduttiva e fiscalità produttivicida.

La deflazione e il governo Renzi

La deflazione e il governo Renzi

Carlo Debenedetti – Il Foglio

Nella lettera che il governo italiano ha inviato a Bruxelles per correggere la legge di stabilità si riconosce finalmente la deflazione come un rischio grave per la nostra economia. Meglio tardi che mai. Ma per la verità la deflazione più che un rischio è ormai una drammatica realtà, in Italia e in una parte crescente dell’Eurozona. Eppure c’è stata in questi anni una sorta di negazione del problema. A me è sembrato evidente già da oltre un anno, e l’ho ripetutamente scritto, che l’Europa andasse in questa direzione. Ma non si è voluto vedere quello che era sotto gli occhi di tutti. La cultura economica continentale, formatasi sulla paura dell’inflazione, ha come rimosso la questione. L’ha negata finanche semanticamente.

In tutti i documenti ufficiali delle Banche centrali si è continuato a parlare di rischio di bassa inflazione, e in parte lo si fa ancora ora, mentre era evidente che l’Europa scivolava verso la deflazione. Chi ha visto prima e meglio sono stati gli economisti americani. Io stesso ho maturato per tempo le mie preoccupazioni attraverso i contatti con il mondo della Fed e dei think tank di Washington.

Istruttivo, in questo senso, l’ultimo rapporto al Congresso del Tesoro americano “International Economic and Exchange Rate Policies”. Ne consiglio a tutti un’approfondita lettura. C’è tutto, ed è detto con chiarezza. E’ spiegato, per esempio, come “l’Europa sia di fronte a una vera e propria deflazione”, che c’è la possibilità che questa venga esportata a tutto il mondo, che la “domanda europea è cronicamente troppo debole”. Gli errori della Germania sono individuati con una limpidezza che non trovo nella pubblicistica “ufficiale” al di qua dell’Atlantico: Berlino, dicono dal Tesoro americano, sta indebolendo l’economia europea portandola alla deflazione, perché non spinge sulla domanda interna, pur avendo i conti in sostanziale pareggio, e perché non permette una politica europea di bilancio più flessibile ed espansiva.

È anche così che l’Eurozona è diventata il buco nero della crescita mondiale. L’epicentro di un possibile terremoto deflattivo in grado di scuotere l’intera economia mondiale. Una minaccia tanto più consistente se pensiamo che gran parte delle Banche centrali del mondo sviluppato hanno già abbassato i tassi vicino allo zero. E, ciononostante, anche in America, nel Regno Unito, finanche in Cina l’inflazione è sotto il 2 per cento. Le aspettative sull’andamento dei prezzi sono calate ulteriormente quest’estate sia negli Stati Uniti, che in Europa o in Giappone. Di certo, quelle scosse hanno già colpito duramente il cuore del nostro continente. A settembre il dato medio dell’inflazione nell’eurozona è stato di 0,3 per cento (0,8 per cento depurato dall’andamento del prezzo del petrolio). Un’area che rappresenta un quinto dell’output mondiale sta cadendo nella deflazione e nella stagnazione. E i paesi cosiddetti periferici sono in una vera e propria trappola, stretti tra la moneta unica e la loro scarsa competitività: per guadagnare forza competitiva rispetto ai Paesi “core”, infatti, non potendo svalutare, devono tenere salari e prezzi a livelli molto bassi.

È da sette anni così che non riusciamo a uscire da una crisi economica che sta sfinendo il nostro tessuto sociale. Non muoviamo un passo. È una crisi che abbiamo importato proprio dagli Stati Uniti, ma loro hanno reagito subito e sono tornati a crescere, noi europei ci siamo invece avvitati in un dogmatismo di regole superate e nella storica paura tedesca dell’inflazione. Il Trattato di Maastricht risale ormai alla preistoria. Nel 1992 non esistevano Google, Facebook, Twitter. Era un altro mondo. Internet in Italia muoveva i primissimi passi. Ancora nel 2001, alla vigilia della circolazione monetaria dell’euro, Google fatturava 70 milioni, oggi fattura 60 miliardi. La Cina all’epoca di Maastricht era un paese dall’economia autarchica e conosceva i primissimi sviluppi industriali.

L’Europa era il centro del mercato mondiale e da poco, con fatica, aveva imparato a gestire lo spettro dell’inflazione. Uno spettro che veniva dai tempi di Weimar (ma andrebbe ricordato che il nazismo si afferma in realtà per effetto del diffondersi della disoccupazione in seguito alle rigide politiche deflazionistiche della Reichsbank tedesca all’indomani della crisi del 1929) e si era riaffacciato poi a più riprese nel Dopoguerra. I parametri adottati allora erano (forse) giusti per quel mondo dei primi anni Novanta, per quella cultura economica. Oggi sono semplicemente senza senso. Sono vecchi. Come vecchia è l’interpretazione fondamentalista che se ne dà. Perché vecchi sono gli occhiali attraverso cui in questi anni si è guardato in Europa alla dinamica dei prezzi e dell’economia. Non bisognava essere dei rabdomanti della moneta per capire da anni che la deflazione era un male incombente per l’Europa. Bastava guardare a quello che succedeva lì fuori, nel mondo reale, dove le merci si comprano e si vendono, dove i prezzi si formano.

Era evidente che il prezzo del petrolio sarebbe sceso in seguito alla scoperta dello shale gas, che ha trasformato gli Stati Uniti da importatore a esportatore di idrocarburi, e davanti al diffondersi delle buone pratiche di risparmio energetico. Era chiaro che la globalizzazione avrebbe abbassato i prezzi dei prodotti, dislocando le produzioni dove il costo del lavoro è 60 volte più basso che da noi. Era sotto gli occhi di tutti quanto Internet e il commercio elettronico spostassero verso il basso la concorrenza sui prezzi. Avremmo dovuto reagire da subito buttando via i modelli teorici su cui erano costruite le previsioni dei nostri Istituti centrali e introducendo il massimo della flessibilità in quei parametri ottusi che rischiano di impiccare una generazione di europei al patibolo del 3 per cento. Abbiamo risposto, invece, con l’austerità e il pareggio di bilancio. Scoprendo solo ora che così il peso del debito non poteva che aumentare, in una spirale drammatica tra recessione, deflazione e oneri degli interessi da pagare. La deflazione è una rovina per tutti. Ma per chi è molto indebitato lo è di più. Il costo di quel debito diventa un macigno, sempre più difficile da ripagare. Nel mondo il totale dei debiti privati e pubblici raggiunge il 272 per cento del pil.

Nessuno può permettersi la deflazione. Ma tanto meno può permettersela l’Europa che ha una popolazione uguale al 5 per cento di quella mondiale, un pil pari al 20 per cento e un debito pari al 50 per cento del debito pubblico mondiale. E ancor meno può permettersela l’Italia che ha l’1 per cento della popolazione mondiale, il 2.5 per cento del pil e il 20 per cento del debito mondiale.

Matteo Renzi ha dimostrato di essere un eccellente politico e quindi saprà fare la sua parte in Europa. Anche questa manovra è nel complesso positiva. Ma è proprio da un punto di vista tecnico che dico che la legge di stabilità appena approvata non serve a far uscire l’Italia dal suo declino o meglio dal suo degrado. Le misure adottate nella manovra, seppur positive, sono totalmente insufficienti a fare superare al paese la spirale recessione-deflazione. Lo sono per il semplice fatto che non modificano in modo netto la consumer behavior e le consumer expectations. Senza la fiducia in una svolta, e nella convinzione che i prezzi caleranno di mese in mese, gli italiani continueranno a rinviare le loro scelte di acquisto. Così non si va da nessuna parte. Anche perché, come ha ben spiegato Larry Summers, non c’è livello di tassi nominali che, ai tassi di inflazione di oggi, possa bilanciare investimenti e risparmi. Gran parte del lavoro allora dovrebbe farlo l’Europa. Dovrebbe farlo la Bce, comprando bond societari (un mercato di circa 9 mila miliardi complessivi, per intenderci), titoli di Stato europei e anche titoli del debito Usa.

Ecco la vera disputa fra Padoan e Katainen

Ecco la vera disputa fra Padoan e Katainen

Giuseppe Pennisi – Formiche

Indubbiamente, per i lettori in senso lato non è facile comprendere il significato dello scambio di lettere tra il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan ed il Commissario Europeo Jyrki Katainen sulla Legge di stabilità. Così come è stato arduo capire cosa fossero le richieste spesso ripetute di una “maggiore flessibilità” come “scambio politico” per le “riforme di struttura”.

Una responsabilità di non poco conto la hanno i media. In primo luogo la televisione: i talk show trattano principalmente di economia e di politica economica ma sono quasi sempre affidati a conduttori che masticano poco della prima e nulla della seconda. Hanno la scusa – dicono – di avere poco tempo; forse sono solo poco preparati e peggio organizzati. In secondo luogo, anche la stampa su carta non ha colto il punto essenziale. Lo hanno fatto molto meglio i giornalisti francesi; forse il fatto che Oltralpe si richieda una laurea per l’accesso alla professione, e che il trattamento dell’economia viene affidato a giornalisti che hanno sudato sulla materia in università ha un certo peso.

In effetti, l’utilizzazione di “riserve” o di aumenti dell’Iva per restare entro il vincolo di un indebitamento netto della pubblica amministrazione non superiore al 3% del Pil sono i temi su cui viene posto l’accento. Il nodo del problema, invece, è la differente percezione tra i servizi della Commissione Europea e numerosi economisti italiani (e non solo) di quale è l’output gap dell’Italia. L’output gap è la differenza tra il prodotto potenziale di beni e servizi e quello effettivo. Una lettura attenta del Trattato di Maastricht e dello stesso Fiscal Compact indica che le “circostanze straordinarie” (che consentono deroghe ai parametri) si verificano quando, per un lasso lungo di tempo, c’è un output significativo. E’, quindi, necessario stimare tale gap ed avere metodi di stima convergenti per potere collaborare efficacemente.

Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, l’Ocse e le altre maggiori istituzioni internazionali (esiste a riguardo un ottimo documento del servizio studi della Banca centrale europea) stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Pil dell’Italia. Per avere un termine di paragone i “piani triennali” predisposti all’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 2-2.5%, spiegando eloquentemente che è quello che ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.

Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato un ottimo lavoro di Antonio Bassanetti, Michele Caivano ed  Alberto Locarno (il “Temi di Discussione” n. 771) che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia pre-crisi) con vari metodi e poneva l’output gap tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil; una chiara giustificazione di ‘circostanze straordinarie’ tale da giustificare un disavanzo dei conti pubblici ben superiore al 3% del Pil.

Non è affatto chiaro quale metodo venga ora utilizzato a Bruxelles per stimare l’output potenziale dell’Italia. Se come nei manuali degli anni Settanta si impiega il tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione, si arriverebbe paradossalmente che la situazione potenzialmente ottimale sarebbe quella di crescita zero e un tasso di disoccupazione del 12% delle forze di lavoro. Il problema è solo apparentemente tecnico, come ha scritto la stampa francese rispetto al loro output gap. E’ molto politico. Il governo dovrebbe chiedere a Bruxelles di scoprire le carte, mostrare i “suoi” numeri e spiegare come ad essi si è arrivati.

Stress e test

Stress e test

Davide Giacalone – Libero

Il problema non è farsi misurare, ma non misurarsi. In una Unione europea sempre più conflittuale. I test sulle banche sono andati, per l’Italia, alla grande. Certo che ci sono dei problemi, ma guai a non ricordarsi di come eravamo messi due o tre anni addietro. Abbiamo una singolare propensione a ingigantire i nostri svantaggi e miniaturizzare i vantaggi. Non si tratta di praticare un ottimismo di maniera, ma di usare il materialismo realista. Altrimenti si creano classi dirigenti subalterne e incapaci. Dunque: una premessa e sei osservazioni.

La premessa: la vigilanza bancaria unica europea è una cosa positiva, se la si interpreta e usa al meglio. Gli stress test sono cosa buona e giusta. Se li avessero fatti per tempo, negli Usa, non sarebbe successa la tragedia che s’è vista. Il sistema bancario non può essere accusato, a intermittenza, oggi di non prestare a tutti e domani di avere prestato senza considerare i pericoli. Veniamo alle osservazioni, che sono la sostanza.

1. Nel corso della bufera, dal 2010 in poi, le nostre banche non hanno avuto aiuti di Stato, al contrario di quelle francesi, inglesi, spagnole e tedesche. I soldi prestati al Monte dei Paschi sono stati restituiti. Non solo: l’intervento europeo, con il fondo salva stati da noi cofinanziato, ha salvato le banche che avevano investito, per lucro e speculazione, nei titoli dei paesi avviati al default. Tali banche sono principalmente tedesche e francesi.

2. I tedeschi hanno chiesto e ottenuto di tenere le casse dei Lander, le Landesbank, fuori dalla vigilanza comune. Tale situazione deve essere cancellata, perché se uno scolaro si rifiuta di fare i compiti a casa non è un buon motivo per escludere tale rifiuto dalla valutazione della sua condotta e della sua preparazione.

3. Si ritrovano in difficoltà, e nella necessità d’integrare il proprio capitale, due banche italiane: Mps e Carige. Lo sapevamo di già. Ce lo siamo raccontati in tutte le salse. Semmai s’è fatto finta di niente, propiziando il calo borsistico successivo. Mentre altre sette banche, italiane, non vengono bocciate perché le operazioni sul capitale, effettuate l’ultimo anno, sono esaustive. Bene, vuole dire che se si vuole e si sa fare, si può fare.

4. Il presidente dell’Associazione bancaria, Abi, Antonio Patuelli, ha giustamente osservato che non è stato certo un favore all’Italia andare a fare i conti usando i dati del 2013, che risentono del momento peggiore per la divaricazione degli spread. Sarebbe stato meglio usare i dati del 2014. Certamente, ma vado oltre: si è introdotta l’idea che anche i titoli di Stato comportano un rischio e si è considerato che le banche italiane ne hanno in pancia per 427 miliardi, le tedesche per 359 e le francesi per 275. Se si calcola la percentuale rispetto al prodotto interno lordo, l’esposizione delle nostre banche a quel rischio cresce. Ci sto. Ma si deve fare osservare che l’Italia, al contrario della Germania, non ha mai mancato di pagare i propri debiti. Come anche che noi teniamo al nostro interno il 65% del nostro debito pubblico, mentre la Francia ne ha fuori il 55%. Chi crea maggiori rischi sistemici e collettivi?

5. Le banche sono state utilizzate per spegnere l’incendio della speculazione sui debiti sovrani, in tal senso ricevendo soldi all’1%, dalla Bce. Ha funzionato, applausi. Ma ora che i pompieri sono vittoriosi non si vorrà mica considerare peggiori quelli che hanno usato più acqua, avendo più fiamme da domare?! Così la recessione si perpetua, i prestiti si contraggono e i conti delle banche peggiorano. E queste non sono faccende tecniche, ma terreno di schietto scontro politico.

6. Infine, stress test e vigilanza comune preludono al mercato bancario unico. Evviva. Ciò porta con sé la necessità di aggregazione fra le banche (come in Italia s’è già fatto). Chi governa questo processo? Occhio, perché se i titoli del debito italiano sono considerati più rischiosi dei derivati spericolati nella pancia delle banche tedesche la conseguenza è che gli scassoni saranno in grado di comprare banche forse non modernissime, certamente non spericolate, sicuramente troppo generose con i peggiori e avare con chi produce, ma decisamente meno malate e più trasparenti di quelle da cui si spera che non prendano esempio.

Ecco perché questa è una faccenda politica. A noi italiani è mancata la politica. Sono stati i governi supposti tecnici (Monti) e di salvezza nazionale (Letta) ad avere accettato condizioni tecnicamente svantaggiose e di affossamento nazionale. Guai, oggi, a leggere i risultati di quei test senza cogliere i punti di forza che nascondono. Quelli da far valere con fermezza, senza mettersi a fare gli ondivaghi sui conti pubblici.

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Molto rumore per nulla, si potrebbe shakespeariamente dire una volta letti i risultati di uno stress test che per alcuni giorni ha causato nervosismo ai mercati. Dopo una crisi economica e finanziaria che si protrae dal 2008, deve essere considerato, tutto sommato, segno di buona salute che solo 25 delle 131 maggiori banche (ossia il 19%) dell’eurozona abbiamo problemi di capitalizzazione, o meglio presentino tali problemi nei conti 2013. Dei due istituti bancari italiani nell’elenco, probabilmente uno ne è uscito nel primo semestre 2014. Ciò non deve, però, essere motivo di compiacimento. Da un lato, occorre chiedersi ancora una volta perché i finanziamenti non arrivano alle imprese. È scattata la trappola della liquidità a ragione del diffondersi ed approfondirsi di aspettative negative, specialmente nell’eurozona? Oppure, la lunga recessione , preceduta da una ancor più lunga stagnazione, fa sì che le imprese abbiano i cassetti vuoti, che manchino di progetti ‘bancabili’ di rinnovo e di espansione di impianti perché troppo assillati dalle difficoltà di riuscire a resistere?

Da un altro, c’è la minaccia di un aumento dei tassi negli Stati Uniti, dove il direttivo della Fed si riunisce oggi e domani: da mesi il tasso base di riferimento, l’interbancario, è rimasto ancorato allo 0,25% (in effetti è negativo dato che l’aumento dei prezzi viaggia sull’1,8%) e quello sui titoli di Stato decennali è al 2,24% (rispetto alla media dello 0,90% nell’eurozona). Negli ultimi mesi, ragioni macroeconomiche sembrano suggerire l’esigenza di una politica monetaria meno espansionista: nell’ultimo trimestre il Pil è aumentato a un tasso annuale del 4,6% e la produzione industriale a quello del 4,2% mentre la disoccupazione è sotto al 6%.

Più eloquente un dato poco seguito in Europa; l’aumento dei ‘tetti’ nelle norme (di competenza dei singoli Stati dell’Unione) agli interessi per i prestiti personali a individui e famiglie a basso reddito e prive di garanzie reali. Nelle ultime settimane, otto Stati hanno aumentato, in vario modo, tali ‘tetti’ (introdotti in gran misure per impedire nuove crisi di prestiti subprime oltre che a fini antiusura). Ciò vuol dire che c’è una forte spinta ‘dal basso’. I governatori delle 12 Banche federali di riserva, prossimi al territorio, potrebbero mettere in minoranza il presidente della Fed, Janet Jellen, favorevole a mantenere una politica monetaria espansionista per almeno altri due mesi. Ciò non resterebbe senza implicazioni per la Bce: il mercato finanziario atlantico è integrato. Un’asimmetria sostanziale genererebbe un flusso di capitali verso la sponda Usa, rendendo più difficile e la politica monetaria Bce e la ricapitalizzazione di quelle banche europee che ne hanno esigenza.

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Francesco Forte – Il Giornale

Susanna Camusso, nell’adunata a Roma della Cgli cui partecipa l’anima dura del Pd ha minacciato lo sciopero generale sula legge di Stabilità, come se con questo sistema di potessero creare posti di lavoro e crescita del Pil. Al contrario, Davide Serra, finanziere renziano della prima ora, nella convention della Leopolda cui partecipa l’anima populista- versione british – del Pd, ha chiesto la limitazione del diritto di sciopero dei servizi pubblici. Citando Alitalia e trasporti pubblici, ha detto che una impresa estera che li ha visti perde la voglia di investire in Italia.

La proposta di Serra, alla Leopolda, è stata accolta con imbarazzo, ovattato dal garbo che è nello stile della convention, nel garage che evoca i creativi di internet della Silicon Valley. Nella tesi del Serra c’è del vero. L’attuale regolamentazione dello sciopero di pubblici servizi è cucita su misura della Cgil e dei lavoratori del pubblico impiego, garantiti dai soldi del contribuente. Infatti, si può annunciare lo sciopero nel pubblico servizio, creando la disdetta di viaggi, appuntamenti, udienze, con gravi danni al servizio e al suo pubblico e poi revocarlo all’ultimo minuto, beffando datori di lavoro e pubblico. Si possono concentrare questi scioperi prima dei giorni festivi settimanali e di Natale, Pasqua e altre festività, in modo da creare «ponti lunghi» a beneficio degli scioperanti e danni speciali per il pubblico. Ma ciò è secondario.

Il punto centrale è che quando i servizi pubblici sono privatizzati, con aziende quotate in borsa e senza pubbliche sovvenzioni, i contratti di lavoro aziendali prevalgono su quelli nazionali e sono orientati alla produttività e le imprese possono ricorrere a part-time, lavoro flessibile cosiddetto precario e a partite Iva e lo sciopero nei servizi pubblici lo si fa solo in casi estremi e delimitati. Ciò perché il lavoratore, allora, è al servizio del pubblico, anziché viceversa. Solo così il suo posto di lavoro regge e la sua retribuzione è basata sul risultato di mercato. Non si tratta tanto di limitare lo sciopero dei pubblici servizi quanto di privatizzare i servizi pubblici, dalle ferrovie, alle poste, alle migliaia di imprese di comuni e regioni e di recidere i legami fra politica e imprese e banche. Ma questa spending review e le privatizzazioni nella legge di Stabilità dei leopoldiani non ci sono.

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Renato Brunetta – Il Giornale

Oggi Renzi è un leader dimezzato. Nel Pd si riconoscono centinaia di migliaia di persone che gridano in piazza slogan terrificanti contro il premier, guidati da leader sindacali e parlamentari militanti nelle sue fila. Come può fare le riforme che la drammatica situazione richiede con assoluta urgenza? Semplicemente, non può. A oggi non ne ha fatta neanche una. Ma questa ambiguità non può durare. L’analisi economico-finanziaria chiede credibilità e forza democratica, che il presidente del Consiglio non ha. Ed è questa la maledizione di Renzi: è leader grazie a un imbroglio e alla pavidità dei suoi compagni di partito. In piazza ormai il re è nudo. È impossibile che un governo sostenuto da un partito diviso a tutto faccia le riforme necessarie per portare l’Italia fuori dalla crisi. E la situazione internazionale rischia di volgere al peggio.

Sul piano politico, l’Europa è assediata da conflitti militari ed economici che minano la sicurezza ed espongono il continente alle possibili scorrerie del terrorismo. La Russia sta vivendo un periodo travagliato. Le vicende ucraine hanno alimentato diffidenze che sembravano appartenere a un lontano passato. L’improvvisa caduta del prezzo del petrolio mina l’economia russa, privandola di quei mezzi finanziari che in questi anni hanno consentito di accelerare il processo di modernizzazione economica e finanziaria, dopo il crollo dell’ancien régime. Un’Europa politicamente divisa e incerta non riesce a coprire quel vuoto che gli avvenimenti appena richiamati rischiano di allargare. E tutto ciò determina una crisi di leadership di cui sarebbe sbagliato non cogliere i pericoli.

Sul piano economico-finanziario si assiste a un rallentamento dell’economia reale e a una forte volatilità dei mercati finanziari, con pesanti ricadute su Borse e spread nei confronti dei paesi dell’area euro più indebitati e a vantaggio dei bund tedeschi. Lo stesso Fondo monetario internazionale è stato costretto a rivedere a ribasso le stime sulla crescita dell’economia mondiale al +3,4 dal 3,7%. Secondo i principali osservatori, al centro delle preoccupazioni dei mercati c’è la forte caduta del prezzo del petrolio e delle altre materie prime; lo spettro della recessione e della deflazione in Europa; la crescita del debito (pubblico e privato) della Cina, pari al 250% del Pil e all’intera ricchezza nazionale, cresciuto del 150% solo negli ultimi 6 anni.

In quest’ultimo anno il prezzo del petrolio è sceso da 115 dollari al barile a 85 (quasi -30%), raggiungendo un valore pari a quello di 4 anni fa ma senza aumento della produzione. La caduta è dovuta a carenza di domanda e ai mancati investimenti, come dimostra il calo della produzione elettrica per usi industriali. Fenomeni analoghi, anche se più contenuti, si registrano in tutti i comparti delle commodities. Negli ultimi 6 mesi il prezzo dei prodotti agricoli è sceso in media del 15,5%. Quello delle materie prime industriali del 3,4%.

Negli Stati Uniti la quasi raggiunta autosufficienza nel settore energetico (lo sfruttamento dello shale-oil negli Usa è cresciuto del 13%, il 56% in più rispetto a quanto cresceva nel 2011) ne riduce la dipendenza dall’estero, con un contenimento delle importazioni e impulsi meno espansivi sul resto dell’economia mondiale. Il break-even point è sotto i 70 dollari al barile (ora siamo a 85 rispetto ai 115 di inizio anno, il prezzo è destinato quindi a scendere ancora).

In Giappone si assiste a un primo rallentamento della crescita (che rimane comunque a +7,1% nel secondo trimestre 2014), determinato dall’aumento delle tasse sui consumi (dal 5% all’8%) che ha determinato una forte contrazione della domanda interna. A influire è stata la motivazione del governo, cioè frenare la crescita del debito pubblico giapponese ormai al 240% del Pil.

In Europa il rallentamento complessivo è noto, ormai siamo considerati l’epicentro della deflazione. La produzione industriale è in caduta ad agosto (-1,4% su base annua). In difficoltà ci sono Francia, Italia e Grecia, stremata dal punto di vista sociale e forse pronta per un cambio di leadership a favore dei movimenti antieuropeisti. Anche la stessa Germania ha rivisto la crescita da +1,8% a +1,2% nel 2014 e da +2% a +1,3% nel 2015. In compenso cresce l’attivo della bilancia commerciale dell’Eurozona: 9.200 miliardi di surplus nell’agosto 2014, contro i 7.300 dell’agosto 2013 per la compressione della domanda interna.

All’origine di queste contraddizioni c’è l’artificioso rialzo dell’euro su dollaro e yen e l’austerity contro cui la politica monetaria voluta da Mario Draghi si sta dimostrando poco efficace. Non ci può essere una politica monetaria espansiva e una di bilancio restrittiva. L’asimmetria determina un corto circuito che accentua il «circolo vizioso» che divide l’Europa e favorisce i paesi più forti, che beneficiano di tassi di interesse più bassi, in un gioco a somma negativa. La carenza di domanda effettiva complessiva impedisce anche alle industrie dei paesi più forti di avere un mercato adeguato alle potenzialità della rispettiva offerta. Sono questi squilibri, assieme ai risultati non del tutto positivi, degli stress test sulle banche dell’Eurozona, che accentuano la deflazione e rischiano di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’euro.

Per risalire la china è indispensabile che i paesi più deboli diano priorità alle riforme che aumentino la loro produttività e – solo dopo, non prima – pensino a misure di carattere espansivo per il rilancio dell’economia. Mentre i Paesi più forti devono reflazionare le loro economie: in Germania la spesa per infrastrutture può aumentare fino allo 0,7% del Pil nel 2015 e allo 0,5% nel 2016 senza alcuna violazione delle leggi di bilancio. Al tempo stesso servono interventi della Ue sugli investimenti che vadano oltre il piano Juncker, potenziando a tal fine il ruolo della Banca europea degli investimenti, e riflettendo sull’opportunità di emettere Eurobond per trasformare almeno una parte dei debiti sovrani in obbligazioni europee. È quindi doveroso sostenere le misure non convenzionali che il presidente della Bce intenderà adottare.

Le cose da fare sono tante, in Europa e in Italia. Il governo Renzi ha la forza di farle? L’agenda parlamentare è infernale: Jobs Act, già snaturato al Senato; delega fiscale; Italicum; riforma di Senato, Pubblica amministrazione e giustizia. Ha gli strumenti per farlo? Noi pensiamo che un leader dimezzato non riuscirà a portare a compimento nessuna delle promesse fatte all’Italia e all’Europa. Con questa maggioranza ci sarà sempre una mediazione intollerabile tra il liberalismo (a parole) del premier (che mentendo sostiene di aver tagliato le tasse, e l’altra metà del Pd che vuole la patrimoniale, aggredendo i beni del ceto medio. Questo equivoco deve finire.